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La lacrima dell'ibisco volume 2 - La forza degli uomini
La lacrima dell'ibisco volume 2 - La forza degli uomini
La lacrima dell'ibisco volume 2 - La forza degli uomini
E-book429 pagine6 ore

La lacrima dell'ibisco volume 2 - La forza degli uomini

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Info su questo ebook

Il momento della resa dei conti tra l’alleanza degli uomini e le forze del Re Oscuro è arrivato. Mentre Malyka e i suoi compagni affrontano l’invasione alle porte di Eptagonia, l’armata di Aheànder ha raggiunto il castello nemico e si prepara a sferrare l’attacco decisivo. In un crescendo di scontri, inganni e colpi di scena, il giovane principe dovrà misurarsi con i fantasmi del passato e la minaccia del presente nel disperato tentativo di strappare Lizabeth al terribile destino che l’attende. Ma l’equinozio è sempre più vicino e le speranze degli uomini non sono mai state tanto esigue come ora.
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2020
ISBN9791220222785
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    Anteprima del libro

    La lacrima dell'ibisco volume 2 - La forza degli uomini - Marcello Benelli

    Marcello Benelli

    La lacrima dell’ibisco

    Volume secondo

    La forza degli uomini

    GPM EDIZIONI

    Marcello Benelli

    La forza degli uomini

    Volume secondo

    Gpm Edizioni

    Via Matteotti 11

    20069 Grezzago-Mi

    www.gpmedizioni.it

    Tutti i diritti sono riservati

    Ogni riferimento descritto nel seguente romanzo a cose, luoghi o persone sono da considerarsi del tutto casuali.

    Copertina illustrata da Pierluigi Abbondanza

    A Enrica

    Prologo

    Appoggiato al manico della sua falce, Bertham osservava il mare di grano che si estendeva dai margini dell’aia fino a dove lo sguardo riusciva ad allungarsi. Uno spettacolo che chiunque avrebbe trovato incantevole, con le spighe che ondeggiavano al vento in archi fuggenti e le stelle ancora aggrappate a un cielo già screziato di porpora.

    Chiunque, tranne lui.

    Per Bertham non c’era niente di poetico in quello che lo circondava: la bellezza della natura aveva smesso di incantarlo da parecchio tempo ormai. Sin da quando – a malapena ragazzino – suo padre lo aveva preso per un orecchio e lo aveva trascinato nel campo. Da quel momento si era reso conto che l’unica cosa che importava era quanto gli fruttava il proprio lavoro. Quello ed evitare di restare con la pancia vuota. Prova a mangiarti un tramonto se ti riesce, diceva sempre suo padre.

    Be’, pensò, staccando il mento dalla falce, queste spighe non si mieteranno da sole mentre io sto qui a rimuginare. Datti da fare, vecchio mio, prima che il sole inizi a bruciarti la pelle.

    Borbottando tra sé e sé il ritornello di una canzoncina, Bertham raccolse da terra la sua lampada a olio e si avviò sull’aia. Giunto nei pressi della parte del campo già lavorata, dove i covoni si alzavano tra le zolle di terra scura, iniziò a menare la falce con energia. Come sempre, dopo un po’ l’odore del grano sotto di lui lo fece starnutire e dovette interrompersi per asciugarsi le lacrime dal volto. Mentre lo faceva, i suoi occhi incontrarono una figura ancora piuttosto lontana, ma chiaramente visibile sopra la linea del campo.

    Quasi certamente un uomo a cavallo.

    Bertham lasciò cadere la falce e imprecando ritornò verso la stalla. Stupido che sono! , si rimproverò tra sé e sé, avrei dovuto portare subito Morl con me!

    Il grosso cane drizzò la testa non appena lui sciolse la corda che lo tratteneva alla porta del basso edificio e Bertham lo trattenne a stento.

    «Sta fermo, dannata bestia!» sbraitò, strattonando la corda ancora agganciata al collare puntuto dell’animale. Mork mostrò le fauci mentre puntava verso lo sconosciuto, che ora si trovava sul margine esterno del campo.

    Bertham strinse gli occhi per cercare di vederlo meglio.

    L’uomo aveva la testa reclinata sul petto, e da quella distanza si riusciva a distinguere solo una gran massa di capelli arruffati. In ogni caso i suoi abiti erano cenciosi e anche il cavallo sembrava piuttosto malridotto.

    «Fermo là, vagabondo!» gli disse, urlando per sovrastare il ringhio di Mork.

    L’uomo non parve accorgersi delle sue grida.

    «Ti ho detto di fermarti» insisté, lasciando una spanna di corda, «se fai un altro passo, mollo il cane!»

    Solo a quelle parole il cavaliere parve riscuotersi un po’. Bertham lo vide sollevare la testa, mostrando un volto barbuto e dall’aspetto smunto. Lo sconosciuto lo guardò con occhi opachi.

    «Dove... dove mi trovo?» disse, con voce roca.

    «Nel mio campo» ritorse lui. «E farai meglio a girare i tacchi, prima che io...»

    Non aveva ancora terminato di parlare che il cavaliere si afflosciò sulla sella e cadde a terra con un tonfo secco, come un sacco di farina.

    Bertham scosse la testa e trattenne Mork. Poi, notando uno strano riflesso rossastro diffondersi dal corpo del giovane, si mosse con circospezione verso di lui.

    1

    Senza respiro

    Aheànder aprì gli occhi.

    Qualcosa si agitava ai margini della sua comprensione, come uno sciame di farfalle inafferrabili. Un sogno forse, o una visione? Cercò di afferrare le immagini, ma quelle si ritrassero dove non poteva seguirle. Inutile insistere, rifletté, la memoria sarebbe tornata quando meno se lo aspettava.

    Si guardò attorno. Si trovava in un edificio dal soffitto basso, a malapena illuminato da una finestrella stretta tra una mangiatoia e un muretto. Alcune mucche lo fissavano con aria indolente. Appollaiata su uno sgabello di fianco agli animali, una bimbetta sgranò un paio di enormi occhi azzurri.

    «Allora non sei morto!»

    Le braccia non lo ressero quando cercò di sollevarsi dal pagliericcio su cui era disteso. «Chi sei?» le domandò di getto.

    Anziché rispondere, la piccola schizzò via come un furetto. Pochi istanti dopo, il cigolio dei cardini della porta anticipò l’ingresso di due giovani. Quasi identici nell’aspetto e nel modo di camminare, il ragazzo attraversò il locale senza staccargli gli occhi di dosso e si andò a sedere sullo sgabello liberato dalla bimbetta, mentre la ragazza si avvicinò cautamente al pagliericcio, quasi camminando in punta di piedi.

    «Come vi sentite, signore?» disse la donna.

    Aheànder colse il riflesso metallico del forcone tra le mani del giovane. «Io… non lo so. Immagino che essere vivo sia già qualcosa.»

    La ragazza si limitò a guardarlo.

    «Dove mi trovo?» aggiunse lui.

    «Siete nella proprietà di nostro padre» sibilò il ragazzo, guardandolo torvo.

    «Ve la sentite di mangiare qualcosa?» aggiunse la ragazza. La sua voce era dolce come l’espressione del volto. In qualche modo gli ricordava quella di Lizabeth.

    «Grazie» le rispose, lasciando che gli sorreggesse la testa mentre gli accostava una scodella alla bocca.

    «I miei ricordi sono così confusi» disse Aheànder, quand’ebbe finito di sorseggiare il brodo. «Stavo cavalcando, non so da quanto tempo… devo essermi smarrito tra le montagne. Che giorno è?»

    La ragazza gli spinse delicatamente la testa sul pagliericcio. «Dovreste smetterla con tutte queste domande. Avete dormito per due giorni di fila e siete ancora molto debole. Quando siete arrivato qui, eravate quasi morto.»

    Aheànder sussultò. «Due giorni?»

    «Siete nella provincia di Valmar, e oggi è la festa di Tarda estate! Ecco, siete soddisfatto, ora?» berciò il ragazzo.

    Quelle parole lo colpirono come un pugno allo stomaco. Aheànder si sentì in procinto di rimettere tutto quello che aveva mangiato in vita sua. Tardaestate correva un mese esatto prima dell’equinozio d’autunno.

    «Non è possibile» disse, fissando un punto vuoto davanti ai suoi piedi. Dove... come ho trascorso tutto questo tempo?

    Lo strappo nella sua mente si ricucì in quell’istante, restituendogli i ricordi perduti sotto forma di un’onda dolorosa. Lamaara e la sua corte di creature grottesche, l’interminabile viaggio di ritorno attraverso le montagne, la disperata ricerca di acqua e cibo dopo aver terminato le sue scorte… come aveva fatto a sopravvivere a tutto ciò?

    Colto da un presentimento, Aheànder iniziò a frugare nel pagliericcio. «La mia spada! Dov’è la mia spada?»

    Il ragazzo scattò dal panchetto e gli andò incontro brandendo il forcone. «Mia, allontanati subito da questo pazzo!»

    Anziché ritrarsi, la ragazza gli prese le mani tra le sue. Quel gesto ebbe l’effetto di calmarlo un po’. Da quanto tempo non avvertiva una sensazione del genere? Di nuovo, il volto di Lizabeth apparve davanti ai suoi occhi.

    «Ascoltate» soggiunse, cercando di moderare il tono della voce, «Non sono un pazzo, e nemmeno un delinquente, anche se mi rendo conto che le circostanze non depongono a mio favore. Ma devo assolutamente riavere quella spada. Non avete idea di quanto sia importante.»

    I due si scambiarono un’occhiata, quindi il ragazzo tornò a sedersi borbottando qualcosa in un dialetto incomprensibile. Mia prese un profondo respiro, come se stesse per dire qualcosa che avrebbe preferito tacere. «Ascoltate. Quando avete perso conoscenza, nostro padre era sicuro che foste un bandito, o un disertore. Stava per uccidervi, sapete?»

    «Nessuno gira con certe cose, da queste parti» s’inserì il ragazzo.

    «Ma poi è successo qualcosa d’incredibile» riprese la giovane, ignorando il commento del fratello, «la vostra spada ha iniziato a brillare sempre più forte. Come il sole! Pensate che il gallo ha cantato, da quanta luce illuminava i campi. Così nostro padre ha pensato che foste un mago, o qualcosa del genere…»

    «Tutti sanno che uccidere uno stregone porta solo guai» intervenne di nuovo il ragazzo.

    Aheànder si massaggiò la testa. Mantenere la concentrazione gli riusciva ancora difficoltoso.

    «La spada, è ancora nel campo?»

    «Sì, signore. Nessuno ha osato toccarla.»

    «Mi portereste là?»

    Il piede del forcone batté con violenza contro il pavimento. «State scherzando?» ringhiò il ragazzo. «Non sappiamo nemmeno chi siete, e dovremmo fidarci di voi fino a questo punto? Saremo anche dei contadini ignoranti, ma non siamo gli idioti che credete.»

    Aheànder esitò. In effetti, non poteva dargli torto. I suoi abiti ridotti a brandelli e la barba arruffata non dovevano aver ispirato molta fiducia a quelle persone. Ma forse c’era qualcosa che lo avrebbe fatto. Si frugò sotto la camicia, sperando che non gli avessero portato via tutto mentre era privo di sensi. La sua mano toccò una superficie fredda e lui sospirò per il sollievo.

    «Il mio nome è Baldus» disse, mostrando ai ragazzi il medaglione con lo stemma di Eptagonìa che portava sempre con sé. Era improbabile che fossero in grado di decifrare le scritte sbalzate sul metallo, ma quello dell’oro era un linguaggio che chiunque poteva comprendere. «Sono un funzionario al servizio del principe Aheànder. Questo sigillo reale testimonia la verità delle mie parole.»

    Il ragazzo tirò su col naso. «Testimonia solo che siete anche un ladro…»

    «Ruben!» scattò la ragazza. «Adesso stai esagerando! Avanti, dammi una mano a sollevarlo da lì.»

    Il ragazzo non sembrava per nulla convinto, ma appoggiò il forcone e si diresse verso Aheànder. «Nostro padre ci frusterà per questo, Mia. Ma cosa parlo a fare, tanto con te è tutto inutile... Bene, portiamo pure costui a prendere la spada con cui ci taglierà la gola.»

    Sorretto dai ragazzi, Aheànder uscì dalla stalla e si avviò sull’aia rischiarata dalla luna. Si sentiva debole, ma non come quando era arrivato lì due giorni prima. In qualche modo, dormire lo aveva aiutato a recuperare parte delle forze.

    Una luce inconfondibile ai suoi occhi striava gli steli delle piante, risalendo dal terreno. Il richiamo della spada si fece più intenso, quasi impetuoso, man mano che lui avanzava in mezzo al grano. Quando la riconobbe, semi coperta dal terriccio, il cuore gli sobbalzò nel petto per l’emozione.

    «Tanafer!» gridò, e balzò sulla spada come un gatto su un topo.

    Il lucore della lama virò sul verde non appena la guardia fu nelle sue mani. I ragazzi, rimasti indietro dopo il suo scatto, si scambiarono occhiate sconcertate mentre lui si voltava verso di loro.

    Intuendo il loro disagio, Aheànder rivolse l’arma verso il terreno. «Non abbiate paura. Quello che vi ho detto è vero, non sono un bandito. Restituitemi il mio cavallo e vi libererò subito della mia presenza.»

    «Ma se non vi reggete nemmeno in piedi!» ribatté Mia.

    Il fratello le scoccò un’occhiataccia, poi indicò il lato opposto dell’aia. «Il vostro cavallo è nel fienile, signore. Seguitemi, vi porterò subito da lui.»

    Aheànder fece per muoversi, ma la ragazza gli afferrò un braccio. «Aspettate almeno che sorga il sole!»

    Era un consiglio sensato, rifletté. Poche ore di sosta in più non avrebbero cambiato la situazione, mentre gli avrebbero permesso di recuperare altre energie.

    «D’accordo» disse, lasciando che Mia lo riportasse verso la stalla.

    «Resterò fino a domattina.»

    Qualcosa schiamazzò sul margine dell’aia. Voltandosi di scatto, Aheànder notò uno stormo di corvi che si sollevava dai rami di un vecchio noce e si disperdeva nella notte. Fissò in quella direzione ancora qualche istante, poi la stanchezza prese il sopravvento e si dimenticò della faccenda.

    ***

    La visione tremolava come un’immagine vista attraverso il pelo dell’acqua. Il suo stesso corpo era pura percezione; un’idea di sé, sospesa in un mare di luce denso come resina. Aheànder annaspò, cercando di riconoscere l’uomo che andava definendosi davanti a lui. Quando lo riconobbe, sentì il battito del cuore accelerare di colpo.

    Re Sigfrid indossava un’armatura sontuosa, simile a quella che lo ritraeva vittorioso negli arazzi appesi alle pareti della sala del trono. Lo sguardo però non era altrettanto vanaglorioso, ma esprimeva un groviglio di emozioni troppo vivide perché quell’immagine fosse solo il frutto della sua immaginazione.

    «Figlio mio,» disse la figura luminosa. «Devi ascoltarmi.»

    La voce era proprio come lui se la ricordava. Chiara, potente. Determinata. La voce del re.

    «Sei in pericolo» proseguì Sigfrid. «Il nemico ti osserva da quando tu e Rupert avete lasciato Eptagonìa. Lei sa cosa hai trovato nei recessi della montagna sacra! Ti sta mandando contro i suoi assassini! Cerca i corvi, distruggili! Accecala

    Aheànder si pensò più vicino alla figura e di colpo si ritrovò ai suoi piedi. «Non so cosa devo fare, padre» sussultò, mentre sotto di lui – sotto la solida percezione di sé stesso – il nulla vorticava in un turbinio di lampi accecanti.

    Il mantello di Sigfrid volteggiò furibondo dietro le ampie spalle, quando il re si sporse verso di lui. «Non c’è tempo per parlare! Sono già nella fattoria! Devi svegliarti, prima che sia troppo tardi!»

    Aheànder spalancò gli occhi davanti a un muro di oscurità. Un’ombra si mosse in un punto imprecisato dello spazio, e nello stesso istante Tanafer divampò come un fuoco, illuminando il volto di un uomo ammantato di nero fermo di fronte al pagliericcio.

    Disturbato dalla luce, l’assassino affondò la spada con un attimo di ritardo. Tanto gli bastò per schivare il colpo e afferrare la spada, trovando l’elsa illuminata dai riflessi della lama. Tanafer striò l’aria e incontrò stoffa e carne, sollevando uno spruzzo di sangue quando si staccò dal corpo lacerato della sua vittima. L’uomo nerovestito si accasciò mentre altri due spuntavano alle sue spalle. Aheànder respinse i fendenti con facilità e falciò entrambi con un unico, fluido movimento verso l’alto.

    Non appena gli assassini smisero di contorcersi, l’acciaio di Tanafer assunse una tonalità ambrata, adatta a illuminare la stalla senza ferire gli occhi. Aheànder si mosse guardingo, il rumore dei suoi passi coperto dai lamenti delle mucche che si erano radunate sul lato opposto del locale. Giunto davanti all’ingresso, la spada divenne pesante, come se la lama fosse mutata in pietra. Insospettito da quella strana reazione, Aheànder afferrò uno sgabello e lo scagliò oltre la porta. Due dardi affondarono nel legno prima ancora che toccasse terra.

    Aheànder si ritrasse cercando di non fare rumore. Di fianco alla mangiatoia notò una finestrella abbastanza ampia da consentirgli di attraversarla. Usando la banchina come appoggio, si protese fino al cornicione e sporse la testa sopra al tetto.

    Una donna avvolta in abiti maschili era intenta a ricaricare una balestra.

    Aheànder scivolò sulle lastre di ardesia e la sorprese alle spalle. La spinse giù dal tetto, quindi balzò a sua volta, atterrando su un mucchio di paglia. Esitò un istante, di fronte al corpo privo di sensi dell’assassina. Forse sarebbe stato prudente ucciderla, ma lui non avrebbe infierito su una persona inerme, in special modo una donna. Perciò si limitò a prenderle la balestra e legarle i polsi con la sua cintura, quindi si mosse rapidamente verso la casa del fattore.

    Una lama di luce filtrava attraverso la porta socchiusa, aprendosi a ventaglio sul porticato antistante. Chiunque fosse passato di lì, non si era preoccupato di richiudere l’uscio, né di smorzare la lampada a olio che illuminava l’ingresso dell’abitazione.

    Tutto ciò non presagiva nulla di buono. Aheànder avanzò all’interno della stanza camminando in punta di piedi, con Tanafer in una mano e la balestra carica nell’altra. Ora la lama aveva perso qualunque riflesso, persino quelli della lampada sembravano scivolarle sopra senza riverberarsi. Non c’erano segni di colluttazione nella stanza, ma quella porta aperta…

    Un urlo proruppe dal piano superiore della casa. Riconoscendo la voce di Mia, Aheànder s’involò lungo la scala fino a un pianerottolo su cui si affacciavano due porte. La prima rivelava una stanza in disordine, col letto disfatto e vari oggetti sparpagliati sul pavimento, l’altra era chiusa, ma dei lamenti si diffondevano dall’interno.

    La sfondò con un calcio, trovandosi di fronte a due uomini in nero. Uno di loro teneva premuta una donna contro la banchina di una finestra, in modo che il busto sporgesse verso l’esterno e le gambe penzolassero sopra il pavimento. L’altro emise un suono simile a un grugnito appena il quadrello gli si piantò nel petto e si accasciò vicino a una massa scura. Il fascio di luce emesso da Tanafer guidò Aheànder verso l’altro assassino, che riuscì solo a voltarsi prima che la lama gli lacerasse un fianco.

    L’uomo ricadde all’indietro urtando la schiena di Mia, ma Aheànder fu rapido ad afferrarle le gambe prima che precipitasse oltre la banchina. Si accasciarono entrambi a terra, con la ragazza in preda a un attacco di tosse.

    «Coraggio, è finita» le disse, senza smettere di carezzarle i capelli scompigliati.

    Mia sgranò gli occhi arrossati dalle lacrime, e in quel momento Aheànder avvertì un movimento alle sue spalle, seguito da un tonfo secco.

    Fermo sull’ingresso, Ruben fissava con occhi sgranati la donna accasciata ai suoi piedi in una pozza di sangue.

    Aheànder attese che i lamenti dell’assassina si spegnessero prima di avvicinarsi al ragazzo. Non doveva essersi reso conto del suo gesto se non dopo averlo compiuto. Ora il giovane si teneva una mano sullo stomaco, come se fosse sul punto di vomitare. Aheànder lo afferrò per le spalle. «Uccidere non è mai facile. Nemmeno se si tratta di salvare la nostra stessa vita. Ma hai fatto la cosa giusta, credimi.»

    «Ne arrivano altri!»

    Udendo le parole di Mia, Aheànder si precipitò alla finestra e guardò fuori. Un gruppetto di figure scure si dirigeva verso la casa. Riconobbe in testa la donna che aveva sorpreso sul tetto della stalla.

    «Non potete lanciare un incantesimo?» mormorò la ragazza, rannicchiata contro il muro.

    Scosse la testa e si ritrasse dal davanzale. «Mi dispiace, non sono un mago.»

    «Lo sapevo!» urlò Ruben alle sue spalle.

    Aheànder guardò i due giovani, fermandosi su Ruben. «Ascoltate, mi dispiace di avervi mentito, ma avevo le mie buone ragioni per farlo. Ora però non c’è tempo per questo, dobbiamo pensare a metterci in salvo.»

    Si bloccò di colpo, colto da un presentimento.

    «Ci sono altre persone in casa? Che ne è stato della bambina?»

    «Rika è nascosta in cantina con nostra madre» disse Mia.

    «Non preoccuparti per loro. Sono molto più al sicuro di noi in questo momento» sibilò Ruben.

    «E vostro padre?»

    Il ragazzo abbassò uno sguardo indecifrabile sul cadavere dell’assassina. «È morto per salvare me.»

    «Aiutami a tirare su la porta» disse Aheànder, aizzato dal rumore di passi che sopraggiungeva dall’esterno. «Blocchiamola col letto!»

    Pochi istanti dopo che l’anta fu di nuovo a posto, col robusto telaio di quercia che la premeva contro l’infisso, il trapestio sul corridoio crebbe d’intensità. Qualcuno iniziò a colpire lo stipite, sempre più violentemente.

    «È il momento di saltare!» gridò Aheànder, tornando verso la finestra.

    Ruben si gettò per primo. Poi lui afferrò Mia per la vita e se la strinse contro il petto.

    «Fidati di me» le disse, incontrando i suoi occhi colmi di terrore. Saltarono assieme. Un istante dopo, il materasso attutì la loro caduta facendoli rimbalzare sul terreno ruvido dell’aia. Raggiunsero la stalla senza voltarsi. Aheànder attese che i due fratelli fossero dentro, quindi richiuse il portone alle loro spalle e lo bloccò con il chiavistello.

    Dall’interno, Ruben picchiò contro l’anta. «Cosa stai facendo? Fammi uscire, posso combattere!»

    «Quei sicari sono qui per me» gli rispose, snudando Tanafer. «Non permetterò che veniate coinvolti!»

    Detto questo, sgattaiolò attorno al perimetro della casa e raggiunse la canna fumaria sul retro. Usandola come una scala, si inerpicò artigliando le fughe dei mattoni fino al cornicione e da lì penetrò all’interno attraverso una finestra.

    Si trovava nella camera di fronte a quella da cui era saltato. La porta spalancata mostrava alcune figure in piedi di fronte alla carcassa dell’anta. Parlavano tra loro, dandogli le spalle.

    Aheànder gli fu addosso in un istante. Il primo sicario cadde con la schiena squarciata. Il compagno fece per reagire, ma la sua lama s’infranse quando impattò contro l’acciaio di Tanafer.

    Un trapestio si diffuse dalla stanza di Mia. Un uomo scivolò da un lato assieme alla sua ombra mentre lui tentava un affondo. Subito dopo, le spade s’incrociarono a mezz’aria esplodendo una pioggia di scintille. Aheànder fintò un attacco per disimpegnarsi, ma il suo avversario non abboccò e continuò a incalzarlo a stretta misura, ricacciandolo nella stanza da cui era sbucato.

    Lo scontro si fece concitato, con entrambi i duellanti che cercavano di aprirsi un varco nella guardia avversaria. D’improvviso, una seconda figura apparve alle spalle del sicario. Con la coda dell’occhio Aheànder riconobbe la donna che aveva cercato di ucciderlo fuori della stalla. Impugnava un’arma, e si muoveva lungo la parete con l’evidente intenzione di sorprenderlo alle spalle.

    Il sicario calò la lama e lo ferì alla spalla, ma lui ignorò il dolore e gli afferrò il polso con l’altra mano. L’uomo urlò quando la torsione fece scricchiolare le ossa, ma non mollò la presa sulla spada. Aheànder colse un varco libero e lo colpì con una testata alla fronte, facendolo barcollare all’indietro.

    «Spostati, idiota!» ringhiò la donna, agitando la lama alle spalle del sicario.

    Fu questione di un battito del cuore.

    La luce scarlatta sprigionata da Tanafer allungò le ombre dei sicari mentre Aheànder scagliava l’uomo in avanti. Cadde sulla compagna lanciando un gemito soffocato ed entrambi rotolarono sul pavimento. Lei se lo scostò di dosso con un calcio, ma le sue imprecazioni mutarono in un gemito quando la lama di Tanafer le trapassò il fegato.

    Aheànder s’inginocchiò su di lei. «Avresti dovuto fuggire quando te ne avevo data la possibilità.»

    «Aiutami, ti prego» gemette la donna, agitandosi dietro la maschera che le celava il volto. «Non voglio morire!»

    «Non posso fare niente per te.»

    «Non respiro! Toglimi la maschera, per favore...»

    Aheànder sospirò e fece per avvicinare la mano, ma in quell’istante qualcosa luccicò alla sua sinistra. Si ritrasse di scatto e affondò la spada nel cuore della donna, uccidendola all’istante. Lo stiletto scivolò dalle dita contratte dell’assassina e tintinnò sul pavimento.

    ***

    Il sole che filtrava dalle imposte illuminava il volto cereo di Bertham. L’uomo disteso sul tavolaccio della cucina non sembrava morto, solo addormentato. Le sue figlie si stringevano alla madre, una donna ossuta e dallo sguardo determinato, mentre fissavano la salma con occhi arrossati. Sul lato opposto della stanza, Ruben osservava standosene con la schiena appoggiata alla parete e le braccia incrociate sul petto.

    Aheànder fu il primo a uscire nell’aia, seguito dal giovane. Avevano lavorato sodo per seppellire i corpi dei sicari in una fossa sul margine del campo, e ora lui sentiva il peso della stanchezza sulle spalle. Non c’era stato tempo di riposare, ma il momento della partenza non era più rinviabile. Strinse il sottopancia della sella di Taran e si voltò verso la famigliola che si era radunata dietro di lui.

    «Mi sento responsabile della morte di Bertham, sono stato io ad attirare quei sicari nella vostra terra. Farò in modo che vi sia riconosciuto un indennizzo non appena rientrato a Eptagonìa. So che il denaro non potrà restituirvi il vostro congiunto, ma è la sola cosa che posso fare per ripagarvi della vostra gentilezza.»

    «Io non voglio dei soldi, voglio vendetta!» ringhiò Ruben.

    Aheànder gli si avvicinò. «Ora ascoltami, quello che sto per dirti è molto importante. So che può sembrare una pazzia, ma dovete lasciare questo posto il prima possibile. Presto la guerra ci colpirà, e nessuno sarà al sicuro al di fuori della cerchia protettiva che ho disposto attorno a Eptagonìa. Dirigetevi là, e avvertite chiunque incontriate di fare altrettanto.»

    Lo sguardo di Ruben si fece sospettoso. «Tu hai disposto… ma, chi sei veramente?»

    «Io sono Aheànder, principe di Eptagonìa.»

    Il ragazzo sgranò gli occhi e Aheànder riconobbe le diverse emozioni che gli attraversavano il volto mentre i suoi congiunti si inchinavano frettolosamente. Dopo un po’ si prostrò anche lui,

    «Avevo capito che eravate qualcuno di importante,» balbettò, sollevando appena lo sguardo verso di lui, «ma non avrei mai pensato… oh, mio signore! Perdonatemi per le parole che vi ho detto.»

    «Non devi inchinarti davanti a me» gli rispose, aiutandolo ad alzarsi. «Tu mi hai salvato la vita, sono io che dovrei rivolgerti la mia deferenza semmai. In ogni caso, se è vendetta che cerchi, ti offrirò un’occasione per trovarla. Presentati a un centro di reclutamento, quando sarete prossimi a Eptagonìa. Riceverai armi e addestramento.»

    Si ivolse quindi a Mia. «La fasciatura che mi hai fatto alla spalla è ottima. Ti ringrazio. Mani come le tue sarebbero molto utili nelle infermerie di campo.»

    «Grazie, mio signore» mormorò la giovane, arrossendo.

    Aheànder accettò un fagotto dalle sue mani, quindi lo ripose nella sacca da viaggio e volteggiò in sella a Taran.

    «Bene, amici, ora devo proprio andare. Gli dei vi assistano. Assistano tutti noi.»

    E così dicendo, Aheànder spronò il cavallo al trotto e si allontanò attraverso i campi di grano.

    2

    Il tempo della guerra

    Devon attendeva sull’ultimo gradino della scalinata, incerto se scavalcarlo e portarsi sul terrazzo della torre o restarsene lì. Alla fine si fece coraggio e decise infine di annunciare la sua presenza. Dopotutto, era stato convocato dal Re oscuro in persona.

    «Mio signore,» disse, spostando il peso del corpo su una gamba,

    «sono ai vostri ordini.»

    «Avvicinati.»

    Devon si mosse con cautela sul pavimento reso scivoloso da una lieve patina di ghiaccio, mentre il vento vorticava tra le guglie del castello. Si fermò al centro del terrazzo, notando una seconda figura, nascosta dalle ombre delle statue che sormontavano i merli. Rivolse a Sjbil un cenno ossequioso, quindi tornò a fissare la schiena del suo signore.

    Il Re oscuro riprese a parlare con voce profonda e priva di inflessioni.

    «L’esercito degli Mkhul ha attraversato il passo di Rothrunder la notte di Tardestate. Ancora pochi giorni e raggiungerà le pendici di Monte Daurus. Sappiamo che una maga di Silene, una certa Malyka, è sfuggita alla cattura da parte degli elfi neri nei pressi di Thul-Arad. È possibile che si sia imbattuta nelle mie creature, nel qual caso è ragionevole supporre che abbia trovato il modo di avvertire il principe della loro presenza.»

    Devon si limitò ad annuire, senza riflettere sull’inutilità del suo gesto. Con la coda dell’occhio, colse tuttavia un’espressione beffarda sul volto della maga nerovestita.

    «La cosa non ha alcuna importanza» continuò il Re oscuro, «ma non ho intenzione di correre rischi inutili. Voglio che tu conduca un’armata a Eptagonìa per supportare l’azione degli Mkhul. Farai in modo che i maghi di Silene non vanifichino l’attacco e al tempo stesso ti occuperai di devastare la città.»

    «Mio signore, ne sarò onorato» disse Devon.

    «Naturalmente ti fornirò un sostegno adeguato all’importanza del tuo compito. Da soli, tu e i tuoi uomini non avreste speranza.»

    Le parole del sovrano instillarono un dubbio in Devon. Che fosse questo il motivo della presenza di Sjbil? Occhieggiò il corpo della maga, evidenziato dall’abito di lana nera che lo fasciava sino alle caviglie. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. Lei lo scrutò come se stesse guardando una chiazza d’unto su pavimento. Devon sospirò.

    «So cosa ti stai chiedendo,» proseguì il Re oscuro, «Sjbil mi serve qui. Ho altri progetti per lei. Ma avrai tre maghe elfiche sotto il tuo comando. Questo dovrebbe bastare ad assicurarti una facile vittoria sui miei avversari.»

    «Mio signore» intervenne la donna. «Se posso dire la mia, vorrei aggiungere il mio personale contributo alla questione.»

    «Ti ascolto» disse l’uomo.

    Sjbil sgusciò fuori dall’ombra, indifferente al vento che agitava le lunghe trecce corvine dietro la sua schiena. «Ebbene, c’è una maga di nome Luthrlel, una mia servitrice, che ha avuto modo di incontrare quella donna e studiarne a fondo le capacità. La sua conoscenza e i suoi poteri potrebbero rivelarsi molto utili per il buon esito della campagna d’invasione.»

    Dannata strega, pensò Devon sobbalzando, sta cercando di sostituirmi. «Quell’incarico è mio» ringhiò, sostenendo lo sguardo sprezzante della maga. «Il tuo elfo femmina può pulirmi gli stivali e massaggiarmi la schiena, se lo desidera.»

    «Puoi dire quello che vuoi» rispose la donna, «ma rimani ciò che sei. Potrei sbalzarti giù da questa torre solo battendo le ciglia, se lo desiderassi.»

    «Non esserne tanto sicura, donna…»

    «Fate silenzio.»

    Udendo quelle parole, Devon si ammutolì e chinò la testa fino a incontrare il lastricato di pietre nere. Con la coda dell’occhio, notò che Sjbil si era rintanata nell’ombra come un ragno nella tela.

    «La protetta di Sjbil prenderà parte alla spedizione in qualità di comandante in seconda. In quanto a te, Devon, manterrai il tuo ruolo, e con esso l’intera responsabilità della campagna. Se fallirai, la tua testa sarà spiccata dal corpo e issata sul torrione dei sospiri fino a quando le carni non si sfalderanno e le ossa ingialliranno al sole.»

    Dopo un lungo silenzio, il Re oscuro aggiunse: «C’è un'altra cosa.»

    Devon sollevò lo sguardo. Ora gli occhi del Re oscuro rosseggiavano come squarci aperti su un fiume di lava. «Ho disposto che quel buono a nulla di Elladan sia accorpato alle tue truppe. Serviti di lui, usalo per gli incarichi più rischiosi, ma alla fine sbarazzatene. L’elfo mi ha deluso una volta di troppo.»

    «Oh» sogghignò l’uomo. «In quanto a questo, sarà un vero piacere, mio signore. Mi occuperò di lui personalmente.»

    Non appena il grosso guerriero dai capelli rossi si fu allontanato, Sjbil si rilassò un poco. Il primo tassello del suo disegno era stato posato: avere una pedina alla testa della forza d’invasione era un ottimo inizio, e per il momento non c’era nient’altro da fare. Perciò scivolò verso il Re oscuro e rimase in attesa che lui le parlasse.

    «Il tempo della guerra è giunto, finalmente» disse l’uomo dopo un po’. Il vento era cresciuto nel frattempo e ora il suo mantello sventolava come una bandiera.

    «Volete che dia inizio all’evocazione, mio signore?» si arrischiò a domandargli.

    «Procedi.»

    Sjbil si sporse sulla banchina e scrutò le montagne che si accumulavano sull’orizzonte in archi sempre più evanescenti. Spostò lo sguardo più in basso, dove le mura delimitavano un ampio cortile dal fondo fangoso, a malapena illuminato dalle torce degli uomini in armatura nera allineati lungo gli spalti. Trasse un profondo respiro. I capelli schizzarono verso l’alto mentre un reticolo di scintille azzurre si diffondeva dalle ciocche fluttuanti. Poi sollevò le mani sopra la testa, godendo del potere che fluiva in lei e dal suo corpo si diffondeva nelle viscere della terra.

    Qualcosa vibrò nel cortile sottostante. I ciottoli dapprima sobbalzarono, quindi scomparvero inghiottiti dal sottosuolo come se il terreno si fosse improvvisamente liquefatto. Esplosioni di fango rovente s’innalzarono fino a lambire le mura, cessando solo quando una miriade di punti lucidi affiorò sulla superficie ribollente del cortile. Sjbil contemplò quello spettacolo continuando a mormorare la sua litania a denti stretti, mentre alla sua destra la figura del Re oscuro si affievoliva nelle ombre che colavano da un cielo ormai impenetrabile.

    Nel silenzio più assoluto, le creature iniziarono a emergere dal fango.

    Alte molto più di un uomo, potevano ricordare un essere umano osservato attraverso la superficie dell’acqua e al tempo stesso la loro pelle aveva qualcosa di bestiale, così simile alle squame di un pesce. Un tuono squarciò il cielo e pochi attimi dopo la pioggia iniziò a rovesciarsi su quegli esseri dai lineamenti appena abbozzati, e nello stesso tempo Sjbil abbassò le braccia e si aggrappò al muro. L’evocazione era un rito complesso, in grado di

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