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Il silenzio della morte - Una misteriosa scomparsa - La lista dell'assassino
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Il silenzio della morte - Una misteriosa scomparsa - La lista dell'assassino
E-book678 pagine9 ore

Il silenzio della morte - Una misteriosa scomparsa - La lista dell'assassino

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Info su questo ebook

3 grandi thriller
Un'autrice da 300.000 copie
Bestseller del New York Times

Helen H. Durrant firma la serie thriller che ha conquistato l’Inghilterra.
Nel parco giochi del complesso di case popolari di Hobfield, nel Nord dell’Inghilterra, viene fatta una macabra scoperta: un sacchetto con delle dita mozzate, roba da impressionare anche il più navigato tra gli investigatori. Ma i due detective a cui è stato affidato il caso, l’ispettore Tom Calladine e il sergente Ruth Bayliss, non hanno tempo per la paura, e devono mettersi sulle tracce dell’omicida prima che tutto il quartiere venga sopraffatto dalla violenza.
Una corsa contro il tempo per fermare uno spietato serial killer è al centro di Una misteriosa scomparsa. Calladine e Bayliss hanno due cadaveri, due studenti universitari americani. Unico indizio del raccapricciante rituale di morte: il killer ha applicato dei marchi da bestiame alle orecchie di entrambi.
Una carta dei tarocchi. È la firma che sulle vittime lascia il killer al centro delle indagini di La lista dell’assassino. Ancora una volta, dalle sole evidenze sulla scena del crimine e dai rilievi dell’anatomopatologo, Calladine e Bayliss dovranno risalire all’assassino. Prima che altre giovani vite siano brutalmente troncate. 

La serie thriller che ha conquistato il Regno Unito

«Una lettura obbligata, una serie di cui diventerete ostaggi. I personaggi, l’ambientazione e la trama sono dettagliati e incredibili.»
Sarah Stevens

«Un detective-thriller che mi ha completamente affascinato. Calladine e Bayliss sono due partner davvero affiatati e il finale è sorprendente.» 
Beth Boyd

«Questi romanzi non indugiano in descrizioni inutili, ci sono solo grandi personaggi e grandi misteri. E una scrittura veloce, che divorerete.»
Mary E

«Azione incalzante, trama avvincente e grande ambientazione.»
Martha B
Helen H. Durrant
Ambienta i suoi libri nella zona in cui vive e lavora, il Nordovest dell’Inghilterra, un luogo che la scrittrice conosce bene, e che si trova tra due contee, tra la città e le colline. Questo posto ricco di insediamenti industriali e scorci di lussureggiante campagna, è fonte di ispirazione per lei, tanto che è proprio qui che si muovono Calladine e Bayliss, i due detective protagonisti della serie thriller di successo.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2018
ISBN9788822720368
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    Anteprima del libro

    Il silenzio della morte - Una misteriosa scomparsa - La lista dell'assassino - Helen H. Durrant

    1880

    Titolo originale: Dead Wrong

    Copyright © H.Durrant 2015

    Traduzione dall’inglese di Clara Serretta e Marta Lanfranco

    Titolo originale: Dead Silent

    Copyright © H.Durrant 2015

    Traduzione dall’inglese di Daniela Palmerini

    Titolo originale: Dead List

    Copyright © H.Durrant 2015

    Traduzione dall’inglese di Adriana Cicalese

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2036-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Helen H. Durrant

    Il silenzio della morte

    Una misteriosa scomparsa

    La lista dell'assassino

    Newton Compton editori

    Indice

    Il silenzio della morte

    Una misteriosa scomparsa

    La lista dell’assassino

    IL SILENZIO

    DELLA MORTE

    Prologo

    Il fiume di ragazzi scalpitava, si riversava e si faceva largo sulla scalinata della scuola: l’aria era satura delle loro parolacce.

    «Ian! Bastardo che non sei altro!», gemette Gavin Hurst. «Mi hai azzoppato con quei tuoi maledetti stivali».

    Ian Callum Edwards diede all’amico una piccola spinta, mentre questi si chinava a massaggiarsi la gamba.

    «Eccolo», indicò allegramente, ignorando le lamentele di Gavin. «Andiamo a prenderlo».

    Il ragazzo in questione si era bloccato a metà della scalinata e li stava fissando, trepidante. Gavin Hurst e Ian erano due bulli, le cui attenzioni non erano affatto gradite, e lui era entrato nel loro mirino.

    «Che me ne frega di lui! Mi fa malissimo la caviglia», protestò Gavin, restituendo il favore all’amico e spingendolo contro il muro.

    «Fanculo il tuo piede! Andiamo da quel coglione e divertiamoci un po’». Ian lo guardò in cagnesco. «È stato per tutta l’ora in classe a scaccolarsi e mi ha fatto quasi venire da vomitare, quello schifoso di un ritardato!».

    David Morphet strinse nervoso i pugni e scese le scale, dirigendosi verso di loro, la faccia tutta rossa per lo sforzo.

    «Troppo faticoso per te, eh, ciccione?», lo provocò Gavin Hurst, mettendoglisi muso a muso, mentre lui cercava di svicolare. «Dov’è la tua guardia del corpo oggi? Finalmente si è stufata di starti appresso?»

    «Lasciatemi… in pace». A Morphet tremò la voce. «Perché se non lo fate, finirete in guai seri».

    «Sembra che il ciccione stia cercando di spaventarci», disse Ian a Gavin, che continuava a bloccare la strada a David. «Hai paura, Gav? Perché io no. Anzi, credo proprio che dovremmo dare a questo sfigato arrogante una bella lezione di buone maniere, che ne dici?».

    David chiuse gli occhi e chinò il capo. Stava sforzandosi di pensare. Suo fratello, Michael, gli aveva detto cosa dire a quei due, ma lui se l’era dimenticato.

    «Ti piacciono i miei stivali nuovi?», chiese Ian, alzando un ginocchio e schiacciandoglielo praticamente in faccia. «Li ho pagati poco. Economici e cattivi, ecco come sono». Gli mollò un calcio secco sugli stinchi.

    David Morphet gridò, aggrappandosi alla ringhiera della scala.

    «Non sei più così coraggioso, eh, ciccione? Se non c’è il fratellone a tenerti per mano».

    Un altro calcio, seguito da un paio di ceffoni.

    «Peccato che non abbiamo altra vernice; avremmo potuto fare un ottimo lavoro stavolta. Kelly non c’è, quindi non ci sarebbe stato nessuno a ripulirti. Che dici, ciccione, vuoi venire nel capanno del custode, così ne cerchiamo un po’? Possiamo colorarti di una sfumatura diversa… credo che staresti bene in verde». Scoppiò a ridere. «Verde cacca».

    David stava tremando. Spostò lo sguardo dall’uno all’altro. Dicevano sul serio? L’avrebbero davvero fatto di nuovo? Volevano ricoprirlo ancora con quell’orrenda vernice?

    «Se non mi lasciate in pace lo dirò a Sir». Si era finalmente ricordato la frase che suo fratello maggiore gli aveva insegnato.

    Ma quelle parole non ebbero l’effetto desiderato. I due scoppiarono a ridere ancor più sguaiatamente, poi cominciarono a tirargli i vestiti, facendogli uscire la camicia dalla cintura dei pantaloni e strappandogli i bottoni della giacca.

    «Quale Sir e Sir! Quel coglione che dice di essere il preside?», ruggì Ian, scuotendo il capo. «Una spremuta di sangue, quasi tutti. Non hanno palle. Credimi, ciccione, non ci faranno un cazzo, soprattutto non per parare il culo a un perdente come te!».

    Ian lo prese per la cravatta e cercò di farlo girare su se stesso. David tenne gli occhi incollati per terra per tentare di evitare i suoi stivali. Stava ansimando e aveva il respiro pesante. L’inizio di un attacco di asma. Aveva bisogno del suo inalatore, e presto.

    Non aveva abbastanza fiato per parlare, o per gridare, e si sentiva frastornato. Si guardò disperatamente attorno, in cerca di aiuto. Ma non c’era nessuno nei paraggi. Gli altri ragazzi tenevano Ian e Gavin a debita distanza. Non volevano avere a che fare con loro. Meglio rivolgere altrove lo sguardo.

    Gavin spinse David verso Ian, che lo fece girare di nuovo e lo rispinse all’amico. Erano tutti e tre in bilico su un paio di gradini. David Morphet era goffo di natura e nel giro di pochi minuti sarebbe di certo caduto.

    Tuttavia trasse un profondo respiro e cercò di scappare. Aveva intenzione di fare di corsa il resto della scalinata e di sfuggire così ai loro maltrattamenti, ma Gavin Hurst era troppo veloce per lui. Lo afferrò per un lembo della giacca e lo spinse di nuovo verso Ian. Questi però, invece di acchiapparlo, allungò un piede calzato dallo stivale e gli sferrò un calcio che lo fece volare di sotto, mandandolo a sbattere contro i restanti gradini.

    Capitolo 1

    Sentiva freddo, freddo fin nelle ossa, e dolore. Delle fitte acute che gli attraversavano il braccio. E poi aveva le dita intorpidite. Lì non sentiva alcun dolore. Girò il capo, solo un po’, e cercò di mettere a fuoco. Doveva darci un taglio e risolvere il problema che aveva alla mano.

    Sbatté le palpebre; impossibile che stesse accadendo davvero. Era nudo, in piedi, in quello che sembrava un seminterrato dalle pareti di pietra. Com’era finito lì? Aveva un vuoto. Scansionò i propri ricordi, ma niente. Era legato a qualcosa di freddo e duro attaccato alla parete. Prese a strattonare qualsiasi cosa fosse quella che lo stava tenendo bloccato, cercando di urlare. Non funzionò: aveva la bocca tappata con un pezzo di tessuto dal sapore rancido.

    Chinò il capo, portando il mento verso il petto per qualche secondo. Aveva bisogno di capirci qualcosa, ma la testa gli girava. Forse stava sognando. Forse si era preso della robaccia e adesso aveva le allucinazioni. Al suo migliore amico succedeva abbastanza spesso. Quello stupido coglione era sempre fuori di testa, e ora toccava a lui. Doveva essere così. Fece un respiro profondo e si girò di nuovo per guardare la fonte di quel dolore. Questa volta fu più facile e riuscì a vederla con chiarezza. Non era un sogno, niente affatto.

    Strabuzzò gli occhi, incredulo. Era un incubo. Tutte le dita della mano destra erano sparite.

    Il movimento distrasse l’uomo con la tuta di velina bianca, che alzò lo sguardo. Il tizio trasalì e i loro occhi si incrociarono. Chi era e da dove sbucava? Perché era vestito in quel modo e perché gli stava facendo questo? L’uomo era in piedi al centro del seminterrato e sembrava stesse leggendo un giornale – il quotidiano locale? Sfogliava rapidamente le pagine, sempre più arrabbiato. Perché? Che cosa si aspettava di trovarci scritto?

    «Non c’è niente», gridò l’uomo. «Sono dei maledetti incapaci… ancora non si parla di nessuni di voi due». Gettò il giornale per terra, osservando la carta di infima qualità inzupparsi dell’urina che si era raccolta in una fetida pozza sotto i piedi del giovane. «Lo sai che cosa significa?», incrociò le braccia al petto. «Significa che non è servito a niente. E che la situazione rimarrà la stessa, a meno che non cambi tattica».

    Quell’uomo doveva essere un pazzo, ma un pazzo intelligente, perché ci voleva qualcuno con un insolito talento per metterlo all’angolo. Doveva uscire di lì… e in fretta.

    «Stai fermo, idiota! Ho bisogno di pensare», abbaiò l’uomo alla figura nuda, che cercava di divincolarsi. «La stampa non può ignorarlo. Non glielo permetterò», assicurò. «E per quanto riguarda i tuoi familiari», lo derise, «sembra incredibile, ma ancora nessuno sente la tua mancanza». Portò le mani ai fianchi e si avvicinò al prigioniero. «Triste, eh? Nemmeno quella bionda tinta dalle labbra sottili che sostiene di essere tua madre si è preoccupata di andare a cercarti».

    Per chi l’aveva scambiato quel pazzo? Di solito la gente non si comportava così con lui e la cosa stava cominciando a farlo arrabbiare. Voleva urlargli una risposta, gridargli contro, prenderlo a pugni e scaraventare quel bastardo al suolo. Nessuno poteva rivolgersi a lui in quel tono, nessuno avrebbe osato farlo. Ma non ci riusciva… era inerme.

    «Di certo qualcuno là fuori si starà chiedendo che cosa ti è successo», lo provocò. «Non c’è qualcuno che si domandi come mai non sei più in quei vicoli a vendere erba?».

    Che stupidaggine… come aveva fatto a cacciarsi in un simile casino? Il tizio chiuse gli occhi, aveva bisogno di pensare. Lui cercò di rassicurarsi, di pensare che andava tutto bene. Ma andava davvero tutto bene? No, se nessuno sapeva che era lì non andava affatto bene.

    «Non doveva andare così», disse a bassa voce il suo aguzzino. «Vedi, mi aspettavo un po’ di pubblicità. Anzi un bel po’ di pubblicità. Mi aspettavo che il giornale locale cominciasse subito a farsi delle domande. La gente non sparisce tutti i giorni, nemmeno in questo complesso di case popolari dimenticato da Dio. Quindi, dimmi, dove cazzo sono i titoli in prima pagina, ragazzaccio?».

    Con quella pezza in bocca, ovviamente non poteva rispondergli, così si limitò a gorgogliare qualcosa e a strattonare di nuovo i legacci.

    «Non avevo mai fatto niente del genere prima», gli confidò il suo aguzzino, avvicinandosi ancor di più all’altro tizio. «Quindi sono destinato a fare degli errori. In fatto di omicidi, sono solo un dilettante. Che ne pensi? Forse devo solo provare ad andarci pesante?».

    Il dolore, la rabbia e quella filippica erano davvero troppo, così scivolò di nuovo in uno stato di semincoscienza.

    «Mi sveglierei se fossi in te», furono le parole che lo riscossero. La testa del ragazzo ciondolò di nuovo, e l’altro ghignò: «Svegliati, oppure ti perderai tutto il divertimento».

    Il ragazzo si sforzò di rimanere cosciente. Cazzo, aveva proprio bisogno di restare lucido, solo che il dolore era straziante.

    «Vabbè, mi sa che dovrò cominciare senza di te».

    Ancora qualche ghigno da parte del pazzo, poi sentì il fiato di quel bastardo sulla mano ferita.

    «Non importa, ancora non mi sono occupato dell’altra». E la sghignazzata si trasformò in una risata demoniaca.

    Il suono arrivò fin nelle viscere del ragazzo.

    «Temo che sia necessario farlo, e poi te lo meriti. Tu e gli altri dovete essere puniti».

    Puniti… ma che stava succedendo? Ma per che cosa? Non aveva mai fatto niente di simile a nessuno, non ci era andato nemmeno vicino. Se avesse potuto, avrebbe fatto parlare quel bastardo, ma per come stavano le cose, probabilmente non avrebbe mai saputo.

    Il tizio era in piedi, legato a delle travi, imbavagliato e quasi del tutto incosciente. Un altro debole gemito oltrepassò la lurida pezza che gli copriva la bocca. Cercò di muovere gli arti strattonando i duri cavi che li tenevano legati, ma il movimento glieli fece penetrare più a fondo nella carne, acuendo il dolore.

    «Sono giunto alla conclusione, verme che non sei altro, che a questo punto occora qualcosa di più eclatante», disse la voce in tono strascicato. «Devo fare qualcosa che di sicuro attirerà l’attenzione». Le sue parole erano dirette a quella massa floscia e tremante, come se si aspettasse un suggerimento. «Tenerti qui non è abbastanza».

    Il ragazzo sentì improvvisamente caldo, la febbre forse? La voce del suo aguzzino sembrava lontana e tutt’a un tratto più lieve. Per caso si era reso conto che era tutto un errore? Lo avrebbe lasciato andare?

    «Sai che c’è? Hai già causato molti guai quando eri libero e quindi nessuno ti rivuole indietro. O almeno, se così non è, non hanno intenzione di farne parola né con la polizia né con nessun altro».

    Il ragazzo avrebbe voluto spegnerlo, come se fosse un fastidioso insetto che gli ronzava nelle orecchie. Ovviamente si era aspettato molto di più di quel silenzio. Doveva essersi aspettato che tutto quel maledetto complesso popolare si sarebbe sollevato per mettersi a cercarlo. Di sicuro faceva affidamento sul fatto che sarebbe stata coinvolta la stampa. Eppure non era accaduto niente di tutto ciò. Se la situazione non fosse stata così raccapricciante, gli sarebbe scoppiato a ridere in faccia.

    Guardò l’uomo con la tuta bianca strofinarsi la testa come se stesse cercando di dar forma a un’idea, di far uscire il genio dalla lampada. Sarebbe stato doppiamente pericoloso a quel punto. Voleva dei risultati e stava perdendo la pazienza. Lo sguardo, il linguaggio del corpo, il ragazzo li aveva riconosciuti. Il suo aguzzino stava sobbollendo, pronto a esplodere. Pochi secondi dopo le sue deduzioni trovarono conferma: l’uomo afferrò un martello dalla panca di metallo e ve lo abbatté con violenza inaudita. Si udì un suono rimbombante e il ragazzo trasalì per il terrore. La volta successiva si sarebbe potuto abbattere sulla sua testa.

    Non aveva importanza che fosse fissato saldamente ai legacci: tremava dalla paura. Tuttavia, l’acuto stridio del metallo contro il metallo servì a schiarirgli la mente. Provò a mormorare qualcosa, qualche parola che potesse fare appello all’indole migliore di quel bastardo, ma la pezza trasformava tutto in un indistinto mugugno.

    «Nessuno si è ancora accorto della sua scomparsa». Il rapitore lanciò un’occhiata al mucchio accasciato in un angolo del seminterrato. «Non posso aspettare per sempre che si accorgano anche della tua sparizione».

    Quindi aveva preso anche il suo amico. Cercò di spingere la pezza fuori dalla bocca con la lingua e mormorò a voce più alta. Tossì. Non mangiava né beveva da giorni, gli sembrava. Aveva la bocca così asciutta che la pezza gli si attaccava ai denti, ormai quasi solida e rancida. Voleva spiegare che si sarebbero accorti della sua sparizione, sia gli altri suoi amici che Kelly, si sarebbero preoccupati per lui.

    «Nessuno pensa a voi due. Non trovi che sia abbastanza triste?».

    Stava disperatamente cercando di liberarsi, strattonando i legacci con sempre maggior forza. La sua ultima speranza era Kelly. Sapeva che sarebbe stata in pensiero. Andava sempre a cercarlo quando spariva. Ma avrebbe fatto in tempo?

    Aveva paura, ma non era quella l’unica ragione per la quale stava tremando. Il suo corpo a quel punto stava facendo i conti con l’astinenza da eroina. Perché quel maledetto bastardo non lo lasciava andare? Lui non c’entrava niente. Qualsiasi cosa avesse fatto, di certo non si meritava un trattamento del genere.

    Aveva cominciato a tremare e la situazione non poteva far altro che peggiorare. Di solito niente lo spaventava, ma adesso era terrorizzato. Non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasto lì; non era rimasto sempre cosciente, ma era certo che non sarebbe uscito vivo di lì, non senza un cazzo di miracolo.

    Osservò l’uomo con la tuta bianca intento a studiare una sfilza di oggetti posati sulla panca di metallo. Strabuzzò gli occhi e riuscì a identificare molta della roba che c’era lì sopra: il contenuto di una qualsiasi cassetta degli attrezzi, più alcuni altri arnesi che lui di solito usava in giardino. Con un po’ di sollievo, notò che non c’erano pistole. Peccato, sarebbe stato tutto più rapido.

    Ebbe una stretta allo stomaco quando l’uomo afferrò delle robuste cesoie e con le mani guantate di lattice prese a sfiorarle. Dovevano essere affilate, ragionò il ragazzo con un brivido. Erano quelle che aveva usato per tagliargli le dita della mano destra? Osservò il suo aguzzino prendere un panno e ripulire con meticolosa cura le cesoie. Forse, e aveva la netta sensazione che presto le avrebbe di nuovo usate.

    «Mi lascerai presto», furono le successive parole che il giovane udì. Ad accompagnarle il rumore secco delle cesoie che tagliavano un piccolo cilindro di legno. Evidentemente soddisfatto, si avvicinò al suo prigioniero.

    «Non fingerò che non sia così, di certo farà male. Ma ho bisogno delle tue dita per il mio piccolo piano. Tu vuoi uscire da questo posto e liberarti di me, giusto?».

    Sì, ma non così. Il ragazzo scosse il capo in maniera convulsa. Si dimenò più che poté nel tentativo di divincolarsi. Riuscì a stringere un debole pugno la mano buona, strattonando forte le travi a cui era legato. Fu solo in grado di gemere attraverso la pezza, mentre i legacci gli si conficcavano ancor più a fondo nelle braccia sottili. Sentì qualche goccia di sangue caldo sui polsi e capì che non sarebbe servito a niente.

    Non riusciva a vedere distintamente con quella luce soffusa. Non riusciva a gridare e lottare era troppo duro e doloroso. All’improvviso ebbe un conato e il vomito amaro si insinuò attraverso la pezza prima di colargli lentamente lungo il corpo. Percepì il calore di quel fluido puzzolente sgocciolargli sullo stomaco, e si rese conto che sarebbe morto lì, nudo, al freddo, e sudicio.

    «Distendi la mano», disse l’uomo in tono rassicurante, mentre gli si avvicinava, arricciando il naso per il fetore. «Sembra doloroso…». Abbassò lo sguardo sui mozziconi aguzzi delle ossa che sbucavano dalla mano destra del ragazzo e osservò il sangue che scorreva in rivoli per poi unirsi agli altri fluidi sul pavimento.

    «Fammi vedere…». La sua presa era salda, mentre rifletteva su questioni anatomiche. «Prima d’ora non ci avevo mai fatto caso attentamente, ma la mano umana è davvero affascinante». Lasciandola cadere, afferrò l’altra. Rivolse al suo prigioniero un sorriso confortante e separò l’indice, aprendo le cesoie con pratica sicurezza e tagliandoglielo proprio al di sotto della nocca della seconda falange.

    «Uno per il dolore…». Si accigliò, concentrato.

    La sofferenza era insopportabile. Il ragazzo provò a gridare ma il rumore che riuscì a produrre attraverso il bavaglio somigliava più al verso di una qualche creatura selvaggia che a quello di un uomo. Il suo corpo torturato cominciò a tremare in maniera incontrollabile, ne stava perdendo il controllo. Alla fine lo shock lo risospinse indietro verso il buio accogliente.

    Soddisfatto dei propri sforzi, l’uomo in tuta bianca estrasse un telefono cellulare. Alla luce fioca del seminterrato, trovò la funzione video e, facendo ritorno al suo prigioniero incosciente, puntò la telecamera sulla mano insanguinata.

    «Non so bene cosa farci con questo», mormorò tra sé e sé, scrollando le spalle. «Ma quel che è certo è che mi farà un bel po’ di pubblicità. Chissà, magari da stasera stessa potresti diventare virale su internet», disse, dando uno schiaffetto al ragazzo. «Peccato che tu non sarai più in giro a godere dei benefici della notorietà».

    Tenendo le cesoie in una mano e il cellulare nell’altra, gli tagliò il medio.

    «Due per la gioia». Sorrise. «Anche se non mi sembri molto gioioso al momento, vero, stupidino?».

    A quel punto non seguì alcun suono; il ragazzo era in stato di incoscienza. L’uomo rimosse abilmente le restanti dita, continuando a intonare le sue rime e a filmare quel brutale interludio. Registrò l’intera sequenza, dal primo agonizzante taglio fino a quando ogni dito non cadde nella pozza di urina, come se fosse una specie di anemica salsiccetta.

    Estrasse una busta di plastica da un cassetto sotto il tavolo. Una busta speciale, che aveva acquistato proprio a quello scopo. Raccolse le dita, ne rimosse il liquido scuotendole, e le mise lì dentro. Chiuse la busta con un nodo e la gettò sulla panca. Proprio allora, la sua attenzione fu catturata dall’altra busta, quella che conteneva il denaro che aveva trovato addosso al ragazzo al momento del rapimento. Non si aspettava di trovarne così tanto. Lo spaccio di droga era evidentemente un campo molto redditizio. I soldi erano un problema per il quale ancora non aveva una soluzione. Ma ci avrebbe pensato. Gli sarebbe venuto in mente qualcosa.

    Non era giusto lasciarlo così. I moncherini di quel che restava delle sue dita sanguinavano profusamente. Era proprio il caso che smettesse di far soffrire quel povero ragazzo. Sarebbe stata la cosa più carina da fare.

    Prese un coltello, lungo e affilato. Poteva tagliare le ossa? Non gli andava molto di segare un arto fin quando non avrebbe lentamente ceduto alla lama. Prese un’accetta, studiandola pensieroso. La usava per tagliare la legna. Teneva sempre i suoi arnesi in buone condizioni e, come le cesoie, era affilata e maneggevole. Fece correre un dito lungo la lama. Avrebbe funzionato? Sarebbe stata in grado di tagliare un osso o l’avrebbe solo scheggiato? Ne sapeva molto poco di anatomia umana, ma di una cosa era certo: ci sarebbe stato del sangue. Molto sangue.

    Le sue avide letture quotidiane della carta stampata, alla ricerca di notizie sui rapimenti, si erano trasformate in un’alta pila di giornali. Li radunò distribuendoli per terra, sotto i piedi del ragazzo. Avrebbe assorbito un po’ del sangue e gli avrebbe reso più facile il compito di pulire.

    Se avesse avuto più spazio a disposizione, avrebbe potuto disfarsi di lui in maniera diversa, ma doveva infilare il suo corpo nel freezer insieme all’altro, una volta che se ne fosse occupato. Quindi non aveva scelta. Entrambi i corpi dovevano essere ridotti in pezzi più piccoli, più maneggevoli.

    Adesso era sicuro di aver fatto la cosa giusta. Era certo che entro l’inizio della settimana successiva tutti avrebbero saputo di lui. Finalmente sarebbe apparso sui titoli in prima pagina. Un brivido eccitato gli corse lungo la schiena e un sorriso di soddisfazione gli si dipinse sulle labbra. Avrebbe usato l’accetta. Facendo oscillare l’arnese, si diresse verso il ragazzo. Quel verme aveva ripreso a gemere, mentre riprendeva conoscenza. Aveva udito i passi e stava strattonando i legacci. Il suo aguzzino non poté non ammirare la sua forza. Probabilmente veniva da un qualche primitivo istinto di sopravvivenza, che lo spingeva a combattere fino all’ultimo. Il suo sorriso era cupo.

    «Attento, amico, ti fai male».

    Il giovane puzzava. Il vomito gli sgocciolava ancora sul petto. Stava sanguinando copiosamente ed era in piedi in mezzo a una pozza di urina ed escrementi. Quello che stava per fare avrebbe messo fine a tanta pena.

    Alzando l’accetta fin sopra il capo, la fece dondolare con sicurezza. Ignorò gli schizzi di sangue e il rumore dell’acciaio nella carne, concentrandosi sul clangore dell’accetta che si abbatteva sulla catena di ferro posta dietro la sua rotula sinistra. Contento del risultato, colpì di nuovo, sopra il ginocchio destro.

    Fece un passo indietro e rimase a guardare la pozza di sangue sul pavimento. Osservò il corpo del ragazzo contorcersi per lo shock e il dolore. Lo fissò finché non smise di muoversi, soddisfatto del proprio operato.

    Voleva una fotografia, voleva catturare il modo particolare in cui le gambe del ragazzo, ancora legate all’altezza delle caviglie, si erano staccate dal torso. Si infilò la mano in tasca per prendere il telefono e sentì un insolito fremito di eccitazione, simile a una scossa elettrica, attraversargli il corpo.

    Era una sensazione alla quale avrebbe potuto abituarsi.

    Capitolo 2

    Lunedì

    Tom Calladine poteva figurarsi modi migliori per trascorrere il lunedì mattina, ma il dolore lo aveva tenuto sveglio per la maggior parte della notte, quindi non poteva far altro che stringere i denti. Portando la mano alla mascella, cercò di massaggiarsi il punto che gli doleva, ma il dentista gliela spostò.

    «Ancora qualche secondo, ispettore, poi abbiamo finito», gli assicurò, controllando per l’ultima volta la sua opera. «Ecco fatto». Gli passò uno specchio. «Dia un’occhiata, è come nuovo». C’era una punta d’orgoglio nella sua voce.

    Tom Calladine si strofinò la mascella e trasalì. Non gli importava del suo aspetto, solo che non gli facesse più male.

    «Dovrebbe passare in fretta adesso». Il dentista gli rivolse un sorriso rassicurante, mentre si toglieva i guanti e si lavava le mani nel lavandino. «Comunque, se il dolore dovesse aumentare troppo, prenda del paracetamolo. Non le servirà un antidolorifico più forte».

    Calladine sperò che avesse ragione. Più di un’ora su quella sedia, la bocca spalancata da una specie di ponteggio metallico era tutto ciò che poteva sopportare in un giorno. Odiava i dentisti: lo studio medico, gli strumenti, la consapevolezza che avrebbe fatto male. I trattamenti canalari erano particolarmente dolorosi.

    «Ci vediamo tra sei mesi, ispettore. E non si trascuri, altrimenti i problemi non faranno che peggiorare», lo avvisò, facendo un cenno del capo in direzione della bocca di Calladine. «Alla sua età dovrebbe fare lo sforzo di prendersi cura dei suoi denti. So che è molto occupato, ma la sua bocca è molto importante, Tom».

    Un altro riferimento alla sua età, pensò Calladine, infastidito. Già, aveva compiuto cinquant’anni, e allora? Significava forse che gli sarebbero caduti tutti i denti e avrebbe tirato le cuoia? Stava cominciando a stancarsi di ascoltare le osservazioni della gente che pensava di saperne di più. Avrebbero dovuto capire che con tutto quell’allenamento era ancora pieno di vita e di lavoro da fare.

    Calladine mormorò qualcosa senza il benché minimo brio e, alzandosi, accese il cellulare. Non voleva parlare di questioni d’età, né tantomeno di shopping. Voleva solo riacquistare sensibilità alla bocca e bere una tazza di tè forte. Si sentì sollevato quando, quasi subito, il telefono squillò. Lanciando un’occhiata di scuse al dentista, rispose.

    Una voce femminile disse: «Ne abbiamo uno orribile a Hobfield».

    Era il suo sergente Ruth Bayliss, una donna che di solito non era incline alle esagerazioni, quindi se diceva che si trattava di qualcosa di orribile c’era da crederle.

    «Un tizio che è andato a correre al parco col suo cane ha trovato delle dita in un sacchetto di plastica, stamattina presto».

    Calladine recepì l’informazione in silenzio. «Non sarà stato un incidente, immagino», mormorò. Aveva la bocca ancora intorpidita.

    «Direi di no, capo. Secondo il dottor Hoyle le dita sono state rimosse in modo violento e la busta era stata lasciata sul sedile di un’altalena», gli rispose lei. «Mollate lì, apposta perché qualcuno le vedesse».

    «Stai parlando dell’area giochi al margine del parco?».

    «Sì, quella vicina a Leesdon Centre», confermò lei. «Per fortuna sono state trovate subito. S’immagina se le avesse viste un bambino?».

    Quindi… era finita. Quella lunga estate priva di eventi era finita. Una fine scioccante, ma almeno sembrava più normale dello strano limbo di quegli ultimi mesi. Certo, poteva anche essere un caso orrendo, ma lui già sentiva un familiare brivido di eccitazione corrergli lungo la schiena.

    La situazione era stata così tranquilla che alla stazione di polizia avevano cominciato a piovere scommesse su quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il comprensorio di Hobfield esplodesse di nuovo. Non c’erano stati problemi per settimane. Nessun pestaggio, pochissimi arresti, ed erano tutti nervosi. Le cose al lavoro quell’estate erano state così pacifiche, così monotone, che gli era sembrato quasi di viverle in uno stato di dormiveglia.

    Tuttavia, le immagini che quella notizia gli aveva risvegliato nella mente gli fecero accapponare la pelle. Era opera di qualche folle? L’ultimo pazzo che se la prendeva con Hobfield? Era abituato alla brutalità; niente di strano in quel buco infernale. Camminava di pari passo con la cultura delle gang e lo spaccio di droga. Ma questo? Persino per Hobfield era troppo, a dirla tutta. Puzzava di qualcosa di diverso. Di estremo.

    Ma la sparatoria della scorsa primavera non era stata altrettanto estrema? Sperò che non avesse niente a che fare con quella storia.

    Per gran parte della sua carriera, Calladine aveva cercato di mettere ordine a Hobfield. Era un posto avvelenato, pieno di ragazzini senza ambizioni né prospettive. Temeva il giorno in cui uno di loro sarebbe insorto e avrebbe inflitto un duro colpo alla polizia. Temeva l’ascesa di qualcuno di davvero spietato, qualche nuovo leader radicale di una banda che avrebbe sfidato tutte le regole non scritte in base alle quali operavano. Non che ci fosse poi molto da sfidare.

    Non aveva idea di chi potesse essere. Conosceva la maggior parte dei piantagrane della zona. Che fosse uno nuovo, che voleva impossessarsi della corona?

    Il sergente diede voce ai suoi pensieri. «Potrebbe essere collegato alla sparatoria». La donna sapeva che quella conclusione sarebbe stata in cima ai suoi pensieri. «Se così fosse, allora avrebbe potuto darci una tregua. Dio solo sa se non ne avremmo avuto bisogno».

    «Non questo genere di tregua, però». Si era espresso in modo troppo brusco? «Comunque, è troppo presto per saltare alle conclusioni, Ruth. Potrebbe essere qualsiasi cosa. Ma se i due eventi sono collegati, se fosse una specie di regolamento di conti, allora il caso potrebbe esplodere. Però… se si trattasse di qualcos’altro?». Seguì un silenzio durante il quale un brivido gli corse lungo la schiena. Nessuna delle due opzioni sarebbe stata positiva. Un regolamento di conti significava che qualcuno a Hobfield era un passo avanti a lui. D’altro canto, una presa di potere o una guerra territoriale sarebbero state due disgrazie. Entrambe le possibilità rischiavano di trasformarsi in qualcosa di troppo grande per i mezzi a disposizione della polizia locale.

    «Dobbiamo risolvere la questione, e in fretta. La notizia rimbalzerà tra le gang e si faranno una pessima opinione di noi se non ne veniamo a capo velocemente».

    «È possibile che chiunque abbia compiuto quest’ultima atrocità abbia già scoperto il responsabile della morte di quel ragazzo e deciso di venirne a capo da solo», disse Ruth.

    Calladine non era sorpreso che il suo sergente avesse considerato quell’eventualità; era una brava detective. Ma quell’idea non gli sembrava migliore. Se uno dei parassiti di Hobfield aveva risolto il problema, allora perché non c’era riuscito lui?

    Era passato un po’ di tempo da quando il ragazzo era stato ucciso e la pista si era raffreddata. Gli avevano sparato in una notte buia, e la sua giovane vita era uscita dal buco fatto da un solo proiettile, esploso a distanza ravvicinata. Cosa sorprendente, c’erano state solo poche sparatorie in quella zona, quindi la cosa aveva innervosito tutti. Dopo averci rimuginato su per gran parte dell’estate, la polizia aveva dedotto che si era trattato di una scalata al potere finita male.

    Calladine non credeva che fosse andata così. Il ragazzo non era membro di una gang, tanto per cominciare. Era un grattacapo davvero noioso. Tutto troppo pulito: non c’erano prove, niente che fosse rimasto sulla scena del crimine. Si era trattato di un puro colpo di fortuna per chi aveva portato a termine l’omicidio – chiunque fosse stato –, oppure di qualcosa di più sinistro?

    Strano a dirsi considerando che stavano parlando di Hobfield, ma sembrava che la vittima, Richard Pope, fosse un bravo ragazzo, quindi perché qualcuno avrebbe dovuto volerlo morto? Quella domanda non aveva avuto risposta. Perché era diventato un obiettivo? Viveva in un ambiente innocuo, non si era mai cacciato in guai seri, non aveva mai attirato l’attenzione su di sé. Calladine non riusciva a pensare a un candidato meno idoneo come vittima di un omicidio.

    Il fatto che, dopo settimane, non si fossero ancora nemmeno avvicinati alla soluzione lo irritava. Nessuno aveva visto niente, ovviamente, e nessuno poteva fornire qualche informazione utile sul conto del morto. La sua squadra si era dedicata anima e corpo alle indagini e, pur essendo trascorsi sei mesi, non aveva ottenuto un bel niente. Niente testimoni e niente prove (a parte il proiettile). Quel fallimento deprimeva e infastidiva Calladine.

    E per quanto riguardava Hobfield, curioso a dirsi, c’era stata una sorta di pace innaturale tra le differenti fazioni per tutta l’estate. La cosa era parsa alquanto strana.

    Doveva scoprire cosa stava accadendo, e in fretta. Il suggerimento di Ruth, secondo cui qualcuno aveva raggiunto un risultato che lui non era stato capace di ottenere, e aveva quindi preteso vendetta, lo faceva rabbrividire.

    «Okay, Ruth, non sono lontano. Dove ti trovi adesso?»

    «Sono all’ingresso del parco, dalla parte di Circle Road, signore. Ho fatto recintare l’area, ma sto cercando di non attirare troppe attenzioni. Se siamo fortunati, i curiosi penseranno che si tratta dell’ennesima macchina bruciata». Fece una risata sardonica. «Il dottor Hoyle è venuto e se n’è andato. Ha portato sia la busta che le dita all’obitorio. L’ho detto a Julian, così potrà occuparsi della busta».

    Il sergente Ruth Bayliss si allontanò dal resto del gruppo. «La Scientifica sta perlustrando tutto, cercano impronte digitali nelle immediate vicinanze, e ho chiesto a Dodgy di bussare a tutte le porte di Circle Road». Dodgy era il detective Michael Dodgson, l’ultimo a essere stato reclutato nella squadra. «Sono arrivata prima che venisse alterata la scena del ritrovamento», disse Ruth a Calladine. «La busta era poggiata lì, sull’altalena. Chiunque ce l’ha lasciata, di sicuro voleva che la trovassimo… e ne parlassimo».

    «Dobbiamo impedirlo, almeno per il momento. Parla con il tizio che l’ha trovata. Non voglio che la notizia arrivi alle orecchie della stampa».

    «Già fatto, signore. A quanto pare è un avvocato, quindi ha capito perché deve tenere la bocca chiusa».

    «Raccogli le sue dichiarazioni. Ha notato qualcosa, qualcuno che si aggirava nei paraggi?»

    «Dice di no, ma ha visto l’autobus delle sette e un quarto per Manchester passare lungo la strada, e dice che era pieno. Qualcuno dei passeggeri potrebbe averli visti. Se mettessimo una specie di annuncio, un appello? Senza troppi dettagli».

    Calladine non ne era entusiasta. Finché non avesse capito che stava succedendo, non voleva il coinvolgimento della stampa.

    «Non ancora. Te la sei cavata bene, ottimo lavoro. Controlla se ci sono telecamere a circuito chiuso, soprattutto lungo la fila di negozi all’inizio della strada, poi ci vediamo all’obitorio, così sentiamo che cosa ha da dirci il dottor Hoyle».

    Sospirò. La prospettiva di avere un caso su cui lavorare, dopo la lunga pausa estiva, poteva anche essere eccitante, ma il fatto che ci fosse qualcuno a Hobfield che cercava di vendicare un omicidio, o che si stesse per scatenare una nuova guerra tra gli spacciatori non lo riempiva di certo di gioia. Hobfield era una merda, praticamente l’incarnazione di tutto ciò che c’era di malvagio in tutta la zona. Non era il posto in cui condurre un’indagine soddisfacente.

    L’insegna sulla strada che indicava l’ingresso a Leesdon diceva Leesdon Village, ma village era un nome poco adatto.

    Quel posto era troppo esteso e edificato per meritarsi quella particolare definizione.

    Calladine aveva visto nascere Leesdon, lo aveva visto prosperare brevemente negli anni Settanta e poi subire un crollo spettacolare subito dopo la costruzione di Hobfield.

    Sin dalla metà degli anni Ottanta, l’area era in costante caduta libera. Calladine pensava che fosse un gran peccato, perché si trovava proprio al centro di una zona di campagna fantastica.

    Era lì che Calladine aveva vissuto. Era nato e cresciuto a Leesdon e ora abitava in un piccolo cottage a due passi da High Street.

    Leesdon era uno dei paesini complessivamente conosciuti come Leesworth, alle pendici dei monti Pennini, e imbevuti di storia industriale. Pittoreschi cottage di pietra bordavano le strade. L’antico lanificio, una volta principale fonte di impiego, era stato da tempo trasformato in un complesso di costosi appartamenti. A comprarli erano stati gli uomini d’affari, tizi che lavoravano tantissimo ed erano felici di andare e venire ogni giorno da Manchester e disposti a pagare un occhio della testa per una casa delle dimensioni di un fazzoletto da taschino.

    Ma a Leesdon non c’era stata nessuna riqualificazione. Leesdon era l’eccezione.

    Una volta costruito il complesso di Hobfield, non c’era stata più l’ombra dello sviluppo. Il paesino era condannato a essere l’eterno parente povero di un’altra area più desiderabile, di fascia più alta. La notizia della dubbia reputazione di Hobfield si era diffusa e gli investitori erano rimasti alla larga.

    Non c’erano servizi, né abbastanza negozi; nessuna delle grandi catene e per una ventina d’anni non c’era stata nemmeno una banca, dopo che un pazzo aveva provato a rapinarla.

    Ma la stazione di polizia di Leesworth era rimasta; la sua stessa prigione, il posto in cui avrebbe consumato il resto del suo tempo come membro delle forze dell’ordine. E, naturalmente, c’era anche l’ospedale che serviva la zona e i dintorni. Calladine era diretto lì.

    Il Cottage Hospital, così veniva ancora affettuosamente chiamato, era dotato di una piccola area per le emergenze, di alcuni reparti, e di un obitorio.

    Sperava che Hoyle potesse fornirgli qualcosa di utile. Dopo la sparatoria non si era avuto più nulla, e Calladine lo conosceva abbastanza per sapere che viveva quella storia come un fallimento, esattamente quanto lui.

    Il dottor Sebastian Hoyle era in tutto e per tutto membro della vecchia scuola. Avrebbe potuto fare carriera trasferendosi in un ospedale più grande, nell’area metropolitana di Manchester, ma non l’aveva fatto. Proprio come Calladine, era rimasto saldamente radicato a Leesdon. Questo creava un profondo legame tra i due uomini.

    Non appena entrò, Calladine vide il sergente Ruth Bayliss misurare a grandi passi il parcheggio, parlando al telefono mentre lo aspettava. Per combattere il freddo si era avvolta nel lungo cappotto di lana e nella sciarpa. Nessuno dei due le faceva giustizia. Ruth non seguiva la moda, indossava semplicemente ciò che la faceva sentire più comoda. Si copriva più che poteva e coloro che la conoscevano bene sapevano che ci teneva alla linea, e questo influenzava la sua percezionde di sé. Ma la verità era che era tutto lì. Sarebbe bastato un taglio di capelli diverso e un po’ di trucco per renderla uno schianto. Ruth aveva i lineamenti delicati e un incarnato chiaro. Se avesse perso un po’ di peso e cambiato atteggiamento avrebbe potuto dare del filo da torcere a qualunque donna.

    Calladine parcheggiò la piccola berlina e annuì quando lei lo salutò con un cenno. Era il suo sergente da anni e andavano d’amore e d’accordo. Ruth a volte lo criticava aspramente per le sue idee e i suoi metodi, ma lui sapeva che lo considerava bravo nel suo lavoro. E non avrebbe potuto pensare il contrario, d’altronde: la sua squadra deteneva il record per numero di criminali mandati in galera.

    E poi era un bell’uomo, cosa di cui lui stesso era consapevole. Non che fosse vanitoso, ma secondo sua madre, che era la sua più grande fan, aveva bei tratti spigolosi che si adattavano alla perfezione ai suoi capelli scuri. Quando era più giovane, Ruth lo aveva paragonato a questa o quella star, suscitando fin troppa ilarità tra i suoi amici e facendolo sentire quindi a disagio. La pensava ancora così, si chiese lui, anche adesso che i suoi lunghi capelli scuri erano stati tagliati e stavano diventando grigi? Molte delle cose che aveva detto allora, adesso apparivano come delle stupidaggini.

    La stima era reciproca. A Calladine piaceva lavorare con Ruth, un tipo con cui era facile andare d’accordo, capace nel suo lavoro. Si fidava di lei. Era una donna molto pratica, una grande risorsa per tutta la sua squadra. Oltre a lavorare insieme, avevano anche degli amici in comune. Ruth era stata brevemente sposata con il fratello di Monika, una ragazza con cui aveva avuto una relazione intermittente. Insieme al suo modo diretto di parlare, questo le conferiva un’intimità con l’ispettore che nessun altro aveva. Gli dava spesso dei consigli, e andava sempre dritta al sodo. Calladine era senza speranza in tutte le questioni in cui c’erano di mezzo le donne, un fallimento di cui era ben consapevole, e di tanto in tanto si rivolgeva a Ruth in cerca di una mano.

    Nonostante ciò, sapeva pochissimo della vita privata di lei. Se gli assomigliava un po’, pensava, era maledettamente fortunata se ne aveva una.

    Tuttavia Calladine non poteva non chiedersi come avesse fatto ad arrivare a trentacinque anni senza alcun legame. Con ogni probabilità troppo intelligente per la maggior parte degli uomini: vedeva attraverso le persone, dritto ai loro difetti.

    «Julian dice di avere qualcosa per noi», gli disse con un sorriso, mentre lui le andava incontro. «Pare che possa darci delle informazioni molto utili sulla busta di plastica».

    Calladine annuì, affondando le mani nelle tasche del cappotto per resistere al vento gelido. Non appena l’estate era finita, il freddo si era imposto. Rabbrividì, sentendo una fitta alla guancia. Aveva delle domande, un sacco di domande, ma sentiva la bocca ancora intorpidita e non era certo che la lingua e le labbra avrebbero funzionato a dovere.

    «Non se l’è dimenticato, vero?», gli chiese Ruth. «Il compleanno di Monika; mi aveva detto di ricordarglielo».

    Calladine imprecò a mezza voce. Non se l’era esattamente dimenticato, ma non gli era venuta in mente neppure un’idea.

    «Fiori?», mormorò.

    «Dovrebbe sforzarsi di fare qualcosa di più. Sta cercando di far funzionare le cose, di nuovo». Inarcò un sopracciglio. «Pensi a qualcosa che le piace, qualcosa che la appassiona».

    Calladine sapeva che a volte Ruth perdeva le speranze con lui. Monika non pretendeva molto, perciò, almeno per il suo compleanno, avrebbe potuto regalarle qualcosa che lei potesse apprezzare.

    Si strinse nelle spalle. «Che vuoi dire? Per quel che ne so, ciò che la appassiona davvero è il suo lavoro, proprio come me». Monika era la dirigente della casa di cura in cui viveva sua madre. Quando non lavorava, di solito si buttava esausta sul divano del proprio appartamento. Nelle rare occasioni in cui erano entrambi liberi uscivano a mangiare qualcosa o a vedere un film. Forse era per questo che la loro relazione era tanto traballante.

    «Senti, Tom, è tempo che tu prenda una decisione. Vuoi davvero che le cose tra di voi funzionino? Quello che stai facendo è giocare con i suoi sentimenti, è non è giusto. La domanda è semplice: la vuoi o non la vuoi?».

    La verità era che non lo sapeva. Ruth sembrava credere che Monika fosse la donna giusta per lui, quindi perché tutti quei dubbi? Stare tutto il giorno a pensare a un regalo lo avrebbe infastidito; non era bravo con quel genere di cose. Perché doveva essere tutto così maledettamente difficile? Era una donna, giusto? Quindi che c’era di sbagliato nei fiori, magari un bel mazzo?

    «Non prenderle i fiori; punta su qualcosa di più personale, magari un gioiello». A quel punto stavano procedendo lungo il corridoio dell’ospedale. «Che cosa le piace?»

    «Le piacciono quelle pietre blu».

    «Gli zaffiri?», chiese Ruth speranzosa.

    «No, quelle blu ma tendenti al verde, tipo delle pietroline».

    «Giada?»

    «No… sono turchesi, sì, ecco, turchesi». Era soddisfatto di esserselo ricordato. «Posso fare un salto in gioielleria, quella piccola che c’è in città, al ritorno».

    «Faresti meglio ad andare da Antiques Centre, hai presente, quello dopo la circonvallazione. Ho visto dei bei gioielli vintage lì».

    Non era una cattiva pensata; era lungo la strada, sempre che avesse fatto in tempo a trovarlo ancora aperto.

    «E vedi di schiarirti le idee, okay? Tutta questa indecisione non è un bene. Monika e tu… state bene insieme». Quelle parole furono accompagnate da una fitta al petto.

    Stare bene insieme era abbastanza? Non ci sarebbe dovuto essere qualcosa di più, una scintilla d’eccitazione almeno?

    «Ti sei fatto togliere il dente, eh?». Ruth sorrise, guardandogli il labbro gonfio. «Ho degli antidolorifici nell’armadietto, se dovessero servirti».

    Avevano raggiunto l’obitorio e la conversazione si spostò su questioni più professionali.

    «Di che stiamo parlando, Ruth? È una punizione, una vendetta, o il nostro peggior incubo?». Calladine si massaggiò la guancia, cercando di risvegliarla.

    «Si tratta di qualcosa di diverso, questo è sicuro. Abbiamo visto un sacco di pestaggi, mucchi di corpi pieni di lividi buttati in ospedale, ma mai niente di simile».

    Qualcosa di nuovo, quindi, o forse qualcuno. L’angosciante prospettiva di un violenta guerra territoriale a Hobfield incombeva costantemente, come un fantasma, in un angolo della sua mente. Pensava che potesse trattarsi di questo ogni volta che accadeva qualcosa che non riusciva a spiegarsi, come adesso. Se uno dei teppisti decideva di darle davvero il via, allora le pistole sarebbero state sfoderate in un attimo, come aveva dimostrato la sparatoria. Erano solo a pochi chilometri di distanza da Manchester.

    A portare la droga agli spacciatori di Hobfield era un solo uomo, Ray Fallon. Fallon. Bastava quel nome a farlo rabbrividire. La squadra di Manchester Central lo stava tenendo d’occhio, ma forse qualcosa era andato storto… Fallon aveva fatto un errore? Si era per caso aperta una breccia nel mercato?

    «Ho una brutta sensazione». Rabbrividì. «Di solito tra le gang si verificano scontri improvvisi, frutto di una lite o di un problema legato al territorio. Le gang combattono e reagiscono. Non tagliano dita. Non credo che si tratti di una guerra interna o di una dura lezione di buone maniere da parte di Fallon nei confronti di qualche bastardo impertinente. Fallon avrebbe semplicemente chiesto a uno dei suoi scagnozzi di picchiare il colpevole con una mazza da baseball. E se qualcuno fosse rimasto ucciso, non avremmo mai trovato il corpo».

    Ruth gli rivolse un’occhiata. Calladine non aveva tutti i torti; quella faccenda poteva essere legata alla droga più di qualsiasi altra. Era così che funzionavano le cose a Hobfield.

    «Sapere a chi appartengono le dita potrebbe essere un inizio».

    Calladine annuì. «O a chi appartenevano, Ruth». Rimasero fermi davanti la porta dell’obitorio. «Ma controlliamo il pronto soccorso dal momento che siamo qui. Guarda se viene qualcuno. Spero di sbagliarmi, ma il proprietario di queste dita, chiunque sia o sia stato quel povero bastardo, adesso probabilmente è morto».

    In silenzio, Calladine lesse un infinito elenco di nomi. Ma l’istinto gli diceva che non sarebbe finita con quelle dita. Una volta che la notizia fosse trapelata, gli spacciatori avrebbero preteso un castigo, gli uni per gli altri. E per Fallon.

    «Salve, Tom. Sergente Bayliss», li salutò Hoyle quando entrarono nell’obitorio. Fece un cenno in direzione delle dita, allineate su un tavolo di fronte a loro.

    Era una scena tanto macabra quanto strana. Calladine era più abituato a vedere dei corpi interi distesi là sopra. La vista di quelle dita staccate, così come il pensiero di come erano state ridotte così, lo fece rabbrividire.

    «Cominciava a mancarmi la vostra compagnia in queste ultime settimane». Fece un cenno del capo. «Già, un’estate tranquilla. Mi chiedevo se sarebbe mai finita… Ho passato la maggior parte del tempo a fare delle ricerche. Prima o poi ve le farò leggere; potrebbero interessarti, Tom. Riguardano il modo in cui era possibile stabilire con maggiore esattezza l’ora del decesso di un corpo esaminando i batteri esogeni che contiene. Per esempio, qualsiasi cosa sia stato lasciato da mosche, insetti e roba così».

    «Dovresti andare a giocare a golf ogni tanto, Doc. O magari venire a berti una birra con noi. Insomma, rallentare un po’».

    Hoyle scoppiò a ridere e scosse la testa quasi calva, stupito che quel consiglio venisse proprio dal detective Calladine, che era drogato di lavoro.

    «Julian mi ha portato la busta, che ci fornisce alcuni elementi interessanti», gli disse il medico. «È una busta di plastica da supermercato e c’era uno scontrino dentro. Julian ve ne parlerà alla stazione di polizia. Non dovreste avere problemi a tracciarlo. Vedremo anche se ci sono delle tracce del contenuto della busta».

    Era un buon inizio, che lasciava pensare a un esecutore un po’ distratto, il che per loro era un bene.

    «Maschio. In stato di decomposizione». Stavano guardando le dita. «Ma non troppo. Non devono essere rimaste lì a lungo. Vedete», indicò i polpastrelli con una matita, «hanno appena cominciato ad annerirsi. Ma ne saprò di più una volta che avrò fatto tutti gli esami. Se c’è qualcosa nei nostri archivi, allora il dna vi dirà a chi appartengono».

    «Impronte?»

    «Sei un po’ pretenzioso, Tom, ma magari riesco a rintracciarne almeno una parte».

    «Mi servono questi risultati il prima possibile, Doc, se voglio scoprire di chi sono queste dita. Le impronte e il dna è tutto ciò che ho per farlo».

    «Oh, invece credo che tu abbia anche qualcos’altro, Tom. Guarda». Indicò dei deboli segni proprio sopra la nocca di una delle dita. «Dei tatuaggi, penso».

    «Puoi decifrarli?»

    «Mi conosci. Farò del mio meglio». Il dottore sorrise.

    «Qualsiasi cosa potrebbe esserci utile, Doc. Devo scoprire chi è o chi era questo poveraccio il prima possibile».

    «Questi poveracci, Tom», lo corresse Hoyle. «Le dita non appartengono tutte allo stesso individuo».

    «Ne sei sicuro?». Sorpreso, Calladine si chinò a guardare più da vicino quei disgustosi resti.

    «Contale». Hoyle fece un cenno del capo. «Ci sono tre pollici e nove dita». Il medico legale si strinse nelle spalle. «Al mio paese questo significa che dobbiamo cercare almeno due vittime».

    Capitolo 3

    «Voglio tutta la squadra in sala riunioni tra cinque minuti».

    Calladine si tolse il cappotto e lo gettò sullo schienale della sedia del suo ufficio. Rovistò nel cassetto della scrivania per qualche istante e infine ne tirò fuori un fascicolo etichettato Sparatoria.

    Non c’era molto: il nome della vittima, Richard Pope, e qualche informazione sulla sua famiglia. Era figlio unico, i suoi genitori erano piuttosto anziani, ed era rimasto sempre pulito. Non c’era traccia di lui negli archivi della polizia, nemmeno una segnalazione. Non era il tipo, insomma, da farsi sparare. Era stato uno come tanti, ma allora perché?

    Calladine si massaggiò la guancia dolorante. Dopo tutti quei mesi ancora non avevano scoperto chi erano i suoi amici, con chi parlava… se parlava con qualcuno. Avevano chiesto in giro, ma non era venuto fuori niente. Calladine non credeva che appartenesse a qualche gang, ma forse si era sbagliato.

    Dacché si ricordava aveva sempre avuto paura di svegliarsi una mattina e ritrovarsi nel bel mezzo di una guerra di quartiere. Quella storia delle dita era forse l’inizio di un incubo del genere? Se così fosse stato, allora che c’entrava

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