I love Milano
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Anteprima del libro
I love Milano - Marina Moioli
COLOPHON
Prima edizione: ottobre 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Illustrazioni di: Thomas Bires, Toni Bruno, Federico Fieni, Giovanna Niro, Michele Penco, Fabio Piacentini
ISBN 978-88-541-8222-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di 8x8 Srl
Stampato nell’ottobre 2015 presso Mondo Stampa s.r.l., Roma
e allestito presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
FRONTESPIZIO
DEDICA
«Milano è come la punta di un iceberg. Sotto c’è la sua storia».
Aldo Nove
Ai miei Maestri:
Salvatore Guglielmino, Vincenzo Galleani, Giampaolo Martelli
INTRODUZIONE
«Sapessi com’è strano sentirsi innamorati a Milano» cantavano nel 1965 Memo Remigi e Ornella Vanoni. Oggi quel celebre ritornello andrebbe aggiornato in un: «Sapessi com’è strano sentirsi innamorati di Milano». Infatti, anche se nel frattempo la città senza cielo, senza verde, senza niente
è molto cambiata e negli ultimi anni ha fatto di tutto per cercare di conquistarsi il titolo di New York in miniatura, sono ancora pochi i veri innamorati di Milano
. Tanto che qualcuno ha sentito perfino il bisogno di inventarsi un intelligente blog fotografico dall’autoironico titolo Milano non fa schifo
. Sì, perché sono in molti quelli che l’hanno sempre criticata dicendo che è brutta, sporca, e forse (da Tangentopoli ai giorni nostri) anche un po’ cattiva. E molti coloro che la trovano fredda, scostante, antipatica. Una volta l’ex direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio De Bortoli scrisse questa illuminante definizione: «Milano ama il profilo basso. Può sembrare anonima ma non è mai banale. Non eccede in nulla, se non nella scarsa consapevolezza della propria storia e del proprio ruolo. I milanesi tendono a sottovalutarla, a tradirla nei fine settimana. Ad abitarla ma non a viverla». Forse perché, come ha acutamente sottolineato lo scrittore Luca Doninelli su «Il Giornale»: «Milano ha un’altra storia, e non ha mai avuto la necessità di rendere visibile la sua bellezza: per questo anche i suoi cittadini, oggi come ieri, la ignorano». La città dell’Expo 2015, insomma, ha fatto di tutto in passato per non piacere e non farsi amare. Tanto che può sembrare ancora attuale quello che scrisse nel 1288 il primo cronista milanese, Bonvesin de la Riva, nel suo Elogio di Milano: «Essendomi accorto che non solo gli stranieri, ma persino i miei concittadini, come addormentati nel deserto dell’ignoranza, ignorano la grandezza di Milano, stimai doversi venir loro in aiuto, affinché svegliati, veggano e comprendano quale, e di tanta ammirazione degna, sia la nostra città».
Senza sperare di avere altrettanta fortuna, anch’io, da cronista del terzo millennio, vorrei provare a tracciare un ritratto della città italiana più cosmopolita, multietnica e accogliente
. Che negli ultimi anni ha cambiato fisionomia grazie a nuove avveniristiche costruzioni, ma che un tempo fece innamorare il francese Stendhal (tanto che sulla sua tomba volle incise le parole «Arrigo Beyle, milanese») e dire al siciliano Giovanni Verga (che già l’aveva definita «città più città d’Italia»): «Sì, Milano è proprio bella, amico mio. Provasi davvero la febbre di fare in mezzo a cotesta folla briosa, seducente, che ti si aggira intorno. E credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni». E se il veneto Guido Piovene la battezzò acutamente «un’America senza crudeltà», è del toscano Indro Montanelli il riconoscimento più struggente del miglior pregio di Milano: «Mi ha dato una patria e la sensazione di appartenervi».
Ecco perché questa guida non è solo un Amarcord dei personaggi del passato (con qualche eccezione, fortunatamente ancora attivissima) che hanno reso grande Milano (e che in molti casi non erano neppure milanesi), ma anche una mappa preziosa per andare a cercare le tracce più sorprendenti della storia e del presente. Guidati da una sola certezza: una città non è solo ciò che riusciamo a vedere ma anche e soprattutto quello che vogliamo immaginare. E io, che sono certamente di parte e che amo Milano così com’è oggi e com’era una volta, sono convinta che ognuno possa costruirsi la sua città su misura. Una città dell’anima da andare a scoprire con curiosità e – perché no – con amore. Per poter finalmente dire: «I love Milano».
La casa di Manzoni, riaperta al pubblico nell’ottobre 2015, è un simbolo della bellezza di Milano del passato e del presente.
I personaggi
Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del Duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi
Ambrogio, il patrono venuto da lontano
Tutti sanno che sant’Ambrogio è il patrono di Milano e che il 7 dicembre è la sua festa, ma pochi si ricordano perché quel giorno dell’anno 374 sia stata una data fatidica per la città. Secondo la leggenda, in una delle chiese milanesi cattolici e ariani discutevano sulla successione del vescovo Aussenzio (ariano) che era da poco scomparso. Le due fazioni contrapposte creavano qualche problema anche per l’ordine pubblico. Per questo Ambrogio, che era all’epoca il console imperiale della città, era presente per calmare gli animi e propiziare la scelta del nuovo vescovo. La tradizione vuole che a un certo punto qualcuno, forse un bambino, gridasse il suo nome e l’intera assemblea lo invocasse. Tutti sembravano d’accordo meno il diretto interessato. Tanto che, sempre secondo la tradizione, Ambrogio tentò per ben tre volte (come l’apostolo Pietro quando rinnegò Gesù lungo il Calvario) di fuggire da Milano e dalla pesante responsabilità che il popolo milanese gli voleva addossare
. La prima volta cavalcando in direzione di Pavia con la sua mula Betta. La seconda puntando verso Magenta, incitando l’animale con un «Corr, Betta corr», che viene ricordato come l’origine del toponimo di Corbetta. La terza volta, sempre secondo la leggenda, Ambrogio si diresse verso Roma, raggiunta in una sola notte. E proprio durante quel viaggio il patrono di Milano si sarebbe imbattuto in uno dei chiodi della Santa Croce, oggi conservato in Duomo.
Ma, al di là delle leggende, ad Ambrogio i milanesi devono molto più del nome di ambrosiani
che deriva proprio dal latino Ambrosius. Nato a Treviri, in Germania, nel 339, da genitori di fede cristiana, nell’anno 370 era giunto in città dalla Pannonia (regione che corrisponde a una parte dell’attuale Ungheria) come governatore della Provincia Emilia-Liguria. Era un uomo al di sopra delle parti e delle fazioni, aveva costantemente l’occhio rivolto al bene della popolazione, non escludendo nessuno, specialmente i poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò la stima e l’affetto sincero di tutti, senza distinzione di ceto.
In ambito religioso, unificò la liturgia (il cosiddetto Rito ambrosiano
), diede impulso al monachesimo e compose diversi inni sacri per voci miste. Ma la sua grandezza in campo politico la dimostrò nel coraggio con cui seppe opporsi al potere temporale degli imperatori, convincendo Teodosio a dichiarare il Cristianesimo religione di Stato. Inoltre donò i suoi beni alla Chiesa milanese e ogni giorno diceva la Messa per i fedeli dedicandosi poi al loro servizio per ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi. È rimasto famoso il suo comportamento quando i barbari calati dal Nord Europa sequestrarono, in una delle loro razzie, uomini, donne e bambini. Ambrogio non esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E agli ariani che lo criticavano, rispose: «Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo».
Spirò a Milano nel 397, poco dopo aver detto: «Non ho paura di morire, perché abbiamo un Signore buono!». Le sue spoglie sono conservate nella cripta della basilica che porta il suo nome, accanto a quelle dei martiri Gervaso e Protaso.
Ritratto di Sant’Ambrogio, il patrono di Milano.
Ariberto d’Intimiano, il vescovo del Carroccio
Alzi la mano chi oggi si ricorda di lui. Eppure il vescovo Ariberto ha un posto speciale nella storia milanese. Nato tra il 970 e il 980, apparteneva a una potente famiglia feudale della Brianza che controllava la corte d’Intimiano, presso Cantù. Il 29 marzo 1018, con l’appoggio dei capitanei milanesi, che erano la fascia superiore dei vassalli, venne eletto arcivescovo. Ambizioso ma dotato di grandi capacità di mediazione, durante il suo episcopato innalzò moltissimo il prestigio della Chiesa ambrosiana, grazie a un programma di tutela delle sue prerogative, alla ricostruzione del patrimonio ecclesiastico insidiato dai feudatari e all’affermazione dell’autorità del vescovo. Ariberto fu un uomo di Chiesa ma anche di potere, e in più esercitò anche un importante ruolo di mecenate, grazie alla sua grande cultura e al suo gusto raffinato. Nell’
xi
secolo, infatti, Milano era famosa soprattutto per i suoi orafi e in tutta Europa era considerata come uno dei massimi centri artistici. Perfino gli imperatori dovettero riconoscere al vescovo un primato sugli altri prelati italiani, facendogli concessioni giuridiche e patrimoniali. Almeno finché Corrado
ii
il Salico, geloso del potere che Intimiano aveva conquistato, non lo fece imprigionare, dichiarandolo ribelle e decaduto, e convincendo papa Benedetto
ix
a scomunicarlo. Fu in quel periodo che Aribertò unì armati a sua difesa e costruì il Carroccio, un grande carro con una campana (detta Martinella
) che dava il segnale di battaglia e fungeva da centro di comando. Era trainato da buoi che portavano finimenti di cuoio e gualdrappe colorate, e veniva difeso strenuamente perché era considerato segno di grande sciagura lasciarlo cadere in mano nemica. La funzione di incitamento psicologico ai combattenti del Carroccio durò fino al Quattrocento.
Nel 1040, alla morte di Corrado il Salico Ariberto si riconciliò con il suo successore Enrico
iii
. Due anni più tardi ci fu un’insurrezione dei cittadini milanesi contro la nobiltà e Ariberto fu costretto a rifugiarsi a Monza. A Milano rientrò solo nel 1044, quando fu conclusa la pace, ma morì il 16 gennaio 1045.
Bonvesin De La Riva, il primo cronista
Bonvesin è stato uno degli scrittori più sfacciati della Storia. Si prese la briga di raccontare questa città da favola, grande, ricca, straordinariamente autosufficiente, in una stagione in cui i milanesi si scannavano tra di loro. E il bello è che non ha raccontato favole, perché quello che lui scrive è tutto puntigliosamente vero. Contabilmente rendicontato […].
Così scrive il curatore Giuseppe Frangi nella prefazione della bellissima mostra Tutti i colori tranne il grigio. La meravigliosa Milano di Bonvesin De La Riva, allestita nel corso del 2015 a Casa Testori di Novate Milanese. Una mostra che ha avuto il grande merito di riaccendere i riflettori sulla figura di colui che di Milano è stato il primo cronista. E forse il primo consapevole innamorato
. Alla sua città – nel volume De magnalibus urbis Mediolani – lasciò questo viatico
ancora oggi validissimo:
La libertà di cui questa città è per natura dotata è tanto grande, e tanto forte è la protezione dei santi che qui hanno sepoltura, che non vi è dominio di tiranno straniero che possa occuparla a lungo, se non nel consenso dei cittadini; e ben lo si è visto ai nostri giorni. Nessun tiranno osi dunque preparare qui una sede per il proprio dominio: scoprirà quanto sia viscida la coda di questa anguilla.
Maestro di grammatica e poeta in volgare, Bonvesin De La Riva (la Riva sarebbe quella di Porta Ticinese) era nato prima del 1250, ma di lui sappiamo poco, se non che era un terziario dell’ordine degli Umiliati, membro laico della confraternita che si dedicava a soccorrere poveri e ammalati. La tradizione conferma che si sposò con una donna chiamata Banghedice, rimase vedovo e si maritò una seconda volta con una certa Floramonte, però né dall’una né dall’altra ebbe figli. Sappiamo che visse una vita agiata e che fu proprietario di alcuni immobili, come documentano i due testamenti rimastici. Partecipò all’amministrazione di varie istituzioni di carità; attività questa che si riscontra in una delle sue opere, il Vulgare de elymosinis. Nel 1288 Bonvesin scrisse il De magnalibus urbis Mediolani, il suo libro più celebre. Si compone di otto capitoli, tutti rappresentativi dell’orgoglio dell’Italia medievale dei Comuni, dove esalta Milano per le sue specificità: la sua posizione, le sue abitazioni, i suoi abitanti, la sua fertilità, la sua forza, la sua libertà, la sua dignità. Il libro venne ritrovato casualmente nel 1894 da un grande storico e letterato, Francesco Novati, negli scaffali della Biblioteca Nacional de España di Madrid: si tratta tuttavia non dell’originale, bensì di una copia manoscritta, redatta da Gervasio Corio intorno al 1381. Dell’opera, che Novati stesso diede alle stampe nel 1898, sino a quel momento si conosceva l’esistenza solo grazie alle numerosissime citazioni degli autori di epoche successive, come quella di Pietro Filargo nel discorso di investitura a granduca di Gian Galeazzo Visconti nel 1395. Non a caso, lo stesso Bonvesin si schierò con Visconti contro i Della Torre.
Morì intorno al 1315 e venne sepolto, per sua volontà, nel chiostro della chiesa di San Francesco Grande, demolita nel 1806 per far posto all’attuale caserma Garibaldi. La sua tomba non esiste più, ma è arrivata fino a noi la trascrizione settecentesca di un’epigrafe in latino che conferma dati noti sull’autore e rivela un’informazione interessante: l’usanza di far suonare le campane per l’Ave Maria si deve proprio a Bonvesin.
Gian Galeazzo Visconti, il primo duca
L’11 maggio 1395 è un’altra data importante per Milano. Quel giorno, infatti, l’imperatore Venceslao concesse a Gian Galeazzo Visconti e ai suoi discendenti l’investitura a duca di Milano (Dux Mediolani) al prezzo di centomila fiorini. E un anno dopo arrivò anche il titolo di conte di Pavia. In questo modo Gian Galeazzo diventò vassallo dell’imperatore e poté fregiarsi sullo stemma ducale dell’insegna imperiale con l’aquila. La solenne cerimonia di investitura avvenne il 5 settembre 1395 in Sant’Ambrogio.
Gian Galeazzo proveniva da una famiglia che aveva ottenuto il capitanato
di Marliano (odierna Mariano Comense) e la funzione pubblica di visconti
, cioè vicari del conte. L’incarico, ereditario per tutta la discendenza maschile, diede poi il nome all’intera casata. Nato a Pavia il 16 ottobre 1351, figlio di Galeazzo
ii
e di Bianca di Savoia, era stato destinato a soli nove anni ad andare in sposo alla dodicenne Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni
ii
. Dal matrimonio, combinato da Galeazzo Visconti per allearsi alla potente casata francese che si era impoverita a causa della Guerra dei Cent’anni, nacquero quattro figli, tutti destinati a morire in tenera età tranne una, Valentina, che sarà cresciuta dalla nonna a Pavia e poi sposerà Luigi di Valois, duca di Orleans. La madre Isabella di Valois – che aveva portato in dote al marito il titolo di conte di Virtù
, dal nome del possedimento di Vertus, nella regione dello Champagne – nel 1372 morì in seguito alle conseguenze dell’ultimo parto e Gian Galeazzo si risposò con la cugina Caterina Visconti, figlia del signore di Milano Bernabò, da cui ebbe altri due figli maschi.
Di carattere forte, ambizioso ma dotato anche di grande cultura, Gian Galeazzo fu una delle figure più importanti della sua epoca. Nel 1380 assecondò lo zio Bernabò nella lotta contro i veneziani, ma ben presto cominciò a entrare apertamente in competizione con lui per la gestione del potere e riuscì a impadronirsi della città con l’astuzia. Il 6 maggio del 1385 invitò infatti lo zio a una scampagnata al santuario della Madonna del Monte, vicino a Varese, facendosi accompagnare da una nutrita scorta di guardie armate. Bernabò arrivò al luogo designato per mettersi in cammino, senza sospettare nulla, ma quando scese da cavallo per salutare il nipote, venne circondato dai soldati del secondo e arrestato, senza alcuna possibilità di reagire. Stessa sorte toccò ai suoi figli, Ludovico e Rodolfo. E dopo aver rinchiuso Bernabò nel castello di Trezzo d’Adda, per non correre più alcun rischio Gian Galeazzo lo fece avvelenare.
Il primo duca di Milano non è però passato alla Storia solo per la sua spregiudicatezza politica. Suo grande merito fu di aver dato il via ai lavori di edificazione del Duomo di Milano, per cui fece arrivare da tutta Europa i più valenti artigiani dell’epoca. Morì di peste, il 3 settembre 1402 nel castello di Melegnano, dove si era rifugiato nella speranza, vana, di sfuggire al contagio. I funerali, grandiosi, durarono ben quattordici ore e furono celebrati a Milano il 20 ottobre. Per sua volontà riposa nella Certosa di Pavia, da lui fatta erigere nel 1396, mentre il suo cuore è conservato, sempre nella natia Pavia, ma nella basilica di San Michele Maggiore.
Anche se si chiama Castello Sforzesco, la sua edificazione iniziò sotto i Visconti.
Francesco Sforza, il trionfatore
L’arrivo a Milano della casata degli Sforza si deve a questo capitano di ventura nato nel 1401 a San Miniato, tra Firenze e Pisa. Era figlio di un agiato contadino che aveva abbracciato il mestiere delle armi (Muzio Attendolo) e che era soprannominato Sforza
per la sua prepotenza e la sua vigoria fisica. Anche se non ci sono molte notizie sulla sua infanzia, una cosa certa è che Francesco Sforza crebbe prima a Firenze e poi a Ferrara, con la madre Lucia Terzani da Torgiano, finché nel 1412 raggiunse il padre, diventato a Napoli condottiero al soldo di re Ladislao d’Angiò-Durazzo. Costui, per ingraziarsi il padre, concesse all’undicenne Francesco la contea lucana di Tricarico, e così Francesco Sforza fu chiamato conticello
per la sua giovane età. Affidato alle cure del gran camerario Gabriele Felice, a 17 anni sposò Polissena Ruffo, erede di vasti feudi in Calabria, diventando alla morte della moglie viceré di quelle terre. Dimostrandosi un abile condottiero e un astuto politico, si impadronì ben presto di altri feudi, dalla Puglia alla Marca pontificia, fin quando non passò al servizio del signore di Milano, Filippo Maria Visconti. Costui non aveva eredi maschi e Francesco gli chiese, invano, la mano della figlia Bianca Maria. In tutta risposta, fu inviato a combattere lontano. Del resto, da quale fama fosse accompagnato Francesco, ce lo spiega lo storico Giovanni Simonetta nelle sue Historie:
Di fortezza et di destrezza non hebbe nell’età sua pari. Il perché né a saltare né a correre, né a lanciare nissuno era che ardisse contendere seco. Gittava la pietra et il palo di gran peso, più longo spatio che alcuno altro. Era patientissimo, et facilmente sopportava ogni grave fatica, né fatica né dolore lo sbigottiva, benché molte in battaglia combattendo ne ricevesse… In conducere l’esercito, et in ordinare le squadre, et appicciare la zuffa fu dai tanta peritia, che eziandio li nimici confessavano che egli non poteva essere vinto.
Inutilmente quindi il duca Filippo Maria Visconti cercherà di mettergli contro Niccolò Piccinino, altro suo condottiero, o di resistere all’attacco dei 1500 cavalieri dello Sforza, mentre il ducato è minacciato da Venezia. Alla fine il Visconti scenderà a più miti consigli e concederà a Francesco Sforza la figlia Bianca Maria, appena sedicenne, nel 1441. Sei anni dopo Filippo Maria morirà, a 57 anni. Ne approfitteranno le fazioni nemiche dei Visconti per proclamare la Repubblica Ambrosiana. Ma Francesco, che ora poteva a ragione vantare diritti di discendenza, avendo acquisito il titolo di duca grazie al matrimonio con Bianca Maria, dapprima si accorderà con i capi della nuova Repubblica, poi passerà dalla parte degli aggressori veneziani, assediando con le sue truppe Milano e costringendola alla resa per fame nel 1450. Sarà poi la pace di Lodi del 1454 a sancire ufficialmente il passaggio dalla Signoria dei Visconti a quella degli Sforza, che Francesco reggerà con grande saggezza. Con la nuova dinastia Milano conoscerà il suo periodo di maggior splendore, guadagnandosi il rispetto degli altri principi italiani e la devozione dei cittadini.
Francesco Sforza morirà nel 1466, non senza aver lasciato in eredità grandi opere pubbliche, come la Ca’ Granda e lo scavo del Naviglio Martesana.
Ludovico il Moro e l’età dell’oro
Ludovico Maria Sforza, uno dei cinque figli di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti, nacque a Milano nel 1452 e venne soprannominato il Moro
per via della sua carnagione scura. Ambizioso e colto (a dieci anni componeva già versi in latino), scaltro e pragmatico, Ludovico dimostrò subito nelle ambascerie la sua arte diplomatica, convincendo il fratello maggiore Galeazzo Maria, duca dello Stato di Milano, a prendere in moglie Bona di Savoia. Quando poi il fratello nel 1476 cadde sotto il pugnale di tre congiurati all’ingresso della chiesa di Santo Stefano in Brolo, Ludovico fece allontanare dalla città la cognata rimasta vedova col figlio Gian Galeazzo, chiudendola nel castello di Abbiategrasso. Cinque anni dopo fece dichiarare al bambino che «essendosi partita la illustrissima Madonna mia matre, io voglio che il signor Ludovico mio barba
(zio) diventi mio tutore». Successivamente il Moro con una gran festa nuziale diede Gian Galeazzo in sposo alla diciannovenne Isabella d’Aragona. Poi, nel 1491 (a trentanove anni) prese moglie egli stesso: la sedicenne Beatrice d’Este, di ventitré anni più giovane. Infine, per ingraziarsi l’imperatore Massimiliano d’Asburgo gli scrisse per segnalare anche a lui una moglie ideale, cioè la nipote Bianca Maria, figlia del fratello assassinato. Il premio non tardò a venire: da semplice reggente, il Moro venne nominato dall’imperatore duca dello Stato di Milano. È il 1494, Ludovico si è ormai conquistato il favore del suo popolo chiamando a corte pittori e letterati, scienziati e architetti. Nel castello si leggeva Dante, si giocava a scacchi, si davano balli e ricevimenti, si discuteva di ogni problema. Mai la dinastia degli Sforza si era conquistata tanta potenza, ma anche tanti nemici a causa degli intrighi del Moro. Ciò nonostante, fino al 1497 Ludovico regalò al ducato di Milano la sua età dell’oro e a lui venne dedicata la porta nelle mura a sud della città: Porta Ludovica.
Il duca non perdeva occasione di aprire i forzieri davanti agli occhi dei suoi visitatori più illustri, per mostrare denaro, gioielli e pietre preziose. Tutto sembrava riuscirgli con grande naturalezza. Fino al trionfo dell’estate 1492, durante la quale Ludovico mise a segno il suo colpo migliore: far eleggere papa in conclave Rodrigo Borgia. E questi, una volta assunta la tiara con il nome di Alessandro
vi
, pagò il suo debito agli Sforza nominando Ascanio vicecancelliere pontificio, mentre Ludovico fu ufficialmente riconosciuto amministratore e governatore del ducato di Milano, allora alla sua massima espansione. Fu quello il momento in cui il Moro indossò i panni del mecenate per eminenti artisti del tempo, primi fra tutti il Bramante e Leonardo da Vinci. Quest’ultimo, proprio sotto la committenza del Moro, si dedicò, a partire dal 1494, all’affresco per la parete del refettorio domenicano di Santa Maria delle Grazie (il Cenacolo). Ludovico volle farne il proprio monumento personale, che ne avrebbe conservata la gloria a sempiterna memoria.
La sua fortuna, invece, cominciò a venire meno. Beatrice d’Este morì di parto nel 1497 e due anni più tardi le truppe francesi guidate da Gian Giacomo Trivulzio raggiunsero Milano. Il Moro fuggì attraverso un passaggio sotterraneo scavato all’interno del castello (che sfociava nella foresta dove i Visconti cacciavano i cervi, oggi all’altezza di corso Sempione) e galoppò verso nord diretto a Innsbruck per invocare l’aiuto dell’imperatore d’Austria. Ma questa volta nessuno volle soccorrere il duca di Milano, che al suo rientro in Italia fu catturato a Novara in un’imboscata dei francesi, dopo il tradimento dei suoi mercenari svizzeri, e inviato come prigioniero oltralpe. Rinchiuso nel castello di Loches, nella Loira, Ludovico Sforza morì nel 1508, a cinquantasette anni.
Ritratto di Ludovico il Moro.
Leonardo da Vinci, il genio costruttore
Milano è indubbiamente il luogo in cui Leonardo (nato a Vinci il 15 aprile 1452 e morto ad Amboise, in Francia, il 2 maggio 1519) ha dato le più numerose e più memorabili prove del suo talento. Nell’arco di un ventennio, secondo i programmi di Ludovico Sforza, si espresse come architetto, ingegnere, scienziato, pittore, musico e scenografo. A Milano, come direbbe Paul Valéry, Leonardo è diventato pienamente Apollo.
Le sue tracce sono ancora oggi ovunque: non solo nel refettorio del Cenacolo a Santa Maria delle Grazie, ma anche nella splendida sala delle Asse al Castello Sforzesco, con il suo incantevole intreccio di rami e fogliami. O nelle chiuse di via San Marco. E ancora, al Museo della Scienza e della Tecnica che porta il suo nome o davanti all’ippodromo di San Siro, dove campeggia la statua del cavallo da lui immaginata.
A Milano Leonardo arrivò per la prima volta nel 1482, incaricato di un’ambasceria da Lorenzo il Magnifico, e subito decise di stabilirvisi per le maggiori possibilità di lavoro che il ducato gli offriva rispetto a Firenze: qui gli artisti erano decisamente in numero minore. Un anno dopo venne incaricato di realizzare La Vergine delle rocce (oggi al Louvre) da eseguire per la Confraternita della Vergine presso la chiesa di San Francesco Grande. Il compenso stabilito per lui e i suoi due aiutanti, Evangelista e Ambrogio De Predis, fu di ben 850 lire imperiali. Ma un’altra ragione determinò la decisione di Leonardo di trasferirsi a Milano: una lettera di Ludovico il Moro che lo invitava a eseguire opere di ingegneria militare, di idraulica e di architettura. E il genio toscano gli rispose: «So in la obsidione de una terra toglier via l’acqua de’ fossi, e fare infiniti ponti, gatte, scale e altri instrumenti…». Intanto dipinse anche il ritratto di Cecilia Gallerani, la giovane amante del duca Ludovico, opera nota come Dama con l’ermellino, conservata a Cracovia. Il 12