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Stirpe di eroi
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Stirpe di eroi
E-book508 pagine7 ore

Stirpe di eroi

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Info su questo ebook

Dall'autore del bestseller Centurio

Un grande romanzo storico

Vince chi vince se stesso

Roma, 295 a.C.
Quinto Fabio Massimo Rulliano, dopo aver ricoperto per quattro volte la carica di console, onorando con tenacia gli incarichi assegnatigli dalla Repubblica, è richiamato dal Senato per affrontare una nuova minaccia. Sanniti, Etruschi, Galli Senoni e Umbri hanno stretto un patto di ferro e stanno riunendo uno sterminato esercito per assediare l’Urbe e cancellarla per sempre dalla Storia. Rulliano accetta l’incarico a una sola condizione: che al suo fianco sia nominato console Publio Decio Mure, un valoroso militare che ha ricoperto per tre volte la carica. I due consoli mettono in marcia le legioni per cercare di intercettare gli eserciti dei quattro popoli che si stanno coalizzando. Dovranno agire con astuzia se non vogliono ritrovarsi in trappola nella morsa dei nemici. Sanno entrambi che presto incontreranno il destino e sono pronti a tutto per lasciare il loro marchio indelebile su quella che passerà alla storia con il nome di “Battaglia delle Nazioni”.

Roma è sotto attacco: solo il coraggio di due uomini può fermare l’avanzata degli eserciti nemici

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un romanzo storico scritto con il rigore di chi conosce bene la storia militare.»
Tiempo

«Non è solo un romanzo storico. Ci sono azione, avventura, amore e intrighi.»
Anika entre libros

«L’autore crea un’atmosfera magnifica. Le descrizioni della vita quotidiana, degli usi, i costumi, il cibo… sono meravigliose.»
La historia en mis libros

«Ci fa sentire circondati dai cuori e dalle anime dei legionari protagonisti del romanzo.»
Revista Krítica
Massimiliano Colombo
Nato a Bergamo nel 1966, vive a Como, dove da anni coltiva, con dedizione ed entusiasmo, la passione per gli eserciti del passato. Nel 2013 la casa editrice spagnola Ediciones B ha acquistato i diritti dei suoi libri per il mercato mondiale di lingua spagnola e il successo di pubblico e critica di La legión de los inmortales lo ha consacrato come una delle voci più interessanti nel panorama europeo del romanzo storico. Con la Newton Compton ha pubblicato Centurio e Stirpe di eroi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2018
ISBN9788822724762
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    Anteprima del libro

    Stirpe di eroi - Massimiliano Colombo

    Quattuor Gentes

    E da questo punto si dovrà trattare di guerre più importanti sia per la potenza dei nemici con i quali si venne alle mani, come per la grande distanza delle regioni e per la durata delle guerre stesse. Che imprese colossali! E quante volte si giunse quasi alla catastrofe, perché si conseguisse questa vastità di dominio che appena si sorregge!.

    Arrivano dalle nebbie dei tempi queste parole scritte da Tito Livio. Poche righe, vergate dallo storico latino sembrano racchiudere l’essenza delle centinaia di pagine che seguiranno e che ci condurranno in un tempo in cui si lottava per il dominio di una terra che avrebbe dato vita alla millenaria cultura occidentale: l’Italia.

    Se tornassimo indietro nel tempo fino al iii secolo a.C. e immaginassimo di osservare il territorio con gli occhi di un rapace in volo, vedremmo che Roma è solo una delle tante popolazioni in corsa per l’egemonia della Penisola ed è circondata da formidabili genti agguerrite che in più di un’occasione sono arrivate sul punto di cancellarla dalla Storia.

    Scendendo dalle Alpi scorrerebbero sotto di noi decine di villaggi fortificati di ogni dimensione, dei popoli di origine celtica stanziati in tutto il nord del Paese. Taurini, Salassi, Leponzi si contendevano l’attuale Piemonte e più a sud, i Liguri dominavano la regione che ancora porta il loro nome.

    Il centro nord della Penisola era occupato dagli Insubri e verso est dai Camini, dai Reti e dai Veneti. Scendendo verso l’Adriatico vi erano i Lingoni, i Boi e i Senoni, stanziati tra l’Emilia, l’Umbria e la parte settentrionale delle Marche, che si contendevano con gli Umbri le colline boscose a ridosso dell’Appennino.

    La Toscana e parte del Lazio erano terre degli Etruschi, sparpagliati in diverse città-Stato spesso in lotta tra loro e solo occasionalmente alleate in leghe per contrastare pericoli comuni.

    Dalla parte opposta, sulla costa adriatica, vi erano i Piceni, i Pretuzi, i Frentani, i Vestini e i Marrucini, separati dalla dorsale appenninica dai Sabini, dai Marsi, dai Peligni e dagli Ernici e più a sud, dai Sanniti, potente lega di quattro differenti popoli: Caudini, Irpini, Pentri e Carricini, in continuo conflitto con i Romani per l’egemonia del centro Italia.

    Più a sud est, nelle Puglie vivevano i Dauni, gli Apuli, i Peucezi, i Messapi e gli Iapigi, in lotta contro la colonia greca di Taranto. Dalla parte opposta i Campani, i Lucani e i Bruzi, fino alla Sicilia, contesa tra le città greche e i Cartaginesi.

    Tutti questi popoli, a un certo punto della Storia, sono diventati delle comparse, cedendo il posto a una civiltà che raggiunse uno strapotere culturale e militare tale da cambiare il corso degli eventi.

    Questa svolta avvenne nella battaglia del Sentino, nel 295 a.C., alla fine della Terza Guerra Sannitica, ricordata anche come Guerra Italica, perché non coinvolse solo Roma, i Sanniti, e i loro alleati storici, ma anche tutte le genti dell’Italia centrale come gli Etruschi, i Celti e gli Umbri, alleatisi in una autentica Lega delle Nazioni contro l’Urbe.

    Ecco come Roma rispose a questa minaccia.

    I

    La Toga

    «Sono vecchio».

    Il giovane servo alzò lo sguardo verso Quinto Fabio Massimo Rulliano, illuminato per metà dalla luce del mattino. Era abituato a sentirlo masticare discorsi tra sé e non si curava di comprendere il senso delle parole del magistrato. Continuò a legare le corregge dei calcei neri mentre il suo padrone, Rullus, come lo avevano soprannominato i senatori, continuava a borbottare.

    «Il Senato vorrà rieleggermi, dovrò nuovamente proporre la mia carica e io non potrò rifiutare».

    Finito con la calzatura sinistra, lo schiavo prese ad armeggiare con l’altra, evitando di incrociare lo sguardo grave di Quinto Fabio, segnato da una vita di battaglie.

    Rulliano era un eroe; aveva ricoperto per quattro volte la carica di console e per quattro volte aveva assolto con onore gli ambiziosi incarichi che la città gli aveva richiesto, fino a divenire una sorta di monumento vivente.

    «Il mio corpo non ce la può fare», disse con un tono più deciso. «Questa schiena legnosa ha già dato alla Repubblica tutto quello che poteva, e ogni giorno, al mio risveglio, non perde occasione di rammentarmelo con delle stilettate».

    L’inserviente terminò il lavoro, si alzò, fece un inchino e si dileguò attraversando il grande atrio con passo leggero. Rulliano guardò con una punta di malinconia la figura muscolosa e ben proporzionata, che si allontanava sui mosaici senza fare rumore. Si passò la mano sui lombi accennando una smorfia di dolore.

    «Quanto vigore sprecato in un corpo senza animus», disse, prima che la sagoma dello schiavo scomparisse inghiottita dalla luce del peristilio. «Vivi nella tua semplice ignoranza senza nemmeno renderti conto di essere senza sostanza. Vivi di istinti primari, commiserandoti nella tua esistenza fatta di limitazioni e di fatiche, senza nemmeno immaginare lo sforzo continuo che richiede la virtù».

    Il magistrato si alzò dalla sedia. «Senza curarti della tua etica, della tua discendenza, della tua stirpe, della famiglia, della tribù di appartenenza. Senza sapere cosa voglia dire dimostrare di essere un figlio devoto e un buon padre, un padrone generoso, un cliente leale, un magistrato onesto, un soldato valoroso». Volse lo sguardo verso il patio, sovrastato da un rettangolo di cielo azzurro venato di cumuli bianchissimi. «No, questi sono compiti ben più gravosi e richiedono ambizioni superiori che solo uomini di grande animo possono avere. Animo e civiltà vanno di pari passo, più è grande l’uno e maggiore deve essere l’altra. Più è grande l’animo degli uomini e maggiore è lo sforzo che viene loro richiesto».

    Un altro schiavo entrò nella stanza con un voluminoso e candido fardello, seguito da un aiutante molto più giovane di lui. Quinto Fabio smise di parlare e rimase immobile nei suoi pensieri. Il suo volto impassibile, così come la sua figura, furono circondati dai nuovi arrivati che, dopo qualche istante, presero a sistemare la lunghissima e pesante stoffa bordata di porpora. Il più anziano pieghettò per tutta la lunghezza l’indumento e lo passò sulla spalla sinistra con un drappeggio, il sinus. Le sue mani rifinirono silenziose piega dopo piega, guidate da una solenne sacralità, rotta solo dal frusciare del tessuto. Allungò sapientemente il panno dietro alla schiena, avendo cura che il panneggio fosse adeguato e poi, sotto il braccio destro per tornare sulla spalla sinistra, a formare il balteus. Quinto Fabio si fece sistemare l’ultimo lembo di tessuto sul braccio sinistro che da quel momento in poi non avrebbe più mosso.

    Portare la toga non era semplice, né per ciò che rappresentava né tanto meno per il suo ingombro. Non proteggeva dalla pioggia o dal sole, costringeva a gesti misurati e impediva movimenti liberi. Chi la indossava non aveva da temere nessuno, era protetto dal diritto, dalla città e dal suo esercito.

    Lasciava scoperto solo il braccio destro e il volto: nessuna ostentazione, nessun esibizionismo. Quinto Fabio Massimo Rulliano sarebbe stato da quel momento in poi la sua toga, che ne identificava la carica e il suo volto, l’unica parte di un uomo libero che fosse dignitoso mostrare. L’unica mano libera, la destra, la mano delle buone azioni, gli avrebbe consentito di giurare di fronte agli altri suoi simili.

    Il servo si allontanò di un paio di passi e osservò attento il suo lavoro mentre la toga pretesta irradiava la stanza del suo suo chiarore. Quell’indumento poteva essere indossato solo da un magistrato, o da un bambino. Il bianco era simbolo d’integrità, di purezza, di civiltà, la preziosa porpora indicava l’inviolabilità di colui che la vestiva.

    Dopo qualche istante lo schiavo approvò con un cenno del capo. «Tutto è pronto».

    «Ora dovrò esserlo io», disse di rimando Quinto Fabio prima di lasciare l’austera stanza e avviarsi verso il peristilio, dove fu investito dalla luce del sole.

    L’ex console attraversò il giardino interno, la sua figura riflessa nell’acqua dell’impluvium, la grande vasca posta al centro, e si inoltrò per un corridoio stretto lasciando alle sue spalle la parte familiare della casa per entrare nell’atrio. Era ampio ma decisamente poco sfarzoso. La casa rispecchiava in tutto e per tutto il carattere del suo proprietario, adeguandosi al suo status e alla sua austerità.

    Pochi passi e la porta d’ingresso si spalancò. Il magistrato guardò ammirato lo spettacolo che dal Palatino si schiudeva davanti ai suoi occhi mentre uno stormo di colombi ne attraversava il cielo. Era accecato dalla luce del sole e dalla maestosità di quella città che, meravigliosa, avrebbe potuto competere con le più belle della Grecia.

    «E più gli uomini sono grandi e più è grande ciò che riescono a costruire».

    Un passante riconobbe la figura di Rulliano e con un cenno del capo lo salutò con ossequio. Il magistrato rispose abbozzando un sorriso e si incamminò verso la sua meta, la Curia Hostilia, dove il Senato di Roma si riuniva. Conosceva tanto bene quella strada che avrebbe potuto farla a occhi chiusi ma Rullus non lo avrebbe mai fatto. Quel percorso gli era tanto caro che amava ammirarlo in ogni particolare, che cambiava di volta in volta a seconda della luce del giorno e della stagione.

    Si incamminò lentamente verso il Foro Boario, incontrando i templi gemelli della dea dell’Aurora e di Fortuna, quest’ultima a lui particolarmente cara. Costeggiò le due costruzioni, riprendendo la sua solita andatura e voltò a sinistra per imboccare il vicus Iugarius. Fece la strada più lunga, non aveva voglia di trovarsi di fronte la porta Carmentalia così funesta per la famiglia Fabia. Molti e molti anni prima trecentosei membri della sua gens avevano attraversato quel passaggio prima di morire in battaglia contro gli Etruschi.

    Arrivò all’altezza delle tabernae e volse lo sguardo a destra. Le botteghe presso il foro dei cambiavalute avevano affissi gli scudi d’oro dei sanniti, fausto trofeo dell’ultima vittoria. Volse lo sguardo a sinistra, al tempio di Saturno e poi raggiunse il Foro, dove le statue di Pitagora e Alcibiade lo accolsero con i loro vacui sguardi.

    «Non hai eguali, città di eroi», disse osservando il santuario dedicato a Volcano dove ardeva un fuoco perenne. «Io ti ho dedicato molto della mia esistenza e tu mi hai concesso molto».

    Si fermò, strinse con la sinistra il lembo della toga. Alzò gli occhi. Davanti a lui il monumentale portone di bronzo della Curia Hostilia.

    «Ora non chiedermi di più», disse prima di scomparire divorato dall’ombra della sala interna.

    L’interno dell’antica curia romana era monumentale ma essenziale al tempo stesso. I senatori sedevano su panche di legno e a quel tempo, le pareti non erano affrescate. Rulliano raggiunse il suo posto tra il vociare confuso che echeggiava tra le volte della sala. Presto sarebbero arrivati i risultati delle votazioni dei due consoli che si sarebbero spartiti gli oneri del difficile anno che Roma avrebbe dovuto affrontare. Cercò quindi di leggere comportamenti e sguardi dei presenti provando a mantenere un celato distacco, come se in fondo, si sentisse esentato da quello che stava per accadere.

    Salutò con un gesto del capo quelli che incrociavano il suo sguardo. Alcuni sorrisero al suo passaggio, altri farfugliarono qualcosa al collega accanto. Quinto Fabio li ignorò e scambiò una stretta di mano con un anziano senatore che da sempre lo sosteneva, prima di accorgersi che nella sala il vociare stava diminuendo. Tutti porsero attenzione al calpestio di passi oltre il portone d’ingresso. Rulliano colse l’occasione per studiare ancora qualche volto, prima di volgere lo sguardo verso la figura che stava per varcare la soglia, dopo aver lasciato alle proprie spalle, nel bagliore aureo della luce, le ombre dei littori che lo avevano scortato fino a lì.

    Il console in carica, Lucio Volumnio Flamma Violente entrò nella Curia Hostilia accolto da sguardi carichi di approvazione. Avanzò con i calcei rossi in mezzo ai potenti che lo avevano eletto l’anno prima con il passo deciso di chi governava il proprio destino. Solo pochi giorni avanti, al posto della toga candida e delle calzature consolari, indossava caligae infangate e una corazza, con la quale aveva condotto la sua spedizione nell’agro campano contro i Sanniti, popolo da anni in guerra contro l’Urbe. Li aveva fermati scongiurando un grave pericolo, ma purtroppo i Sanniti non erano gli unici nemici: una minaccia altrettanto grave si stava addensando ai confini dell’Etruria come una nube oscura sul futuro di Roma, ed era proprio per questo motivo che il console Volumnio era stato richiamato in città per presiedere le elezioni. A lui spettava richiamare le centurie al voto e convocare l’assemblea generale che si apprestava a presiedere.

    Era un uomo maturo ma ancora pieno di vigore quello che aveva attraversato la sala e aveva preso il suo posto sullo scranno di legno che vi troneggiava al centro. Il volto rasato di fresco, come scolpito nella pietra, i capelli cortissimi che sulle tempie tendevano all’argento, gli occhi scuri, contornati dai segni del consolato che non lo aveva risparmiato, giorno e notte, per un anno intero.

    Le grandi porte della curia si chiusero. Fu il silenzio. Il suo sguardo percorse l’intera sala prima che la sua voce la riempisse. «So che eravate in grande trepidazione per lo svolgimento della guerra», disse con voce profonda. «Ho appreso dell’encomiabile iniziativa del Senato di sospendere le pubbliche attività per bandire una leva generale degli uomini di ogni classe sociale. Ho appreso che sono state formate coorti di veterani per difendere la città e che persino i liberti sono stati inquadrati in centurie come fossero cittadini. So che li avete equipaggiati con le antiche armi dei nostri nemici prelevate dai templi».

    Fece una pausa e un piccolo cenno con il capo verso i senatori, come per ringraziarli di quelle delibere. «Ho appreso anche che sono stati decretati pubblici ringraziamenti agli dèi per la mia vittoria sui Sanniti in Campania e di questo vi ringrazio», disse prima di alzarsi dalla sedia. «Ma vi prego di non pensare che con questa vittoria il pericolo sia passato», continuò, «perché non è solo del Sannio che ci dobbiamo preoccupare. La Campania è solo una delle regioni in conflitto e fino a questo momento, fino a quando sono stato io a governare, insieme al mio collega, il console Appio Claudio Cieco, la guerra è stata così dura che per sostenerla non sono stati sufficienti un unico comandante e un unico esercito. Non trascurate quindi i moti che arrivano anche dall’Etruria, e dai popoli della vicina Umbria che stanno unendo le proprie forze ai nemici di sempre per marciare contro di noi».

    Un lieve brusio si alzò dalla moltitudine dei senatori.

    «Non è tutto».

    Il silenzio tornò e fu tale che si sarebbe potuta sentire una mosca volare.

    «So da informatori, che gli Etruschi stanno portando dalla loro parte i Galli Senoni».

    I soffitti della curia echeggiarono di centinaia di voci. «Non è possibile», tuonò uno degli edili, più per convincere se stesso che gli altri, «Galli ed Etruschi sono sempre stati nemici tra loro!».

    «Gli Etruschi dispongono di immense ricchezze e non c’è niente di tanto sacro che il denaro non possa violare, niente di tanto forte che il denaro non possa espugnare», disse il console riportando gli astanti alla sua attenzione. «Già in passato hanno risolto con l’oro le dispute territoriali con i loro scomodi vicini Senoni. Due anni fa un grosso contingente di Galli ha sconfinato oltre l’Appennino e ha ricevuto una enorme somma per non saccheggiare i territori etruschi. So per certo da alcuni informatori che in quella circostanza sono stati fatti dei negoziati per invitare i Galli a prendere parte alla guerra contro Roma, negoziati che non sono andati a buon fine. I Senoni, oltre al pagamento delle spese per il mantenimento dell’esercito e alle ricompense, hanno richiesto anche dei territori etruschi in cambio di questa alleanza. Terre nelle quali stabilirsi a conflitto concluso».

    Il brusio incredulo dei senatori invase la sala.

    «So che sono state organizzate numerose assemblee in Etruria per discutere la proposta ma non si è arrivati a una conclusione concreta, non tanto per la rinuncia di parte del territorio, ma perché gli Etruschi stessi inorridiscono al pensiero di avere vicini tanto feroci e selvaggi alle porte delle loro città. Per lo meno, questo è ciò che hanno pensato fino all’arrivo di Gellio Egnazio».

    Quel nome fu come un morso nell’animo di tutti i presenti. Egnazio era il male in persona, era odio e paura; era il comandante della lega sannitica, una figura tanto osannata dai suoi quanto temuta e odiata dai Romani.

    «È stato proprio lui a sobillare per primo gli Umbri e dopo aver promesso loro il ricco bottino che li attende nella nostra città, ha attaccato senza mezzi termini il comportamento degli Etruschi, per non essere ancora stati in grado di trascinare i Galli in questa guerra, sostenendo che c’è talmente tanto da raccogliere qui che basta per una moltitudine immensa di uomini. Sabini, Pretuzi, Vestini e Marsi stanno aspettando il momento buono per decidere con chi schierarsi ma sappiamo bene che preferiscono una alleanza con i Sanniti piuttosto che con noi».

    L’orrore di un simile scenario ammutolì i trecento senatori presenti.

    «Abbiamo risposto a questo accerchiamento con tutta la nostra arte diplomatica e abbiamo portato i Peligni, i Marrucini e i Frentani dalla nostra parte, accerchiando di fatto il Sannio a nord e est. Abbiamo inoltre stretto un patto antigallico con i Piceni, ma anche questo non è bastato a frenare le mire dei Sanniti».

    Volumnio si alzò in piedi e aprì la destra verso il silente pubblico: «Quiriti!», continuò con tono deciso, «Rappresentanti dei liberi cittadini del popolo romano! Stiamo per scegliere due di noi che dovranno fronteggiare questa minaccia. Stiamo per scegliere due di noi che ci dovranno portare alla vittoria o alla morte. Stiamo per scegliere chi dovrà affrontare quattro popoli uniti in un esercito tanto immenso che nemmeno i nostri antenati hanno mai visto. Questa coalizione dispone di un’armata a noi superiore in numero e può colpire da nord con gli Etruschi, da sud con i Sanniti e da est con i Galli Senoni e gli Umbri. Chiedo quindi di designare al consolato l’uomo che in questo momento è il miglior generale che abbiamo a disposizione. Noi gli dovremo dare tutto il nostro appoggio, tanto che personalmente, visto il momento di eccezionale pericolo, investirei di pieni poteri politici e militari il prescelto, designandolo dittatore».

    Quinto Fabio Massimo Rulliano sentì una nuova fitta ai lombi quando vide lo sguardo della quasi totalità dei presenti scivolare su di lui. Sapeva che il suo passato lo designava come il più esperto in quella curia per affrontare la questione, ma invece che sentire l’onore di quell’incarico ne accusava solamente l’onere. Era avanti con l’età e si sentiva stanco, ma al contrario di tutti gli altri in quella sala, era l’unico a non essere convinto di se stesso. Decise che avrebbe perseguito ciò che da giorni rimuginava nella sua mente, appellandosi a una legge in vigore che impediva a chiunque di essere rieletto dal consolato precedente prima dei termini di legge. Sostenne quindi indifferente quella silente richiesta e si apprestò a presiedere insieme agli altri allo spoglio dei voti che continuò per l’intera mattinata.

    Dalle urne il suo nome riempì decine di volte la sala con lo stesso fastidioso battito metallico di un martello sull’incudine, inchiodandolo sulla panca sotto a un diluvio di occhiate e commenti a mezza voce fino a quando non si alzò in piedi.

    «Perché?», tuonò imperiosamente zittendo tutti. «Perché continuate a rivolgervi a me?».

    Li guardò stretto nella toga con il volto deciso. «Sono vecchio!», sentenziò indicandosi con la destra il volto scavato. «Ognuno di questi segni che mi attraversano il volto è testimone di una prova portata a termine per la città. Ho fatto ciò che mi è stato chiesto e non sono più in grado di assumermi un simile compito. Stiamo parlando di dirigere quattro o cinque eserciti su diversi fronti. In Etruria, in Umbria, dove ai nemici si sono aggiunti i Galli; nel Sannio e in Lucania. Come potete pensare che sia l’uomo nelle condizioni migliori per farmi carico di un simile compito?»

    «Roma non sta chiedendo la tua forza fisica Rullus», intervenne Volumnio, «ha bisogno della finezza del tuo pensiero».

    Un’ondata di approvazioni entusiastiche fecero eco alle parole del console.

    «Ma cosa dite?», urlò Quinto Fabio cercando di superare il frastuono, «nemmeno la mia mente è più in grado di essere veloce come quella di un tempo».

    La sala sembrò non ascoltare più il magistrato, tanto che dovette chiedere il silenzio a gran voce prima di poter parlare nuovamente. «Io… io sono lusingato, davvero. Mi sento onorato da questo incarico ma allo stesso tempo temo che a qualche dio cominci a sembrare eccessiva la fortuna che mi è capitata. Ho alle spalle quattro consolati e sono ancora qui a essere chiamato in carica. È troppo per un uomo. Io ho fatto molto, ho raggiunto la gloria dei nostri più illustri antenati, ma adesso non chiedo altro che assistere alla gloria di altri». Con la destra si pulì la saliva uscita dal labbro per la foga. «A Roma non mancano certo alti riconoscimenti per uomini di valore né uomini di valore all’altezza di simili riconoscimenti».

    Il suo autorevole pubblico tornò a osannarlo con un applauso senza fine.

    «Vi prego», gridò alzando la mano, «vi prego di leggere ad alta voce la normativa in virtù della quale nessuno può essere rieletto console prima dei termini di legge».

    Un pontefice della plebe si alzò da una delle panche: «Prepareremo una norma da presentare al popolo per dispensarti da questo obbligo».

    Di nuovo fu un tripudio e di nuovo Rullaino chiese di leggere la norma che non si sentì per il frastuono. «Che senso ha», urlò a squarciagola, «che senso ha fare leggi, se poi chi le deve far rispettare è il primo a non volerle applicare?».

    Fu la sua ultima debole motivazione e nemmeno questa fu convincente perché alla fine si decise di dare alle centurie il voto per la dispensa dalla legge con il risultato che Quinto Fabio Massimo Rulliano e Lucio Volumnio furono eletti con il consenso dell’intera città in un tripudio generale.

    Il silenzio tornò solo a votazioni fatte, con la luce del tardo pomeriggio che filtrava nella sala. Tutti attendevano le parole dei nuovi consoli che avrebbero dovuto accettare la carica voluta dal popolo.

    Gli sguardi ancora una volta andarono al vecchio Rullus che raggiunse con passo fermo e piglio grave il centro della curia.

    «Possano gli dei approvare quello che avete fatto oggi Quiriti», disse sconsolato osservando per l’ennesima volta i senatori, «ma visto che di me avete deciso di fare ciò che avete voluto, vi chiedo almeno di ascoltarmi per la nomina di colui che dovrà condividere con me il comando».

    Quinto Fabio non era nuovo a queste uscite, i magistrati presenti accusarono però l’imbarazzo di Lucio Volumnio, appena nominato insieme a lui, che lo ascoltò con evidente sorpresa.

    «Data la gravità della situazione ho la necessità di avere qualcuno al mio fianco che funga da sostegno per la mia età e con il quale poter pianificare, in brevissimo tempo, la strategia di guerra. Il mio temperamento da vecchio scontroso mi rende poco disposto a impegnare del tempo per creare un rapporto di totale fiducia con il mio compagno di comando, quindi ho bisogno di poter disporre di un collega che già conosco, qualcuno con il quale so di poter essere un solo cuore e una sola mente».

    Lo sguardo del magistrato serpeggiò in mezzo alla moltitudine dei senatori addentrandosi tra le file fino a raggiungere il volto di un uomo dagli occhi penetranti e dai capelli castani cortissimi, che sulle tempie restituivano bagliori argentei alla luce di quell’ora. Rulliano lo additò.

    «Chiedo che Publio Decio Mure, uomo degno di voi e del padre, sia eletto console insieme a me».

    Ci furono alcuni sguardi perplessi, ma erano così pochi da poter essere contati sulle dita di una mano. Tutti conoscevano Publio Decio Mure e sapevano che era un uomo nato per la vita militare, poco propenso alle parole e incline all’azione. Era un valoroso ed era già stato console ben tre volte, una delle quali, due anni prima, proprio con Quinto Fabio Massimo Rulliano, con il quale aveva combattuto Etruschi e Sanniti. Suo padre poi, che aveva portato il suo stesso nome, era morto sacrificandosi per la causa della città contro i Latini e con il suo sacrificio aveva salvato la città, che ora lo annoverava fra i suoi eroi più illustri.

    «Gli dèi non potranno che essere compiacenti a una simile scelta», continuò Quinto Fabio rivolgendosi a Lucio Volumnio, «dopo che Giove Ottimo Massimo ha accettato il sacrificio del padre».

    Volumnio lanciò uno sguardo a Publio Decio Mure. In quella sala vi erano almeno una decina di uomini valorosi che avrebbero fatto la loro parte per di difendere la città, ma la legge che gli avi avevano imposto prevedeva di sceglierne due. Volumnio assentì, affermando che la raccomandazione di Rulliano era legittima e pensò che forse, i migliori tra i migliori erano proprio loro. Rimandò quindi al giorno successivo la decisione tramite voto, sapendo che nessuno dei tre si sarebbe presentato in Senato.

    II

    Figlio di Roma

    «Ho vinto sconfiggendo i Sanniti, ed ora voglio il mio trionfo!», urlò il piccolo alzando la sua spada di legno al cielo sotto gli occhi divertiti del padre.

    «Tornerai vincitore anche questa volta, vero papà?».

    Il sorriso sul volto dell’uomo si allargò. «Tornerò vincitore Publio», disse prima di tirarlo su di peso e abbracciarlo.

    «E quando tornerò, prenderemo i due più bei cavalli di Roma e andremo a cavalcare insieme».

    «È vero papà?»

    «Certo che è vero, è una promessa. E una promessa dei Decii è sacra».

    Padre e figlio portavano lo stesso nome, che era poi il medesimo del nonno. Tre diverse generazioni, un solo nome, una sola stirpe, un solo pensiero: ampliare la gloria del predecessore. Per il piccolo Publio era ancora presto, ma di lì a qualche tempo avrebbe fatto largo in lui il pensiero di combattere per mantenere la posizione in cui la nascita lo aveva collocato e fare di tutto per spingersi oltre. Non sarebbe stata una vita agevole la sua, perché il nonno aveva dato più di chiunque altro, quarantacinque anni prima, immolandosi per la gloria della città, quando questa combatteva contro i Latini. Durante una battaglia che stava volgendo al peggio, vista la situazione disperata, Publio Decio Mure, allora console in carica, si era rivolto agli dèi con il rito della devotio, per attirare su di lui tutte le collere divine e liberarne i suoi uomini, lasciando loro la vittoria in cambio della sua vita. Quindi era salito a cavallo con le armi in pugno e si era gettato solo in mezzo ai nemici uccidendone parecchi prima di cadere eroicamente trafitto da un nugolo di frecce.

    Il gesto diede ai suoi una tale fiducia e vigore, che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga delle legioni rincuorata dal sacrificio del proprio comandante.

    Si era immolato per la città e la città gli aveva attribuito un posto tra i suoi eroi immortali, ma questa riconoscenza non si sarebbe rinnovata di generazione in generazione. Andava mantenuta. Più alti erano gli onori attribuiti e maggiori erano gli oneri da sostenere e Publio, il figlio dell’eroe, ne era perfettamente cosciente, mentre rimetteva a terra il suo bambino.

    «Stanno arrivando».

    Publio si voltò verso Julilla, madre e moglie di quei due Decii destinati a concorrere con la fama dell’avo. Il sorriso dell’uomo si affievolì all’incontro con lo sguardo preoccupato della donna. Dietro a quell’affermazione si celava l’angoscia di vederlo partire per le pericolose terre del Sannio o per attraversare la foresta Cimina e affrontare gli Etruschi o gli Umbri, o peggio ancora, superare l’impervio Appennino per combattere i mostruosi Galli. Sapeva che Roma era in pericolo e sapeva che l’uomo che aveva sposato sarebbe stato uno di coloro che avrebbero fatto di tutto per fermare quel pericolo. Poco sarebbe importato se lo avesse fatto da console o da pontefice. Publio Decio era un combattente e un trascinatore, uno dei migliori comandanti di cui la città disponesse e sarebbe comunque partito, con qualsiasi incarico. A lei, Julilla, non restava che adeguarsi al ruolo di moglie di un magistrato romano, assecondando la sua partenza per aspettarlo in silenzio. Il suo status le negava lacrime o debolezze, non avrebbe mai potuto chiedere cosa ne fosse del marito, avrebbe dovuto attendere la notizia della vittoria o della sconfitta della città; non della vita o della morte del suo uomo.

    Mure non si era recato in Senato quel giorno. Era rimasto a casa con la moglie e il figlioletto, in attesa che le curie avessero votato. Se il popolo lo avesse scelto come console al fianco di Quinto Fabio Massimo Rulliano, presto sarebbero arrivati alla sua porta i littori a recargli la notizia. Se invece il popolo avesse deciso per Lucio Volumnio, sarebbe stato convocato nei giorni successivi al Campo di Marte, l’enorme spazio fuori dalle mura della città, per il reclutamento delle legioni da condurre in guerra.

    Publio Decio guardò la moglie, la piccola ed esile Julia, Julilla come amava chiamarla lui, che lo osservava con apprensione. Di venti anni più giovane, veniva da una famiglia benestante che aveva fatto di tutto per darla in moglie al figlio dell’eroe di Roma. Era entrata in quella casa come una ragazzina spaventata e lui si era sentito subito fortunato per quel dono fresco e puro.

    Julilla gli aveva fatto tenerezza all’inizio e poi lo aveva conquistato, giorno dopo giorno, per nove lunghi anni, sospesa tra i battiti delle emozioni e quelli delle paure, perché di quei nove anni, sette erano stati di guerre, di attese, di angosce.

    Ora, anche se impeccabile matrona, Publio sapeva, che dietro a quella forzata ostentazione di dignità batteva un cuore spaventato come quello di un pettirosso appena catturato. Non diede seguito alla frase della donna e le si avvicinò con un sorriso. «Gli dèi sanno ciò che fanno, vedrai andrà tutto bene», le disse.

    Julilla rimase immobile davanti a lui, i suoi occhi piantati in quelli dell’uomo mentre in lontananza cominciava ad avvertirsi il vociare confuso della gente. I feziali, che rappresentavano la città nei rapporti con gli altri popoli, incaricati delle mediazioni e delle dichiarazioni di guerra, erano anche coloro che portavano la notizia dei risultati delle elezioni agli eletti e generalmente erano accompagnati da una sorta di seguito di curiosi, faccendieri e politici che per primi volevano complimentarsi con il nuovo potente.

    La domus Decia dei Mure era sul Palatino, esattamente come le residenze di quasi tutti gli altri candidati, quindi quel corteo in avvicinamento, in realtà, avrebbe potuto recarsi da Rulliano, oppure da Volumnio o da chissà chi altro. Non vi era altro da fare che aspettare ostentando calma, quasi indifferenza al fatto che, se quella gente si fosse fermata proprio davanti quella casa, Publio Decio sarebbe entrato nella Storia per il suo quarto consolato.

    Lei gli prese la mano, accarezzò le nocche e poi aprendogli il palmo lo portò sul ventre e batté le palpebre con gli occhi lucidi. «Ti darò un altro figlio Publio».

    Il volto dell’uomo si illuminò: «Mio miele». Scosse il capo come incredulo, la mano che delicata scivolava sul tessuto della tunica, accarezzandone il grembo, totalmente impreparato a quella notizia che allo stesso tempo lo rendeva felice. «Io, io… spero che sia una femmina. Lo spero per te, ma anche per me». L’abbracciò. «Sono un uomo invidiabile e invidiato».

    Lei si aggrappò alle braccia forti di lui e non poté trattenere le lacrime.

    «Non piangere Julilla, è un bellissimo momento».

    «Sì», disse lei annuendo e asciugandosi il volto.

    «Tu porti la vita. È un segno, è un bellissimo segno Julilla».

    Lo abbracciò forte di nuovo, con gli occhi stretti, le labbra serrate e le lacrime che scendevano una dopo l’altra mentre il vociare fuori si faceva più vicino. «Tornerai per la sua nascita, vero?»

    «Tornerò».

    «Promettimelo Publio».

    Il corteo si fermò fuori dalla casa Decia.

    «Ti dovrai riguardare, vedrai che il tempo passerà veloce».

    «Senza te, io non ce la faccio ad affrontare questa cosa».

    «La forza è dentro di te. Guarda il piccolo Publio: lui sa come riempire questa casa di tutto l’affetto di cui hai bisogno. Il buon vecchio Eutidemo poi ti aiuterà e tu, tu accarezza questa vita dentro di te e sentiti fiera di portare in grembo un altro figlio di Roma».

    «Figlio nostro, Publio».

    Bussarono alla porta.

    «Figlio nostro, Publio», ripeté vedendo lo sguardo di lui seguire Eutidemo, il vecchio schiavo greco che faceva da precettore del piccolo Publio, che andava all’ingresso.

    «È un Mure, Julilla», ribatté lui lasciando l’abbraccio.

    Eutidemo tornò.

    «Un feziale ti attende alla porta domine. È accompagnato da dodici littori».

    Publio Decio Mure si sentì pervaso da un calore profondo. Era console per la quarta volta. Aveva superato il padre. Guardò Julilla. «È figlio di Roma».

    III

    Onore

    I passi decisi di Publio Decio Mure echeggiarono tra i mosaici dell’atrio della casa di Quinto Fabio Massimo Rulliano. Lo schiavo che gli faceva strada si fermò poco prima del colonnato del giardino interno e con fare ossequioso lo invitò a procedere da solo, indicandogli con la mano aperta la figura del padrone di casa che lo attendeva oltre la vasca rettangolare.

    «Sono arrivato appena ho potuto Rullus».

    «Ti ringrazio», rispose l’anziano console facendosi incontro, «so che sei molto preso per i preparativi, anzi, ti chiedo scusa per averti messo fretta».

    «Non ti preoccupare, da quando abbiamo accettato dobbiamo essere sempre pronti, non è vero?»

    «Verissimo, ahimè. Ma per prima cosa: come sta la cara Julia?»

    «Bene», ribatté Mure abbozzando un sorriso, «di salute bene, di animo è in ansia per la mia partenza».

    «È una caratteristica delle mogli dei consoli mio caro. Noi ci adattiamo al presente e loro si spingono nel futuro con il pensiero, immaginando il peggio».

    «Deve essere proprio come dici, ma questa volta è più angosciata del solito, forse perché è in dolce attesa».

    Rulliano allargò le braccia. «Questa sì che è una notizia! Così mi piaci figliolo! Riempi questa città della tua virtuosa discendenza».

    «Ci vuole tempo anche per fare i figli ed è difficile se sono sempre in guerra. Quindi per il momento Roma si dovrà accontentare».

    «Già», ribatté il vecchio console invitando il collega a sedersi. «Fato ci vuole sempre pronti a combattere. Forse noi siamo destinati a salvare i figli di Roma, invece che generarli. E questo, oltre a togliere buona parte del piacere, porta a salvare anche qualcuno che non ne è poi così degno».

    Publio Decio rise.

    «Ma ora veniamo al motivo per cui ti ho convocato di fretta e in sordina, amico mio», disse il vecchio console dopo aver allontanato con un gesto sbrigativo lo schiavo che li aveva raggiunti con due coppe di vino addolcito. «Abbiamo già lavorato a lungo insieme e tra noi c’è stata sempre una grande intesa e tu sai come la penso sui nostri senatori. Alcuni sono ottimi elementi, altri buoni, altri ancora mediocri e così via. Io credo, anzi, ne sono sicuro, che questo consolato sarà ancora più difficile degli altri, perché oltre a combattere i nostri nemici, dovremo guardarci dagli amici. Quelli che agiscono nell’ombra della curia».

    Quinto Fabio lanciò un’occhiata verso il colonnato. Erano soli, ma si fece lo stesso più vicino e abbassò la voce. «Appio Claudio, il nostro proconsole che ha condotto le operazioni fino a ora con Lucio Volumnio, ha esagerato la gravità del conflitto in Etruria, nei suoi rapporti arrivati in Senato».

    «Come fai a dire che sono esagerati?»

    «Perché lo conosco. Gli piace enfatizzare e non prendere le necessarie contromisure. Non è un buon soldato ma è un abile politico. Scommetterei il mio patrimonio che si è fortificato in campi inespugnabili permettendo al nemico di organizzarsi e agire. Questo è il modo peggiore per tenere sia i nostri che i nemici. Gli uomini devono essere in costante movimento, in modo da non aver molto tempo per pensare e non infiacchirsi. Allo stesso modo anche il nemico deve temere l’arrivo di una legione da un momento all’altro per non avere il tempo di prendere l’iniziativa».

    «È per questo che il Senato e il popolo ti hanno votato. Tutti si affidano a Quinto Fabio per fronteggiare questo pericolo».

    «Non tutti Publio. Una parte del Senato mi accusa di essermi spinto troppo oltre quando ho affrontato gli Etruschi alle pendici dei monti Cimini».

    «Oltre?»

    «Sì, oltre. Se avessi evitato di addentrarmi in quella selva, sconfinando nelle terre degli Umbri, forse ora quei montanari sarebbero ancora tra le loro colline boscose e non si sarebbero alleati agli Etruschi».

    Decio Mure scosse il capo con un sorriso. «Non posso credere che il vecchio Rulliano riceva delle pressioni da uno sparuto gruppo di senatori dopo ciò che ha fatto per Roma».

    «Eppure è così. Se ci riflettiamo, io

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