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I Guerrieri Eterni
I Guerrieri Eterni
I Guerrieri Eterni
E-book399 pagine4 ore

I Guerrieri Eterni

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Info su questo ebook

In una sonnolenta cittadina della California, cinque adolescenti scoprono di possedere delle abilità che non avrebbero mai immaginato possibili, dalla lettura del pensiero alla manipolazione della materia, fino al controllo del Tempo stesso.

Messi a dura prova dalle loro nuove capacità, tutti insieme cercheranno delle risposte. Inseguiti dalla fazione dei Rageto, persone come loro ma assetate di potere, i cinque giovani cercheranno di scoprire la verità sui loro doni… e di restare in vita.

Riusciranno ad abbracciare il vero potere capace di liberare il loro guerriero interiore?

LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2021
ISBN9781071585542
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    Anteprima del libro

    I Guerrieri Eterni - M.J. Sewall

    A mia figlia, Chelsea.

    Sei tu che mi hai reso chi sono.

    Grazie di tutto.

    e z f

    Prologo

    2004

    Sri Lanka

    I

    l rumore delle catene di David ruppe il silenzio.

    I due fratelli lo trascinarono su per la collina scoscesa. Nonostante fosse prima mattina, il sole era già caldo e poche persone avrebbero potuto notare degli stranieri.

    «Perché non abbiamo usato le manette?» chiese Derek.

    Ehrnhardt rispose con il suo pesante accento tedesco. «Non mi fido delle manette moderne, troppo fragili. Le catene sono migliori.»

    Ehrnhardt incatenò David a un albero, posto in cima alla collina sovrastante la vasta distesa dell’oceano. David non resistette. La schiena premuta contro l’albero, davanti la vista del mare, avvertì il peso opprimente delle catene. Il fardello dato dal collare che gli avevano fatto indossare era ben peggiore. Il freddo e infausto amuleto gli sfregò contro la pelle.

    David guardò verso l’oceano Indiano, meravigliandosi delle diverse tonalità di azzurro di quella distesa. Si focalizzò sul pericolo. Non li aiuterò mai, pensò. Almeno lei sarà salva. Catturò quel pensiero e lo seppellì in profondità. Persino i pensieri casuali erano pericolosi in quel momento.

    «Sarà alto abbastanza? Ce ne andremo in tempo?» disse Derek, passando le dita tra i corti capelli biondi. «Fa già così caldo. Mi sa che sto sudando anche la colazione.»

    «Ti ho detto di non mangiare più carne, ti fa male» disse Ehrnhardt, asciugandosi le mani con un fazzoletto. Scrutò la zona. «Sì, è alto abbastanza.»

    Derek fece tintinnare le catene. «Sei pronto, Davy?»

    David sussultò per il soprannome. Come se fossimo amici, pensò. Poi disse: «Potete tenermi prigioniero, ma non potete costringermi ad aiutarvi.»

    «Sbagliato. Tu ci aiuterai. La tua disobbedienza ha portato a questo giorno» replicò Ehrnhardt.

    David si appoggiò con ancor più forza all’albero, senza avere idea di cosa sarebbe accaduto. Quello offrì poco riparo dal sole mentre guardò con gli occhi socchiusi quella vista spettacolare.

    L’esile torace di Derek respirava ancora a fatica. Guardò il fratello maggiore. «Quanti anni ha il tuo corpo questa volta? Trentacinque? Come puoi restare in forma solo con del curry e il riso?»

    Ehrnhardt scosse la testa. «Quanti anni ha il tuo? Ventitré? Stai ansimando come un cane perché non ti prendi cura di te, mangia carne.»

    «Sono carnivoro, non chiederò scusa per questo» disse Derek.

    «Barbaro» lo accusò il fratello.

    «Vegetariano!» rimbeccò Derek.

    Ehrnhardt arrivò sul ciglio della collina, studiandola alla ricerca del punto perfetto per cominciare.

    Derek si avvicinò al fratello e sussurrò: «Sei sicuro di volerlo fare, fratello? Ci sono altri modi per punirlo. Questo ti lascerà senza forze per una settimana. Ci sono metodi meno estremi.»

    «Questo risolverà parecchi problemi, fratello» disse Ehrnhardt. Si rivolse a David. «Ultima possibilità.»

    David si rifiutò di incrociare il suo sguardo. Ehrnhardt scosse la testa, poi scrutò la distesa d’acqua. Proprio davanti a loro vi era l’immenso oceano Indiano, alla loro sinistra la costa dello Sri Lanka. Era presto e solo pochi pescherecci erano già usciti in mare.

    Lungo la costa si ergeva un miscuglio di baracche ed edifici lussuosi. Il moderno faceva da sfondo al passato: le grezze baraccopoli crescevano ai piedi dei grandi alberghi e dei resort. I binari sopraelevati del treno serpeggiavano lungo la linea della costa.

    David provò a ignorarli, ma Derek continuò a parlare. «Non mi abituerò mai al nome Sri Lanka. Mi piaceva quando lo chiamavano Ceylon. Suonava meglio. Non sanno nemmeno pronunciare correttamente il nome della loro stessa nazione. Dovrebbe essere pronunciato come s-h. Shri Lanka, non Sri Lanka. Che cosa vorrà dire, poi?»

    «È complesso» rispose Ehrnhardt, «ma L’isola vulnerabile è il significato più accurato.»

    «Non volevo saperlo» Derek scosse la testa. «Come fai a non capire ancora quando sono domande retoriche? Ehi, non hai combattuto qui una volta?»

    «Sì. Qualche vita fa. Nel 1840 ho combattuto con un antico in una miniera di zaffiri. Il Vichingo. Sono certo te lo ricordi.»

    «Oh, sì» poi Derek cambiò argomento, tornando a quello di prima. «Sarà difficile.»

    «Pagherò il prezzo» Ehrnhardt era deciso. «Deve sapere fin dove possiamo arrivare. È il miglior scopritore che abbiamo mai avuto. Ci obbedirà.»

    Derek annuì. Insieme guardarono David incatenato all’albero. Lui stava osservando le onde.

    Ehrnhardt gridò: «Ti privo del tuo nome. Da questo giorno sarai chiamato lo Spettatore.»

    «Oh, Spettatore. Mi piace» disse Derek. «Credo ti stia nascendo una certa immaginazione dopo tutte queste vite, fratello.»

    Lo Spettatore continuò a osservare il tutto, senza emozioni, il viso ridotto a una maschera. Ma un brivido freddo gli corse lungo la schiena.

    Ehrnhardt tornò sul ciglio della collina, cadde in ginocchio e affondò le mani nel terreno erboso davanti a sé. Pronunciò alcune parole che David non capì, forse un miscuglio di diverse lingue. Ehrnhardt continuò a ripeterle ancora e ancora, scavando con le dita sempre più a fondo nella terra calda.

    Tutti avvertirono qualcosa. Sembrò arrivare da un luogo indefinito, tutt’attorno a loro, ma la sensazione colpì David alla bocca dello stomaco. Sembrava di trovarsi su un treno in corsa, con i vagoni traballanti costretti a fermarsi all’improvviso. Senza alcun legame con quella sensazione, l’immagine di un treno gli balzò alla mente. David spostò il proprio corpo per guardare i binari sopraelevati.

    Ehrnhardt ripeté ogni parola, alzando via via la voce. David guardò verso il mare, poi di nuovo verso l’entroterra, ma nulla apparve diverso. Passò un solo secondo, poi cominciò ad avere l’impressione di barcollare. E tornò di nuovo quella sensazione. David realizzò che non era una finta minaccia. Stava arrivando qualcosa di terribile.

    Tutto si fece tranquillo. Mortalmente tranquillo. Ehrnhardt aveva smesso di parlare. Si teneva la testa mentre sedeva per terra.

    David guardò i due fratelli, poi vide i pesci. C’erano pesci ovunque, che saltavano dall’acqua sulla costa. Mentre li fissava, David capì che non erano saltati fuori dal mare. Al contrario, era l’acqua ad averli abbandonati. L’oceano si era ritirato su sé stesso per centinaia di metri, lasciando i pesci a dimenarsi, a morire.

    Derek raggiunse David e gli afferrò il retro del collo. Lo obbligò a guardare. «Te lo sei meritato, Spettatore.»

    David vide i bambini entusiasti correre verso i pesci, ridendo e scherzando. Ma gli adulti li inseguirono, gridando, chiaramente terrorizzati. Derek ruotò di scatto la testa di David verso l’oceano. Stava tornando.

    Ed era tantissimo.

    Un vero tsunami non è come quelli creati a Hollywood con gli effetti speciali. Non ha l’aspetto di un’alta onda piena di creste che un surfista potrebbe cavalcare. Ciò a cui David assistette fu come se l’oceano si fosse moltiplicato durante il suo breve distacco dalla costa. Ora stava facendo ritorno, tre, quattro, cinque volte più grande di prima. Era come se la terra si fosse rimpicciolita, diventando più piatta, e una immensa ondata di acqua la stesse invadendo come un esercito.

    Il mare mostruoso entrò in profondità nell’entroterra, coprendo gli alberi, gli edifici. E le persone, così tante persone. Entrò come una furia, spingendo coloro che erano sulla spiaggia nei territori interni. Le persone inermi furono inghiottite, o schiacciate contro la strana commistione tra edifici bassi e quelli alti e moderni.

    «No!» gridò lo Spettatore, ma nessuno poté udirlo. Il silenzio di poco prima si era arreso a quell’incredibile distruzione.

    Derek puntò l’indice. «Oh, oh. Treno in arrivo.»

    Un lungo treno si stava avvicinando sui binari sopraelevati, forse sospeso una mezza dozzina di metri sopra le strade. Si stava precipitando verso quella parte di costa che ora era un tutt’uno con il mare.

    Si fermò lentamente, i binari rialzati ora inghiottiti dalle acque rapide e violente. Le persone vi scesero a fatica, arrampicandosi sul tetto del treno, o sulle strutture nelle vicinanze, quelle che sporgevano dall’acqua.

    Poi la seconda ondata colpì, ben più grande della precedente.

    Il nuovo moto ondoso ingoiò il treno. Le carrozze furono sbalzate giù dai binari come giocattoli. David non poté distogliere lo sguardo, poco importava quanto volesse farlo. Si accorse di singhiozzare.

    Ehrnhardt si sfregò la testa, osservando la sua opera.

    «Abbiamo dovuto distruggere questo risveglio invece di usarlo» disse Derek. «Invece di darci tre guerrieri, hai ottenuto solo distruzione.»

    Lo Spettatore guardò i fratelli, il corpo scosso da grandi singhiozzi. Le lacrime caddero copiose, incapaci di fermarsi. Non sentì nemmeno atterrare l’elicottero, a una decina di metri di distanza.

    Derek arricciò le labbra, quasi comprendesse la pena dello Spettatore, mostrando compassione per la prima volta da quando lo avevano fatto prigioniero. Gli si avvicinò e fece scivolare un dito sotto l’occhio dell’uomo, catturando le sue lacrime. Poi si portò il dito umido alla bocca. «Mm, disperazione. Che sapore dolce!»

    Aprirono le catene e dovettero staccare a forza le braccia dello Spettatore dall’albero. Mentre tutti e tre montavano sull’elicottero, Ehrnhardt scosse la testa. «Guarda cos’hai fatto.»

    Prima Parte

    e

    ––––––––

    "I segreti più grandi si celano

    nei luoghi più impensabili."

    ~ Demonis Codex

    e z f

    Capitolo Uno

    Zacke

    Oggi

    Sea Valley, California

    Z

    acke Penna prese un respiro profondo e aprì le lucide porte a vetri, decorate con gli stencil di alberi di palma e il disegno di un hamburger. Si mise in fila dietro un ragazzo di sedici anni, un suo coetaneo, senza sapere chi fosse. Il ragazzo ordinò e si spostò.

    «Ciao. Benvenuto da Ocean Burger. Come posso aiutarti?» chiese la giovane alla cassa.

    Zacke le rivolse un sorriso tímido. «Ciao. Sto cercando il responsabile, Ted. Dovrei iniziare oggi.»

    «Fico! Te lo chiamo» lei sorrise di rimando.

    Ted, il responsabile leggermente sovrappeso, arrivò al bancone. «Sei Zacke, giusto?» Sarà sua mamma a essere nera o suo padre?

    No, per favore, non oggi, pregò Zacke, mentre cercava di scacciare i pensieri dell’uomo dalla sua mente. Si accorse di aver aspettato troppo a rispondere e replicò: «Sì, sono io. Spero che le scarpe vadano bene. Hanno detto che sono antiscivolo.»

    «Andranno bene finché non ordiniamo quelle giuste, con l’uniforme. Vieni qui dietro al bancone» gli fece cenno Ted. «Ci occupiamo delle scartoffie.»

    Zacke girò attorno al bancone e oltrepassò la porta a ventola verso la cucina. C’erano diverse altre persone al lavoro mentre lui e Ted avanzavano verso l’ufficio nel retrocucina; nel seguirlo attraverso il labirinto di tavoli e attrezzature, Zacke fece del suo meglio per restare concentrato. Per fortuna, tutto ciò che coglieva quel giorno erano solo pensieri frammentati.

    Un nero? Non credo che...

    ... è carino...

    Begli occhi...

    ... Alto.

    Zacke evitò il contatto visivo. Sembrava aiutare a tenere lontani i pensieri. Immaginò due metà di una grande sfera di metallo e, con la mente, le fece combaciare. Di solito funzionava, ma stava diventando più difficile negli ultimi tempi. Accettare quel lavoro era un azzardo ma, con suo padre sempre ubriaco, era un buon modo per andarsene di casa e farsi strada da solo.

    Ted fece accomodare Zacke a una piccola scrivania. «Qui c’è il nostro regolamento, dacci un occhio. Devi compilare i moduli di idoneità al lavoro e delle tasse. Posso aiutarti io con questi, o puoi portarli a casa ai tuoi genitori.»

    «C’è solo mio papà» corresse Zacke.

    «Oh, ok» disse Ted in tono professionale. «Ti può aiutare tuo papà e li riporti dopo.» Divorziato? «Ma non riceverai il primo assegno finché non avrò tutti i tuoi documenti.» Morta? Spero che sua mamma non...

    Zacke immaginò due grandi mani scacciare la sfera su sé stessa con ancora più forza. I pensieri di Ted si fecero silenziosi. «Penso di potermene occupare senza mio padre. Grazie, Ted.»

    «Quando hai finito, guarderai qualche video di formazione sul computer» il responsabile gli spiegò cos’altro avrebbe dovuto fare e, dopo che Zacke ebbe capito, lo lasciò solo nella stanza sul retro. Le carte non erano complicate. Non era certo di quante persone dichiarare, a carico o no, perciò indicò soltanto sé stesso. Solo io. È così mi sento in questi giorni.

    Zacke si sarebbe occupato del suo primo lavoro tutto da solo.

    Era a metà del primo video da quindici minuti, quando entrò una ragazza. Sembrava avere uno o due anni più di lui; i lunghi capelli neri erano raccolti in una perfetta coda di cavallo e la pelle pallida li faceva sembrare ancora più scuri. Zacke provò a non guardarle il didietro. Fallì, ma pensò non se ne fosse accorta.

    «Ehi, ciao. Tu sei quello nuovo?» chiese, oltrepassandolo in fretta per raggiungere gli armadietti lungo la parete opposta.

    «Già. Sono Zacke» si focalizzò sul tenere la sfera sigillata. Ma le punte arancioni dei suoi capelli gli fecero perdere la concentrazione.

    «Sono Victoria» disse, dandogli la schiena e aprendo il suo armadietto. «E il tuo cognome?» Si tolse la maglietta, lasciando intravedere le spalle nude e una spallina del reggiseno. In fretta indossò la camicia della divisa. Zacke non poté credere che si fosse cambiata davanti a un altro collega. Si accorse che la stava fissando e che aveva impiegato troppo a rispondere.

    «Uhm. Penna. Zacke Penna» riuscì a dire alla fine.

    Victoria drizzò la testa. «Italiano? O è qualcos’altro?»

    «Già... cioè, sì» farfugliò Zacke. «Il ramo di mio papà è italiano, per la maggior parte.»

    Lei ruotò su sé stessa, la camicia già tutta abbottonata, e la infilò nei pantaloni. «Oh» indicò la divisa. «Scusa. Non sono timida. Alle superiori ho fatto teatro. Doverti cambiare in fretta tra una scena e l’altra ti spoglia di ogni pudore. Si fa per dire.»

    Zacke tornò a guardare i fogli per evitare di fissarla. «Nessun problema.»

    «Zacke Penna. Mi piace. Piacere di conoscerti, Zacke Penna» camminò verso di lui, aggiustando la targhetta con il nome. «Quindi... Tu cosa sei?»

    Zacke sorrise. Diretta. Mi piace. Senza esitare, rispose: «Mulatto. Mio papà è bianco. Mia mamma nera.»

    «Fico. Quelli sono proprio dei begli occhi verdi» allungò una mano per stringere la sua. «Piacere di conoscerti...» gettò un’occhiata ai suoi fogli. «Zacke con la e. Ti addestrerò per le prossime due settimane.»

    Zacke restò in ascolto per cercare qualsiasi pensiero le sfuggisse, allentando la stretta sulla sfera di metallo solo un poco. Non sentì nulla. Bene. Forse è finalmente sparito, pensò. O forse è lei.

    Victoria aveva ancora la mano tesa. «Zacke, è un’usanza di noi umani stringerci la mano quando ci incontriamo.»

    Si era bloccato troppo a lungo, di nuovo. «Oh, scusa» le strinse la mano.

    «Vieni a cercarmi quando hai finito con i video» sorrise.

    Si avviò fuori, ma si fermò per regalargli un altro sorriso. Lui perse un altro po’ di controllo sulla sfera, ma non sentì nessuno dei suoi pensieri.

    Mi piacerà questo posto.

    * * *

    Qualche giorno dopo, Zacke non riuscì a credere quanto fosse affollato. La fila di persone sembrava non fermarsi mai. Erano solo le sette di sera, tre ore dopo l’inizio del suo turno, e non riusciva a sparecchiare i tavoli abbastanza in fretta.

    Vide molti ragazzi della SVH, la Sea Valley High. La scuola era solo a qualche isolato dall’Ocean Burger, perciò sapeva che a pranzo erano stracarichi di lavoro. Anche lui si era fermato lì qualche volta, tra una lezione e l’altra, ma non pensava fosse così affollato anche nel resto della giornata.

    Zacke non riusciva ancora ad abituarsi ai campus della California, più liberali. Si sentiva l’ultimo arrivato, e la possibilità di uscire all’aria aperta per raggiungere il proprio armadietto, o la lezione successiva, gli sembrava ancora surreale.

    Ricordò di essersi sentito schiacciare nei diversi piani di corridoi rumorosi, durante il freddo e umido inverno trascorso in Michigan. Quei pavimenti scivolosi, il rimbombo continuo degli armadietti che venivano sbattuti invece che chiusi. Poter uscire dalla scuola per pranzare era una fantastica idea, ma Zacke di solito restava vicino al campus. Era più conveniente, e non aveva intenzione di perdere di vista il proprio futuro. Guardare dritto davanti a sé gli impediva di pensare a sua mamma.

    Victoria, la sua referente, gli lanciò un sorriso. Il suo era un nome da vecchia signora, ma lei lo rendeva molto attraente. Zacke non era ancora riuscito ad ascoltare nessuno dei suoi pensieri, cosa che gliela faceva piacere ancor di più. Doveva concentrarsi. Non ti distrarre. Mantieni il controllo.

    Con tutte quelle persone attorno, era difficile tenere lontani i pensieri che arrivavano a caso, ed era una delle ragioni per cui aveva scelto quel lavoro. Devo controllarlo. Zacke prese un vassoio pieno di scatole accartocciate e le gettò nell’immondizia, dirigendosi verso il prossimo tavolo da pulire.

    Era migliorato un po’ tutti i giorni, nel tenere lontani i pensieri. Zacke si permetteva di sperimentare, lasciando entrare nella sua mente solo determinate voci. Il suo controllo stava diventando più preciso e anche i pensieri erano più facili da capire, erano più forti.

    ... Gli chiederò di usare il suo telefono, tanto sa che il mio è rotto. Non lo sto spiando..., pensò una tipa bionda, seduta con il suo ragazzo.

    La madre con il neonato in un angolo meditò: Non mi piace tutta questa ressa. La prossima volta prendo l’asporto...

    Un gruppo di studenti entrò dalla porta giusto in quel momento, mettendosi in fila. Tutti atleti, e Zacke ne riconobbe uno. Era Cody Nichols, l’unico membro della squadra di football a non essere ancora stato battuto. La prima partita del nuovo anno scolastico era stata vinta a mani basse, 47 a 6, e Cody era il quarterback più giovane nella storia della SVH, almeno a sentire la gente del posto.

    Aveva già visto Cody in giro, soprattutto per la sua bici. Era verde, vecchia e messa male, un po’ troppo piccola per lui. Zacke l’aveva notata perché gli atleti più grandi avevano l’auto e Cody, più giovane della maggior parte di loro, non poteva ancora guidare. Però aveva trovato strano che il quarterback usasse una vecchia bici scassata per arrivare a scuola.

    Zacke doveva essersi concentrato su di loro troppo a lungo. Un pensiero lo colpì: ... È sexy. Chissà se... Poi si focalizzò su Cody. Stava scherzando con un amico e una strana immagine gli occupò la mente. Era un forziere, con attaccato un largo lucchetto vecchio stile, uno di quelli che si vedono nei film con i cavalieri e i castelli medievali. Lasciò vagare la mente verso quell’immagine, poi Cody lo guardò.

    Zacke vide la confusione sul suo viso e distolse in fretta lo sguardo. I ragazzi conoscevano la regola non scritta: mai tenere il contatto visivo troppo a lungo. Ma comunque Cody aveva ricambiato lo sguardo, confuso e forse anche con una leggera paura scritta ovunque sul suo volto. Zacke abbassò gli occhi per terra e si diresse verso il cestino, lontano dalla visuale degli atleti.

    Era pieno solo a metà, ma lo svuotò lo stesso, lo pulì e cambiò il sacco. Si affrettò dietro al bancone e sparì nella stanza sul retro. La sua mente non ne voleva sapere di lasciar perdere Cody. La sua bici verde continuò a comparirgli davanti. Si disse che forse i suoi genitori non potevano permettersi nulla di meglio.

    Gettati i rifiuti e lavate le mani, Zacke tornò nella sala da pranzo principale. Il forziere e il suo vecchio lucchetto gli riapparvero davanti di colpo e alzò gli occhi giusto in tempo per vedere Cody e i suoi amici andarsene con le confezioni da asporto. Cody lo fissò. Un pensiero attraversò la mente di Zacke e lo sentì estraneo, non suo.

    Fuori dalla mia testa.

    Era chiaro proprio come ogni altro pensiero avesse mai avuto. Quando Cody vide l’espressione sul volto di Zacke, lo sguardo consapevole per aver sentito quel pensiero, ne restò scioccato. E se ne andò con i suoi amici in tutta fretta.

    È successo davvero?, pensò Zacke. Devo per forza parlare con quel tipo.

    e z f

    Capitolo Due

    Katie

    K

    atie Moran si fermò nel piccolo bosco di eucalipti. Aveva cambiato i vestiti e rimesso gli stivali. Fece scivolare con attenzione la gonna corta e la canottiera nello zaino. I capelli biondo rame le arrivarono alle spalle e si diede una controllata, per essere sicura che i vestiti indossati fossero tutti al sicuro nella sacca. A Sammy sembrava piacere com’ero vestita. Uscì dal boschetto, ma venne sorpresa da una voce.

    «Ciao Katie.»

    «Megan! Ti ho detto di non spaventarmi così. Da quanto sei qui?»

    «Abbastanza» rispose Megan, sorridendo.

    Katie la oltrepassò. «Non ti accompagno a casa.»

    «Mamma ha detto che devi, invece» replicò l’altra.

    «Allora cammina dietro di me» sospirò Katie, sistemando le maniche lunghe della sua camicia. «Avanti, mostriciattolo.»

    Megan si imbronciò. «La mamma ha detto di non chiamarmi così.»

    Katie scosse la testa. «Mia mamma, non tua. Lei è mia mamma, piccola sorellastra.»

    Megan fece spallucce e seguì Katie lungo il sentiero in terra battuta che fiancheggiava il loro campo. Oltrepassarono i cavoli cappucci, allineati in file perfette, mentre percorrevano l’ultimo pezzo di strada tra la fermata dell’autobus e la loro fattoria.

    «Hai un fazzoletto, o qualcosa di simile?» chiese Megan, a quattro passi di distanza da Katie.

    Lei continuò a camminare. «Asciugati il naso con una manica.»

    «È per te» disse Megan. «Vorrai toglierti il trucco prima che mamma e papà lo vedano.»

    Katie si fermò, le scoccò un’occhiata da Perché non me l’hai detto? e si tolse una bretella dello zaino dalla spalla. Prese una salvietta struccante già usata dalla tasca frontale e si pulì il viso.

    «Grazie. Non dire niente.»

    «No» disse Megan. «Vuoi vedere un film dopo aver fatto le pulizie?»

    «Non lo so. Ho un mucchio di compiti da fare» Katie continuò a pulire. «Tolto tutto?»

    «Sì. Mi insegni a truccarmi?» chiese Megan.

    «Jason e la mamma hanno dato di matto per me, perché mi trucco. E ho quindici anni. Però tu sei la preferita, quindi magari te lo lasceranno provare anche a undici.»

    Megan drizzò la testa, fece un ampio sorriso e allargò le braccia con fare drammatico. «Vero! Tutti sanno che sono la preferita.» Ridacchiò e corse verso casa.

    «Sei un mostriciattolo!» disse Katie, iniziando a rincorrerla, ma anche lei stava sorridendo. Percorsero di corsa gli ultimi trenta metri verso il ranch di famiglia, circondato su tre lati da campi coltivati. Si fermarono, ansimanti. Poi Megan urlò.

    «Non muoverti» sussurrò Katie. Quasi che il serpente a sonagli potesse rispondere al suono della sua voce, alzò la testa e si accorse delle ragazze. Il corpo era avvolto su sé stesso, fermo a un passo dalla gamba di Megan, che respirava pesantemente, paralizzata.

    Il serpente fece sibilare la lingua biforcuta, decidendo il momento perfetto per colpire. Megan gridò di nuovo.

    Le mani di Katie scattarono in avanti. Nello stesso istante, il serpente volò in aria, ma fu scaraventato in direzione opposta alle ragazze. Atterrò a una trentina di metri di distanza, e restò immobile.

    Megan smise di gridare. Si voltò verso Katie. «Hai...»

    «No» Katie lasciò cadere le mani. «Forse... Non puoi dirlo a nessuno.»

    Jason uscì di corsa dalla porta d’ingresso. «Cos’è successo? State bene, ragazze?»

    Megan guardò Katie, che scosse la testa.

    «C’era un serpente a sonagli» Megan lo indicò. Ancora non si era mosso.

    «Cos’è successo?» chiese Jason.

    «Io... ho raccolto il serpente e l’ho gettato laggiù» spiegò Katie.

    «Tu cosa!? Sai quant’è pericoloso?»

    «Non stavo pensando!» rispose Katie. «Era vicino alla gamba di Megan e...»

    «Megan, tesoro, stai bene?» afferrò la figlia per le spalle con dolcezza. Poi alzò lo sguardo e vide in che condizioni era il serpente. Gli usciva del sangue dalla testa. «Katie... cosa gli è capitato?»

    Lei esitò. «Non lo so. Deve essere caduto su un sasso affilato» guardò Megan, lanciandole un’occhiata di ammonimento. La bambina non disse nulla.

    «Sono così felice che stiate bene. Katie avresti dovuto chiamarmi. I serpenti a sonagli sono...»

    «Scusa se ho salvato la vita a tua figlia, Jason!» sbottò Katie. «La prossima volta lascerò che mordano il mostriciattolo!» corse in casa, sbattendo la zanzariera.

    Jason sospirò. «Sicura di stare bene, tesoro?» chiese a Megan.

    «Sì, papà. Non è stata colpa di Megan.»

    Lui sorrise alla figlia. «Lo so. Va’ in casa. Mi occupo io del serpente.»

    Raggiunse l’animale morto. La testa era spappolata, come se fosse stata schiacciata contro un muro di mattoni.

    * * *

    Più tardi, quella stessa sera, Katie prese il proprio piatto e si diresse in camera sua. Sua madre aveva rinunciato a cenare come una famiglia normale, stanca di lottare con i suoi comportamenti da adolescente depressa. Katie portava la cena nella sua stanza e Megan mangiava in sala da pranzo con il padre e la sua matrigna.

    Non passò molto prima che sua mamma bussasse alla porta di Katie. Lo schermo del computer non era rivolto verso sua madre, ma Katie chiuse lo stesso la pagina della sua band preferita, lasciando sullo sfondo la ricerca di storia.

    «Ehi.»

    «Sono venuta a prendere i piatti sporchi» sua madre guardò la pila, già lì da diversi giorni.

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