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E-book209 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Napoleone, fuggito dall'Elba, vorrebbe la rivincita sui campi di Waterloo. Lady Victoria LeClaire parte dall'Inghilterra, travestita da uomo, per cercare a Bruxelles il fratello gemello, dato per morto in battaglia. Qui si prodiga per portare aiuto ai feriti e tra questi incontra Deverell St Simon. La situazione si complica mentre i due tentano di rintracciare il fratello di lei: Dev ha ricevuto dal duca di Wellington l'ordine di arrestarlo...
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2016
ISBN9788858958421
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Autore

Georgina Devon

Californiana, dopo essersi laureata in Storia si è arruolata nell'Aeronautica Statunitense. Sposata con un pilota di caccia, ha abbandonato la carriera militare per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

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    Anteprima del libro

    Tradimento - Georgina Devon

    successivo.

    Prologo

    Waterloo, domenica 18 giugno 1815

    È un inferno. Questa guerra è un inferno!

    Il maggiore lord Deverell St Simon si passò la mano sul viso, sporcandosi naso e guance di acqua piovana e fango.

    Che caldo insopportabile!, pensò con rabbia, umido e afoso.

    Quanto detestava Napoleone Bonaparte. Lo odiava per aver scatenato quella guerra sanguinosa.

    Che sia dannato lui e il suo progetto di dominare il mondo intero!

    Se Napoleone non fosse fuggito dall'isola d'Elba, non sarebbe scoppiato alcun conflitto cruento. Due eserciti non avrebbero dovuto affrontarsi in combattimento mortale. Ma Napoleone non aveva voluto rassegnarsi al proprio destino e aveva portato ancora una volta l'Europa sull'orlo della rovina.

    Deverell era esacerbato e le sue truppe erano demoralizzate.

    Di tanto in tanto, gli capitava di scorgere Napoleone in cima a un colle vicino e lo vedeva incitare i propri soldati alla vittoria. Il bastardo! Per colpa sua, il fior fiore della gioventù britannica era disposta a perdere la vita. Era lui, quel dannato, la causa di quattro giorni di combattimenti durante i quali entrambe le parti avevano subito gravi perdite.

    Il fumo prodotto dalle armi da fuoco aleggiava soffocante e acre, come nebbia cupa, sul terreno dove mota e sangue si mescolavano e da cui si levava una puzza insopportabile di morte.

    Riprese a piovere.

    Eppure, in mezzo a quella desolazione, Dev trovò la forza di abbozzare un mezzo sorriso all'amico e collega ufficiale, capitano Patrick Shaunessey.

    «Pat, ce l'abbiamo quasi fatta. Non perdere la speranza proprio adesso.» Aveva pronunciato quelle parole, quell'incoraggiamento per l'amico, ma anche per se stesso.

    Pat abbozzò una smorfia. Il pallore del volto risaltava maggiormente in contrasto con la tinta carota dei capelli, sporchi di sudore e di fango.

    «Se non moriremo prima» rispose con amarezza.

    Dev alzò le spalle e scosse il capo, spruzzando gocce dalla chioma castana.

    «Avresti parlato anche tu come me, Pat, se non fossi stato tanto stanco.»

    Per la prima volta in quella giornata maledetta, si formò l'accenno di un sorriso sulla bocca di Pat.

    «Eppure io non mi sono fermato al ballo della duchessa di Devonshire fino all'ultimo momento, tanto da non avere il tempo di infilarmi l'uniforme.» Gli occhi azzurri scintillavano, maliziosi, mentre fissava con intenzione la camicia da sera di Deverell, macchiata di polvere da sparo.

    «Non per niente mi chiamano Devil, Diavolo!» ribatté l'amico. Scherzare avrebbe risollevato il morale di entrambi. «Non volevo certo lasciare il ballo della duchessa in fretta e furia e perdermi il meglio. C'erano tante dame disposte a consolare un uomo sul punto di partire per la guerra.»

    La risposta del capitano, il suo sbuffare divertito, si perse nella folata di vento che passò tra i pioppi. La pioggia ormai scrosciava copiosa, trasformando il terreno fangoso in un acquitrino che avrebbe ostacolato uomini e mezzi in movimento. Sarebbe stata intralciata negli spostamenti soprattutto l'artiglieria.

    Volgendosi a destra, Deverell scorse il duca di Wellington. Il duca era in sella al suo sauro e indossava il completo usuale, giacca blu scuro, calzoni alla zuava bianchi, cravatta e cappello a tre punte.

    «Mi domando che cosa stia progettando» borbottò Pat, drizzandosi quel tanto che bastava per guardare oltre il crinale di Mont Saint Jean, dove Wellington aveva scelto di prendere posizione e di resistere sino alla fine contro Napoleone.

    «Lo sapremo presto» commentò Dev.

    Il sole forò le nubi, ammantando il terreno già umido con una coltre di bruma. Dev si sarebbe levato volentieri la giacca, ma considerò che non sarebbe stata una buona idea, dato che il bianco della camicia avrebbe fatto di lui un bersaglio facilmente individuabile, proprio come il rosso delle uniformi britanniche.

    «Dev, Pat» chiamò il tenente colonnello sir James Macdonell, «venite qui. Ci sono ordini.»

    Entrambi si scambiarono un'occhiata significativa e obbedirono.

    Macdonell era un imponente scozzese che aveva fama di riuscire dove nessun altro poteva. Al momento, le sue labbra erano serrate in una smorfia preoccupata.

    «Wellington ci ordina di tenere il castello di Hougoumont.»

    «E con che cosa?» chiese Dev, rendendosi conto che il castello si trovava in una posizione difficilmente difendibile.

    «Mi ha assegnato il comando degli scozzesi e delle guardie reali, i nostri reggimenti migliori.» Erano due corpi valorosi, di cui il secondo veniva anche chiamato reggimento delle guardie di Coldstream, dal nome della fortezza in Scozia dove erano nate, quasi due secoli prima. «Il castello ha un ruolo strategico essenziale. Finché sarà nostro, infatti, Napoleone sarà costretto a dividere le sue forze per prendere Mont Saint Jean.» Macdonell fissò dritto negli occhi i due uomini. «Dobbiamo resistere a costo della vita.»

    Dev fu percorso da un brivido di eccitazione. Non era sua abitudine ignorare le sfide, nessuna, nemmeno una così rischiosa e difficile.

    «E noi resisteremo.»

    «Sapevo di poter contare su voi» mormorò Macdonell. «Occupatevi subito dei vostri uomini e degli approvvigionamenti. Dobbiamo piazzarci prima che Napoleone si accorga di quello che sta succedendo.»

    Macdonell si allontanò e Dev si volse verso Pat, ammiccando.

    «Le cose stanno così, amico mio. Stiamo per conquistarci un posto nei libri di storia.»

    Sul volto di Pat c'erano pallore e determinazione al tempo stesso e gli occhi erano di un azzurro limpido.

    «Sei sempre stato un tipo che ama l'azione. Mi auguro di tutto cuore che questa non sia l'ultima.»

    Dev batté una pacca sulla spalla di Pat, cercando di mettere a tacere il disagio provato per le parole dell'amico.

    «Quando tutta questa storia sarà conclusa, ti offrirò una bottiglia del Porto migliore di Brooks

    «E io ti costringerò a mantenere la promessa» ribatté Pat.

    Inutile nasconderselo, provavano entrambi apprensione, paura vera e propria perché erano consci che li attendeva un compito arduo. Per assolverlo con onore, avrebbero forse dovuto rinunciare alla vita.

    «Buona fortuna e che Dio ti protegga» mormorò Dev, prima di lasciare Pat.

    Con rapidità, radunò quindi le sue truppe e le dispose in posizione. Provenienti da est, attraversarono un frutteto prima di entrare nella parte della proprietà difesa da mura in cui si ergevano il castello, una cappella e una stalla. In realtà, Hougoumont era poco più di una fattoria fortificata, le cui grigie pareti in pietra si alzavano desolate ed esposte verso un cielo che si era tinto improvvisamente di color piombo.

    Gli uomini aprirono feritoie nei muri degli edifici e si appostarono dietro le difese esterne per sparare da lì con i loro fucili e per stare riparati mentre pulivano e caricavano le armi. Poi, accesero dei fuochi per cercare di asciugare le uniformi zuppe per le precedenti piogge.

    Dev si aggirò per controllare le difese, insofferente per i vestiti bagnati, ma non poteva fermarsi come i suoi soldati, Macdonell contava su di lui.

    Non lo avrebbe deluso.

    Passando accanto a Patrick, gli sorrise in segno di incoraggiamento. Pat gli indirizzò un rapido saluto e continuò i preparativi.

    Erano le undici e mezzo del mattino quando videro i francesi. Questi si aprirono un varco attraverso i cespugli e apparvero sul terreno spoglio, lungo una cinquantina di piedi, che li separava dal castello. Dev ordinò ai suoi di sparare. I francesi caddero, colpiti al petto dalle pallottole dei britannici.

    Non c'era tempo per pensare, solo per agire. I soldati di Deverell caricavano i fucili e facevano fuoco e ricominciavano, meccanicamente. Dev li incitava, dava ordini, seguiva da vicino lo svolgersi della battaglia.

    A un tratto, un gruppo di francesi raggiunse il portone del castello e un gigantesco tenente vi lanciò contro un'ascia. Il portone si scheggiò.

    Dev fu pronto a slanciarsi contro gli assalitori, sapendo bene che, se quelli fossero penetrati, i britannici avrebbero perso tutto, la battaglia e la vita. Sguainò la spada e cominciò a menare fendenti per respingere gli invasori. Intorno a lui si strinse un gruppo dei suoi a imitarlo.

    Con la coda dell'occhio, Dev scorse Macdonell appoggiarsi con forza al portone e spingere per chiuderlo. Allora, Dev e altri soldati gli diedero man forte, riuscendo alla fine nell'intento.

    I francesi intrappolati all'interno vennero uccisi o presi prigionieri. Hougoumont era ancora una volta al sicuro.

    L'eccitamento, la foga guerriera che avevano sostenuto Dev fino a quel momento, lo abbandonarono, tanto che dovette appoggiarsi al muro di pietra grigia per riposarsi.

    «Merci

    Un debole richiamo attirò la sua attenzione e Dev si accorse di un tamburino francese. Era stato ferito al braccio e il sangue sgorgava lungo la manica. Era così giovane, un bambino.

    Dev si tolse subito la cravatta e la legò con forza intorno al braccio del fanciullo, poi chiamò uno dei suoi.

    «Bada che questo soldato resti vivo.»

    Il portabandiera britannico venuto a prendere il prigioniero aveva forse un paio d'anni più del francese, due ragazzini impegnati in un compito più grande di loro. Dev scosse il capo, con rassegnazione. Tutt'intorno, c'erano solo morte e distruzione.

    Le ore trascorrevano. L'artiglieria francese continuava a bombardare il castello. Le munizioni cominciavano a scarseggiare per i britannici.

    Dev si asciugò il sudore dalla fronte e stava per spronare ancora una volta gli uomini quando si alzò del fumo dall'edificio dietro di lui. Era stato colpito un pagliaio. Le fiamme si estesero alla stalla, dove erano ricoverati i feriti.

    Dev fu percorso da un brivido di gelo lungo la schiena.

    «Pat» gridò all'amico, «ti passo il comando. Io devo aiutare quei poveri diavoli!»

    Si lanciò verso l'incendio seguito da un soldato. Senza riflettere sulle conseguenze possibili del proprio gesto, corse nella stalla e agguantò il primo che trovò. L'uomo gemeva pietosamente, mentre lo trascinava fuori. Poi di volata Dev tornò all'interno dell'edificio in fiamme.

    Dov'era il tamburino?

    «Ragazzo!» urlò Dev in francese.

    Sentì tossire e scorse nel fumo denso un'esile figura che si avvicinava. Dev lo sostenne e si diresse in fretta verso l'uscita.

    Sopra la testa, udì il rumore secco di travi che si incrinavano. L'aria era irrespirabile.

    Una mano afferrò la gamba di Dev. Lui, allora, si caricò sulla spalla il tamburino e agguantò le dita protese. Quindi, con uno sforzo sovrumano dettato dall'emergenza, riuscì a tirare in piedi l'uomo che era a terra e a spingerlo avanti, sempre più avanti, verso la salvezza.

    Un boato sordo echeggiò nell'aria.

    Una trave rovinò a terra, con il suo carico di legno e di fuoco. Dev fece appena in tempo a catapultare con foga il bambino e il soldato verso la porta.

    Poi provò un dolore improvviso, lacerante, la gamba destra cedette e lui crollò al suolo. Aveva la bocca e i polmoni pieni di fumo acre, soffocante.

    È questo l'inferno!, fu il suo ultimo pensiero.

    1

    Victoria si guardava attorno con sgomento per le strade affollate e maleodoranti di Bruxelles. Dovunque giacevano uomini feriti.

    Indipendentemente dal motivo pressante che l'aveva indotta a lasciare l'Inghilterra in tutta fretta, era giusto e doveroso che lei fosse giunta in quel luogo di dolore. Aveva assistito così spesso la levatrice e il chirurgo della sua contea da aver ormai acquisito le abilità necessarie per salvare vite, se ciò era possibile, o almeno alleviare la sofferenza dei moribondi durante il trapasso.

    Soprattutto, era possibile che il fratello gemello fosse tra quei feriti. Perlomeno, era da Bruxelles che Wellington aveva inviato la lettera in cui comunicava la morte di Victor. E c'era da presumere che Victor avesse combattuto contro Napoleone.

    Victoria si morse il labbro inferiore. Forse il suo era stato un colpo di testa, l'impulso dettato da una speranza illusoria, perché in fondo la lettera di Wellington portava la data di settimane addietro, ciononostante lei era convinta che il fratello fosse ancora vivo. Era, semplicemente, qualcosa che sentiva, e Bruxelles era il posto giusto da cui iniziare la ricerca.

    Un gemito di dolore richiamò la sua attenzione; veniva da un uomo, con la testa avvolta in bende intrise di sangue ormai secco e scuro, che cercava inutilmente di inumidirsi le labbra riarse. Mosche e altri insetti lo tormentavano.

    Victoria si affrettò a inginocchiarglisi accanto e, sostenendolo, gli portò alla bocca un mestolo di acqua tiepida, preso da un secchio vicino. Lui bevve, avidamente.

    «Grazie, ragazzo» mormorò, in un bisbiglio roco.

    «Nulla» si schermì Victoria. Non si era meravigliata del fatto che il ferito l'avesse scambiata per un maschio perché era da uomo che si era mascherata. Sapeva, infatti, che c'erano luoghi in cui non era consentito entrare a una donna, posti dove invece avrebbe potuto raccogliere informazioni riguardo a Victor.

    Così, si era infilata dei vecchi pantaloni del fratello e una delle sue camicie e, sotto, aveva appiattito i seni con delle fasce.

    In un attimo, la decisione fu presa: avrebbe tolto le bende sporche dalla testa dell'uomo febbricitante. Meglio niente che quei grumi puzzolenti.

    «Ragazzo! Cosa credi di fare?» urlò una voce burbera e adirata alle sue spalle. Intanto, una mano sgarbata la agguantava per una spalla e la scrollava, facendole perdere l'equilibrio.

    Victoria detestava essere toccata, peggio ancora, interrotta mentre si occupava di un paziente.

    «Toglietemi quella mano di dosso» sibilò in tono basso, minaccioso.

    «Permaloso il soldo di cacio» commentò l'uomo, scostando tuttavia la mano.

    Con la fronte aggrottata di stizza, Victoria si alzò e spazzò via la polvere dai pantaloni in pelle di camoscio.

    L'ufficiale che torreggiava su di lei, sebbene Victoria non fosse affatto piccola di statura, era un omaccione accigliato. Un ciuffo di capelli castani gli copriva la fronte sino agli occhi, che erano dello stesso colore.

    «Lascia in pace i feriti. Abbiamo già abbastanza problemi senza che ti ci metta di mezzo anche tu.» Si accovacciò accanto al soldato. «E questo qui sta male parecchio.»

    La stizza di Victoria svanì mentre osservava il chirurgo che esaminava con delicatezza la ferita.

    «Sir, posso esservi di aiuto. Sono stato addestrato dal nostro chirurgo locale e la nostra levatrice mi ha insegnato molti rimedi usati contro il dolore.»

    L'ufficiale medico non rispose, sembrava non considerare minimamente quel ficcanaso di ragazzetto.

    «Starebbe meglio senza le bende» aggiunse Victoria.

    L'altro aggrottò la fronte, perplesso, ma era d'accordo con il suggerimento, che mise subito in pratica. Quindi,

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