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La luce dell'alba
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La luce dell'alba
E-book390 pagine5 ore

La luce dell'alba

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Info su questo ebook

La luce dell’alba è una storia di amore e di guerra, di forti nodi affettivi e di inganni. Protagonista l’Italia degli ultimi anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, insieme a Emma, Lavinia e Lorenzo, tre bambini inseparabili ma che poi saranno costretti a dividersi. Quando anni dopo si rivedranno, si scopriranno diversi e presto il loro rapporto imploderà. La violenza della guerra avrà un’influenza determinante sulle loro vite e li spingerà a compiere scelte drammatiche e imprevedibili, fino alla scoperta di un segreto che cambierà per sempre la vita a uno di loro.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2021
ISBN9788831481380
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    Anteprima del libro

    La luce dell'alba - Liliana D'Angelo

    Lennon

    Capitolo 1

    Roma, maggio 1943


    Il giardino di Villa Colombo era sontuoso. La luce delle lanterne svelava statue dai profili aggraziati, alberi esotici, viali disseminati di siepi e aiuole. Emma attraversò il terrazzo con le mani strette sulle braccia. La brezza della sera portava con sé un miscuglio di odori selvatici. Legno d’acero, resina, erba smossa. Le pareva di stare in campagna, in quel vecchio maneggio dove il padre la portava da bambina. Achille la issava su una giumenta pasciuta e controllava che avesse i piedi bene infilati nelle staffe. Per sé prendeva uno stallone dal temperamento più audace e per due ore se ne andavano in giro nel pomeriggio cotto di sole. A quei tempi abitavano ancora a Roma, lei sognava di diventare una ballerina e il suo Paese non si era ancora infilato in una guerra sanguinosa.

    Si appoggiò coi gomiti alla balaustra e rabbrividì al contatto col marmo freddo. Dietro le mura, la musica era ricominciata. Un valzer vivace, passi rapidi, giravolte, fruscii di seta e organza. Emma immaginò gli sposi aprire le danze dietro le spesse tende per l’oscuramento. Lo sposo era il fratello di Lavinia, un tipo ombroso che in passato le aveva rivolto sì e no due volte la parola, e solo per dirle Scansati, stai sempre tra i piedi, ma una casa non ce l’hai? Fosse stato per lui, neanche si sarebbe mossa da Firenze. Il viaggio era stato un tormento, ore e ore stipata in un vagone che sapeva di muffa e frutta marcia. Per non parlare dei ritardi, delle attese, del treno che si fermava tra una stazione e l’altra senza un’apparente ragione. Sua madre non aveva fatto altro che lamentarsi per il gran caldo, Achille era corso avanti e indietro nelle carrozze per cercarle dell’acqua. Tornava sbuffando, col fazzoletto si asciugava il sudore dal collo.

    Durante le soste Emma si era affacciata al finestrino, aveva visto colonne di soldati che solcavano la strada coi fucili in spalla, marciavano dentro divise di piombo e intonavano cori per ingannare la stanchezza. Dai campi, le contadine si fermavano a guardarli con le braccia cariche di fasci di verdura, poi tornavano a curvarsi tra i filari. Braccia robuste coglievano frutti, riempivano grosse gerle.

    Alla stazione c’era Lavinia.

    Era così diversa dalla bambina che a scuola le passava sotto il banco le formule di matematica. S’era fatta una donna sofisticata, con un’acconciatura all’ultima moda e pantaloni di taglio maschile che dicevano tutto di lei. Emma aveva rallentato il passo, una mano che stringeva nervosa la valigia, l’altra che correva a sistemarsi i capelli. Che figura, e magari puzzo pure di sudore, il rossetto si sarà sciolto, questa forcina non tiene più.

    Problemi inutili. Anche se fosse stata nuda, Lavinia non se ne sarebbe accorta. Aveva lanciato un grido e le era corsa incontro. Era stato come se tutti quegli anni non fossero mai passati. Emma aveva ritrovato i suoni, i colori, gli odori perduti della sua infanzia.

    Le tracce lasciate dal gesso sulla lavagna. I grembiuli con i fiocchi che ogni mattina sua madre passava con l’appretto. I capelli grigi della signorina Chiassi, tirati in uno chignon sulla nuca. Il suono della campanella. Il profumo del pane fresco della merenda e quello della menta che cresceva nelle aiuole del cortile della scuola. Lavinia ne strappava un rametto e se lo incollava al naso. Che buona, non smetterei mai di annusarla, diceva, poi gliela passava sulle gambe facendole il solletico. Ridevano ancora quando la Chiassi, con quella sua voce stridula, le richiamava in classe. Colombo e Moretti, sempre le solite, un giorno o l’altro vi punirò a dovere!

    Lungo la banchina affollata del binario 24 alla Stazione Termini, tra drappelli di soldati armati e mucchi di gente che arrancava carica di bagagli verso l’uscita, Emma aveva tirato la testa all’indietro per guardarla negli occhi. Brillavano come lame d’argento.


    La musica si era spenta, ci fu lo scroscio di un applauso e qualcuno che gridava viva gli sposi. Emma sospirò. Quella festa, col suo lusso sfrontato, le sembrava fuori luogo come quel tramonto striato di rosso. Una bellezza che cozzava contro la vita che dirupava oltre i cancelli, sfiancata dalla guerra e dai suoi morti. Pensò a sua madre, che benediceva il Signore per non avere avuto figli maschi. Pensò alle altre madri, sbranate a morsi dalla paura, che s’allacciavano al collo i bambini più piccoli e macinavano rosari, inchiodate a quella carne loro. Di notte si davano il tormento, cianciavano lamenti. Sognavano i figli lontani, li guardavano imbracciare vecchi moschetti, frugare i campi dentro le mimetiche.

    Una risata di donna la spinse a voltarsi. Due ragazzi erano usciti sul terrazzo e venivano avanti barcollando. Lei teneva la testa reclinata all’indietro e stava ridendo per qualcosa che le aveva detto all’orecchio il suo compagno. Giunsero a pochi passi da Emma, le rivolsero un’occhiata fugace, poi infilarono la rampa di scale che portava al giardino.

    Era di nuovo sola.

    Si staccò a fatica dalla balaustra mentre qualcuno richiudeva una finestra al piano superiore. D’istinto alzò la testa in alto. Da quel lato un tempo s’affacciava la stanza di Lavinia. Nella penombra si scorgeva a malapena la parte alta della portafinestra e il balcone a mezzaluna, invaso da fiori e rampicanti. Adesso era diventata una camera per gli ospiti. Lavinia l’aveva riservata a lei, come un dono di benvenuto.

    Emma era rimasta sulla soglia con la valigia stretta in mano e un ansito di delusione dentro al petto. Quella stanza adesso era anonima. Ogni cosa al suo posto, nemmeno un cassetto aperto, né un paio di calze lasciate sul letto. Niente che facesse pensare a qualcuno che respirava, rideva o sognava là dentro.

    Lei però non aveva dimenticato com’era. Certe volte ci aveva passato pure la notte, aveva ballato fino a tardi davanti allo specchio con Lavinia. Si erano scambiate vestiti e segreti, avevano sfogliato riviste alla moda e letto romanzi proibiti che la sua amica pescava nella libreria del padre e nascondeva sotto il materasso.

    ‹‹Si può sapere che fai tutta sola? È mezz’ora che ti cerco!›› Lavinia era uscita in terrazzo e l’aveva sorpresa con il naso insù.

    ‹‹Stavo per tornare dentro.››

    ‹‹Aspetta, non ancora. Vieni.›› L’afferrò per un braccio e la portò nell’angolo più oscuro del terrazzo. Tirò fuori un pacchetto di Turmac dal corpetto e gliene offrì una.

    Emma scosse la testa. ‹‹Ci ho provato una volta e per poco non morivo soffocata.››

    ‹‹Che imbranata. Dai, offre la casa.››

    Lei ci pensò su, poi ne sfilò una dal mucchio, si chinò sul fiammifero e tirò una corta boccata.

    ‹‹Piano, tranquilla, deve scendere morbido nella gola.››

    Emma alzò un palmo. Tutto sotto controllo. ‹‹Ma i tuoi lo sanno?››

    ‹‹E che ne so? Non fumo davanti a loro. E chi li sentirebbe, poi? Mio padre è ligio al regime e ai suoi dettami. Niente trucco, niente pantaloni, niente sigarette. Fosse per lui le donne sarebbero solo cavalle da monta.››

    ‹‹Esagerata! Non lo faccio così cinico.››

    ‹‹Perché non lo conosci abbastanza.››

    ‹‹Di solito non parlavi di lui.››

    ‹‹E perché avrei dovuto? Non c’era mai. Neanche le sapevo certe cose. Le ho capite con gli anni, ho raccolto qualche sfogo di mia madre. La menopausa le ha sciolto la lingua.›› Lavinia sospirò. ‹‹Me l’ha detto una sera. Piangeva, si torceva le mani. Non l’avevo mai vista in quello stato, possibile che non mi fossi accorta di niente? Ero stata sorda e cieca.››

    ‹‹Eri solo una bambina.››

    ‹‹Può darsi, ma certe volte pure i ragazzini hanno fiuto, io invece buio assoluto. Fatto sta che quella volta mia madre mi ha rovesciato addosso tutto il marcio che stagnava sotto quei sorrisi di facciata, le parate a beneficio della gente.›› Fece un lungo tiro alla sigaretta, poi le diede un colpetto e guardò la cenere cadere sul pavimento. ‹‹Insomma, il maritino le rinfacciava giorno e notte di non essere stata capace di sfornargli un’intera squadra di figli maschi. Si macerava d’invidia per i colleghi che sfoggiavano una paternità dopo l’altra. Diceva che mio fratello era solo un fannullone e io un maschio venuto male.›› Un respiro teso. ‹‹Uno sbaglio.››

    Emma le posò una mano sul braccio. ‹‹Sono sicura che non lo pensava davvero. A volte si viene accecati dalla smania di potere, di successo sociale, e si perde di vista quello che conta. La famiglia, i figli. Anche tua madre deve avere sofferto parecchio.››

    Lavinia fece una smorfia di disgusto. ‹‹Non più di tanto. Ha rimediato in fretta. Sfogava la sua umiliazione nel lusso. Vestiti, gioielli, quadri d’autore. Non si è fatta mai mancare niente, pensava solo a se stessa, a non mandare all’aria il suo matrimonio.››

    Emma pensò alla Contessa e rivide quella sua aria assente, i capricci da nobildonna, l’insofferenza nei confronti dei figli. Soffocò un colpo di tosse e cacciò via il fumo con le mani.

    ‹‹Ecco perché sei sempre stata così ribelle, hai dovuto imparare a difenderti.››

    ‹‹Può darsi, fatto sta che non mi faccio condizionare da nessuno dei due, le prendo io le mie decisioni.››

    ‹‹Perciò compri quello che ti va. Sigarette, rossetti, pantaloni.›› Le strizzò l’occhio. ‹‹Quelli che avevi oggi erano stupendi.››

    ‹‹Ti piacciono? Se vuoi te li presto. Come facevamo da piccole, ricordi?›› La scrutò dalla vita ingiù. ‹‹Mmh… sì, penso proprio che abbiamo la stessa taglia.››

    Emma tentennò. ‹‹Può darsi, anche se scommetto che stanno meglio a te›› aggiunse, con un’occhiata allusiva al suo fondoschiena.

    ‹‹Allora è deciso. Domani te li provi.››

    ‹‹Lo vedi? Non sono neanche arrivata e già subisco il tuo fascino perverso. Che farò tra una settimana?›› domandò, simulando un’espressione drammatica.

    ‹‹Sarai allegra, spudorata e verserai un mare di lacrime perché non vorrai lasciarmi.››

    ‹‹Ho proprio paura di sì. Ma come ho fatto a sopravvivere tutto questo tempo senza di te?››

    Aveva sempre invidiato i suoi modi, la sua fredda determinazione. Lavinia non sembrava avere paura di nessuno, né degli adulti né tantomeno dei coetanei. Sapeva fare a botte come un maschio e serbava un repertorio di diverse punizioni per chiunque le fosse d’intralcio. Scarabocchi sulle copertine dei libri, spilli piantati nei manici delle cartelle, corde acquattate nell’erba, pronte a tendersi sulle caviglie dei malcapitati che capitolavano a gambe all’aria.

    Emma però conosceva anche la sua parte migliore. La sua profonda amicizia, la generosità, il senso di protezione che le aveva sempre offerto. Ora capiva anche quel bisogno spasmodico di sentirsi amata.

    ‹‹Non sapevo che avessi preso a fumare. Non me l’hai mai scritto›› osservò, per impedire all’onda delle emozioni di sopraffarla.

    Lavinia fece un gesto di sufficienza, la sigaretta stretta tra le dita. ‹‹Non si può mica scrivere tutto in una lettera? Non sai mai chi la legge.››

    ‹‹Le tue le ho sempre lette solo io, giuro.›› Emma fece un altro tiro, ingoiò il fumo, lo soffiò fuori. Imparava in fretta.

    ‹‹Sarà, ma è meglio non fidarsi.›› Lavinia le strizzò l’occhio e si appoggiò alla balaustra. La brace rosseggiante della sigaretta le illuminò la faccia rosata nell’ultima vampata del tramonto. Aveva diciotto anni e una bellezza aristocratica. Fisico slanciato, labbra delineate, occhi che potevano farsi taglienti come schegge di ghiaccio.

    ‹‹È bello averti qui, Emma›› confessò, con lo sguardo perso nel buio.

    ‹‹Anche per me. Siamo di nuovo insieme, dopo tanto tempo. Manca solo Lorenzo.››

    ‹‹Già.››

    ‹‹Peccato che non sia potuto venire. Scommetto che sta morendo d’invidia.››

    ‹‹Probabile›› replicò Lavinia.

    Emma la scrutò di sottecchi. L’accenno al loro amico l’aveva immusonita. ‹‹Insomma, sembra proprio che tuo fratello abbia messo la testa a posto finalmente›› osservò, sperando di farle tornare il buonumore, ma Lavinia si strinse nelle spalle.

    ‹‹Buon per lui›› sentenziò.

    ‹‹Di’ la verità, non ti spiace neanche un po’ che se ne andrà di casa?››

    ‹‹Capirai che differenza. Non mi ha mai degnato della sua compagnia. E poi adesso, tra gli amici e il volontariato, pure io sto sempre fuori.››

    ‹‹Giusto! Il volontariato. Mi hai detto che hai seguito dei corsi.››

    ‹‹Sì. Adesso mi occupo dei bambini più piccoli.››

    Emma sgranò gli occhi. ‹‹Più piccoli? Quanto?››

    ‹‹Due, tre anni. A volte anche meno.››

    ‹‹Sul serio? Proprio non ti ci vedo tra pappe e pannolini.››

    ‹‹E invece sì. Almeno porto un po’ di allegria là dentro. Insomma, le ragazze non sono male, ma le suore… certi cadaveri ambulanti.›› Fece un ultimo tiro alla sigaretta e la schiacciò col tacco, mentre Emma ridacchiava. Se l’immaginava arrivare all’istituto con l’autista, i vestiti all’ultima moda e l’aria di chi non si fa dare ordini da nessuno. Chissà che ne pensavano le suore della nuova volontaria.

    ‹‹E i bambini?››

    ‹‹Tremendi. Si accapigliano per niente, si danno morsi, calci.››

    ‹‹Morsi?››

    ‹‹Sicuro! Riusciamo a tenerli buoni solo a tavola, ma non sai che fatica. Fortuna che poi arriva l’ora di metterli a letto.››

    ‹‹E se non dormono?››

    ‹‹Dormono, dormono. Imparano a farlo a comando. Niente giochi per chi piange.››

    ‹‹Scherzi? Non sono mica soldati.››

    ‹‹Un giorno lo saranno. La disciplina prima di tutto.››

    ‹‹Mi fa tristezza pensarlo.›› Emma scosse la testa. ‹‹Però io ti vedrei più in un ospedale da campo, a curare i feriti.››

    ‹‹Un giorno lo farò, se sarà necessario. Siamo in guerra e chissà, magari il Duce avrà bisogno anche di noi. È così che ci vuole, moderne, combattive e pronte alla chiamata. Tu invece, tutta casa e università?››

    ‹‹E ti pare poco? Sto tutto il giorno sui libri, la sera vedo doppio. E poi non mi interesso di politica›› ammise e Lavinia le gettò un’occhiata severa.

    ‹‹Storie! Chi non è col Duce è contro di lui.››

    ‹‹Ti sbagli. Non è sempre tutto bianco o nero.››

    ‹‹Tuo padre ha giurato fedeltà al regime, però.››

    ‹‹Non gli avrebbero più permesso di insegnare se non l’avesse fatto e lui aveva una famiglia da mantenere.››

    ‹‹Ad ogni modo, ha giurato.››

    Emma strinse le labbra. ‹‹Sì.››

    ‹‹E tu? Da che parte stai?››

    ‹‹Te l’ho detto, la politica non m’interessa›› ripeté, ma se ne pentì subito. Non le era sfuggito il lampo di disprezzo che si era acceso negli occhi di Lavinia.

    Ha ragione, pensò. Lei si impegna, coltiva un ideale. Io, invece, non ho nulla in cui credere.

    Era cresciuta come tutti gli altri nel mito del fascismo e obbediente alle sue regole. Aveva partecipato alle feste comandate con la divisa di Piccola Italiana che le aveva comprato sua madre alla Rinascente. Si era messa a gridare Evviva il Duce! a squarciagola, convinta che fosse l’uomo più buono del mondo. Eroico. Coraggioso. Invincibile. Si era nutrita delle gesta decantate sui libri di scuola e aveva pregato per lui prima di ogni lezione.

    Fino a quando le leggi razziali non le avevano spezzato il cuore.

    La sua amica Ruth abitava nello stabile di fronte al suo. L’aveva vista scappare via su un vecchio carretto, seduta su una valigia legata da uno spago, gli occhi fissi nel vuoto, i capelli nel vento.

    A quel ricordo affondò le unghie nel palmo fino a farsi male.

    Capitolo 2

    ‹‹C he dici? Rientriamo? Ho voglia di bere qualcosa.›› Lavinia tirò fuori il portacipria dalla borsa e si specchiò. Sì, il rossetto teneva, l’arco sottile delle sopracciglia enfatizzava il suo sguardo, le forcine trattenevano le ciocche ribelli. Si era impegnata a fondo per risultare impeccabile. Dopotutto era la sorella dello sposo e sapeva che sarebbe stata una delle donne più in vista della festa.

    ‹‹Va’ avanti. Io ho bisogno di rinfrescarmi un po’. Sento la testa vuota, sarà stata la sigaretta.›› Emma arrossì come una bimba sorpresa a impiastricciarsi la faccia alla toeletta della mamma. ‹‹Non sono abituata.››

    ‹‹Posso accompagnarti, se vuoi.››

    ‹‹Non ce n’è bisogno. Ti raggiungo presto.››

    Lavinia la vide allontanarsi sul terrazzo e sospirò. Emma non sapeva dire bugie. Lei aveva intuito il vero motivo di quella fuga in bagno. Le pareva di vederla mentre si sciacquava la bocca col sapone per scacciare l’odore di fumo nell’alito. Ci teneva a non deludere i genitori, anche da bambina lo faceva. Lei non l’aveva mai capita quella sua cautela, le pareva un inutile dispendio di energie. Mah, contenta lei. Si strinse nelle spalle e si avviò verso la portafinestra.

    In fondo quei cinque anni non l’avevano cambiata. Emma era sempre la stessa. Affidabile, leale. Viveva la vita di striscio, mai al centro strada, come se temesse di occupare troppo spazio. Era stato terribile separarsi. Quel ricordo ancora l’amareggiava. Un giorno aveva bussato alla sua porta e glielo aveva detto così, di botto: Me ne vado, mio padre è stato trasferito a Firenze. Lavinia aveva dato di matto. Si era messa a urlare, aveva pestato i piedi. E tu? Non gli hai detto niente? Hai continuato a recitare la parte della figlia perfetta? Sì, papà, certo, come no? Corro a preparare la valigia.

    In quel momento l’aveva odiata. In realtà, la sua partenza la dilaniava.

    Quel giorno era andata alla stazione insieme a Lorenzo e l’aveva guardata affacciarsi al finestrino con quei suoi occhi di bestia al macello. Quando il treno si era messo in moto, aveva corso sulla banchina gridando il suo nome, poi era caduta in ginocchio. Da lontano, i capelli di Emma sfilacciati dal vento le erano parsi segni di unghiate su una lavagna.


    La musica nella sala del banchetto le parve assordante dopo la quiete del terrazzo. Lavinia si aggirò frastornata tra gli ospiti. Molti si accalcavano ancora intorno al buffet. La sua famiglia come al solito non aveva badato a spese. Saranno contenti, domani nei salotti dell’alta società non si farà che parlare di queste nozze, considerò, stringendo le labbra in una smorfia.

    Si accostò al bar e scelse un vino dall’aroma leggermente acidulo che le rinfrescò la gola. Stava pensando che avrebbe volentieri piluccato qualcosa, quando vide la madre farle cenno di raggiungerla. Represse un gesto di stizza. Non ne aveva nessuna voglia. La guardò scuotere la testa qua e là, impegnata in una fitta conversazione con Brigida Moretti. Era perfetta, come al solito. Elegante, curata, consapevole di se stessa e del lusso che la circondava.

    La madre di Emma era una scialba imitazione della sua. I capelli raccolti alla foggia antica erano spruzzati di grigio e il suo colorito appariva smorto, come di chi soffre di salute cagionevole. Mordicchiava di continuo le labbra e si guardava intorno smarrita. Lavinia la conosceva bene e poteva immaginare cosa stava pensando. Brigida non c’entrava niente con quella festa. Non era abituata a certe frivolezze. Il mondo che aveva davanti era troppo diverso dal suo e non bastava un abito da sera a farla somigliare alla gente che affollava quella sala scintillante sotto le luci degli enormi lampadari.

    Era sicura che se non fosse stato per Emma, non sarebbe neanche venuta. Sua madre aveva dovuto insistere per averli come ospiti alla villa.

    Lo spazio non ci manca, abbiamo tante di quelle camere! E poi chissà quante cose avranno da dirsi le ragazze. Lavinia non sta nella pelle, sono giorni che parla solo di Emma e del vostro arrivo.

    Dall’altro capo del telefono c’era stato un maldestro tentativo di declinare l’invito, ma Adele aveva insistito con consumata fermezza e alla fine la donna era stata costretta a cedere. Se non siamo di disturbo…

    ‹‹Mamma, signora Moretti.›› Lavinia si appollaiò su un bracciolo del divano e bevve un altro sorso di vino.

    ‹‹Finalmente ti si vede›› le fece notare Adele. ‹‹Ma dov’eri?››

    ‹‹Tranquilla, mamma, nessuno mi ha rinchiuso in una stanza per approfittare di me. La mia verginità è ancora intatta›› annunciò, alzando volutamente la voce.

    ‹‹Lavinia! Che dici?›› la donna si agitò sui cuscini imbarazzata. ‹‹Dovresti andarci piano con quella roba›› l’apostrofò, indicando il suo bicchiere. ‹‹Quando bevi parli a vanvera.››

    Lei si strinse nelle spalle e occhieggiò le coppie che volteggiavano davanti all’orchestrina, mentre la madre riprendeva in fretta il controllo. ‹‹Se devo essere sincera, Brigida cara, non so come faccio a restare ancora in piedi›› annunciò. ‹‹Confesso che sono sfinita. Organizzare un ricevimento non è una cosa da nulla, bisogna che tutto sia perfetto.›› Si portò una mano alla tempia. ‹‹Credetemi, ho la testa che mi scoppia. E poi, questo andare su e giù, dare ordini ai camerieri, controllare le portate, il vino. Non pensavo fosse una tale fatica.››

    ‹‹Non ne dubito, ma sappiate che avete fatto un ottimo lavoro.›› la rassicurò Brigida. ‹‹Sono tutti entusiasti, vedete? Si divertono, hanno un’aria rilassata. Sono certa che nessuno di noi passava da tempo una serata simile. A questo proposito, lasciate che ancora una volta vi ringrazi per il vostro invito.››

    Adele Colombo minimizzò. ‹‹Sì, sì, non parliamone più. È stato un piacere. Ma adesso venite con me. Voglio presentarvi alcune persone. Ho la fortuna di avere in casa mia il fior fiore dell’alta società romana›› le confidò con malcelato compiacimento. ‹‹Oltre naturalmente ad alti gerarchi del nostro esercito e a membri del partito che pare siano molto vicini al Duce.›› Abbassò la testa, accennando un saluto a una coppia di ospiti e continuò, inesorabile. ‹‹Senza contare poi una considerevole rappresentanza di insigni ufficiali tedeschi: quale occasione migliore per cementare ancora di più la già viva amicizia che ci lega ai nostri alleati?››

    Lavinia alzò gli occhi al cielo. Ecco un’altra delle tirate di sua madre. Godeva come in preda a un orgasmo quando poteva fare sfoggio delle sue elevate frequentazioni. Quell’ostentazione la disgustava.

    ‹‹Ah, eccone uno laggiù›› stava dicendo. ‹‹È un ufficiale della Wehrmacht, mio marito l’ha conosciuto durante un torneo di scacchi. Ricordate? Erminio ha un’autentica passione per questo gioco. Che ci troverà in quelle noiose partite, non so. Dice che aiutano la concentrazione, stimolano il cervello. Una cosa è certa, queste serate gli servono anche per allargare le sue conoscenze, stipulare accordi strategici, mi capite? Come vi dicevo, è là che ha conosciuto questo tedesco e certi agganci, sapete, non sono mai di troppo.››

    ‹‹Non ne dubito›› rispose la donna.

    ‹‹Ho scambiato due parole con lui appena dopo la cerimonia in chiesa, quando è venuto a porgermi le sue congratulazioni. Un tipo affascinante che conosce alla perfezione la nostra lingua. Su, andiamo, ve lo presento. A proposito, vostro marito dov’è?››

    Brigida le indicò col mento gli ospiti che danzavano. ‹‹Qui intorno.››

    ‹‹Bisogna che lo chiamiate. Non è conveniente che vi presenti da sola al nostro ospite. Ah, eccolo, su, che aspettate? Fategli un cenno.››

    La donna agitò un braccio per aria e cercò di intercettare il suo sguardo.

    ‹‹Caro››, annunciò non appena l’uomo la raggiunse. ‹‹La Contessa desidera presentarci un ufficiale tedesco.›› Sembrava riluttante, come se fosse d’un tratto intimidita. Lavinia scosse la testa.

    ‹‹Mamma ogni tanto ha la sensibilità di un macaco›› le bisbigliò all’orecchio. ‹‹Ma state tranquilla, sarà una cosa indolore. Durerà meno di un minuto.››

    ‹‹Sì, sì, seguitemi›› sproloquiava ancora la Contessa. ‹‹Non sia mai detto che in questa casa non si rispettino i sacri doveri dell’ospitalità e dell’amicizia. Lavinia, ci fai compagnia? Il maggiore sarà felice di salutarti.››

    Erminio Colombo e il suo ospite erano in piedi, ognuno con una coppa in mano, davanti a un enorme ritratto del Duce. Parevano impegnati in una fitta conversazione. Lavinia non se ne stupì. Anche suo padre aveva il dono di uno spiccato eloquio e lo usava in ogni occasione. Notò che Adele gli si avvicinava con un certo sussiego.

    ‹‹Erminio››, esordì, ‹‹spero che tu abbia offerto al maggiore il nostro spumante migliore.››

    ‹‹Naturalmente, cara.›› E come a sottolineare le sue parole levò in alto il suo calice. ‹‹Maggiore, sento il dovere di brindare alla mia signora. È solo grazie a lei se stasera possiamo goderci questo magnifico banchetto.››

    ‹‹E queste danze›› aggiunse l’ufficiale in un italiano perfetto.

    La Contessa arrossì.

    ‹‹Via, via, per così poco! Piuttosto, voglio presentare al maggiore i nostri amici. Il professore Achille Moretti, pregiato docente universitario, e la sua signora. Costui invece è il nostro graditissimo ospite, il maggiore Erik von Brunner.››

    In quello stesso istante l’aria sembrò farsi carica di elettricità e Achille cinse la moglie alla vita, come a volerla proteggere da un forte vento.

    Ma che ha? si domandò Lavinia. Ha paura che il maggiore se la mangi?

    Lo vide portarsi una mano alla bocca e schiarirsi la voce. Una, due volte. Doveva essergli andato di traverso un goccio di saliva, pensò.

    ‹‹Lieti di fare la vostra conoscenza›› annunciò, finalmente, poi si voltò verso Brigida. Lei fece un sorriso tirato, esitò un istante più del dovuto, quindi allungò una mano e strinse quella dell’ufficiale. ‹‹Maggiore.››

    ‹‹Signori, l’onore è tutto mio›› annunciò lui esibendo una fila di denti bianchissimi.

    ‹‹Vedo che non avete nessun problema con la nostra lingua›› considerò Achille. Pareva avesse ripreso coraggio. ‹‹È una vera fortuna di questi tempi. Non trovi anche tu, Brigida?››

    Lei abbassò gli occhi. ‹‹Certo, caro.››

    ‹‹Devo confessarvi che nutro una certa invidia nei vostri confronti. Dove avete avuto modo di imparare così bene l’italiano, se posso permettermi?››

    ‹‹Ho studiato da interprete molti anni fa. Trascorsi nel vostro paese un lungo e piacevole periodo›› rispose l’uomo, provocando soddisfatti cenni di assenso da parte dei padroni di casa. Lavinia roteò gli occhi al cielo. Ma guardali, pare sia stato merito loro, osservò, brillano di luce riflessa. Inarcò il collo e scolò d’un fiato il suo vino. Emma, vuoi deciderti a tornare? Non ne posso più di tutto questo vecchiume.

    ‹‹Ed è proprio questo il vostro ruolo qui, a Roma, non è così, maggiore?›› stava dicendo suo padre. ‹‹Interprete ufficiale della gloriosa Wehrmacht.››

    ‹‹Più o meno. Ho il compito di facilitare le relazioni diplomatiche tra i nostri due Stati.››

    ‹‹E spero anche quelle sociali, maggiore!›› s’intromise Lavinia. ‹‹A questo proposito, che ne dite di un ballo? O ritenete sconveniente che sia una donna a invitarvi?›› aggiunse, godendosi le espressioni di intenso imbarazzo sulle facce dei genitori. Poi prese a braccetto von Brunner e si lasciò condurre al centro della sala. Sentiva i loro occhi puntati come tizzoni sulla nuca.

    Capitolo 3

    Emma si guardava intorno in cerca della sua amica. Al buffet non c’era e nemmeno al bar. Strano, avrebbe scommesso di trovarla là, con un bicchiere di vino in mano.

    ‹‹Allora, ci sei caduta in bagno?›› l’apostrofò la ragazza alle spalle.

    Lei sobbalzò. ‹‹Ehi, eccoti. Non ti trovavo. Beviamo qualcosa?›› propose, eludendo la domanda.

    ‹‹Sicuro. Il nostro bar offre un carnet di vini deliziosi. Mio padre ha fatto carte false per farseli arrivare. Sai, è con questi mezzucci che si tiene a galla. In fondo, al giorno d’oggi basta poco per cadere nell’orribile pozzo dell’oblio sociale›› disse quelle ultime parole con una voce cavernosa, da orco delle fiabe.

    ‹‹E smettila, dai. Ma che ti è successo? Non ti ricordavo così acida. Stai sempre a rintuzzare i tuoi per ogni mossa. Non ti sembra di esagerare?››

    ‹‹Direi proprio di no. Meritano fino all’ultima goccia del mio veleno›› fece lei. ‹‹E poi se non fosse che…››

    ‹‹Contessina Lavinia››, il maggiordomo di casa Colombo si era materializzato all’improvviso alle loro spalle.

    ‹‹Arturo. Che c’è?›› sbottò lei scontrosa.

    ‹‹Un tale alla porta chiede di voi. Dice che lo state aspettando.››

    Gli occhi di Lavinia s’illuminarono. ‹‹Fallo accomodare nella saletta verde e digli che sarò subito da lui.››

    ‹‹Ma non dovevamo bere qualcosa insieme?›› protestò Emma. ‹‹Hai intenzione di lasciarmi sola adesso?››

    ‹‹Al contrario. Tu vieni con me›› fece lei trascinandola fuori dalla sala.

    ‹‹Aspetta, ma dove corri? Lavinia, vuoi fermarti? Si può sapere dove mi stai portando? Se hai da fare posso aspettarti, dico sul serio.››

    ‹‹Vuoi piantarla? Mi ricordi mia madre. Niente domande. Fidati. Devo mostrarti qualcosa›› replicò lei, sibillina.

    La porta della saletta verde era aperta e le due ragazze si accostarono alla soglia. Emma sbirciò dentro. C’era un uomo in completo scuro davanti al camino, aveva le mani in tasca e l’atteggiamento rilassato. Guardava una fotografia del Conte in divisa da sottufficiale. Doveva essere vecchia di almeno vent’anni. Erminio Colombo aveva ancora tutti i capelli.

    Quando Lavinia fece un passo in avanti e si schiarì la voce, lo sconosciuto si voltò. Solo allora Emma lo riconobbe e per poco non lanciò un grido.

    Era Lorenzo.


    Per alcuni, lunghissimi istanti, nessuno di loro fiatò. Rimasero lì, a studiarsi, a registrare con frenesia ogni dettaglio, a frugare in quelle facce i segni del loro passato. Poi Lorenzo allargò le braccia.

    ‹‹Le mie ragazze.››

    Lavinia lo raggiunse per prima e lui se la strinse addosso, un attimo dopo rialzò la testa e

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