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I signori del thriller
I signori del thriller
I signori del thriller
E-book339 pagine4 ore

I signori del thriller

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Info su questo ebook

Grazie all’adrenalina e al suo alto tasso di coinvolgimento, il thriller è un genere letterario in grado di diventare popolarissimo sul grande e piccolo schermo e. La sua genesi però, come sempre, parte dai libri.
Questa raccolta abbraccia diversi sottogeneri, arricchiti da ogni sfumatura possibile e capaci di soddisfare i gusti di profili di lettori più variegati.
Al centro di tutto, ovviamente, c'è un estremo coinvolgimento emotivo, quasi morboso, ottenuto attraverso la tensione, l’imprevisto e il colpo di scena.
LinguaItaliano
Data di uscita17 feb 2021
ISBN9791220265126
I signori del thriller

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    I signori del thriller - AA.VV.

    AA.VV.

    I signori del thriller

    I signori del thriller

    AA.VV.

    © Idrovolante Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – febbraio 2021

    www.rudisedizioni.com

    rudisedizioni@gmail.com

    Il corpo, o la mente

    di Andy Arton

    Accadde a cinque miglia dal centro abitato di Los Alamos, New Mexico. La cittadina si trova sull’altopiano di Pajarito circondata da colline dai fianchi boscosi e cime brulle coronate di rocce appuntite. All’epoca aleggiava ovunque un’aria cupa e decadente, i forestieri attraversavano Los Alamos il più rapidamente possibile, era difficile per chiunque sfuggire all’impressione di una tesa diffidenza. Iniziò il 5 giugno del 1949. Kate Bell, sposata e con un figlio, scomparve lungo il percorso tra il supermercato e la sua casa. Non aveva mai detto di volersene andare. Non c’era stata nessuna lite. La sua macchina fu ritrovata sulla strada che costeggiava il bosco, aveva la portiera ancora aperta. Era come se d’improvviso avesse deciso di uscire senza voltarsi indietro. I detective non avevano elementi per definirlo un rapimento, all’interno della vettura non c’erano segni di lotta, il motore non era in avaria. La cercarono per settimane. Si ipotizzò che fosse in stato confusionale e che avesse deciso di sparire.

    Steve Crews era un uomo rispettabile, viveva con sua moglie e i suoi due figli alla periferia di Los Alamos. La loro improvvisa scomparsa fu datata al 7 giugno. Fu identificata dalla scientifica una falsa parete nello scantinato. Dietro c’erano tre corpi, avvolti in sacche di plastica. Steve Crews era ancora scomparso. Fu emanato un mandato di cattura internazionale. Per molti amici era impossibile che fosse lui il responsabile di un crimine così atroce. Amava la sua famiglia.

    Luke Dungey era un ragazzo educato, timido, ma vivace, andava d’accordo con tutti. Il 10 giugno disse alla madre che andava ad una festa. Il mattino seguente non era nel suo letto. Fu trovato il suo cappello sul lato della strada al limitare del bosco. Le squadre di ricerca setacciarono l’intera area, compreso il letto del torrente, ma per giorni non trovarono nulla.

    Seguirono altri casi di misteriose sparizioni durante tutto il mese di giugno. Ci furono molte teorie, alcune erano plausibili, altre invece assolutamente inverosimili. Rapimento. Inseguimento. Tortura. Riti satanici secondo il reverendo Hardy, che pronunciò un memorabile sermone su empietà demoniache che prendevano possesso delle persone. Ed in effetti c’era voce che si potessero udire, a certe ore della notte, in determinati punti del bosco, fugaci brusii e presenze aleggianti nelle ombre.

    Quasi tutti intimamente iniziarono a credere che gli eventi verificatisi la notte del primo giugno fossero connessi alle sparizioni. C’era stato un forte rombo tra le colline e una scossa di terremoto che aveva lasciato basiti i geologi. Era ancora fresco il ricordo dell’incidente di Roswell, avvenuto due anni prima proprio in New Mexico. Si diceva che una sonda aliena fosse precipitata in una fattoria. Entità extraterrestri forse si aggiravano anche per Los Alamos.

    Il 3 luglio durante le ricerche di Dugney fu scoperto nel bosco il cadavere di Kate Bell. Si trovava a diverse miglia dal luogo in cui aveva lasciato la sua macchina. La causa del decesso non era dovuta ad impatto con corpo contundente, non c’erano fratture, né ferite da arma da taglio o proiettile. Non c’erano elementi che facessero pensare ad uno strangolamento, i tessuti molli del collo erano troppo compromessi, né che fosse stata percossa. Kate Bell era morta, ma non si sapeva come, o perché. Tra il supermercato e la sua casa era successo qualcosa.

    Trovarono altri corpi nel bosco nei giorni seguenti, a causa dell’avanzato stato di decomposizione ci furono le stesse difficoltà nello stabilire una causa di morte. Fu solo quando Derek Haut, scomparso dopo essere uscito di casa la mattina del 17 giugno, che la situazione attirò definitivamente l’interesse dell’FBI. L’uomo era in evidente stato stuporoso, camminava nei boschi portando con sé un microonde quando uno degli uomini delle squadre di ricerca lo trovò. Nessuno si attardava mai dopo il tramonto, soprattutto a causa dei strani brusii che si udivano in quelle ore. Don Viener tuttavia, si era portato più avanti degli altri e sulla strada del ritorno, alle ultime luci del tramonto, vide la figura barcollante di Derek Haut.

    In ospedale fu rilevato un avanzato stato di disidratazione e una consunzione al limite della sopravvivenza. L’uomo non reagiva a nessuno stimolo, né alla voce dei suoi cari, né – cosa più preoccupante – al dolore. Durante la notte cominciò a sbattere la testa contro un muro, quando gli infermieri lo legarono al letto si tagliò di netto la lingua con i denti e morì soffocato dal sangue.

    Gli agenti dell’FBI arrivarono la mattina del 5 luglio, dopo che la polizia aveva trovato Steve Crews. Era stato portato in ospedale e ammanettato al letto. Ewan Wesley e Jade North erano arrivati direttamente da Washington. Avevano ascoltato con delusione le deposizioni di alcuni familiari delle vittime senza che i loro gesti, o le loro espressioni aggiungessero niente alle registrazioni che erano state inviate al bureau dalla polizia locale. In ospedale Wesley mostrò un certo disappunto parlando con i medici, che non avevano molto da aggiungere a quello che poteva vedere da sé. Steve Crews non era in grado di rispondere alle loro domande, in verità si mostrava a malapena cosciente, simile ad un sonnambulo. Wesley chiese se Crews potesse camminare. Venne fortemente sconsigliato. Jade North spiegò più tardi alla polizia l’idea di riportare l’uomo nel bosco. Erano dell’idea che le persone scomparse fossero dirette da qualche parte nei dintorni. Ned Riesle, capo della polizia, chiese se pensassero ad una ipnosi collettiva, droghe, o persino spie comuniste attivate dai russi, ma non ricevette risposta dai due agenti.

    Dopo il tramonto lasciarono Steve Crews nel punto in cui era stato trovato, gli restituirono anche la tv da 16 pollici che aveva con sé. L’uomo tornò improvvisamente presente a sé stesso. Quando cominciò a camminare North e Wesley lo seguirono, ma il resto degli agenti rimase un po’ indietro perché temevano di attraversare la tenebrosa boscaglia e così ben presto li persero di vista.

    Jade North fu la prima a notare l’ampia distesa arida e brulla che si apriva nel bosco. In mezzo c’era un’alta costruzione di metallo che attirava subito l’attenzione, era simile ad un’antenna allungata verso il cielo. Crews si fermò ai suoi piedi dove cominciò a smontare il televisore, lì con lui c’erano anche Ambra Hill e Tom Neal, due volti noti tra la lista di scomparsi. Ewan fece in tempo ad abbassare lo sguardo e notare il terreno davanti a loro calpestato dal passaggio di qualcosa. L’erba si schiacciava sotto un peso invisibile che si muoveva in direzione della sua collega. La chiamò, ma lei rimase immobile. Ewan indietreggiò sparando in direzione di quelli che erano indiscutibilmente passi. I colpi si piantarono a terra sollevando schegge di terriccio. Jade si voltò lentamente, dava l’idea di una bambola tirata da fili impossibili da vedere nel buio. Lo fissò con occhi vuoti come biglie di vetro incastrate nella testa di un animale impagliato. Portò la mano verso la pistola, così Ewan alzò la sua e le ordinò di non muoversi. Adesso gli pareva di sentire l’immediata presenza di qualche terribile entità che s’insinuava nella sua mente, di scorgere sul terreno un’infernale avanzata diretta contro di lui e poi più niente.

    Vide una luce. Gli ci vollero parecchi istanti per rendersi conto che era di nuovo a Cherbourg sul fronte di liberazione francese. Comandava l’avanzata attraverso una delle strade principali. Sapeva che di lì a poco i soldati tedeschi sarebbero apparsi alle finestre massacrando la sua brigata. Lo sapeva perché era solamente un ricordo, eppure gridò disperatamente per ordinare la ritirata. Nessuno sembrò sentirlo. Gridò ancora, più forte. I suoi uomini si muovevano inconsapevoli verso un gruppo di civili, erano un’esca. Sarebbero morti tutti, ancora una volta. I loro volti lo avrebbero perseguitato le notti a venire. Una voce gli disse che non doveva guardare per forza. Chiuse gli occhi. Si portò la pistola alla testa. Sarebbe finita presto, non avrebbe mai più dovuto guardarli morire. Il primo sparo che gli esplose nelle orecchie non fu quello della sua pistola, d’istinto non pensò ai fucili dei nazisti, ma a Jade. Aprì gli occhi in tempo per guardare il corpo della donna afflosciarsi a terra. Si era puntata la pistola alla testa, ma aveva lottato contro quella forza invisibile, così il colpo le aveva ferito di taglio la tempia.

    Quando gli uomini della polizia di Los Alamos arrivarono alla radura videro l’agente Wesley correre furiosamente in direzione di una grossa costruzione. Lo guardarono abbatterla pezzo dopo pezzo. Quelli che soccorsero Jade North la sentirono vaneggiare, diceva di distruggere quella cosa, fece anche fantasiosi accenni ad un certo piano di distruzione dell’intera umanità e di tutta la vita sulla faccia della terra, preparato da un’antica razza di esseri provenienti da un’altra dimensione. Gli agenti si guardarono in faccia l’un l’altro, poi tutti fissarono la grossa antenna concordando silenziosamente sulla medesima idea: quell’oggetto forse era progettato per inviare un messaggio diretto ad una razza aliena.

    Non rimase più alcuna prova, ogni cosa fu portata via dall’FBI, ma chi era stato lì quella notte raccontava di aver visto poco distante i resti di una navicella, forse schiantata al suolo la notte del primo giugno. Aveva bruciato tutto il terreno circostante ed in effetti ancora oggi in quella zona, ormai vuota, non cresce nulla, né alberi, né arbusti, né erba.

    Delle entità che si diceva dimorassero ancora nei sopravvissuti scomparsi il mese di giugno si supponeva fossero morte insieme ai loro ospiti quando l’agente Wesley sparò loro nel tentativo di smantellare l’antenna. Eppure tuttora è difficile che qualcuno si avventuri in quei boschi a notte fonda, molti dicono che si possa ancora sentire la presenza di estranee entità tra le colline che circondano Los Alamos.

    Rosso Bataclan

    di Davide Auricchio

    Arriviamo puntuali davanti alla sala da caffè concert dallo stile orientaleggiante. L’esterno si presenta con una facciata ridipinta con i colori vivaci di un tempo, anche se l’originale tetto a pagoda non esiste più. Il suo nome trae origine dal titolo dall’operetta di ambientazione cinese Ba-ta-clan, di Jacques Offenbach.

    All’interno le superfici curvilinee e le pareti di un rosso acceso creano un’atmosfera calda e accogliente. Mi sento più saggio e ragionevole del solito, con le sue luci giuste e gli arredi estremo orientali sembra di non essere a Parigi. Lungo il bar, le luci artificiali illuminano facce di persone la cui vita diurna è solo un’etichetta: studenti universitari, aspiranti scrittori, artisti dell’ultima ora, poeti e musicisti maledetti. Osservo la folla di appassionati di Gothic-Metal: il look trasandato, i capelli lunghi, i piercing che costellavano i visi anemici.

    Presa da un certo punto di vista, la situazione appare anche più interessante, considerando che seduta al bar c’è Amanda, una modella amica di Silvie. Non so bene se voglio incontrarla, ma Silvie già punta verso di lei per riempirla di baci. Dall’altra estremità del bar, neanche faccio in tempo ad ordinare una birra che la vedo farmi segno di avvicinarmi. La modella è con un’altra donna, Silvie scherzosamente le presenta come le Thelma e Louise di Parigi. Amanda è uno stupefacente esemplare di punk d’alta moda: capelli corvini tagliati con le cesoie, alti zigomi e sopracciglia orizzontali. Metallica e androgina, sarebbero due aggettivi appropriati per questa donna. Nel frattempo, l’amica biondina mi scruta come uno scanner, dalla testa ai piedi. Dopodiché, presa da un’irrefrenabile curiosità, mi domanda: Ma tu non sei il compagno di Silvie? L’Italiano?

    Sì! - rispondo - Un italiano vero!

    Sei una specie di scrittore?, mi chiede con aria impertinente la sconosciuta, o almeno così mi sembra di capire. Dopo quasi una settimana a Parigi la mia comprensione della lingua è migliorata.

    Sì, scrivo su un giornale d’arte contemporanea.

    Bon Dieu!, fa lei, quando specifico il nome della rivista, Non l’ho mai sentita. Come ti chiami? Dovrei conoscerti? Ride in maniera buffa, e continua a fare domande a raffica su quali artisti vengono pubblicati e chi sono i migliori critici in circolazione. Non trovo nulla di meglio da fare che sciorinare la solita sfilza degli artisti più quotati sulla scena internazionale. Senza scendere troppo nei particolari, anche perché il mio francese non me lo permetterebbe. Lascio solo intendere che il mio lavoro è sempre in balia delle onde.

    Francese a parte, in passato era molto più convincente. Quando iniziavo questo discorso ci mettevo l’anima e alla fine tutti capivano quanto ero aggiornato e appassionato nel mio campo. Adesso è diverso, non sopporto più il personaggio che mi sono cucito addosso per troppi anni, voglio reinventarmi. Sono arrivato a detestarla questa posa, eppure ecco che la recupero magari solo per elemosinare un po’ di attenzione. Del lavoro fatto con puntualità e dedizione, restano solo le copie di archivio conservate come reliquie nella cripta-garage, tuttavia il mio nome è ancora nella lista dei migliori critici di Art Show. La verità è che cerco a tutti i costi di fare effetto sulle amiche di Silvie, con presunte storie di grandi artisti sconosciuti piuttosto che sacche residuali di star-system, per giunta dallo spessore umano molto discutibile. Idem nel mondo della critica, dove proliferano saccenti e sopravvalutati di ogni genere. Ormai rischio di diventare il nuovo paladino del buon gusto e della decenza, intanto la mia interlocutrice già divaga con gli occhi nel soffitto.

    Sono le nove passate e l’atmosfera comincia a farsi rovente, il concerto è sul punto di cominciare. Silvie balla di fronte a Thelma, mentre io mi agito come un ossesso in compagnia della modella, i suoi movimenti angolari evocano statue egizie dell’antichità. Un nuovo ballo punk?, mi domando, osservando la sua figura spigolosa. Non so neanche decidere se è simpatica, se sono veramente attratto da lei. Alla fine è prevalsa solo la voglia di far vedere che anche io sono capace di divertirmi. Quando smetterò di cercare l’anima gemella, la finirò di stare male!, penso tra me, Con un po’ di allenamento, mi abituerò anche io a rapporti occasionali.

    Silvie mi piace molto!, dice Amanda, tra un brano e l’altro. Sarei più contento se mi dicesse che non le piace. Considerando che io sono totalmente incapace di pensare male di lei, preferirei che fossero gli altri a farlo.

    Un boato si alza nel teatro quando il gruppo irrompe sul palco, segue un’onda che mi travolge facendomi vacillare mentre il mio sguardo si perde nello spazio immenso del teatro, nel rosso acceso che incendia ogni angolo, tra i palchi con le arcate dorate che si affacciavano sulla platea. Gli Eagles of Death Metal, gruppo rock statunitense, noto anche con la sigla EoDM, iniziano a suonare. Con buona pace dei fan in visibilio, io non amo affatto quel versante metal dell’alternative rock, e poi c’è Jesse Hughes, voce e chitarra della band, strenuo difensore del diritto alle armi in America. Anche se, il vero leader era Josh Homme, già front-man dei Kyssa e dei Queen of the Stone Age.

    Gli Eagles of Death Metal stanno suonando Kiss the Devil quando il leader del gruppo Jesse Hughes, si allontanava di corsa dal palco, intanto gli altri componenti della band riparano dietro la strumentazione, ad eccezione del chitarrista Dave Catching, che continua a suonare.

    Alzandomi in punta di piedi intravedo, dal lato opposto della sala, due uomini posizionati sopra la platea sparare raffiche di colpi sugli spettatori. Una folla di gente terrorizzata dalle esplosioni delle granate, tenta con l’aiuto dei buttafuori di evacuare il locale attraverso le porte di sicurezza. Un agente in divisa, nascosto dietro un pilastro, spara sette colpi di pistola. Il giubbotto esplosivo che indossa il terrorista viene colpito prima di crollare a terra. Lo scoppio dilania il corpo del kamikaze, fatta eccezione solo per una gamba e la testa che schizzano sul palco.

    Tutto è avvolto in una tensione spessa e calda. L’odore del sangue e la polvere da sparo hanno occupato tutti gli spazi e reso l’aria irrespirabile. I corpi si ammassano l’uno sull’altro e l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento: chi finge di essere morto e chi agonizza per davvero. Tutto appare lontano anni luce dalla realtà, c’è troppo pathos. Si sente un rumore simile a un martello pneumatico, ma è più veloce, una potenza e un rimbombo che hanno dell’incredibile. Si sentono grida di dolore arrivare dalla platea. Ho trovato riparo dietro il bancone del bar, con Silvie in preda al panico, il corpo della sua amica Amanda è stramazzato a terra con un buco in fronte.

    L’inferno ha il suono del kalashnikov, le cui raffiche attraversano e scuotono l’aria con sventagliate ripetute. I cellulari come impazziti, suonano a vuoto. A mettere ancora più paura sono i cupi rantolii delle vittime, accompagnati da scosse e tremori del suolo, dal fragore delle esplosioni nitide e fortissime. Silvie si porta le mani sulla testa per ripararsi dalla pioggia di oggetti disintegrati e dagli schizzi di sangue che piovono dall’alto. Dire che è terrorizzata è un eufemismo. Quando si alza d’istinto, la tiro giù con forza, e grido: Hai deciso di farti ammazzare? Non perdiamo la testa, ti prego! Silvie sembra più disposta ad accogliere il mio consiglio, ma continuo a stringerla, temo una sua reazione inconsulta. Si ferma, tirando un lungo respiro: Che possiamo fare?

    Neanche il tempo di rispondere che il barista, a un metro da noi, fa un cenno veloce della mano, indicando le scale che salgono sul tetto. Si tocca il petto per dire io, poi ci fa segno di seguirlo.

    Passa una manciata di secondi finché non raggiungiamo le scale, il cuore è salito in gola e le gambe tremano. Circa una cinquantina di persone salgono verso il lastrico solare dell’edificio. Qualcuno inciampa, altri perdono oggetti durante la fuga, altri ancora sono feriti e perdono sangue, se ne percepisce l’odore dolciastro impregnato nei capelli e nei vestiti delle persone addossate le une sulle altre. Sono passati venti minuti dall’inizio dell’inferno ma sembra un’eternità. I terroristi non danno l’impressione di voler arrestare la carneficina e cominciano a uccidere numerosi ostaggi riversi a terra, intenti a fingersi morti.

    Finalmente varchiamo la stretta porta che da sul tetto del Bataclan. Avvertirono un leggero sollievo, non fosse che per l’aria aperta e il rumore degli spari che si allontana. Alle urla si sostituiscono i singhiozzi e un bisbiglio diffuso. Ciascuno si domanda se è al sicuro, se gli assassini arriveranno anche sopra. Qualcuno propone di chiudere l’accesso ma basterebbe una raffica di colpi per ridurre la porta a un colabrodo. C’è un uomo che pur di continuare la sua fuga sembra disposto a lanciarsi nel vuoto, una donna tenta disperatamente di dissuaderlo. Mi sporgo dal tetto per vedere cosa sta succedendo all’esterno del teatro. Vedo un uomo sul marciapiede che corre in soccorso di un giovane ferito al polpaccio, quando viene anche lui colpito a un braccio da un proiettile. Sotto di me scorgo il corpo di una donna sospeso nel vuoto. Si regge appena con le mani aggrappate al davanzale d’una finestra. Chiede aiuto a squarciagola, sembra dover precipitare da un momento all’altro.

    Silvie si guarda attorno spaesata, cercando di pulirsi le mani sporche di sangue strofinandole sui pantaloni. Mi consola il pensiero che con lo scorrere del tempo le nostre possibilità di rimanere in vita siano destinate ad aumentare. Prima o poi la polizia farà irruzione mettendo fine alla mattanza. Non resta che aspettare, magari posizionandosi dall’altra parte del tetto, nell’angolo meno illuminato. Prendo Silvie sotto il braccio e mi spostò lentamente tenendo d’occhio l’unica via d’accesso. Azzardo il possibile bilancio dei morti: Saranno un centinaio, forse di più!

    In ombra

    di Carlo Barlocco

    Ero seduto ad un tavolino del Biffi in galleria a Milano e aspettavo mia moglie. L’uomo di fronte a me era solo e sorseggiava un drink. Aveva l’iphone appoggiato sul tavolino e proprio in quell’istante ricevette una chiamata. Rimasi allibito: il gesto con cui afferrava il telefono passandolo rapidamente due volte dalla mano destra alla sinistra prima di portarlo all’orecchio, l’avevo visto compiere solo da Giorgio Svaizer. Solo una coincidenza? La curiosità fu forte e decisi di guardarlo in viso. Gli occhi… Non poteva essere!

    Notò il mio stupore e disse: Si sta sbagliando. Niente di più facile, avrà avuto trent’anni meno di Giorgio Svaizer ma gli occhi e il gesto erano quelli del mio amico che da sei mesi era sparito nel nulla coinvolto in un oscuro episodio di cronaca nera.

    Mi scusi, balbettai. Intanto il mio sguardo scivolò sulla spilla che aveva sul bavero: quella spilla l’avevo appuntata io stesso il giorno in cui Giorgio era stato ammesso al Club del Bridge del Venerdì. Era stato un mio regalo e lui non perdeva occasione di ringraziarmi. Senza indugiare si alzò e si diresse al centro della Galleria. Decisi che non dovevo farmelo scappare e lo rincorsi. Mi fu facile raggiungerlo e lo strattonai per un braccio. Si fermò: Ti racconterò tutto Aldo.

    Come sapeva il mio nome?

    Cerchiamo un posto tranquillo, disse. Ci andammo a sedere su una panca in Duomo, luogo perfetto per una confessione.

    Sei mesi prima

    Adesso a destra, seguendo il navigatore Giorgio Svaizer imboccò la strada che conduceva alla stazione di Ribaldina, paesino dell’hinterland milanese. Parcheggiò sul piazzale il suo Cayenne, sintonizzò sul display la rubrica telefonica

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