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I fuochi di Valencia
I fuochi di Valencia
I fuochi di Valencia
E-book201 pagine2 ore

I fuochi di Valencia

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Info su questo ebook

Valencia, giorni di Las Fallas, la grande festa di primavera che anima le strade della città. Occasione ideale per gli Erjes per attaccare e contaminare numerosi umani, rendendoli loro schiavi. Le Sentinelle si apprestano a difendere la città, ma il Soldato José si interroga sul fine ultimo delle loro azioni: quella guerra tra le loro razze avrà mai termine?
Quando si imbatte in Maria, una ragazza contaminata ma in grado di resistere al virus dei demoni, i suoi dubbi aumentano e farà di tutto per proteggerla: dagli Erjes, che vogliono studiarla, dal Concilio, che vuole sopprimerla. Una guerra per l’evoluzione, combattuta per le strade di Valencia.

«La storia umana è piena di esempi di evoluzione naturale: il più forte da sempre sopravvive al più debole, è così che deve andare. Tu sei la prova vivente che anche noi ci possiamo evolvere, che non siamo creature sterili come ci hanno sempre definito, ma al contrario abbiamo enormi potenzialità; ci aiuterai a metterle in atto? Ci sono cacciatori e ci sono prede, tu devi solo scegliere cosa vuoi essere».
LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2018
ISBN9788831910033
I fuochi di Valencia

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    Anteprima del libro

    I fuochi di Valencia - Elena Covani

    casuale.

    PROLOGO

    Ultima notte di Fallas

    Le corna del diavolo puntavano verso il cielo come lingue di fuoco. Gli occhi, simili a quelli di un gatto, fissavano la folla che si schiacciava intorno. La statua, alta quattro piani, aveva la bocca aperta in un ghigno, le braccia si allungavano verso la strada, gli artigli protesi verso le persone che la fissavano immobili, quasi si aspettassero di essere afferrati e portati all’inferno.

    José sbucò da una strada secondaria e chiuse gli occhi, abbagliato dalle luci che circondavano la scultura. Si fece ombra con la mano per mettere a fuoco e allungò il collo sopra le teste per individuare il suo bersaglio. Si fermò e per un attimo credette di averlo perso, poi lo vide, dall’altro lato dell’incrocio, e riprese la caccia.

    Galen sapeva di essere braccato, ma si muoveva sicuro tra i passanti e ogni tanto lanciava un’occhiata al suo inseguitore, come per assicurarsi che ci fosse ancora, per sfidarlo a stare al suo passo.

    José rimase impigliato nella gonna di una ragazza in costume tradizionale e un uomo lo fermò afferrandogli il braccio. Si liberò dalla presa e borbottò delle scuse: una rissa con la giunta Fallera lo avrebbe rallentato e lo avrebbe perso. Non avrebbe avuto un’altra occasione per ucciderlo. La cosa migliore sarebbe stata salire sui palazzi e continuare l’inseguimento dall’alto, ma abbandonò l’idea per mancanza di tempo.

    Delle esplosioni interruppero la musica, poi degli applausi: una Falla era stata data alle fiamme, ma José non sentiva niente, proseguiva sgomitando attraverso il muro di corpi in movimento che si dirigevano nella direzione opposta alla sua, un fiume che lo trascinava indietro e lo allontanava dal nemico.

    Il profumo dei fiori, della sangria e della polvere da sparo dei petardi confondeva i suoi sensi e Galen scivolava tra la gente come se fosse fatto d’aria. Doveva essere più veloce. Era difficile stargli dietro perché anche le strade secondarie erano piene di tavoli e di persone che si godevano la serata.

    José alzò gli occhi e lo vide, a pochi metri da lui, fermo. Aveva le braccia conserte, la schiena appoggiata a una macchina e lo fissava. La bocca socchiusa rivelava i denti bianchi e appuntiti, vicino a lui, un gruppo di ragazze che cantavano.

    Quando vide che José scattava verso di lui, Galen ne afferrò una sottobraccio, improvvisò un balletto e la fece girare su se stessa. Lei stette al gioco, rideva, buttava la testa all’indietro e scopriva il collo bianco verso l’Erje, ignara del rischio cui si stava esponendo. In un secondo, José passò in rassegna le opzioni per strappargliela dalle mani, ma c’erano troppi testimoni. Arrivò a due metri da lui, quando Galen gliela lanciò tra le braccia, sbilanciandolo all’indietro.

    L’alito della ragazza puzzava di vino, gli sorrise con gli occhi spenti e si accasciò su di lui, pensando di aver trovato un altro cavaliere con cui passare la serata. José sbuffò e la respinse. Galen era già lontano: svoltò a sinistra e scomparve in un vicolo.

    La Sentinella digrignò i denti e cominciò a correre. La rabbia annebbiava i suoi sensi da Soldato, stava perdendo di vista il suo obiettivo. Scosse la testa per riacquistare la concentrazione. Sapeva cosa stava facendo, era il suo lavoro, la sua vita, ogni notte cacciava esseri come Galen. Quella caccia però era diversa dalle altre, era l’odio a guidarlo, non la necessità di salvare vite.

    Un odio tutto personale.

    Fece un respiro profondo e si tuffò anche lui nel dedalo di vicoli del centro di Valencia, ma a un certo punto si ritrovò solo. In posizione di difesa si guardò intorno, l’attacco di Galen poteva arrivare da qualsiasi direzione.

    Aspettò immobile, ma non successe niente. Allora chiuse gli occhi, si concentrò sugli altri sensi per trovare un segno della sua presenza. La musica non accennava a placarsi, voci confuse giungevano da ogni parte, ma erano troppo umane, troppo vive, non era quello che stava cercando.

    Un cane guaì spaventato dai petardi, qualcuno fece cadere una bottiglia che si ruppe in mille pezzi. José espanse le sue percezioni a un livello più profondo.

    Un singhiozzo strozzato, impercettibile agli esseri umani, non a lui. Scattò verso il buio, tra i cassonetti e i muri diroccati, in direzione del cuore della città vecchia.

    Galen lo aspettava alla fine di un vicolo, illuminato dalla luce di un lampione, mostrando orgoglioso al suo inseguitore che non era solo. Sorrideva mentre teneva davanti a sé una ragazza, con una mano le tappava la bocca e con l’altra le bloccava le braccia dietro la schiena, dimostrando una forza non umana.

    «Ola Murcielago, sono proprio curioso di sapere cosa farai adesso».

    1

    Vigilia di Fallas

    Un’altra alba rischiarava la madrugada, il cielo sfumava piano dal nero all’azzurro e il paesaggio esplodeva dei colori e dei profumi della primavera che si avvicinava. La città si stava svegliando e l’aria era impregnata dell’euforia per i giorni di festa. Dei petardi esplosero in lontananza, come per sottolineare i pensieri di José.

    Las Fallas era alle porte, la città si sarebbe trasformata nel turbine di suoni, colori e musica che ogni anno a marzo investiva Valencia per cinque giorni. E petardi, tanti petardi, esplosioni a ogni ora del giorno e della notte, come in una zona di guerra.

    José si lasciò sfuggire un sorriso amaro. Per lui era davvero una guerra.

    Aspettava l’inizio del nuovo giorno seduto sul tetto di uno dei palazzi del Saler, di fronte alla Città delle Scienze, l’unico posto dove riusciva a sentirsi in pace. Ogni mattina, prima di rincasare, si fermava a guardare il sole sorgere, gli ricordava che era sopravvissuto a un’altra notte. E mentre la luce risvegliava tutto, metteva a tacere i suoi sensi, facendolo sentire un po’ più umano.

    Si alzò e mise le mani in tasca, stringendosi nella giacca.

    La città si stendeva ai suoi piedi. Individuò i vari quartieri e cercò di immaginare come i Dodici avrebbero organizzato le ronde. Sperò che a lui toccassero le zone centrali, come il Cabanyal o la Plaza del Ajuntamiento, dove la folla era compatta e gli attacchi meno frequenti, poi scosse la testa. Era improbabile: a uno dei Soldati più esperti avrebbero assegnato qualcosa di più movimentato.

    Viva Las Fallas!

    Scese le scale antincendio e si ritrovò sulla strada. L’estate era lontana, ma l’aria era calda e portava con sé aromi inconfondibili: gli oleandri, gli aranci e il profumo del mare. José chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere da quelle sensazioni, dettagli che forse soltanto lui riusciva a cogliere, ma che gli infondevano la forza per andare avanti e superare i suoi pensieri.

    Se questo è ciò per cui devo restare vivo, può valerne la pena.

    S’incamminò lungo la strada. Le macchine gli sfrecciavano accanto, ma anche quello sarebbe cambiato nei giorni a venire. Passò davanti a un vecchio edificio, dove l’anno prima aveva avuto uno scontro con un Erje e per poco non ci aveva lasciato la pelle.

    Se quell’umano non avesse bevuto così tanto, non sarebbe successo.

    Accelerò il passo e si strinse ancora di più nella giacca.

    José odiava Las Fallas. In quei giorni Valencia cambiava i suoi ritmi, vivendo di notte e riposandosi durante il giorno, invasa dai turisti che accorrevano per godersi la fiesta, curiosi di ammirare le grandi sculture che riempivano la città. Ignari, si abbandonavano a fiumi di birra e sangria, diventando vittime perfette per l’attacco degli Erjes. Il compito delle Sentinelle, già difficile in ogni altro momento dell’anno, in quei giorni era al limite dell’impossibile.

    José si fermò un attimo e studiò le persone intorno a lui: un uomo in giacca e cravatta camminava spedito mentre controllava il cellulare, una giovane mamma spingeva una carrozzina canticchiando una canzone. Due ragazze gli passarono accanto, ridevano e parlavano di novios. Tutte potenziali vittime, tutti potenziali Erjes.

    Pensò agli umani che sarebbero stati contagiati e gli venne la nausea. Non importava quante armi le Sentinelle avessero a disposizione o quanto fossero preparate a combattere, gli Erjes sarebbero stati sempre più numerosi e sempre in vantaggio.

    Quella mattina non aveva voglia di tornare al suo appartamento, si fermò a un bar e ordinò un caffè; la città si era svegliata e un’altra giornata era cominciata per gli esseri umani normali. Se lo fosse stato anche lui… ma non lo era. José non si era mai considerato speciale, nonostante quelli della sua razza ce la mettessero tutta per sentirsi tali, si ritrovò a sognare a occhi aperti di fronte a una coppia di ragazzi che portava a spasso un cagnolino.

    Era una Sentinella di Valencia, un Murcielago, dipendeva dal ciclo del tempo: di giorno, quasi umano, quasi normale; di notte, un assassino. Dava la caccia a corpi infettati da un virus che toglieva alle persone ogni traccia di umanità, le uccideva e le liberava da una condizione contro natura.

    Questo era quello che si era sempre sentito dire, ma la verità era un’altra: lui distruggeva esseri umani. E giorno dopo giorno diventava sempre più difficile convivere con quell’idea.

    Arrivò nel suo appartamento e si lasciò cadere sul divano, sfilò le scarpe e chiuse gli occhi nella speranza che il sonno portasse sollievo al suo cervello troppo attivo. Aveva bisogno di dormire, ma, come gli succedeva sempre più spesso, i pensieri lo tormentavano e non gli davano tregua neanche dopo una notte di caccia.

    Prese il cellulare e non trovò nessuna chiamata. Nessun amico gli chiedeva come stava o lo invitava per una cerveza in centro, perché i suoi amici in quel momento stavano facendo quello che avrebbe dovuto fare anche lui: dormire e recuperare le forze. Gli unici messaggi che trovò erano quelli di Clareta, che lo supplicava di andarla a trovare prima che nascesse il suo bambino.

    Avrebbe voluto gridarle in faccia quanto era stata stupida a rimanere incinta e forse evitarla era la punizione che il suo inconscio gli stava imponendo, ma sapeva bene che non lo meritava. Era lui quello sbagliato, non lei.

    Si mise seduto con le mani nei capelli. Non sarebbe mai riuscito a dormire, era tutto inutile.

    Andò in bagno per provare a rimettersi in sesto quel tanto che bastava per non sembrare un tossico che si faceva da tre giorni consecutivi, guardò l’immagine nello specchio e si rese conto di essersi lasciato un po’ andare. Non ricordava quando si era fatto la barba l’ultima volta e i capelli formavano una specie di cespuglio nero e incolto che arrivava a coprirgli gli occhi. Provò a sistemarli senza riuscirci. Non trovando alcuna soluzione accettabile, se non quella di prendere un appuntamento con un barbiere, si rassegnò al suo aspetto trasandato, si sciacquò il viso e scese in garage a prendere la moto.

    2

    «Soldato Jimenez, sei in ritardo. Sono già tutti nella sala grande».

    Il portiere del Palazzo del Concilio gli aprì la porta e lo fulminò con gli occhi. Non si lasciava mai sfuggire l’occasione di rimproverare i Soldati, soprattutto quelli che aveva visto crescere.

    José si morse la lingua per non dargli soddisfazione. Gli diede le spalle e s’incamminò a passo svelto nei corridoi del piano terra, superando le aule e la palestra fino alla scala di legno che portava ai piani superiori. Il portone dell’aula magna era ancora aperto, la riunione non era ancora cominciata.

    La sala era buia perché le finestre erano oscurate da tende pesanti e la luce delle lampade a olio creava un’atmosfera da brividi. Sulla parete in fondo erano stati disposti i dodici troni di legno dorato dove avrebbero preso posto i Caballeros. Tutta quella scenografia era orchestrata per rendere la riunione solenne e memorabile, ma a José ricordava più un tribunale dell’Inquisizione.

    C’era una gran confusione, decine di Soldati parlavano tra loro delle zone di ronda che avrebbero voluto presidiare, nessuno si mostrava impressionato da quel palcoscenico eccetto i nuovi cadetti, che rimanevano negli angoli della sala in silenzio.

    José prese posto cercando di non dare troppo nell’occhio, ma qualcuno lo afferrò per le spalle e quasi perse l’equilibrio.

    «Que ha pasado, tio, come mai così in ritardo?»

    Antonio gli assestò un colpo sul torace che gli fece mancare il fiato. Era diventato più alto di lui di almeno una spanna, ma il suo sorriso non era cambiato da quando era bambino.

    Portava i capelli raccolti in una coda dietro la nuca e aveva una cicatrice sullo zigomo sinistro. Diceva a tutti che se l’era fatta in battaglia, ma José ricordava bene la sera che era successo. Era dovuto andare a prenderlo al molo, dopo che era scivolato dagli scogli per aver bevuto troppo.

    «Non è successo niente, non mi è suonata la sveglia».

    In quel momento apparvero i Dodici e calò il silenzio. Entrarono nella sala uno alla volta e si sistemarono sui troni come se non ci fosse nessuno davanti a loro. Indossavano il vestito delle grandi occasioni, una lunga tunica nera bordata d’oro, con lo stemma della città ricamato sul petto: uno scudo rosso e oro, sovrastato da un pipistrello con le ali aperte.

    José rabbrividì. La luce delle fiamme li rendeva ancora più spettrali, i dodici scheletri viventi erano entrati, portando con sé il gelo della morte. Quando anche l’ultimo si fu accomodato, dal trono centrale si alzò Caballero Xavier, il più vecchio e rispettato dalla comunità.

    «Cari figli e care figlie di Xamir, domani cominceranno le celebrazioni di Las Fallas. Come ogni anno, siamo qui per prepararci alla battaglia più importante, in cui siamo chiamati a combattere per la sopravvivenza della specie umana».

    Ogni anno si ripeteva la stessa pantomima, la stessa identica tiritera che ormai per José aveva perso ogni significato. Si guardò intorno, ma al contrario di lui tutti i suoi compagni ascoltavano rapiti il discorso del Caballero, come se lo stessero sentendo per la prima volta. Erano loro che non capivano o c’era davvero qualcosa di sbagliato in lui?

    «Sapete bene che il nostro nemico è sempre più forte e numeroso, le armi devono essere aggiornate spesso per poter contrastare la dilagante piaga degli Erjes. Noi siamo più forti, ma siamo pochi. Gli Erjes non sono organizzati come noi, si radunano in piccoli branchi e come bestie infettano sempre più umani incoscienti. Noi chiediamo alle nostre donne di sacrificarsi per dare figli al Concilio, i futuri Soldati della pace,

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