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Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9)
Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9)
Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9)
E-book393 pagine5 ore

Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9)

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Info su questo ebook

“Non andrai a dormire finché non avrai finito di leggere i libri dell'AGENTE ZERO. I personaggi, magistralmente sviluppati e molto divertenti, sono il punto di forza di questo lavoro superbo. La descrizione delle scene d'azione ci trasporta nella loro realtà; sembrerà di essere seduti in un cinema 3D dotato dei migliori simulatori di realtà virtuale (sarebbe un incredibile film di Hollywood). Non vedo l'ora che venga pubblicato il seguito".
--Roberto Mattos, Books and Movie Reviews

INSEGUIRE ZERO è il libro n. 9 della serie di best seller dedicata all'Agente Zero, che inizia con AGENTE ZERO (libro n. 1), un libro a download gratuito, con quasi 300 recensioni a cinque stelle.

I palestinesi decidono di aprire un percorso di pace con Israele e vogliono che il presidente degli Stati Uniti intervenga sullo storico trattato relativo al loro territorio. L'agente Zero mette in guardia il presidente sui pericoli del viaggio, ma lui insiste per andare. Dopo una serie di colpi di scena drammatici e scioccanti, ne conseguono le 48 ore più pericolose della vita di Zero, che lo costringono a una missione impossibile: salvare il presidente ad ogni costo.

INSEGUIRE ZERO (Libro #9) è un thriller di spionaggio che ti terrà attaccato alle sue pagine fino a notte fonda.

"Un thriller fantastico".
--Midwest Book Review

"Uno dei migliori thriller che ho letto quest'anno".
- Recensioni di Libri e Film

È disponibile anche la serie di THRILLER LUKE STONE di Jack Mars (7 libri), che inizia con “Ad ogni costo” (Libro n. 1), download gratuito con oltre 800 recensioni a cinque stelle!
LinguaItaliano
EditoreJack Mars
Data di uscita26 feb 2021
ISBN9781094342337
Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9)

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    Anteprima del libro

    Inseguire Zero (Uno spy thriller della serie Agente Zero—Libro #9) - Jack Mars

    cover.jpg

    INSEGUIRE ZERO

    (UNO SPY THRILLER DELLA SERIE AGENTE ZERO — LIBRO 9)

    J A C K   M A R S

    Jack Mars

    Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel LE ORIGINI DI LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.

    Jack è felice di ricevere i vostri commenti, quindi non esitate a visitare www.Jackmarsauthor.com , per unirvi alla sua email list, ricevere un libro gratis, premi, connettervi su Facebook e Twitter, e rimanere in contatto!

    Copyright © 2020 di Jack Mars. Tutti i diritti riservati. Salvo quanto consentito dalla legge sul copyright degli Stati Uniti del 1976, nessuna parte della presente pubblicazione può essere riprodotta, distribuita o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, o archiviata in un database o sistema di recupero, senza la previa autorizzazione dell'autore. Questo e-book è concesso in licenza al solo scopo d'intrattenimento personale. Questo e-book non può essere rivenduto o ceduto ad altri. Se vuoi condividere questo libro con qualcun altro, t'invito ad acquistarne una copia per ogni destinatario. Se stai leggendo questo libro senza averlo acquistato o non è stato acquistato per il tuo utilizzo personale, sei pregato di restituirlo e di acquistarne una copia per tuo uso esclusivo. Grazie per il rispetto dimostrato del lavoro dell'autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, attività commerciali, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'autore o vengono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o persone, vive o morte, è puramente casuale. Immagine di copertina Copyright Ohyperblaster, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.

    I LIBRI DI JACK MARS

    SERIE THRILLER DI LUKE STONE

    A OGNI COSTO (Libro 1)

    IL GIURAMENTO (Libro 2)

    SALA OPERATIVA (Libro 3)

    CONTRO OGNI NEMICO (Libro 4)

    OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro 5)

    IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro 6)

    REGNO DIVISO (Libro 7)

    SERIE PREQUEL CREAZIONE DI LUKE STONE

    OBIETTIVO PRIMARIO (Libro 1)

    COMANDO PRIMARIO (Libro 2)

    MINACCIA PRIMARIA (Libro 3)

    GLORIA PRIMARIA (Libro 4)

    SERIE DI SPIONAGGIO DI AGENTE ZERO

    AGENTE ZERO (Libro 1)

    OBIETTIVO ZERO (Libro 2)

    LA CACCIA DI ZERO (Libro 3)

    UNA TRAPPOLA PER ZERO (Libro 4)

    DOSSIER ZERO (Libro 5)

    IL RITORNO DI ZERO (Libro 6)

    ASSASSINO ZERO (Libro 7)

    UN'ESCA PER ZERO (Libro 8)

    INSEGUIRE ZERO (Libro 9)

    UN RACCONTO DELLA SERIE AGENTE ZERO

    Agente Zero - Riepilogo libro 8

    Subito dopo il primo test per un cannone ad alta tecnologia e top secret, l’arma viene rubata da sconosciuti intenzionati a usarla a fini distruttivi. In una folle corsa contro il tempo, l’Agente Zero deve usare tutte le sue abilità per rintracciare quest’arma indifendibile e capire gli obiettivi di chi l’ha fatta costruire, prima che sia troppo tardi. Tuttavia, allo stesso tempo, Zero viene a conoscenza di una situazione scioccante che potrebbe aiutarlo a superare le sue condizioni mentali deboli, prima di essere messo fuori gioco per sempre.

    Agente Zero: i vuoti di memoria continuano a tormentarlo in mille modi, fino ad arrivare mettere a repentaglio la vita altrui nell’esercizio del suo dovere. Nonostante le sue condizioni, Zero ha accettato di entrare a far parte di una nuova divisione della CIA, insieme ai suoi compagni di squadra per volere del presidente. Una nuova squadra che lavorerà in autonomia e risponderà solo allo Studio Ovale. Zero non ha ancora parlato a chi gli sta vicino della sua memoria, ma ha comunque chiesto al permesso alle figlie di chiedere a Maria di sposarlo.

    Maria Johansson: dopo aver trascorso mesi ad andare a trovare segretamente Mischa in carcere, la ragazza di dodici anni che aveva preso parte al complotto delle armi ad ultrasuoni ed è tenuta in una cella di detenzione in un sotterraneo della CIA. Maria affronta i suoi superiori e chiede di poter prendere in adozione la ragazza.

    Maya Lawson: dopo essersi liberata e aver trovato un ex agente della CIA a cui era stato impiantato un prototipo di soppressore della memoria, Maya ora sospetta che anche suo padre sia stato vittima dello stesso tipo di intervento, sebbene non conosca l’entità del danno. Dopo essere stata scoperta con informazioni riservate, a Maya è stato ordinato di tornare a West Point per completare la sua istruzione, facendole capire che dovrà prepararsi per qualcosa di più grande.

    Sara Lawson: dopo aver superato il demone della dipendenza, Sara ha aiutato la sua amica Camilla, difendendola da uno spacciatore e convincendo l’amica ad andare in riabilitazione. Sara ha quindi deciso di unirsi a un gruppo di sostegno per donne maltrattate, anche se quell’esperienza le ha fatto capire che potrebbe aiutare quelle donne in prima persona.

    Il presidente Jonathan Rutledge: dopo aver siglato un trattato positivo con l’Ayatollah dell’Iran e il re dell’Arabia Saudita che sì è tirato indietro in seguito a minacce, Rutledge ha quasi raggiunto il suo obiettivo di garantire la pace in Medio Oriente. Ha in programma di creare una nuova piccola divisione della CIA, un braccio ultrasegreto guidato dall’Agente Zero e dalla sua squadra.

    John Watson/Oliver Brown: si è scoperto che l’ex agente John Watson, il cui vero nome è Oliver Brown, assassino della defunta Kate Lawson, lavorava come assassino della CIA quando ha ucciso lo sceicco responsabile del furto dell’arma a ultrasuoni.

    INDICE

    PROLOGO

    CAPITOLO UNO

    CAPITOLO DUE

    CAPITOLO TRE

    CAPITOLO QUATTRO

    CAPITOLO CINQUE

    CAPITOLO SEI

    CAPITOLO SETTE

    CAPITOLO OTTO

    CAPITOLO NOVE

    CAPITOLO DIECI

    CAPITOLO UNDICI

    CAPITOLO DODICI

    CAPITOLO TREDICI

    CAPITOLO QUATTORDICI

    CAPITOLO QUINDICI

    CAPITOLO SEDICI

    CAPITOLO DICIASSETTE

    CAPITOLO DICIOTTO

    CAPITOLO DICIANNOVE

    CAPITOLO VENTI

    CAPITOLO VENTUNO

    CAPITOLO VENTIDUE

    CAPITOLO VENTITRE

    CAPITOLO VENTIQUATTRO

    CAPITOLO VENTICINQUE

    CAPITOLO VENTISEI

    CAPITOLO VENTISETTE

    CAPITOLO VENTOTTO

    CAPITOLO VENTINOVE

    CAPITOLO TRENTA

    CAPITOLO TRENTUNO

    CAPITOLO TRENTADUE

    CAPITOLO TRENTATRE

    CAPITOLO TRENTAQUATTRO

    CAPITOLO TRENTACINQUE

    CAPITOLO TRENTASEI

    CAPITOLO TRENTASETTE

    CAPITOLO TRENTOTTO

    CAPITOLO TRENTANOVE

    CAPITOLO QUARANTA

    CAPITOLO QUARANTA

    EPILOGO

    PROLOGO

    Mi piace, disse l’israeliano, che si faceva chiamare Uri Dahan. Schioccò le labbra mentre raccoglieva un altro cucchiaio dal piatto che aveva davanti a sé. Mi piace molto. Per farsi capire dal suo compagno di tavola si esprimeva in arabo, una lingua che parlava fluentemente, sebbene la sua lingua madre fosse l’ebraico. Come si chiama questo piatto?

    Il presidente palestinese Ashraf Dawoud sorrise. "Maqluba. È uno dei preferiti in Cisgiordania". Era anche uno dei suoi preferiti, un piatto che sua madre gli aveva preparato spesso durante la sua infanzia.

    Uri si accigliò. Sotto-sopra? chiese, traducendo letteralmente il nome del piatto.

    Già. Il presidente Dawoud annuì. "Pomodori, patate, melanzane e cavolfiori fritti, sovrapposti a strati di agnello tritato e poi capovolti prima di essere serviti. Da qui il nome, maqluba".

    Capisco. Uri Dahan, il diplomatico israeliano, inviato a nome del primo ministro, alzò leggermente un sopracciglio. Kosher?

    Halal.

    Ci sei andato vicino. Uri sorrise giovialmente. Aveva insistito per essere chiamato con il nome di battesimo, e non Signor Dahan o in altri modi informali. "Sai, quasi la metà degli ebrei israeliani non osserva il kashrut. È un’usanza ormai antiquata, non è vero? Proprio come l’ideologia religiosa che ostacola la pace tra le nazioni".

    , concordò Dawoud. Il silenzio del ristorante era rotto soltanto dalle loro voci. Era un posto piccolo, c’erano solo otto tavoli e al momento uno solo era occupato. Non era certo un locale di alto livello, il che lo rendeva il luogo perfetto per un incontro del genere. Il cibo era semplice ma autentico e delizioso. Ashraf Dawoud frequentava abitualmente quel luogo in gioventù, prima della sua ascesa politica al parlamento, molto prima di diventare presidente della Palestina. Si trovavano a tre isolati dal Mövenpick Hotel a Ramallah, centro dell’Autorità Nazionale Palestinese, e circa dieci chilometri a nord della città santa di Gerusalemme.

    Dawoud aveva pagato profumatamente il proprietario per chiudere quella sera, e rendere così possibile quell’incontro. Una telefonata avrebbe potuto essere sufficiente, ma il primo ministro aveva insistito per un faccia a faccia; non con se stesso, ovviamente, non ancora, ma con Uri Dahan, un membro baffuto della Knesset, il corpo legislativo di Israele. Uri aveva una mostrato una visione propizia fin dall’inizio, esattamente l’opposto di ciò che Dawoud si aspettava e, se doveva essere onesto, la cosa gli destava qualche sospetto.

    Uri si fece improvvisamente serio e solenne mentre fissava i resti del maqluba davanti a lui. Credo di dar voce anche ai pensieri del primo ministro nel dire che abbiamo aspettato a lungo questo giorno. Alzò lo sguardo su Dawoud. Ma dobbiamo capire che ci sarà resistenza. Questo tipo di cambiamento è ... difficile, per alcuni.

    Dawoud annuì. Ed è impossibile per altri. C’era già resistenza, in particolare a Gaza, ma quando mai non c’era stata? Più dilagavano le voci sull’avvicinarsi alla pace tra Israele e Palestina, maggiori diventavano gli sforzi dei dissidenti.

    Ma… mi risulta che voi possiate aiutarci. Ad Uri tornò il sorriso.

    Puoi parlare, lo rassicurò Dawoud. Tutti i presenti sono stati controllati accuratamente. Oltre ai due capi di stato, c’erano solo altre sei persone nel ristorante: due guardie musulmane di cui Dawoud si fidava ciecamente e altri membri della Guardia Presidenziale con lo sguardo fisso davanti a sé e le spalle al muro, a qualche metro dal tavolo; due guardie israeliane poste vicino alla porta, una delle quali, curiosamente, era una donna dai capelli corti e neri e uno sguardo apparentemente perspicace, che di tanto in tanto si allontanava dalla posizione del presidente; il cuoco, che nessuno aveva visto ma che aveva preparato il sontuoso pasto, e il loro cameriere, un giovane dalle grandi orecchie che non poteva avere più di venticinque anni e che era anche un membro addestrato della Sicurezza Interna Palestinese. Solo per precauzione. Dawoud era stato accusato di molte cose ai suoi tempi; la più vera era la sincerità, al secondo posto c’era la paranoia.

    Il presidente americano, disse Uri, facendo una piccola pausa per asciugarsi l’angolo della bocca. Cosa ne pensate di lui? Credete che i suoi sforzi siano sinceri?

    Dawoud si accarezzò il mento. Credo di sì. All’inizio del suo tumultuoso mandato, nessuno avrebbe pensato che il presidente Jonathan Rutledge sarebbe passato alla storia. L’ex Presidente della Camera, Rutledge, si era trovato spinto alla presidenza del paese a causa dello scandalo e dell’impeachment dei suoi predecessori. Eppure, aveva preparato un piano e, fino a quel momento, l’aveva portato a termine: promuovere la pace non solo tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente, ma tra tutte le nazioni del Medio Oriente. Il giovane re Basheer dell’Arabia Saudita, appena tre settimane prima, aveva firmato l’accordo di Rutledge, così come l’ayatollah iraniano, senza dubbio il fiore all’occhiello del presidente degli Stati Uniti, fino a quel momento.

    Rutledge e Dawoud avevano parlato a lungo più volte negli ultimi mesi. Dawoud aveva persino cominciato a considerare il presidente americano come un amico.

    Quando Rutledge aveva presentato l’idea di mediare un accordo di pace tra Palestina e Israele, gli era sembrato ridicolo. Eccessivamente ottimistico. Quasi al di sopra della sua portata. Ma adesso, mentre pranzava con un membro della Knesset e un delegato del primo ministro israeliano, Dawoud capiva cosa Rutledge avesse intuito, quei mesi prima, quando aveva proposto per la prima volta il trattato: che non solo era possibile, ma forse inevitabile.

    Gaza? Chiese Uri, inarcando improvvisamente un sopracciglio.

    Non aveva bisogno di elaborare. Dawoud sapeva che si riferiva alle cellule dissenzienti nella Striscia, sacche di fazioni fanatiche che in nessuna circostanza avrebbero accettato la pace e avrebbero combattuto in ogni occasione, avrebbero ucciso se stessi e gli altri in nome di un’ideologia che trascendeva qualsiasi politica o ragione, al di là delle loro convinzioni.

    Come sapete... Ho un asso nella manica. Dawoud si aggiustò la cravatta e iniziò a spiegare. Una piccola unità, ma molto elitaria. Presa in prestito dalla CIA americana.

    A quel punto la donna israeliana appostata sulla porta guardò di nuovo, solo per un momento, i suoi occhi scuri alla ricerca di qualcosa che Dawoud non poteva definire. Ma immediatamente tornò a fissare di fronte a sé.

    Uri annuì, apparentemente soddisfatto. Questo è stato un incontro molto produttivo, presidente Dawoud. Credo che abbiamo finito. Se non c’è altro...

    No, non c’è altro. Dawoud si alzò simultaneamente ad Uri ed entrambi gli uomini si abbottonarono la giacca prima di stringersi le mani. Grazie per essere venuto, Uri Dahan, e per favore dì al primo ministro che attendo con impazienza una sua chiamata.

    Lo farò. Non ho dubbi che sarà una conversazione molto piacevole. Uri gli lanciò ancora una volta il suo gradevole sorriso. E per favore, fai i miei complimenti allo chef. Buonanotte, signor presidente. Uri, accompagnato dalle sue due guardie, uscì dalla porta nel freddo della notte.

    Dawoud fece un sospiro. Che strano, pensò, scrivere una pagina fondamentale nella storia in un piccolo locale davanti a un piatto della propria infanzia. Era certo che quell’incontro fosse stato un test, richiesto dal primo ministro Nitzani per verificare da vicino la validità delle intenzioni di Dawoud. E se così fosse, l’aveva certamente superato. Uri era stato deliziosamente disarmante, eppure Dawoud non aveva potuto fare a meno di notare gli sguardi furtivi della donna israeliana.

    Mossad, senza dubbio, pensò Dawoud. Si chiese se fosse lei a condurre effettivamente il test. In ogni caso, non era preoccupato; era stato sincero.

    Ashraf Dawoud era sollevato, ma la sua vescica cominciò a protestare. Da lì a casa sua erano solo quindici minuti d’auto, sarebbero stati anche meno se ce ne fosse stato bisogno, ma sarebbe stata un’attesa inutile dal momento che in quel locale c’erano tutte le strutture adeguate.

    Un momento, disse alle sue guardie mentre si dirigeva verso il bagno sul retro.

    Una di loro, un uomo in turbante di nome Marwan, si fece avanti per accompagnarlo, ma Dawoud lo fermò alzando leggermente una mano. Posso fare da solo, amico, grazie.

    Marwan annuì e ritornò nella sua posizione, con le spalle al muro. Dawoud non lo avrebbe ammesso, non apertamente, ma ultimamente la sua prostata era stata poco gentile con lui e la necessità di urinare in presenza di altri era stata per lui causa frequente di imbarazzo.

    Spalancò la porta del bagno, fece due passi all’interno e si fermò all’improvviso alla vista di un uomo in uniforme grigia che lavava un gabinetto. Dawoud lo guardò costernato, non avrebbe dovuto esserci nessun altro al ristorante quella sera, anche se stava solo pulendo i bagni, e l’uomo sussultò, probabilmente perché non si aspettava che il presidente del suo paese venisse a fare irruzione nel bagno degli uomini.

    Io… Mi scusi, signore, balbettò l’uomo, fissando il pavimento. Era magro, aveva la testa rasata e una barba nera ribelle. Mi avevano detto di non farmi vedere, ma non pensavo che avrebbe... Cioè, voglio dire...

    Non preoccuparti, lo rassicurò Dawoud. Stai solo facendo il tuo lavoro.

    Vado, signore, vado. L’uomo infilò il suo mocio in un secchio apposto al suo carrello delle pulizie, un carrello con le ruote carico di prodotti per la pulizia, un bidone della spazzatura e altri accessori.

    Signore, la prego. Dawoud si fece avanti e mise una mano sulla spalla dell’uomo. Non preoccuparti di me. Fai il tuo dovere.

    S-Sì. Grazie. Signore. Lo farò. Pur esitante, l’uomo riprese il mocio dal carrello e ritornò ad occuparsi del bagno.

    Dawoud andò al lavandino e si spruzzò dell’acqua fresca sul viso. Aveva solo cinquantatré anni, ma ultimamente le rughe intorno ai suoi occhi si erano accentuate. La sua barba, che per anni era stata brizzolata, ora stava per diventare completamente bianca. La macchia calva sulla testa era passata, nell’arco di un solo anno, dalle dimensioni di una moneta da cinque agorot a quella di una prugna.

    Non era mai stato un bevitore, almeno sotto questo aspetto era un musulmano fedele, ma non poteva fare a meno di chiedersi perché avesse smesso di fumare quando la politica gli aveva tolto così tanti anni dalla vita.

    Dawoud si asciugò le mani e si diresse al secondo gabinetto, l’unico non occupato dal custode e dal suo socio. Aprì la porta e si bloccò all’istante.

    Per un momento fu come se il cervello di Dawoud fosse andato in cortocircuito. Il suo primo e unico pensiero in quel momento fu di chiedersi perché ci fosse uno specchio a figura intera in un gabinetto, perché a fissarlo c’era... lui stesso. Un uomo della stessa altezza. Con la stessa barba grigio-bianca. Con le stesse rughe intorno agli occhi. La stessa giacca grigia su una camicia bianca e la cravatta blu.

    L’unica differenza era che la sua immagine speculare non aveva la stessa espressione perplessa e sbalordita. La sua copia stava sogghignando.

    Come un computer al riavvio, il cervello di Dawoud iniziò a processare quello che stava succedendo. La sua sorpresa fu sostituita da un misto di curiosità e da un po’ di rabbia.

    Tu, disse. Cosa ci fai...

    Sentì una mano dietro la sua testa. Un’altra gli afferrò il mento. Qualcuno, dietro di lui. Ma prima che Dawoud potesse voltarsi, le mani scattarono dolcemente in direzioni opposte.

    Non sentì dolore, stranamente, ma un’inquietante sensazione di ossa molli che cedevano e scoppiettavano. Dawoud guardò dietro di sé in quel momento, dritto negli occhi scuri e crudeli del custode; la testa di Dawoud si girò completamente ma il suo corpo no.

    Poi cadde, inerme. I suoi muscoli cedettero, non sentì più alcun muscolo. Non si rese conto di toccare il suolo. Si sentì solo cadere. Cadere per sempre nell’oscurità.

    *

    Svelto ora, afferralo per le spalle, ordinò il sosia mentre si piegava e sollevava le gambe di Dawoud. Quelle guardie idiote sanno che ci mette un’eternità a pisciare, ma non aspetteranno ancora per molto.

    L’assassino, che indossava l’uniforme grigia di un custode, era di corporatura sottile ma era più forte di quanto potesse. Sollevò la metà superiore di Dawoud e insieme riposero, senza tante cerimonie, il cadavere del presidente palestinese nel cestino della spazzatura del carrello delle pulizie. I suoi occhi erano ancora spalancati per lo shock e la sua testa era girata in modo innaturale.

    L’assassino si chinò, gettò la spazzatura del bagno in cima al corpo e poi strinse saldamente il sacco nero. Il sosia si guardò allo specchio, aggiustandosi la cravatta blu. Si lisciò la giacca.

    Non poteva credere che fosse stato così facile.

    La parte difficile era stata la progettazione. Capire dove si sarebbe svolto l’incontro. Scoprire cosa indossava il presidente e procurarsi rapidamente il guardaroba necessario. Far infiltrare l’assassino in qualità di inserviente dopo la chiusura del ristorante. E, naturalmente, rubare il referto medico del presidente, quello che aveva garantito che sarebbe sicuramente andato in bagno prima di andarsene.

    Il sosia si fissò a lungo allo specchio. Si fissò, non aveva più senso usare il riflessivo. Non sapeva più che aspetto avesse. Come sarebbe stato, se non avesse assunto quel ruolo. Se non avesse avuto i capelli e la barba tinti accuratamente. Se non si fosse fatto epilare la parte superiore della testa per simulare la calvizie. Aveva molte rughe intorno agli occhi, create chirurgicamente. Aveva passato migliaia di ore ad ascoltare nastri, discorsi e risate e inflessioni, ripetendole, più e più volte, fino a quando non era diventato la copia perfetta del paranoico presidente mediorientale.

    Sono il presidente Ashraf Dawoud, disse, rivolto allo specchio.

    All’improvviso la porta del bagno si spalancò e una guardia dal collo grosso fece un largo passo all’interno, bloccando la porta con la sua mole. La guardia lanciò un’occhiataccia all’assassino e portò la mano alla pistola che nascondeva sotto la giacca.

    Marwan, disse il sosia, sfoggiando un sorriso rilassato. Va tutto bene. Avanti, lascia che quest’uomo faccia il suo lavoro. Andiamo.

    Marwan esitò per un attimo, ma poi annuì energicamente. Sì, signore. La guardia lo guidò fuori dal bagno, attraversarono la sala del ristorante e poi raggiunsero la macchina.

    Nemmeno la più vicina guardia presidenziale di Dawoud, si accorse di niente. Nemmeno la moglie di Dawoud si sarebbe accorta di niente. Il sosia aveva anni di esperienza nell’impersonare qualcun altro, e quel qualcun altro questa volta era un presidente talmente terrorizzato da possibili attacchi in terra straniera da essere cieco di fronte a una minaccia che si trovava proprio di fronte a lui e da fidarsi di un uomo di cui non avrebbe mai dovuto fidarsi.

    L’assassino si sarebbe sbarazzato del cadavere e avrebbe fatto in modo che nessuno lo trovasse mai. E nel frattempo, il sosia avrebbe lavorato al fine ultimo.

    Sono il presidente Ashraf Dawoud. E Israele conoscerà la pace solo nella morte.

    CAPITOLO UNO

    Sai, sussurrò Maria, quasi sfiorando con le sue labbra l’orecchio di Zero, questo non è esattamente quello che intendevo quando ho detto che speravo ci saremmo avvicinati.

    L’agente Zero avrebbe riso se non fosse stato turbato dalla consapevolezza che quella non era la prima volta che si nascondeva una piccola cassa per un’operazione.

    Probabilmente, non sarebbe stata nemmeno l’ultima.

    Tuttavia, la compagnia avrebbe potuto essere peggiore. Diavolo, essere bloccati in una cassa con Maria Johansson era quasi un lusso di quei tempi. Riusciva a malapena a vedere e non riusciva a distinguere i dettagli dei suoi capelli biondi, raccolti in una comoda coda di cavallo, o dei suoi occhi grigio ardesia, o delle labbra che baciava ogni sera prima di andare a letto e di nuovo prima di ogni operazione.

    Penso che sia piuttosto accogliente, sussurrò di rimando, liberando lentamente e dolorosamente un braccio da dietro la schiena di Maria.

    Non vengo pagato abbastanza per ascoltare i discorsi che fate in camera da letto, disse nell’auricolare Penny, con il suo accento di Camford. La dottoressa Penelope León era l’ingegnere segreto ventisettenne della Squadra per le Operazioni Speciali della CIA che era succeduta a Bixby, l’amico di Zero. Al momento era a diecimila chilometri dalla loro posizione attuale, ma era con loro con qualcosa di più del semplice pensiero.

    Dove sei Penny? chiese Zero.

    Io? Attualmente mi trovo in un La-Z-Boy che ho installato di recente in laboratorio. Indosso un visore VR e alla mia sinistra c’è una tazza di Earl Grey...

    Zero ridacchiò. "No, Penny, dove sei qui?"

    Dunque... Giusto. Il drone è a circa cento metri a nord-est. Ti dico, ho una visuale perfetta. Riesco a vedere gli occhi dell’autista attraverso il parabrezza.

    "Fantastico. Ora ci dici dove siamo noi? "

    Arriverete allo stabile tra circa un chilometro.

    Zero sospirò. Finalmente, ci siamo quasi.

    Meno di tre settimane prima, il presidente Jonathan Rutledge aveva creato l’Executive Operations Team, una suddivisione della Squadra delle Operazioni Speciali della CIA che consisteva esclusivamente in Zero e nella sua squadra formata da quattro membri. All’epoca era sembrato vantaggiosa da entrambe le parti: il direttore Shaw non voleva avere a che fare con loro, e Rutledge lo aveva accontentato. L’idea era che questa squadra avrebbe lavorato in assoluta segretezza (niente di nuovo per loro) e avrebbe risposto solo al presidente o, in sua assenza, al direttore dell’intelligence nazionale.

    Era sembrata una grande idea. Nessuno di loro si sarebbe aspettato di diventare l’asso nella manica ufficiale del presidente.

    E ufficiale non era nemmeno il termine giusto; nessuno avrebbe mai saputo cosa avevano fatto. Ma nell’interesse dell’obbiettivo di Rutledge di ottenere la pace in Medio Oriente, finora avevano smantellato con successo due cellule terroristiche nella Striscia di Gaza, e quel giorno si sarebbero occupati della terza.

    È sempre uno stabile. Ognuna di quelle fazioni sembrava favorire un luogo isolato, un insieme di edifici tozzi, anonimi, con il tetto piatto circondati da muri o recinzioni rinforzate con sacchi di sabbia e sormontate da filo spinato.

    Mancava solo un cartello. Attenti agli insorti.

    Il piano era abbastanza semplice. La vasta rete di contatti malavitosi di Alan Reidigger aveva regalato loro un trafficante di munizioni che vendeva esplosivi a questo particolare gruppo affiliato ad Hamas. L’accordo di far sparire un dossier aveva fatto sì che nell’ultima consegna fossero portate due casse che contenevano un totale di quattro agenti della CIA. Zero e Maria erano in una di queste. Nell’altra si nascondeva il giovane agente ed ex ranger dell’esercito Todd Strickland insieme alla new-entry della loro squadra, il pilota texano Chip Foxworth. Era notte fonda, quasi abbastanza tardi per poter dire che fosse mattina presto, e la speranza era che gli insorti avrebbero portato il loro camion nello stabile e che avrebbero lasciato lì le casse fino all’alba. A quel punto gli agenti si sarebbero liberati usando un chiavistello interno segreto, avrebbero localizzato il leader e avrebbero tagliato la testa del serpente.

    Penny li avrebbe aiutati osservando tutto con il drone, analizzando la struttura e comunicando loro qualsiasi movimento o informazione vitale. Reidigger era il loro autista e in quel momento si trovava a sei chilometri a sud su una jeep, e avrebbe aspettato il segnale per venirli a prendere.

    Facile.

    Zero sapeva che un semplice attacco di droni avrebbe raggiunto il medesimo obiettivo, ma la natura di quell’operazione era altamente riservata; nessuno al di sotto del DNI, nemmeno il Segretario alla Difesa, Colin Kressley, sapeva che erano lì. In effetti, quella notte un uomo con il passaporto di Reid Lawson aveva attraversato il confine con il Canada per far visita ad un amico. Una donna di nome Maria Johansson era stata fermata per eccesso di velocità. Se gli agenti Zero o Marigold fossero morti in quell’operazione, il fatto sarebbe stato attribuito a uno sfortunato incidente e le loro ceneri sarebbero state portate ai parenti più prossimi: nel caso di Zero, le sue figlie adolescenti, Maya e Sara, e nel caso di Maria, suo padre, il Direttore dell’Intelligence David Barren.

    Zero non voleva sapere di chi sarebbero state effettivamente le ceneri.

    La ruota posteriore del camion colpì un dosso e Zero sbatté violentemente la sua spalla contro un lato della cassa. Non era estraneo al dolore, sordo e insistente o acuto e fresco, ma si chiedeva per quanto tempo avrebbe potuto continuare a sopportarlo. Era in buona forma per avere quarant’anni, sano e forte, se nessuno avesse considerato il suo cervello in deterioramento che avrebbe sistematicamente distrutto i suoi ricordi fino ad ucciderlo.

    Ora stiamo varcando i cancelli, disse loro Penny attraverso gli auricolari wireless. Il camion rallentò. Zero riusciva a sentire delle voci che urlavano in arabo, ma nonostante lui capisse la lingua perfettamente, il rombo del motore del camion gli impedì di distinguere le parole.

    Zero allungò la mano verso il suo fianco, accarezzando la sagoma familiare e confortevole della sua Glock 19. Sul petto, fissata a una cinghia di nylon, c’era una Heckler & Koch MP5, una mitragliatrice Parabellum da 9x19 mm dotata di un silenziatore da otto centimetri e di un caricatore da quaranta colpi.

    L’altra mano armeggiava nell’oscurità della cassa, toccando una spalla, poi un gomito e infine scivolando verso il basso fino a stringere la mano guantata di Maria. Anche lei gliela strinse. In qualche modo, il trovarsi

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