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Il Noburian
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E-book362 pagine4 ore

Il Noburian

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Fantascienza - romanzo (280 pagine) - Può una galassia sull'orlo della guerra sopravvivere al risveglio di un'antica civiltà?

Dopo gli eventi di Chataz V, la galassia è sull’orlo della crisi. L’esistenza dell’esercito delle ombre non è più un segreto e adesso la Terra rischia di perdere la Stazione 85.
Nel frattempo il capitano Praz scopre che, in seguito agli esperimenti subiti, l’ultimo esemplare dell’antica civiltà dei Noburian vive ora dentro di lui, come un parassita.
L’ospite imprevisto di Praz fa gola tanto ai terrestri quanto agli Hurack e agli Skatum, ma nessuno di loro ha fatto i conti con il capitano Jane Hattaway, intenzionata a proteggere Praz a qualunque costo.
Quanto al Noburian, questi ha un unico obiettivo: sopravvivere.
Dopo il successo del romanzo d'esordio Eroi di guerre invisibili Claude Francis Dozière alza la posta con l'entusiasmante seguito.

Alsaziano di nascita, classe 1961, Claude Francis Dozière ha studiato lingue e letterature straniere presso l’Université de Strasbourg (Francia). Da sempre appassionato di fantascienza, un giorno ha deciso di mettere su carta le storie, i pianeti e i personaggi che immaginava con la fantasia.
Si considera un “conteur d’histoire” perché intende la scrittura un mezzo più che un fine.
Il suo primo romanzo, Eroi di guerre invisibili, è uscito nel 2021 per Delos Digital.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2022
ISBN9788825420722
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    Anteprima del libro

    Il Noburian - Claude Francis Dozière

    Viaggiare è sempre, in qualche forma, esplorare se stessi.

    Stephen Littleword

    Prologo

    Nella sua cella era buio. La fioca luce al led funzionava a intermittenza, ma il capitano Francis Praz non ci faceva più caso. Un tempo era stato un uomo massiccio, muscoloso, ma di quell’uomo ora rimanevano una figura smagrita e un viso scavato che dimostrava molti più anni di quelli che aveva. Non aveva compagni di cella e la camera non era arredata, se non per un lettino rigido e stretto sul quale raramente prendeva sonno. Era seduto per terra nello stesso angolo da diverse ore, o giorni, o settimane: non riusciva più a percepire il passare del tempo.

    Era solo. In realtà, lo era stato per tutta la vita, o almeno da quando aveva accettato di guidare l’esercito delle ombre. Da quel momento la sua esistenza era stata un continuo susseguirsi di missioni di cui non aveva potuto parlare con nessuno. Negli anni di servizio aveva combattuto per una pace impossibile, sacrificando tutto per raggiungerla. Era stato il suo obiettivo, lo scopo di una vita. Poi c’era stata la prigionia su Chataz V, dove gli Skatum lo avevano tenuto rinchiuso insieme ad altri prigionieri.

    Tutte le cavie erano morte a causa delle sperimentazioni, tranne Praz. Aveva resistito per cinque anni che erano stati lunghi quanto una vita intera. Anche Bshi’Ran era morto. Nonostante non potessero essere più diversi, un umano e un Hurack, nemici giurati, in quella disperata situazione lui e Bshi’Ran avevano legato.

    Non avevano mai capito cosa volessero da loro gli Skatum. In tutto il periodo di prigionia avevano dedotto solamente che stavano sperimentando tecnologie aliene sconosciute alle altre civiltà della galassia.

    Ora il capitano era di nuovo solo, in una cella diversa, ma pur sempre una cella. Forse era il suo destino, forse era così che doveva finire per lui. Certo, non si aspettava di venire imprigionato da quelli che dovevano essere suoi amici. Dalle SAF, l’esercito terrestre.

    Quel giorno si era rifiutato di mangiare, perché da qualche tempo qualcosa lo corrodeva dentro. Qualcosa, o meglio, qualcuno.

    Poco dopo essere tornato da Chataz V, aveva cominciato a sentire una voce nella testa. Dapprima erano stati suoni senza senso che si tramutavano in fortissime emicranie, poi la voce aveva acquisito più forza, giorno dopo giorno. E mentre lei prendeva spazio, lui si sentiva più debole.

    E così aveva preso a parlare con la voce. A risponderle, a controbattere.

    Ora la voce era più forte che mai. In una maniera bizzarra gli faceva compagnia. Forse era quello il motivo per cui si era presentata a lui. Era una voce tagliente, affilata come la punta di un coltello. E ogni sua parola era un colpo secco che gli perforava la mente.

    – Non ne posso più… – sussurrò Praz. – Esci dalla mia testa.

    Smettila di comportarti così. Ti stanno guardando, ti stanno ascoltando.

    – Cosa vuoi da me? Lasciami in pace.

    Più resisti e più soffrirai.

    Praz aveva provato a collegare la voce agli esperimenti che aveva subito su Chataz V. Ma i ricordi erano annebbiati, non sapeva cosa gli avessero iniettato e non era abbastanza lucido per rispondere a quelle domande. La voce non gli dava tregua.

    Dobbiamo scappare da qui. Lei ci aiuterà.

    – Chi?

    Jane, il capitano Jane Hattaway. Ho sentito quello che provi per lei.

    Il capitano Hattaway aveva condotto la missione per salvarlo. Aveva ereditato il suo ruolo nell’esercito delle ombre e, dopo Chataz V, lo aveva visitato almeno una volta a settimana al centro di riabilitazione. A lei aveva provato a trasmettere i principi che lo avevano guidato negli anni, come bisognasse combattere indefessamente per la pace, contro tutto e contro tutti, anche contro gli ordini dei propri superiori, se necessario.

    Adesso erano stati separati: l’avevano trasferito da un’altra parte, non sapeva di preciso dove.

    Praz era in totale confusione. La voce suggeriva che provasse dei sentimenti per il capitano, ma lui non aveva mai visto Hattaway in quel modo. Il loro legame era strettamente professionale, o almeno così aveva creduto. Come faceva la voce ad avvertire delle emozioni che nemmeno lui sapeva di provare? Forse era davvero impazzito. Forse meritava di stare chiuso in quella cella.

    – Basta!

    Non posso. Perché io sono te. Io sono Uno.

    La voce tacque e sparì. Praz si guardò intorno e fece un respiro profondo.

    Adesso era davvero solo.

    Capitolo primo

    Un nuovo comandante

    La Stazione 85 si stagliava nello spazio come un gigante di metallo addormentato. Era una struttura nera dalla forma spigolosa, ricoperta da pannelli solari, nulla intorno se non l’oscuro abisso della galassia VH265 che la Terra aveva raggiunto decenni prima grazie al programma di esplorazione spaziale. Le stelle, puntini lontani, facevano da sfondo immobile al luogo dove ogni giorno si incontravano ambasciatori e generali di ogni civiltà per decidere alleanze e guerre, stipulare trattati e romperne altri. Era impenetrabile e i segreti che conteneva non oltrepassavano gli strati spessi di metallo che la rivestivano.

    La 85 era nata come avamposto delle Space Armed Forces. Quando era stata costruita, vent’anni prima, aveva la funzione di base per le missioni esplorative della Terra. Negli anni il suo scopo era cambiato: dopo la Guerra d’Indipendenza Spaziale e la vittoria dei terrestri contro l’impero Hurack – e i successivi trattati di pace – la 85 era diventata il centro degli affari politici intergalattici.

    La morte del capitano Francis Praz aveva portato profonda commozione tra le SAF. Praz si era spento poche settimane prima in un centro di riabilitazione riservato ai veterani. L’Eroe di Vattor si era congedato con onore alla fine della Guerra d’Indipendenza, ma la guerra contro gli Hurack e soprattutto la battaglia di Vattor avevano lasciato ferite insanabili nella sua mente, che avevano continuato ad allargarsi fino alla crisi fatale. Il funerale del capitano era stato celebrato con la massima discrezione: troppa enfasi per l’eroe di Vattor sarebbe stata visto come una provocazione dall’impero Hurack.

    Adesso tutto sembrava avere ripreso il suo corso naturale. C’era però la sensazione che si cercasse di mantenere vive le apparenze, di tenere in piedi un equilibrio che forse era già spezzato, o magari non era mai esistito.

    Da quando era stato messo a nudo l’esercito delle ombre, con le sue operazioni militari portate avanti in segreto in tempo di pace, la Terra faticava a mantenere il suo ruolo di garante della pace. Una cicatrice profonda si era aperta nelle relazioni diplomatiche, e qualsiasi frizione poteva provocare un effetto a catena catastrofico.

    Erano passati pochi mesi dall’accaduto. Dopo un primo momento di stallo, le SAF erano state costrette ad apportare cambiamenti nella gestione della 85 e la tensione era viva tra ufficiali e soldati. Stava per succedere qualcosa, ma nessuno sapeva esattamente cosa.

    Ne era convinta il capitano Jane Hattaway, ufficiale diplomatico delle SAF, che aveva ripreso a pieno regime le sue attività alla base.

    Negli ultimi mesi si era data parecchio da fare, aveva lavorato duramente, anche se non le piaceva la trasformazione in corso nelle SAF. Aveva la netta sensazione che si cercasse di scalare le gerarchie il più rapidamente possibile, dimenticando le vere priorità. Dal canto suo, Jane proseguiva il suo lavoro a testa bassa.

    Di recente, ai vertici delle SAF qualcosa nel suo comportamento non doveva essere piaciuto: da qualche settimana avevano smesso di assegnarle missioni ed era rimasta bloccata alla 85. Dal QG, il Quartier Generale terrestre, tutto taceva. Sembrava si fossero dimenticati di lei, anche se era stato proprio il suo lavoro di ricucitura a permettere, negli ultimi mesi, un riavvicinamento parziale tra la Terra e le altre civiltà. Nel limbo d’attesa di quei giorni aveva avuto modo di osservare ciò che accadeva alla stazione, e avvertiva nell’aria e nelle chiacchiere a mezza bocca dei suoi superiori che a breve sarebbe avvenuta una svolta epocale.

    Hattaway non riusciva a smettere di domandarsi quando tutto questo sarebbe finito, quando avrebbero smesso di concepire la politica come un gioco da tavolo in cui si muovono uomini e armi a piacimento, senza conseguenze. Aveva la sensazione che i vertici del QG neanche si rendessero conto delle vite che rischiavano di essere spezzate ogni volta che prendevano una decisione. Ma aveva anche il sentore che non sarebbe mai finita, e che il suo ruolo, forse, era quello di arginare, di limitare il più possibile le spinte sanguinarie di Skatum e Hurack. E di qualche alto ufficiale delle SAF, come aveva avuto modo di scoprire di recente. Certe volte sentiva di essere l’unica a pensarla in quel modo, a combattere una battaglia già persa, e quella solitudine si faceva sempre più profonda, come una voragine che si allargava di settimana in settimana.

    Quel giorno Hattaway stava attraversando il Giardino, dove si svolgevano gli incontri diplomatici. Era diretta al bar della 85. L’equipaggio delle Eirene, il suo equipaggio, l’attendeva lì. Avevano condiviso gioie e dolori, momenti difficili e risultati insperati. Erano gli unici ufficiali che le erano rimasti accanto e l’avevano sostenuta. Quello al bar era diventato un appuntamento fisso, l’unico momento di svago prima di iniziare l’ennesima, faticosa e noiosa giornata di lavoro.

    Hattaway entrò con il suo passo deciso e ordinò il solito mavik al barista. Poi raggiunse i suoi che avevano occupato un tavolo in un angolo. In passato, a Hattaway non piaceva spendere lì il suo tempo: lo trovava un posto rumoroso, fastidioso. Adesso era diventato l’unico dove poter stare con gli amici, dimenticare per qualche ora il frastuono degli intrighi.

    Negli occhi della sua squadra lesse il nervosismo: fremevano per partire, ma Hattaway non aveva nulla da offrire loro. Non c’erano missioni per lei, almeno nel breve termine.

    Era soprattutto Mazin Achebe, capitano in seconda e uomo d’azione, a soffrire quella situazione. Non era mai stato così tanto tempo fermo in tutta la sua vita, trascorsa in viaggio tra una missione e l’altra. Era un soldato esperto, la cui carriera affondava le radici negli ultimi anni del conflitto con gli Hurack.

    Ma dietro l’incontro di quella mattina c’era una motivazione particolare. Voci di corridoio si rincorrevano da qualche ora e Achebe e gli altri cercavano conferme.

    – Capitano, ha qualche notizia sul nuovo comandante della stazione? – chiese Achebe.

    – Spiacente. Non c’è nulla di ufficiale ancora, sono solo pettegolezzi.

    Calò il silenzio. Si intromise Bellini, il tenente ingegnere della Eirene, un ufficiale anziano che era nelle SAF da prima della Guerra d’Indipendenza.

    – Qualche missione in arrivo? Non ce la faccio più a stare chiuso nell’hangar.

    Anche Kumar disse la sua: – La penso come Bellini, capitano. Non sono entrato nelle SAF per tradurre lo Skatum durante gli incontri diplomatici.

    Hattaway condivideva la loro rabbia, ma non poteva farci niente. Anche lei era sgomenta, aveva provato a chiedere ai suoi superiori senza ottenere risposta.

    – Non so cosa sta succedendo. La mia sensazione è che ci vogliono togliere di mezzo, e non ne capisco il motivo.

    Fu Lisa Chen, l’ufficiale alla sicurezza, a dire ad alta voce quello che pensavano tutti: – La ragione la sappiamo tutti, non giriamoci intorno. Dopo Chataz V e soprattutto Alshtaq abbiamo pestato i piedi a qualcuno e adesso la stiamo pagando.

    Hattaway ricordava bene Chataz V. Ricordava minuto per minuto ciò che era successo durante quei giorni frenetici. Poco prima che l’esistenza dell’esercito delle ombre diventasse di pubblico dominio, l’ammiraglio Edwards le aveva chiesto di guidare il corpo speciale per distruggere un laboratorio dove gli Skatum stavano costruendo armi di distruzione planetaria. Per impedire una nuova guerra Hattaway aveva accettato, anche se non le piaceva l’idea che la Terra tenesse segreta un’iniziativa come quella. La missione era stata un successo, ma aveva provocato la crisi diplomatica in cui adesso erano immersi.

    E visto che meno di ventiquattro ore dopo Hattaway si era anche rifiutata di eseguire gli ordini dell’ammiraglio Edwards al largo di Alshtaq, ora lei e il suo equipaggio erano bloccati lì, puniti per la loro insubordinazione.

    – Sicuramente c’è dietro l’ammiraglio Edwards – disse Achebe.

    Hattaway si adombrò.

    Edwards era un tasto dolente per lei: aveva scoperto solo di recente di essere sua figlia biologica. Glielo aveva confessato sua madre poco prima di morire.

    Per quel motivo, nonostante pensasse a lui più di quanto volesse, parlare di Edwards la metteva a disagio. Aveva passato anni a cercare un padre che l’aveva abbandonata quando, in realtà, il suo vero padre era stato a fianco a lei per tutto quel tempo. E visto che la scoperta della verità era coincisa con la svolta guerrafondaia di Edwards, o perlomeno con il suo rivelarsi, per Jane era stata una profonda delusione.

    – Sospetto anche io che l’ammiraglio Edwards abbia lasciato delle direttive prima di lasciare le SAF. – Jane sospirò. – Speravo solo di avere più riconoscimento dopo quello che abbiamo fatto su Chataz V.

    Dopo Alshtaq, Edwards era stato messo da parte. Hattaway ne era abbastanza certa: non c’era stato alcun annuncio ufficiale, ma non lo aveva più sentito nominare. Ma, evidentemente, aveva ancora amici nelle posizioni giuste. Bevve un sorso di mavik, poi cambiò argomento.

    – Lisa, come procedono le sue lezioni?

    Da quando erano rientrati alla 85, Chen era diventata l’insegnante di combattimento delle nuove reclute. Tra Chen e Hattaway c’era un rapporto speciale: la giovane ufficiale era la sua protetta e il capitano si sforzava di essere una brava mentore per lei.

    – Non mi sono mai divertita così tanto in vita mia – rispose lei, senza neanche fare un tentativo per nascondere l’ironia. Anche Chen, come gli altri, stava soffrendo la mancanza di azione. Kumar le mise una mano consolatoria sulla spalla. Jane aveva capito che i due avevano intrapreso una relazione dopo Chataz V, ma non l’avevano ancora detto ai compagni. Jane sospettava che quella riservatezza dipendesse da Kumar. Raj era dotato di una grande sensibilità, lo sapeva, e forse temeva che ufficializzare la loro storia potesse portare complicazioni. Di certo Jane non si sentiva nelle condizioni di dare consigli a nessuno.

    Achebe fece un cenno ad Hattaway: voleva parlare con lei da solo. Jane si alzò e, con la scusa di accompagnarlo al bancone, si allontanarono dal resto del gruppo.

    – Capitano, sta per succedere qualcosa. L’ammiraglio Edwards non c’è più, Mentel è in partenza e presto avremo un nuovo comandante.

    Hattaway annuì. Mentel, l’attuale comandante della 85, era uno dei pochi di cui si poteva fidare. In passato era stato alleato di Edwards, ma tra i due i rapporti si erano incrinati. La sua perdita avrebbe portato conseguenze gravi sui delicati equilibri della base.

    – Mentel era troppo legato all’esercito delle ombre per rimanere al potere – rispose.

    L’espressione di Achebe si fece più grave.

    – E Praz? Ha qualche notizia su di lui?

    Quel nome fu un altro colpo al cuore di Hattaway. La conversazione stava toccando tutte le corde sbagliate.

    Hattaway aveva raccolto l’eredità di Praz alla guida dell’esercito delle ombre, oltre ad avere raccolto lui dal laboratorio Skatum su Chataz V in cui era stato rinchiuso per cinque anni, e per questo si sentiva in dovere di aiutarlo.

    Praz era stato al centro di tutto ciò che era avvenuto negli ultimi mesi. Attorno a lui gravitavano gli intrecci di cui Hattaway aveva faticosamente tirato le fila.

    Nell’ultimo periodo lo aveva visitato regolarmente al centro di riabilitazione. Aveva stretto un legame con lui. Avevano persino scherzato sul suo funerale, e Praz aveva detto che trovava un po’ deprimente il fatto che la vita lo avesse reso solo al punto che fosse possibile inscenare la sua morte senza che nessuno si accorgesse del bluff. La proposta era arrivata dal QG, probabilmente un’idea di Mentel, e Praz aveva accettato subito. Aveva detto a Jane che per lui significava l’inizio di una nuova vita, non appena fosse uscito da lì.

    Solo che Praz non si stava affatto riprendendo. Dopo Chataz V non era più lo stesso e i suoi cambi d’umore, che alternavano momenti di follia e lucidità, destavano preoccupazione nei medici che lo seguivano. Le lunghe discussioni con Praz lo avevano trasformato, agli occhi di Hattaway, in una guida: qualcuno che poteva indicarle la via per essere un buon capitano per la sua squadra. E Praz, nei momenti di lucidità, era stato perfetto per quel ruolo. Perché in fondo si somigliavano. L’aveva spronata a lavorare per la pace, sempre. Le aveva spiegato che solo grazie alle persone come loro si poteva evitare una nuova guerra.

    Hattaway tornò al presente.

    – So solo che lo hanno trasferito – rispose ad Achebe con una punta di amarezza.

    – E dove l’hanno portato?

    – Non si sa. Sono preoccupata, nessuno vuole darmi informazioni.

    Achebe percepì lo sconforto nella sua voce e cercò di addolcire la pillola.

    – Magari lo hanno mandato in un nuovo centro di riabilitazione – disse, incoraggiante.

    – Non lo so. Vedrò il colonnello Mentel più tardi, spero di avere qualche notizia.

    Tornarono al tavolo dal resto dell’equipaggio, che nel frattempo aveva ordinato un altro giro di mavik. Era l’unica cosa rimasta da fare in quei giorni vuoti. Hattaway finì il suo bicchiere in un sorso, salutò gli altri e si diresse all’ufficio del colonnello Mentel.

    L’ufficio era fin troppo piccolo per un ufficiale del suo rango. Quando Hattaway entrò, vide che il colonnello stava sistemando le sue cose. Evidentemente il suo sostituto era in arrivo, anche se la Terra non aveva ancora annunciato chi fosse. Non era la prassi ordinaria per le SAF, di solito non mantenevano un tale riserbo. Ma, dopo Chataz V e Alshtaq, le procedure erano cambiate.

    – Sono arrivata nel momento sbagliato, colonnello?

    – Non si preoccupi. Devo preparare la mia partenza.

    – Verrà promosso, dunque?

    Mentel rise.

    – Sì, ufficialmente è una promozione. In realtà mi metteranno dietro a una scrivania meno trafficata di questa. È quello che succede quando non si obbedisce agli ordini. Anche lei ne sa qualcosa, capitano. A cosa devo la sua visita?

    – Vorrei sapere dove è stato trasferito Praz.

    Mentel scosse la testa. – Purtroppo le condizioni di Praz sono peggiorate. Al centro riabilitazione non sono attrezzati per situazioni simili. Però c’è un risvolto positivo: abbiamo approfittato di questo trasferimento per fare credere agli Skatum che Praz sia morto.

    Già, pensò Hattaway, di certo gli Skatum non si erano bevuti la storia del congedo al termine della guerra, visto che quel periodo lo aveva passato prigioniero nei loro laboratori. Fare arrivare loro la voce che Praz fosse deceduto in seguito al trauma degli esperimenti – come tutte le altre cavie – era una mossa intelligente: chiudeva il cerchio. Nessuno cerca un morto.

    – Lo hanno portato sulla Terra? – chiese Hattaway.

    – No, è ancora qui sulla 85. Perché ci tiene tanto a lui?

    Hattaway abbassò lo sguardo.

    – Gli ho salvato la vita su Chataz V. Sono stata la prima persona che ha visto dopo la prigionia. Al centro, quando parlava con me, stava bene. Rivedermi potrebbe aiutarlo.

    Mentel soppesò le sue parole.

    – Ha ragione. Quello che le sto per dire, però, deve rimanere assolutamente confidenziale. Intesi?

    Hattaway annuì.

    – Praz si trova in un’ala segreta della 85. Pochissimi sanno che esiste e ancora meno dove si trova. In passato è stata molto utile e adesso, con Praz, è stata rimessa in funzione.

    – Perché dovrebbe esserci un’ala segreta alla 85?

    – Non ha imparato niente, capitano? Fa ancora domande a cui nessuno darà mai una risposta.

    Hattaway abbozzò un sorriso. Il colonnello aveva ragione. In fondo, quello era il motivo per cui non le venivano assegnate missioni: era incapace di obbedire senza riflettere.

    – Quando potrò rivedere il capitano? – chiese.

    – Anche oggi stesso, se lo desidera. Il QG non approverà, ma non mi importa. Prenda questa scheda e vada all’ascensore 8B. Dovrà digitare sulla tastiera la sequenza 024789. Avvertirò il dottore del suo arrivo.

    Mentel porse ad Hattaway una piccola scheda metallica.

    – Praz ha bisogno di stare con qualcuno di cui si può fidare e forse lei è la persona giusta. C’è qualcosa in lui di… diverso. Sta cambiando giorno dopo giorno. Visto che io sto per lasciare la stazione, solo lei può aiutarlo. Non mi fido di nessun altro.

    Hattaway capì che, dietro la facciata di noncuranza, Mentel le stava affidando un compito per lui importante. Praz era un suo amico, oltre che un collega. Si conoscevano da prima della Guerra d’Indipendenza. Avevano persino condiviso la stanza da cadetti alla 85.

    – Colonnello Mentel, molti qui la rimpiangeranno, compresa me.

    Mentel sorrise.

    – Sono lusingato, capitano. Purtroppo, non tutti la pensano come lei. Adesso vada.

    Il colonnello ritornò a quello che stava facendo prima che Hattaway entrasse, e lei indugiò qualche istante sulla soglia. Avrebbe voluto dirgli altro, ma non lo fece. Il colonnello era l’unico vero alleato che le fosse rimasto alla 85 e adesso, senza di lui, sarebbe stata ancora più dura. La voragine si faceva sempre più larga.

    Per arrivare all’ascensore 8B doveva passare di nuovo per il Giardino. Rispetto a qualche ora prima, si era riempito. Diplomatici di varie razze erano sparsi tra le piante e gli alberi che abbellivano la sala. Un nugolo di ufficiali terrestri discuteva con ufficiali Hurack, Kaljick e Skatum. Hattaway colse stralci della loro conversazione: si parlava del nuovo comandante della 85, ma le SAF non avevano lasciato trapelare il nome del sostituto di Mentel.

    Arrivò all’ascensore indicatole dal colonnello e digitò la sequenza alfanumerica. Non era mai stata in quella sezione della 85. Era dedicata alla manutenzione della stazione, al complicato sistema di motori e tecnologie che la teneva in piedi. In piedi per modo di dire, visto che era stata costruita al di fuori dell’orbita terrestre e nessuna sua componente aveva mai toccato il suolo di alcun pianeta.

    Eppure, sotto agli ingranaggi, si nascondeva altro.

    L’ascensore arrivò al piano. Hattaway poggiò la scheda metallica sul sensore e le porte si aprirono di fronte a lei.

    Si ritrovò in un corridoio luminoso dalle pareti bianche. In fondo, una porta d’acciaio blindata. La raggiunse. Non aveva idea di come aprirla, finché notò una telecamera che la inquadrava.

    Una voce femminile rimbombò nel corridoio.

    – Nome e grado.

    Proveniva da sopra la telecamera. Hattaway guardò nell’obiettivo e diede le sue generalità.

    – Motivo della visita? – domandò la voce.

    Hattaway non si aspettava quell’interrogatorio.

    – Devo vedere il capitano Francis Praz.

    – Chi le ha detto di venire qui?

    – Il colonnello Mentel. Mi ha autorizzata lui, dovreste aver ricevuto la comunicazione.

    La porta si aprì con uno scatto. Hattaway avanzò cauta. Si trovò in una stanza piccola, dove dietro a una scrivania ingombra di monitor era seduto un uomo in divisa medica. In piedi c’era un’infermiera.

    – Lei è? – chiese Hattaway all’uomo.

    – Sono il dottor Williams, ufficiale medico. Mi occupo del capitano Praz. Teoricamente non sarebbero permesse visite, ma il colonnello Mentel mi ha chiesto di fare un’eccezione.

    – Molto piacere. Chi ha ordinato tutto questo? Il trasferimento, intendo.

    Hattaway voleva capire: perché prima poteva vedere il capitano e adesso no? Cosa le stavano nascondendo?

    – Il QG.

    – Come sta il capitano?

    – Ha momenti di lucidità e poi… sprofonda. Sembra quasi un’altra persona.

    – Che cure gli state facendo?

    – Nessuna, in questo momento. Ho l’ordine di tenerlo in isolamento e di studiare il caso. Non siamo autorizzati a fare di più.

    Hattaway era sconvolta. Perché l’avevano spostato lì, se non per curarlo?

    – Dobbiamo solo osservare e riferire – concluse il dottor Williams.

    – Riferire a chi?

    – Al QG.

    Nella mente di Hattaway si sovrapposero mille domande. Tutta la faccenda diventava sempre più confusa.

    – Vorrei vederlo. Ora.

    – Certo, mi segua.

    Il dottore aprì un’altra porta e si ritrovarono in corridoio simile al primo, ma con porte e celle blindate da entrambi i lati. Più che un ospedale sembrava una prigione e Hattaway si chiese cosa ci facessero le SAF con una struttura del genere. Ipotizzò diverse possibilità, una più spaventosa dell’altra.

    Williams si fermò davanti a una delle porte, la numero 23. Digitò un codice e quella si aprì. Hattaway entrò in una stanza quasi buia, se non per un filo di luce piatta proveniente da un led appeso in alto sulla parete. Una figura umana era rintanata in un angolo, raggomitolata. Era il capitano Praz.

    Il suo corpo oscillava avanti e indietro. Muoveva le labbra, anche se Hattaway non udiva alcun suono uscirgli dalla bocca.

    Jane pensò che non aveva avuto senso liberarlo su Chataz V se dovevano tenerlo prigioniero in quel modo. Quello che gli stavano facendo era disumano. E anche inutile, visto che non lo stavano curando.

    Hattaway gli si affrettò incontro.

    – Capitano Praz!

    Lui alzò la testa. La guardò, ma parve non riconoscerla.

    – Ci… conosciamo? – chiese, dubbioso.

    Hattaway era amareggiata. Com’era possibile che, dopo tutte le volte che era andata a trovarlo, non sapesse chi fosse? Avevano parlato per settimane, era l’unica che gli facesse visita.

    – Sono io… Jane… il capitano Jane Hattaway. L’ho salvata su

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