Nel tempo tutto resta
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Anteprima del libro
Nel tempo tutto resta - Josuele Di Grazia
solitudine.
1
Era un lunedì notte quando Marco, dopo aver finito di lavorare, si diresse verso casa. Se avesse avuto una macchina, non avrebbe percepito il freddo di quella notte, e nemmeno quella pioggia che il vento gli sbatteva addosso, ma non potendo permettersela, dovette camminare, come d’altronde aveva sempre fatto.
Il suo stipendio era molto ridotto in confronto a quello di tutti i suoi colleghi, il motivo se l’era sempre chiesto, senza però trovare mai una spiegazione.
Una mattina tentò quindi di andare fuori dall’orario di lavoro nella sua azienda, per parlarne con il suo datore, Luigi. Credeva che lo avrebbe trovato nel suo ufficio, ma avvicinandosi, si accorse che invece era di fronte alla macchinetta del caffè.
Ma chi diavolo me l’ha detto di venire… se poi mi licenzia, che faccio? non poteva fare a meno di pensare Marco, mentre teneva lo sguardo per terra e faceva dei passi così piccoli, che dava l’idea di non muoversi affatto.
Una volta arrivato quasi vicino a lui, Luigi si voltò a guardarlo: era serio in volto e non mosse un muscolo, non sembrava nemmeno umano.
Marco gli fece un piccolo sorriso e poi disse: «Buongiorno…»
Lui non rispose.
Vedendo che da quando era di fronte a lui, Luigi non diceva una parola, Marco andò dritto al punto: «Volevo sapere se fosse possibile avere un piccolo aumento, dato che è molto tempo che lavoro qui e mi sono sempre impegnato…»
Luigi a sentire quella frase divenne rosso, sembrava che si stesse arrabbiando veramente, infatti non era mai successo prima che uno dei suoi operai gli chiedesse un aumento.
Fece quindi finta di non aver capito, e facendosi ancora più serio gli rispose: «Cosa? Parla più forte, perché non credo di aver capito quello che hai detto.»
Marco allora fece un bel respiro, come se cercasse di prendere il coraggio che non aveva nell’aria, e alzando un po’ di più la voce, gli ripeté la domanda: «Volevo sapere se fosse possibile avere un piccolo aumento, dato che è molto che lavoro qui, e che mi sono sempre impegnato…»
Come si permette questo qui di chiedermi un aumento? pensò subito Luigi. Non solo l’ho mantenuto da quand’era piccolo, e gli ho anche dato un lavoro, ma ora ha persino il coraggio di chiedermi un aumento… aggiunse poi.
«Facciamo una cosa Marco: se tu mi dimostri cos’è che hai fatto in più del tuo dovere da quando hai iniziato a lavorare qui, allora ti darò l’aumento senza problemi. Altrimenti scordatelo» e senza aspettare una sua risposta, si girò e andò via.
Quella sera, tornando a casa, Marco si accese una sigaretta. Ogni tanto volgeva lo sguardo verso il cielo, con la speranza che da un momento all’altro potesse smettere di piovere e si potesse riempire di stelle, ma niente di tutto quello che sperava si avverò.
Le strade erano vuote, non una macchina in movimento, o un passante. Non un rumore di un cane, di una marmitta, di una bicicletta. In ogni angolo si percepiva solamente il rumore del vento, e quella pioggia che cadeva lentamente.
Forse a causa di quella solitudine, o forse per il fatto che al lavoro non andava bene come voleva, si ritrovò a pensare che si era stancato di vivere così, di essere sempre allo stesso punto di partenza, di doversi fare il culo per poi vedere che la vita rendeva inutili tutti i suoi sacrifici. Non riusciva a capire che senso avesse tutto questo.
Nel tragitto verso casa, si mise ad ascoltare con gli auricolari la musica, una delle poche cose capaci di farlo sentire meno solo quando era triste…
Una volta arrivato a casa, si spogliò e andò in bagno per lavarsi il viso, e quando si guardò nello specchio sopra al lavandino, il suo sguardo si fece rabbioso… Il monolocale in cui viveva era situato a Certaldo ed era composto da una camera, che di giorno diventava una cucina e che conteneva solo un piccolo fornello e quattro mensole ricoperte di libri di autori classici, e da un bagno. Aveva solamente una finestra che si affacciava sulla strada. C’erano solo un frigo, un tavolo e un armadio ad angolo.
Speriamo di riuscire a dormire stanotte… pensò prima di tirarsi le coperte fin sopra la testa, ma i minuti passavano e lui non riusciva a prendere sonno.
Voglio dormire, continuava a ripetersi come se fosse stato un piccolo bambino che desidera aprire i regali di compleanno prima di mangiare la torta.
Dopo essersi rigirato a lungo, ed essere andato più di una volta in bagno a lavarsi il viso, finalmente riuscì a dormire, ma fece un incubo, uno di quelli che non si vorrebbe mai vivere, mai provare sulla propria pelle.
2
Il sogno
Marco si ritrovò in piedi al centro della stazione, in piena notte, con addosso soltanto una maglietta a maniche corte di colore rosso, un paio di pantaloni neri e un paio di scarpe.
Dove diavolo sono? Come mai i lampioni non sono accessi? E perché mi trovo per strada, se qualche istante fa stavo dormendo? non poté fare a meno di chiedersi, quando si rese conto di dove si trovava.
Le case erano molto più scure rispetto a qualsiasi altra notte e lui camminava spaesato nei pressi della stazione.
Decise di provare a urlare perché, così facendo, sperava che qualcuno si arrabbiasse e si facesse quindi vivo, così che potesse chiedergli cosa stava succedendo, quindi con tutta la voce che ebbe dentro di sé, si mise a gridare: «C’è qualcuno?!»
L’unica risposta che ricevette, fu il silenzio. Il silenzio delle macchine, il silenzio degli uccelli, del ronzio che di solito hanno i lampioni quando sono accesi, il silenzio delle case.
Quello che stava sentendo Marco era il silenzio della notte.
Dopo quel tentativo fallito, si allontanò dalla stazione, e quando arrivò di fronte al numero civico 20 di una via a lui fin troppo famigliare, ebbe molta paura, perché il suo nome non era tra quelli sui campanelli delle persone che vivevano in quel condominio. Rimase fermo per qualche minuto lì di fronte, sperando che non fosse vero.
È tutto troppo strano… pensò.
Si dette due pizzicotti al braccio sinistro, ma si fece male. «Allora tutto questo non è un incubo…» borbottò.
Voleva cercare di capire cosa stesse succedendo, così si diresse verso un boschetto poco distante.
Durante tutto il tragitto, cercò di trovare qualche segno di vita, qualche luce accesa, una qualsiasi cosa che gli facesse capire che non era solo. Ma ancora una volta, rimase deluso.
Quando arrivò di fronte al boschetto, ebbe più paura che mai, perché lì i rumori li sentiva, ma erano spaventosi e quindi decise di tornare indietro e di dirigersi dall’altra parte del paese.
Il tempo in quella notte si era fermato.
Non riusciva a capire quello che stava succedendo, e questa cosa pian piano lo stava distruggendo.
Iniziò ad avere molta paura man mano che camminava, perché non riusciva a distinguere se quello che stava vivendo era un sogno o la realtà.
Percorse tutta la strada principale del paese che di solito era gremita di persone che giravano per i negozi e i bar.
Quando arrivò in un’altra via a lui famigliare, sentì le urla di un bambino che gli arrivarono dritte al cuore.
C’è qualcuno finalmente, pensò Marco con un po’ di speranza. Iniziò a correre veloce come non aveva mai fatto prima di quel momento.
Quando arrivò vicino a quella casa da riuscire a vederne le luci, rallentò il passo e quando riuscì a distinguere in mezzo a quel buio di quale casa si trattasse, il mondo gli cadde addosso.
In un attimo, a soli pochi metri di distanza da quella casa, si ritrovò in ginocchio, con le lacrime agli occhi.
«Quella casa era la mia…» sussurrò.
Si rialzò con gambe tremanti e dovette appoggiarsi alle macchine lì vicino, per potersi avvicinare a quella abitazione.
Per capire cosa stesse succedendo all’interno della casa, si nascose nel giardino della casa di fronte.
Grazie alla finestra aperta, Marco riusciva a sentire ancora le grida di quel bambino.
«Mamma per favore basta, mi stai facendo paura» disse il bambino piangendo.
«Non m’importa, dimmi subito perché ti sei nascosto per quattro ore? Perché ti sei nascosto sotto il letto? Volevi farmi arrabbiare? Ti faccio i miei complimenti, perché ci sei riuscito.» Gli urlò la madre.
Poi ci fu silenzio, Marco si mise a sedere, mentre rifletteva su ciò che aveva appena sentito.
Quelle voci, quella scena mi ricordano qualcosa. Però non capisco cosa…
Appena ebbe pensato questa frase, realizzò di cosa si trattava e sentì il cuore andare in mille pezzi: «Dio mio…quel bambino… sono io…»
E proprio mentre sussurrava queste parole, sentì l’inconfondibile suono di schiaffi sul volto del bambino.
Marco si alzò subito in piedi e corse a suonare il campanello, ma non sentendo alcun suono, decise di urlare: «Apri subito questa porta!», ma nessuno rispose.
Sentendosi completamente impotente e con le lacrime agli occhi e la voce rotta dal pianto, iniziò a dirle tutto quello che sentiva in fondo al suo cuore: «Potevi benissimo abbandonarmi da qualche parte anziché rendermi la vita così difficile, almeno adesso non sentirei tutti questi pesi addosso.»
Non avrebbe mai voluto rivivere uno di quei momenti che gli avevano rovinato l’infanzia e non accettava di non poter fare nulla per cambiare quegli avvenimenti.
Si mise a cercare una pietra e quando la trovò, la lanciò con tutta la forza che aveva contro la finestra.
La luce dopo quel gesto si spense.
Sapeva che non era forte, non lo era mai stato, soprattutto se riguardava il suo passato.
Iniziò ad allontanarsi, mentre quelle lacrime non cessavano di cadergli sul volto, ma non fece in tempo a fare tre passi, che sentì la porta aprirsi alle sue spalle.
Marco quindi si voltò, con i brividi che lo percorrevano per tutto il corpo, e in quel momento si videro per la prima volta.
Marco non ebbe il coraggio di dirgli una sola parola, voleva soltanto sparire da quell’incubo, da quei ricordi che fino a quel momento credeva di aver seppellito. Voleva soltanto ritornare nel suo letto, non chiedeva altro.
Per qualche minuto rimasero fermi a fissarsi.
Il bambino iniziò a parlargli: «Menomale che volevi fare qualcosa di buono nella tua vita eh? Adesso