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Gladius. L'ultima Roma
Gladius. L'ultima Roma
Gladius. L'ultima Roma
E-book599 pagine7 ore

Gladius. L'ultima Roma

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Info su questo ebook

1430 d.C. - Csaba non ha memoria della sua infanzia quando viene dato in dono da Davide di Trebisonda a
Costantino XI Paleologo, ultimo basileus d'Oriente. Al suo nome è legata però una leggenda antica di secoli,
che porterà l'imperatore a prenderlo con sé facendone un pilastro della resistenza contro gli Ottomani.
E anche quando tutto crollerà, sarà impossibile per lui dimenticare la lealtà verso l'ultimo lascito
della millenaria storia di Roma. Inizierà così un peregrinare che lo porterà a combattere accanto ad
alcuni tra i più importanti e valorosi signori degli ultimi anni del Medioevo.
Nella speranza di riportare in vita un impero nato millecinquecento anni prima, e ormai destinato alle tenebre.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2020
ISBN9788835397045
Gladius. L'ultima Roma

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    Anteprima del libro

    Gladius. L'ultima Roma - Patrizio Corda

    Corda

    GLADIUS

    L’ULTIMA ROMA

    Patrizio Corda

    A chiunque è in cerca

    del proprio posto al mondo.

    Cercate dentro voi stessi,

    e troverete ciò che avete sempre desiderato.

    Principali città e fortificazioni in Britannia nel 410 d.C.

    I

    Il regalo

    Trebisonda, Marzo 1430 d.C.

    Davide II rimase con il capo languidamente sorretto dalla mano destra a guardare il suo interlocutore, la sua barba corvina incapace di celare la forma oblunga e smunta del suo volto.

    Un uomo come lui ancora giovane, e che occupava la sua medesima posizione nella rispettiva corte. Despota.

    Costantino XI Paleologo, membro della dinastia che reggeva l’impero Romano d’Oriente. O meglio, quel che ne restava.

    Anche la situazione dei loro domini era analoga.

    Se l’Oriente era ormai limitato solo alla capitale Costantinopoli e alla Morea, proprio l’area su cui regnava Costantino, anche l’impero di Trebisonda in mano alla sua famiglia non versava in condizioni più egregie.

    Dentro di sé, Davide constatò che avevano molte più cose in comune di quanto pensasse. A partire dal nemico che li stava progressivamente accerchiando, minacciando di sommergere ogni cosa dando il là a una nuova era, un futuro in cui i Musulmani avrebbero sovrastato ogni popolo.

    L’impero Ottomano del sultano Murad II.

    Improvvisamente, quell’amara realizzazione della realtà in cui vivevano e avrebbero vissuto gli ricordò quanto fosse vuoto e quasi patetico quel loro incontro, originariamente indetto per discutere di alcuni rapporti commerciali che Trebisonda e Costantinopoli avrebbero potuto rinforzare.

    Fu proprio Costantino a dar voce a quei suoi pensieri.

    «Mentirsi sarebbe sciocco e indegno di noi, Davide. I tempi in cui i nostri imperi controllavano il mondo intero sono lontani. E non ti nascondo che spesso, pensando al fatto che io e te un giorno potremmo arrivare al dominio, mi assale un’angoscia impossibile da scacciare. Quindi prendiamo quest’occasione per quel che è. Un mero scambio di convenevoli».

    Ecco in cosa differivano.

    Costantino si comportava già come se fosse imperatore, agendo e parlando con trasparenza e dignità straordinarie per un venticinquenne. Anche il suo aspetto era bugiardo.

    La sua folta barba bruna, assieme allo sguardo profondo ma lucido e al viso squadrato parevano già propri di un reggente.

    Facendo sembrare lui, di tre anni più giovane, un ridicolo imitatore di ciò che egli già sembrava convinto di essere.

    E per questo non poteva sopportarlo .

    Ciò nonostante gli sorrise.

    La sua veste lunga e sfarzosa frusciò mentre si sollevava.

    Lanciò uno sguardo fugace anche all’uomo che stava in piedi accanto a Costantino. Il suo inseparabile amico e consigliere, Giorgio Sfranze. Davide lesse nei suoi occhi cerulei diffidenza e un pizzico di riprovazione, figli di anni spesi a corte a destreggiarsi tra tradimenti e trame per arrivare al potere.

    Che continuasse pure a guardarlo. Non gl’importava niente di lui.

    «Ti preoccupi troppo, amico mio» disse allora Davide, ostentando un sorriso cordiale ma a denti stretti mentre girava per la stanza. «Il sultano insegue un’utopia, un impero talmente sterminato che non può che esser destinato ad implodere, anche se vedesse la luce del sole».

    «Il problema è che la vedrà» replicò Costantino, lapidario ma anche sconsolato. «E a nostro scapito».

    «Non possiamo rassegnarci così!» sbottò Davide con tono quasi scherzoso. «Sia io e che te stiamo crescendo all’ombra dei nostri fratelli, che hanno in mano il potere. Abbandonarsi a simili pensieri negativi vorrebbe dire non aver fiducia nel loro operato ».

    Era un’allusione pericolosa.

    Costantino la colse, e preferì annuire abbozzando un sorriso.

    Davide si lisciò le mani candide e ben curate.

    «Temo però sia giunto il momento di salutarci» sospirò. In realtà era entusiasta di porre una fine a quell’insulso siparietto.

    «Sì. Dobbiamo metterci in viaggio» disse Sfranze, che sino ad allora aveva taciuto.

    «Ma prima di accommiatarci non posso permettere che tu vada via senza ricevere un dono degno di te» riprese Davide. Fece un cenno ad alcune sue guardie, che scomparirono dietro un pesante tendaggio purpureo per poi riemergere dalle tenebre tenendo per i gomiti una sagoma più bassa ed esile di loro.

    Costantino si sporse un poco dal seggio, e rimase interdetto.

    Davanti a loro era stato condotto un bambino.

    Lo guardò meglio. Era parecchio alto per la sua età, e con lunghi capelli biondi scarmigliati che però non celavano un dettaglio ben più interessante dei suoi grandi occhi verdi.

    Un’ampia e profonda ferita che gli attraversava la fronte.

    Sembrava perso e confuso. Arrendevole alla morsa delle guardie, guardava davanti a sé senza interessarsi di altro.

    «Vuoi dirmi cosa significa?»

    «Come ben saprai, i Balcani pullulano di popoli che ancora sfuggono a qualsiasi identità. Si dedicano a razzie e crimini di ogni sorta, vagabondando senza meta. Ebbene, una nutrita torma di costoro è stata catturata recentemente ai confini del nostro impero. Purtroppo, nella schermaglia il bambino è involontariamente rimasto ferito e da allora sembra aver perso la memoria. Non parla, né reagisce ad alcun stimolo».

    «E…e io cos’avrei a che fare con tutto questo? Da dove viene questo poveretto?»

    «Sai la cosa più affascinante di tutto questo? Quando abbiamo interrogato i più anziani tra questi briganti, costoro si sono definiti Unni!». Davide scoppiò a ridere sguaiatamente. «Potresti crederci? Unni! »

    «Ma gli Unni sono scomparsi da secoli».

    «Forse sono solo originari dell’Ungheria, e per tradizione prediligono associarsi a quell’antico popolo» osservò Sfranze.

    Davide annuì, dandogli ragione.

    «Ma ad ogni modo, cosa dovrei fare io del bambino?» chiese ancora Costantino senza staccargli gli occhi di dosso.

    Era vestito in modo semplice, ma gli abiti erano consumati.

    Doveva aver viaggiato a lungo. Provò grande pena per lui.

    «Ora che ti affacci alla vita di corte, amico mio, ritengo sia giusto che inizi a infoltire il tuo seguito. Potresti farne ciò che vuoi. Scrivano, guardia del corpo, o semplicemente schiavo».

    «Non credo negli schiavi» rispose Costantino indignato. «È una pratica ignobile e che merita di rimanere nel passato».

    Davide alzò le mani, divertito.

    A quel punto, Costantino guardò Sfranze. Questi gli rispose con una smorfia inequivocabile. Non gli sembrava una buona idea.

    Ma Costantino conosceva Davide, e sapeva che se non avesse accolto il piccolo questi avrebbe fatto di lui chissà cosa.

    «Sappi inoltre» continuò il despota di Trebisonda «che ci è stato riferito che questo bambino è anche di nobili origini. Una sorta di principe della loro tribù, se così si può dire».

    L’espressione sospettosa di Sfranze cessò presto di avere effetto su Costantino. Ormai non vedeva più il piccolo Unno, se tale era per davvero, come merce di scambio. Ma solo come una povera anima da salvare, prima d’ogni cosa.

    Scosse il capo.

    «D’accordo» disse con un filo di voce.

    «Immagina, Costantino. Ha perso la memoria. Con te rinascerà in tutto e per tutto, dimentico della sua vita errante e pronto ad abbracciare la splendida cultura Bizantina. Gli puoi solo fare un dono, accogliendolo».

    Questo lui già lo sapeva. Ma voleva conoscere dell’altro.

    «E come si chiamava, prima?»

    «Dunque…» rifletté Davide. «Oh, sì! Csaba! Il suo nome era Csaba, se non mi sbaglio. Anche questo, in virtù del suo stato nobiliare, se non erro».

    Deciso a fare quella scelta, Costantino annuì senza più voltarsi verso Sfranze. Sapeva che questi non poteva essere d’accordo.

    E non perché temesse che il bambino un giorno potesse spodestarlo. Ma perché egli, dall’alto della sua esperienza, vedeva di più in quel dono che Davide gli stava facendo.

    Era il simbolo del declino di quei due imperi morenti.

    E che ora, non potevano far altro che ripiegare su simili scambi per illudersi di vivere ancora in quei tempi ormai andati.

    II

    Un nome glorioso

    Dintorni di Trebisonda, Marzo 1430 d.C.

    «Perché l’hai fatto?»

    Quel viaggio noioso e disagevole aveva fatto perdere a Costantino la cognizione del tempo. Così, quando sentì la voce di Sfranze giungere alle sue orecchie, si voltò verso di lui quasi spaventato.

    Non era molto più grande di lui, ma sembrava esserlo.

    Non ancora trentenne, Sfranze andava già perdendo i capelli biondi benché si ostinasse a mantenerli lunghi, a volte raccolti in una coda che sembrava un fascio di crini. Le sue rughe precoci su una pelle ancora lattea lo facevano sembrare un vecchio filosofo.

    «Di cosa parli?»

    «Il nome del bambino. Perché volevi saperlo? E perché hai cambiato atteggiamento una volta che l’hai scoperto?»

    «Oh, intendevi quello» sorrise Costantino rimettendosi comodo. «Ero semplicemente curioso».

    Sfranze espirò dalle narici, come un maestro spazientito per le disattenzioni del suo allievo.

    «Credi ancora che non ti conosca?»

    Ritrovando la delicata solarità che l’aveva reso amato in tutta la Morea, Costantino rise amabilmente.

    «Va bene, confesso. Devo ammettere che nel momento in cui ho scoperto il suo vero nome, ho maturato definitivamente la scelta di prendere quel piccolo con noi. Se vuoi, e so che lo desideri, ti spiegherò in dettaglio il perché».

    Il cenno della mano che Sfranze gli rivolse fu chiaro.

    Che parlasse.

    «Ti offenderei gravemente se ti chiedessi se conosci Attila».

    «Certamente. Il re degli Unni, che quasi mille anni fa fece tremare l’ora defunto impero d’Occidente».

    «Esatto. La minaccia che questi fu per la civiltà Romana è tutt’ora impareggiata, e solo Dio sa come sia stato possibile che questi non abbia raso al suolo ogni cosa cancellandoci dalla storia. Ma aldilà di questo, saprai anche che la sua improvvisa morte ha causato il disfacimento dello stesso impero Unno».

    «Vero. I figli non furono capaci di raccogliere l’eredità paterna, così come fu per i Mongoli una volta morto Gengis Khan».

    «Però i potentati Mongoli sono sopravvissuti per diverso tempo, anche se frammentati e sotto diverse forme. Per gli Unni è stato diverso. Come se fossero tornati alle tenebre dalle quali erano emersi, svanendo per sempre. Ecco perché mi ha sorpreso tanto sentirli nominare nuovamente».

    «Le tradizioni e le leggende si tramandano nei secoli da padre a figlio» osservò Sfranze. «Non c’è niente di sorprendente in tutto questo. E adesso, vuoi dirmi cos’hai in mente?»

    «Quanta impazienza!» scherzò Costantino. «Va bene, ora ti dirò tutto».

    Sfranze si rilassò, con le mani congiunte sul grembo pronto ad ascoltare ciò che il suo giovane signore stava per dire.

    «Alla morte di Attila, ciò che era suo andò ai figli. Tra questi il più giovane era, appunto, uno chiamato Csaba. E la vita di questi è avvolta nel mistero, sospesa tra leggenda e realtà. Devi sapere che uno degli ultimi cenni storici sugli Unni è relativo a una guerra contro i Franchi, quando Csaba era però già morto. Onestamente, non ricordo neppure dove ho letto tutto ciò. Ad ogni modo, alla vigilia della battaglia finale i Franchi derisero gli Unni dicendo loro che senza il defunto re non avrebbero avuto speranza. Ma la leggenda narra che dal cielo stellato sia poi riapparso proprio Csaba, discendendo in terra alla guida di un esercito celeste grazie al quale gli Unni sbaragliarono il nemico. In seguito tornò diverse volte, sempre per salvare la sua gente. Anche se col tempo, di questo popolo si son perse definitivamente le tracce».

    Sfranze lo guardò senza capire.

    «Non ci arrivi?» gli chiese Costantino.

    «Francamente no, mio signore e amico».

    «Aldilà dell’improbabilità di questa storia, il nome che porta quel bambino significa qualcosa per la sua gente, al punto da esser sopravvissuto al susseguirsi dei secoli. Cosa c’è di più nobile di ciò? Per quel popolo, tale nome è simbolo di eroismo e lealtà. Dunque sono arrivato a pensare a una cosa».

    «E cosa?»

    «Non sarebbe bello se anche i Bizantini, un giorno, avessero un eroe disposto a proteggerli?» chiese lui sognante.

    «Semmai, questo sarai tu in futuro» disse Sfranze cercando di riportarlo alla realtà, strappandolo alle sue fantasie giovanili.

    Ma Costantino scosse il capo.

    «Forse sarà così, come dici tu. Ma nel dubbio, è sempre meglio avere con sé qualcuno di nobili natali. Il bambino crescerà a tutti gli effetti come un cittadino imperiale, e diverrà un vero Bizantino. E Dio solo sa, Sfranze, quanto bisogno abbiamo di essere quanti più possibile con i tempi che corrono».

    Un velo di amarezza scese sul volto gentile del despota di Morea, e Sfranze cercò dentro di sé le parole per rincuorarlo.

    Terribili presagi aleggiavano su di loro. L’ombra del sultano sembrava talvolta quasi tangibile, le sue mire di conquista impossibili da contrastare.

    Ma poi Costantino si riscosse.

    «Gli ho anche già trovato un nome».

    «Ma come? Hai parlato con tanto fervore poco fa, e ora vorresti cambiarglielo?»

    «Sì, desidero questo per lui. Cosicché possa iniziare una nuova vita, ma mantenendo la sua dignità originaria».

    «Dimmi, allora».

    «Penso che possa essere di buon auspicio» vagheggiò Costantino, guardando verso l’esterno. «Per augurargli una buona vita e dargli il benvenuto fra noi, gli darò un nome che richiama all’antica gloria dell’impero che partorì tutti noi».

    Sfranze tacque, ansioso di udire.

    «Anicio» disse allora Costantino, fremendo di eccitazione. « Lo chiamerò Anicio ».

    III

    Rinascita

    Mistra, Maggio 1430 d.C.

    Chi erano quelle persone?

    Perché era su quel carro, circondato da sconosciuti?

    Sentendo una moltitudine di pensieri agitarsi nella sua mente, ora simile a un vespaio su cui non aveva alcun controllo, Csaba si abbandonò sulla parete di legno adagiandovi il capo dolorante e guardando fuori. Stavano risalendo un pendio irto, in cui la fitta vegetazione era attraversata da un percorso sterrato che costringeva il mezzo a sollevare volute di polvere al suo passaggio.

    Poi, il monte si rivelò a lui in tutta la sua imponenza.

    Era circondato da cipressi tanto alti e numerosi da farli sembrare un prezioso mantello verde che aderiva con incredibile eleganza a quella sagoma tanto possente, figlia della inimitabile creatività della natura.

    In cima a esso, sorgeva un palazzo. Tanto grande da sembrare una città intera con i suoi colonnati, i portici e le mura di cinta.

    Anche lì gli alberi abbondavano, quasi felici di condividere quello spazio con le creazioni dell’uomo. Immani blocchi di pietra erano posati perfettamente l’uno sull’altro, andando a comporre la mole della residenza di chissà quale potentissimo uomo.

    Incapace di resistere all’impulso, Csaba si passò la mano sulla ferita che continuava a bruciare terribilmente anche a distanza di giorni. Quando si guardò le dita, le trovò imbrattate di sangue rappreso.

    Provò a ricordare il momento in cui si era procurato quel taglio, ma non vi riuscì. Era come se il sangue versato si fosse portato via tutti i ricordi. Ormai non gli rimanevano che poche immagini confuse, che si susseguivano a ripetizione in modo sfuggente, avvolte da una nebbia indistricabile.

    Ma tra di queste non erano i momenti immediatamente precedenti a quel viaggio che era stato costretto a intraprendere.

    Invece, davanti ai suoi occhi erano praterie spazzate dal vento, e rilievi di monti ben più alti di quello che stava ammirando. Assieme a quella visione era il suono di mille e più cavalli che galoppavano assieme, diretti verso chissà dove.

    La spossatezza del suo piccolo corpo gli ricordò anche dell’altro.

    Fame.

    La stessa fame che forse l’aveva portato, assieme a chi vagava con lui, in quel luogo oscuro dove tutta la sua vita era cambiata.

    Una vita della quale non ricordava più nulla.

    C’era solo il presente.

    E faceva paura, affrontarlo senza avere più niente alle proprie spalle. Non un ricordo felice al quale aggrapparsi prima di addormentarsi, né un minimo indizio che potesse aiutarlo a riscoprire chi era stato. Semplicemente, era lì in quel momento.

    Solo, spogliato di ogni cosa.

    E quindi vulnerabile.

    Eppure, era stato trattato bene sino a quel momento.

    Nessuno gli aveva usato violenza, né gli erano state negate l’acqua e il cibo. Una rispettosa indifferenza pareva animare quelle persone ben vestite che si erano prese cura di lui sino ad allora.

    Ma perché?

    Il suo incessante pensare lo pose di fronte a una quantità di dubbi che mai aveva contemplato sino a quel giorno.

    Si rese conto di non sapere neppure in quale lingua stesse formulando quel tormentoso dialogo con sé stesso.

    La sua sensazione di smarrimento si acuì, al punto da farlo tremare mentre si stringeva tra le proprie braccia.

    Percepì nuovamente un bruciore intenso alla fronte.

    Ma realizzò anche che questo, seppur fastidioso, stava decisamente scemando rispetto a quando si era svegliato in un bagno di sangue, incapace persino di reggersi in piedi.

    Sarebbe passato.

    Era quello il suo solo conforto.

    Qualsiasi esperienza stesse vivendo, o si stesse apprestando a vivere, sarebbe passata.

    E con essa anche la sofferenza dell’anima, la confusione e la paura si sarebbero dapprima attenuate per poi svanire del tutto quando fosse riuscito ad immergersi nuovamente nella realtà.

    Una dimensione nuova e mai vista, così come quel monte così bello e affascinante seppur nuovo e quindi latore di timore.

    Era così.

    Doveva esserlo.

    La sua ferita si sarebbe rimarginata per prima, e ad essa sarebbe seguita la guarigione del suo spirito, con l’acquisizione di una nuova coscienza di sé. Avrebbe capito chi era, dov’era.

    Cosa l’attendeva.

    Pur con la mente di un bambino, Csaba capì.

    Qualcosa era finito, e stava per cedere spazio a dell’altro.

    Avrebbe dovuto ricominciare, giorno dopo giorno.

    E allora quella totale assenza di ricordi si sarebbe trasformata nell’occasione per ritrovare la felicità, anche se ora non sentiva niente.

    Magari, un domani avrebbe ricominciato a sorridere.

    Proprio come quel nobile signore che pochi giorni prima, gli aveva stretto le mani pronunciandogli delle parole incomprensibili.

    Ma che, anche se per un solo istante, l’avevano fatto risentire vivo.

    IV

    Nubi

    Trebisonda, Dicembre 1431 d.C.

    «Passano gli anni, ma il Mar Nero rimane sempre uno spettacolo bellissimo. Anche in tempesta».

    Era una frase di circostanza. Davide lo sapeva. Ma d’altronde, ogni volta che si trovava solo con suo fratello Giovanni, l’imperatore, aveva percepito nitidamente quanto fossero diversi.

    E da quando questi era salito al trono, rendendolo di fatto suo suddito oltre che fratello, quella scomoda sensazione s’era acuita.

    Giovanni si lisciò la barba bruna e incolta, lasciando che il vento scompigliasse i suoi capelli e facesse fluttuare la sua veste, che garriva tutt’attorno a lui come uno stendardo.

    Dall’alto delle mura di Trebisonda rimasero a guardare il mare più scuro del solito, mentre le nubi gonfie di pioggia scorrevano sopra di esso. Onde cariche di spuma nascevano all’orizzonte per poi susseguirsi incessantemente, pronte ad abbattersi sulla costa.

    Sì, una burrasca incombeva.

    Ma non era la sola a sembrare imminente.

    «Non abbiamo che poche migliaia di soldati, a presidiare queste mura che crediamo incrollabili» disse Giovanni improvvisamente, mantenendo lo sguardo fisso verso l’orizzonte.

    Davide si voltò di scatto, cercando di capire l’origine di quella sua uscita improvvisa.

    Giovanni intuì la sua curiosità. Ma non si voltò.

    «Dobbiamo smetterla di rifugiarci in menzogne rassicuranti e congetture prive di fondamento, fratello mio. La verità è che anche noi, al pari di Costantinopoli, siamo circondati. Ho come l’impressione che sino ad ora siamo sopravvissuti solo perché altri fattori sono subentrati, distraendo gli Ottomani dal loro vero obiettivo».

    Furono parole aspre, che ebbero l’effetto di tramortire anche la personalità frizzante di Davide, che spesso si appigliava al suo carattere per vedere la realtà con occhi diversi.

    Effettivamente era vero. Le sole cose che avevano impedito agli Ottomani di far loro Costantinopoli ma anche Trebisonda erano state le interferenze di Tamerlano e la guerra civile interna che ne era seguita. Ma adesso, Murad non aveva più nessuno ad ostacolarlo. Forse, stava veramente per arrivare il momento decisivo. Per tutti loro.

    «Murad sarà capace di tanto?» chiese.

    «Lo è sempre stato, così come chi l’ha preceduto. Semplicemente, come ti ho detto, sono state le coincidenze a proteggerci quando non avremmo potuto farlo da noi. E lo stesso vale per Costantinopoli, che tempo addietrò riuscì a scacciare la minaccia dalla capitale ma al costo di perdere la Tessalonica, finendo così ancora più isolata».

    L’umore dell’imperatore era pessimo.

    E le sue frasi lo confermavano.

    Davide si sentì in dovere, anche da fratello, di rincuorarlo.

    L’unica idea che gli venne in mente fu quella di sdrammatizzare.

    «Se Dio veramente ci ama, ci aiuterà. Verranno la pace e la salvezza, e chissà che ciò non accada con l’unione delle due Chiese» ironizzò. Si fece poi serio, analizzando la cosa.

    «D’altronde, è questo l’unico scenario in cui l’Occidente potrebbe accettare di venire in soccorso di Costantinopoli e quindi anche nostro».

    Giovanni non era però in vena di scherzare, né di sorridere.

    «Chiesa Cattolica ed Ortodossa non potranno mai essere una cosa sola» rispose tetro. «Anche se venisse fatto un tentativo, sarebbe il popolo stesso a insorgere per lo sdegno. Sarebbe umiliante, inoltre, per i Paleologi vedersi costretti a chinare il capo a tal punto pur di ricevere protezione. Anche se, usando la logica, sarebbe la cosa più saggia da fare».

    Aveva ragione, pensò Davide.

    Credendo di sollevargli il morale, non aveva fatto altro che andare incontro a quella sua fredda ma veritiera dissertazione che aveva avuto solo l’effetto di far sembrare la sua battuta sciocca.

    E immatura.

    Un despota qual era lui non avrebbe mai dovuto tenere un simile atteggiamento. Si vergognò di sé stesso.

    Il silenzio ripiombò tra di loro.

    E se Davide indugiava nel disprezzo di sé, con l’esasperazione tipica dei giovani che già aspirano ad esser uomini, Giovanni aveva fatto oggetto dei suoi pensieri proprio il fratello.

    L’agitazione lo attanagliava, se solo immaginava che in futuro Trebisonda sarebbe potuta finire in mano di Davide. E non per l’età. Lo trovava infinitamente puerile, alla soglia della stupidità.

    E quel pietoso tentativo di divertirlo ne era stata l’ennesima prova. Forse farlo despota a un’età così verde era stato un errore.

    Non gli era possibile vedere l’essenza delle cose e degli eventi attorno a lui, vittima com’era della sua superficialità.

    Il titolo che portava era per lui quasi un gioco.

    Come se, allo stato attuale, il despotato avesse contato qualcosa.

    La realtà era ben altra cosa, e presto anche Davide l’avrebbe capito. Qualcosa di terribile era alle porte.

    E il tempo che stavano passando, vicini ma distanti, e che avrebbero continuato a spendere non era per lui latore di speranza o cambiamenti positivi.

    Se guardava al domani, Giovanni vedeva solo una cosa.

    Nubi, e la quieta incertezza che precede l’irreparabile.

    Proprio come lo spettacolo che stavano ammirando, in piedi sulle mura di Trebisonda.

    V

    Affetto paterno

    Costantinopoli, Giugno 1432 d.C.

    Era una meravigliosa giornata estiva.

    E conoscendo l’amore di Costantino per la bella stagione a Costantinopoli, per Sfranze non affatto difficile capire perché questi fosse così entusiasta nel camminare assieme a lui per i giardini del Palazzo delle Blacherne, la residenza imperiale.

    Ciò che invece continuava ad ammaliarlo era l’accessibilità del suo signore. Non uno dei servi che sciamava indaffarato per i curatissimi spazi verdi era stato ignorato.

    Ciascuno di questi aveva ricevuto un cortese saluto da Costantino.

    Perché, come era solito dire il giovane despota della Morea, ogni Bizantino era degno e indispensabile alla causa .

    Tutti dovevano sentirsi apprezzati, facenti parte di un qualcosa di immenso. Era come se dentro di sé Costantino percepisse l’impero come un qualcosa di smisurato, per quanto fosse cosciente che la situazione era ben diversa.

    Vivevano gli ultimi anni di un dominio morente.

    Forse proprio per quello auspicava una maggior coesione tra la famiglia reale e i sudditi, partendo dalla corte.

    Un giorno, avrebbero combattere tutti insieme per proteggere il proprio futuro. E allora il legame che teneva tanto a instaurare con ogni persona con cui incrociava lo sguardo sarebbe risultato decisivo, infondendo a tutti energie insperate.

    Erano questi pensieri, forse ingenui ma incredibilmente nobili, che facevano sentire Sfranze così orgoglioso di affiancare un uomo dallo spirito così puro, ancora esule dalle bramosie che assalivano le persone che ottenevano o gravitavano attorno al potere.

    Non sarebbe stato fantastico, se fosse rimasto così in eterno?

    La sua speranza era che proprio Costantino, tra tutti i propri fratelli, arrivasse un giorno a vestire la porpora. E non era detto che ciò accadesse per davvero.

    «Con una giornata così gradevole» disse Sfranze contemplando uno stormo di uccelli che si levava in volo da un cipresso «anche la servitù lavora più alacremente del solito».

    Costantino annuì, con le braccia dietro la schiena.

    «Vero. Anche se non mi piace che vengano definiti servi. Piuttosto, umili e fedeli collaboratori».

    Quella sua precisazione ricordò a Sfranze l’aspra reazione del suo signore davanti all’offerta di Davide di Trebisonda, quando questi gli aveva suggerito di fare del bambino che gli aveva dato in dono un proprio schiavo.

    E, come per un beffardo scherzo del destino, il suo sguardo si posò proprio verso un albero all’ombra del quale stava il piccolo Anicio.

    Era impossibile per loro sapere quale fosse la sua vera età, ma a occhio e croce doveva avere dieci anni nonostante un fisico notevolmente più atletico dei suoi coetanei.

    Questi giocavano liberamente nel prato adiacente, rincorrendosi e riempendo l’aria con le loro risate cristalline.

    Tutti, meno Anicio.

    Era una visione tristissima.

    Sebbene fosse sempre stato trattato dignitosamente, questi non era mai riuscito a integrarsi. Forse, neppure avrebbe saputo come fare. Teneva la schiena poggiata contro il tronco robusto, le ginocchia al petto cinte dalle mani giunte. Non si dondolava, né cercava di prendere coscienza con ciò che gli era attorno.

    Non strappava fili d’erba, non impugnava un rametto.

    Niente.

    Guardava davanti a sé, come chiuso nel suo mondo. Lo sguardo perso nel vuoto, forse alla vana ricerca dei ricordi smarriti.

    La lunga frangia di capelli color dell’oro copriva la cicatrice che gli deturpava la fronte, l’unica memoria di un passato ignoto.

    Sfranze sapeva che quella scena avrebbe addolorato immensamente Costantino, finendo per pesargli.

    Avrebbe imputato a sé stesso la colpa per l’esistenza infelice del bambino. Cercò quindi di evitare che se ne accorgesse.

    «Il basileus Giovanni ha dunque intrapreso la sua missione diplomatica. Sembra proprio determinato, questa volta, a trovare in Occidente gli alleati per poter contrastare la possibile offensiva portata dal sultano Murad» disse d’un fiato, richiamando mentalmente i fatti più recenti.

    Ma si rese presto conto che Costantino aveva notato Anicio.

    E vide nei suoi occhi grande dispiacere.

    La straziante solitudine del piccolo l’aveva mosso a compassione.

    Questi non aveva nessuno, ed era incapace di badare a sé così come non sembrava sufficientemente forte per poter affrontare quel mondo in cui non aveva chiesto di essere condotto.

    Il suo era uno stato di abbandono, pensò Costantino, che era paradossalmente paragonabile a quello dello stesso impero d’Oriente. L’impero che sua madre, la basilissa Elena Dragases, gli aveva sempre predetto sarebbe stato suo un giorno.

    E lui avrebbe voluto proteggerlo, il suo impero, così come avrebbe voluto difendere Anicio da qualsiasi minaccia.

    Sfranze si rese conto che ormai non l’ascoltava più.

    E si domandò perché, dato il suo buon animo, Costantino non avesse ancora avuto dei figli. Sarebbe stato un padre fantastico.

    Rimasero così, immobili a osservare la sofferenza di Anicio.

    Fino a che, improvvisamente, Costantino non si voltò verso di lui.

    Lesse determinazione nei suoi occhi.

    E desiderio di rimediare.

    Questi mosse qualche passo in avanti, lasciandoselo dietro.

    Ma poi si fermò, voltandosi di nuovo.

    «Assicurati che al bambino sia assegnato un maestro di Greco, Sfranze» disse senza la minima incertezza.

    Poi, riprese a camminare.

    VI

    Notizie

    Costantinopoli, Febbraio 1435 d.C.

    Suo fratello era forse impazzito?

    Curvo sulla lettera, Costantino si impose di rileggerla con maggiore attenzione. Doveva aver frainteso.

    Ma dopo pochi secondi, realizzò amaramente che era tutto vero.

    Dunque il basileus Giovanni aveva deciso di umiliarsi definitivamente, ricorrendo all’ultima risorsa pur di garantire all’impero una minima difesa dalle mire espansionistiche degli Ottomani di Murad. Il suo viaggio, descritto inizialmente come un’ambiziosa missione politica, si era presto tramutato in un infruttuoso peregrinare, scandito dal suono lapidario delle porte che gli erano state costantemente chiuse in faccia.

    Nessuno intendeva compromettersi per Costantinopoli.

    L’impero d’Oriente era ormai visto da tutti come una realtà prossima a scomparire, sommersa e fagocitata dalle orde del sultano che si apprestavano a cancellare le ultime tracce di Romanità rimaste al mondo.

    In fondo, anche il punto di vista di chi si era negato era comprensibile. Perché rischiare, attirandosi l’inimicizia del potentissimo Murad, accettando di soccorrere un regno che non aveva più nulla da offrire? Che trattativa sarebbe potuta mai nascere, se da parte loro non vi era nulla da dare in cambio?

    Ciò nonostante, Giovanni si era rifiutato di tornare sul Bosforo a mani vuote. E dopo lunghe notti insonni, come gli aveva scritto, si era dunque rassegnato a chinare il capo, a prostrarsi davanti alla sola potenza che avrebbe potuto manifestare il minimo interesse a trattare con loro. Ovviamente, a proprio vantaggio.

    La Chiesa.

    Ciò che non si era mai realizzato, e che da tempo era stato etichettato come una mera utopia, sarebbe diventato realtà.

    Il basileus e il Papa avrebbero trovato un accordo, dando finalmente vita a una Chiesa unica in cui Cattolicesimo e Ortodossia sarebbero confluite in cambio dell’aiuto militare di cui tanto necessitava Costantinopoli.

    Che vergogna!

    Costantino si prese la testa tra le mani.

    Cosa ne avrebbe pensato la gente?

    Si rese conto che quella domanda era inutile, dato che la notizia che aveva ricevuto si era sparsa altrettanto velocemente per la città.

    E il popolo, fortemente legato al proprio credo religioso, si era immediatamente infuriato per quella scelta che per loro era un’autentica umiliazione.

    Presto sarebbero iniziati i primi tumulti, e sarebbe spettato a lui e a sua madre, in assenza di Giovanni, calmare le acque.

    Ma non se la sentì di attribuire troppe colpe al fratello.

    La sua era una scelta folle, ma era anche l’unica che gli fosse stata concessa.

    Il miracolo era già capitato una volta. E non era detto che in futuro le imponenti mura di Teodosio che proteggevano Costantinopoli avrebbero retto contro la furia degli Ottomani.

    Non si poteva superare un assedio affidandosi solo alla sorte.

    Servivano uomini, e armi.

    E l’impero d’Oriente non aveva niente di tutto ciò.

    Dallo sconcerto, passò a provare compassione per Giovanni.

    Accettare di inginocchiarsi davanti al Papa, come un comune supplice, doveva averlo profondamente ferito.

    Non era colpa sua se si era trovato costretto a fare ciò

    Dunque, presto avrebbero ricevuto rinforzi.

    Ma non riuscì a vedere in tutto ciò la minima positività.

    Ripose dunque la lettera, sospirando sonoramente.

    Aveva riflettuto a lungo, con un’intensità tale che le sue tempie avevano iniziato a formicolare procurandogli grande fastidio.

    Tanta era stata la sua concentrazione che aveva finito per astrarsi completamente dalla realtà, ignorando persino il fatto di non essere solo nella stanza.

    Qualcuno era lì, in piedi, col capo chino in attesa di suoi ordini.

    Finalmente libero dai suoi pensieri, Costantino guardò distrattamente quella sagoma.

    Si impose di non mostrarsi troppo afflitto. Ci sarebbe stato tempo per dar sfogo alle sue emozioni, presumibilmente a colloquio privato con sua madre.

    Sollevò dunque una mano, abbozzando un sorriso di circostanza per dare congedo al servo che gli aveva portato la missiva.

    «Puoi andare».

    «Grazie, signore» replicò questi in un Greco stentato, quasi gutturale. Ma con voce di ragazzino.

    Udendo ciò, Costantino risollevò subito il capo.

    Riconobbe i capelli biondi, tenuti corti eccezion fatta che per la lunga frangia che copriva la fronte. E non a caso.

    Anicio.

    Costantino si specchiò nei suoi occhi cangianti, e lo guardò meglio.

    Non lo vedeva da parecchio. Era cresciuto tantissimo, non solo in altezza ma anche nella muscolatura. Eppure il suo volto era ancora fresco e morbido. Sicuramente più vitale di come lo ricordava.

    Dunque le lezioni che gli aveva seguito erano valse a qualcosa.

    Finalmente quel ragazzo dalle origini misteriose stava tornando a interagire col mondo.

    Con un cenno del capo, Costantino lasciò che Anicio si allontanasse, constatando il suo palese imbarazzo.

    Ma quando questi sparì, non poté che sentirsi sollevato.

    I suoi impegni lo avevano tenuto lontano da lui, ma non se n’era mai dimenticato. Era una gran cosa che questi stesse riuscendo a trovare la forza di vivere di nuovo, anche se in una realtà estranea.

    Quella sorpresa ebbe il potere di migliorare istantaneamente la sua giornata.

    Mettendosi a sedere più comodamente, Costantino sorrise.

    E guardando alla finestra, dalla quale poteva ammirare Costantinopoli aprirsi sotto di lui, sentì una rinnovata fiducia.

    Almeno nei bambini, la luce resisteva.

    E seguendola, sperare in un futuro migliore poteva essere meno arduo e doloroso.

    VII

    La dote

    Costantinopoli, Aprile 1435 d.C.

    Non era abituato a sorridere.

    Eppure, in quell’istante, gli venne spontaneo. E fu come un meraviglioso risvegliarsi. Anicio sentì qualcosa sbloccarsi dentro di sé, rompendo le catene del dolore che l’affliggevano da lunghissimo tempo. Era come se un’energia sino ad allora latente si fosse liberata, pronta a sprigionarsi e splendere come non mai spandendosi dal suo petto fino all’esterno.

    Era felice.

    Ciò che lo sorprese di più era che stava riscoprendo quel sentimento facendo quello che si era rifiutato di fare da quand’era arrivato in quella città così bella ma che sentiva estranea.

    Interagire con gli altri, divertirsi.

    Come il ragazzino che era.

    Aveva accolto l’invito di Sofia ed Emanuele, i figli di due servi di corte, con relativa incertezza. Perché si erano interessati a lui?

    Nessuno l’aveva mai fatto.

    A parte il nobile che l’aveva preso con sé, e che poi aveva visto solo poche volte. Ricordava che tutti ne dicevano grandi cose.

    Ma non poteva considerarlo un amico, tutt’al più un benefattore.

    Quei due bambini biondi come lui, invece, sembravano davvero lieti di godere della sua compagnia.

    Li vide rincorrersi per la piccola stanza in cui erano riuniti per mangiare, sotto lo sguardo dolce e accondiscendente dei genitori.

    Il padre si prendeva cura dei cavalli della guardia imperiale, mentre la madre era incaricata di mantenere le loro divise sempre impeccabili. Si sentì riconoscente anche verso di loro.

    «Dai, Anicio! Gioca con noi!» lo richiamò Sofia con voce squillante, sorridendogli e mostrando i piccoli denti bianchi.

    Aveva un vistoso spazio tra gli incisivi, che però anziché renderla sgradevole alla vista le dava un che di simpatico. Interdetto, Anicio si voltò verso i due adulti. Sapeva poco del buon comportamento, ma era certo di dover chieder loro il permesso di potersi muovere liberamente per la loro casa.

    Entrambi, non appena incrociarono il suo sguardo intimidito, annuirono senza dir altro. Permesso accordato.

    Sorrise di nuovo.

    E si stupì ancora.

    La tristezza e la paura andavano affievolendosi ogni volta che lo faceva. Si disse che avrebbe dovuto farlo più spesso.

    Con brevi passi indecisi mosse verso Sofia, che però sfuggì subito andando a rintanarsi dietro uno degli umili mobili che rendevano quella dimora tutto sommato dignitosa.

    «Devi trovarci!» gli suggerì Emanuele, molto più esile e basso di lui. Anicio lo guardò come inebetito.

    «Cioè?» chiese provando a parlare con una pronuncia che non acuisse il suo tono già profondo malgrado la giovane età.

    «Noi ci nasconderemo, e nel frattempo tu conterai a occhi chiusi» disse Sofia tornando allo scoperto, con i pugni sui fianchi. «Dopo la conta, potrai venire a cercarci! Ma ti sarà molto difficile, visto che siamo imbattibili a questo gioco!»

    Un po’ confuso, si limitò ad annuire.

    «Ora vai nell’altra stanza, e conta» fece Emanuele. «Ma bada a tenere gli occhi chiusi, altrimenti non vale!» lo ammonì.

    Annuendo di nuovo, Anicio si mise con la testa contro il muro nella stanza di fianco. Contò per un tempo indefinito, ad occhi chiusi, udendo le risate e gli schiamazzi dei suoi nuovi amici.

    «Ora puoi!» chiamò Sofia, la sua voce ovattata e proveniente chissà da dove.

    Grattandosi il capo, Anicio tornò nella sala da pranzo. I genitori erano ancora lì, e lo guardavano curiosi e divertiti.

    Si guardò attorno. I mobili erano quasi tutti appoggiati alle mura.

    Non potevano essere dietro, né dentro di questi. Erano troppo grandi per riuscirvi.

    E non potevano neppure essergli passati accanto mentre contava.

    Se ne sarebbe sicuramente accorto.

    Ma allora, dov’erano?

    Guardò sopra di sé, e poi ai suoi piedi. E si rese conto che il bel tavolo in legno massiccio, forse l’oggetto di maggior valore in tutta la casa, era coperto da un lembo di stoffa un po’ vecchio ma di pregevole fattura che arrivava fino al suolo.

    Per l’ennesima volta, sorrise.

    Non potevano che essere lì.

    Sentendo il petto formicolare per l’eccitazione, vi si infilò sotto.

    E nel buio, fece la cosa che gli parve più normale.

    «Ehi, ma che cosa… attenzione! »

    Al sentire quel richiamo, Anicio si sollevò del tutto. E incrociò lo sguardo sbalordito del padre dei bambini, ancora seduto.

    Ma senza più un tavolo davanti a sé.

    E questo perché era stato lui a sollevarlo senza il minimo sforzo, con ancora tutte le pietanze e le stoviglie sopra di esso.

    Una prova di forza allucinante per un ragazzino della sua età, considerando che quel mobile doveva essere pesantissimo.

    Sofia ed Emanuele rimasero per un attimo strabiliati, poi si alzarono e iniziarono ad applaudirlo, saltandogli attorno.

    Anicio si guardò attorno mortificato ma anche soddisfatto.

    «Ma come ha fatto?» chiese la madre dei piccoli al marito.

    «Io…non ne ho la minima

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