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Cospirazione Cremlino
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E-book541 pagine7 ore

Cospirazione Cremlino

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Info su questo ebook

Un autore da 5 milioni di copie

Il nuovo presidente russo minaccia la pace. Solo l’ex agente dei servizi segreti Marcus Ryker potrà fermarlo. A ogni costo.

Alla Casa Bianca c’è grande attenzione per le crescenti tensioni in Corea del Nord e in Iran. Mentre il presidente americano è impegnato a monitorare la situazione potenzialmente esplosiva, a Mosca sono in corso piani per sfruttare la situazione. Al Cremlino, infatti, sta avanzando un nuovo zar. Un presidente russo che consolida il suo potere, mettendo a tacere l’opposizione con il pugno di ferro. E le trame che vengono ordite in segreto minacciano di scardinare l’intero equilibrio internazionale. I russi, infatti, stanno organizzando un’eclatante e fulminea azione militare che potrebbe rompere l’alleanza nato e portare Washington e Mosca sull’orlo di una guerra nucleare. C’è solo una cosa che gli astuti servizi segreti russi non hanno previsto: l’ex agente statunitense Marcus Ryker conosce i loro piani e intende fermarli a ogni costo. Prima che si scateni una crisi globale inarrestabile. Perché, anche se Ryker è stato addestrato a salvare vite umane, questa volta è disposto anche a uccidere.

«Rosenberg è molto abile ad ambientare le sue storie nel mondo reale, come ha fatto magistralmente in questo libro. Il romanzo presenta il peggior scenario immaginabile. Tutti gli americani, in particolare il Presidente, i membri del Congresso e la nostra squadra di sicurezza nazionale, dovrebbero essere consapevoli della minaccia che una Russia fuori controllo rappresenta per la pace e la libertà.» 
Porter Goss, ex direttore della CIA

«I lettori che amano l’adrenalina saranno soddisfatti.»
Publishers Weekly

Joel C. Rosenberg
È un autore bestseller del New York Times, e i suoi libri hanno venduto oltre 5 milioni di copie. Ha incontrato leader religiosi e governativi di molti Stati, tra cui Israele, Iraq,
Turchia, Afghanistan, Russia, Germania, Francia, Italia e India. Ha preso la parola davanti ai membri della Casa Bianca e del Pentagono, del Congresso USA, ed è stato relatore a una conferenza tenutasi al Parlamento dell’Unione Europea a Bruxelles.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2019
ISBN9788822730060
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    Anteprima del libro

    Cospirazione Cremlino - Joel C. Rosenberg

    Parte prima

    1

    Mosca, 9 settembre 1999

    Louisa Sherbatov aveva appena compiuto sei anni, ma non sarebbe mai arrivata a sette.

    Era crollata sul divano poco prima di mezzanotte, dopo aver mangiato troppi dolci, ancora avvolta nel costume da derviscio rotante color magenta, con un fiocco dello stesso colore nelle trecce bionde. Se ne stava rannicchiata accanto alla madre, in pace, abbracciata al suo orsetto di pezza preferito. Entrambe erano circondate dalle bambole, dai libri, dalle felpe e dagli altri regali che Louisa aveva ricevuto dalle zie, dagli zii, dai nonni, dai cugini e dai compagni della scuola elementare del quartiere, in fondo a via Gurjanova.

    Ovunque nella stanza c’erano nastri, decorazioni e pezzi di carta regalo dai colori vivaci. Il lavello ospitava una pila di piatti sporchi, tazze e posate. Il tavolo del salotto era ancora invaso da bottiglie di vino e di vodka vuote e dai resti di una torta di compleanno alle fragole, la preferita di Louisa.

    L’appartamento era un disastro. Ma gli ospiti se ne erano andati e a suo padre, Fëdor, non importava assolutamente nulla. La sua bambina, l’unica figlia che lui e Irina erano riusciti ad avere dopo oltre dieci anni e quattro devastanti aborti spontanei, era felice. I suoi amici erano felici. Le loro famiglie erano felici. Loro stessi erano felici. Per tutto il resto, ci sarebbe stato tempo.

    Fëdor guardava le due persone più importanti della sua vita, con il desiderio di rimandare il viaggio. Per lui era stata una gioia organizzare la festa insieme a loro, fare la spesa, aiutare Irina e la madre di lei a preparare tutto, e soprattutto vedere lo sguardo raggiante sul viso di Louisa quando le aveva dato la piccola bicicletta blu, la sua prima bicicletta. Ma se non voleva perdere il volo per Toshkent, avrebbe dovuto affrettarsi. Quindi baciò delicatamente la moglie e la figlia sulla fronte, raccolse la valigia e scivolò fuori dalla porta nel modo più discreto possibile.

    Una volta uscito dal portone principale, si sentì sollevato nel vedere il taxi che lo aspettava. Si mosse decisamente verso l’auto e consegnò la valigia all’autista, che la sistemò nel bagagliaio. L’aria della notte era pungente e fresca. La luna era una piccola scheggia d’argento nel cielo e le foglie stavano iniziando a cadere e a vorticare spinte da una leggera brezza che proveniva da ovest. L’estate era finita proprio al momento giusto, pensò Fëdor accomodandosi sul sedile posteriore. Il caldo soffocante. L’umidità appiccicosa. Il senso di colpa per non essere stato in grado di procurare un condizionatore alla sua famiglia o una piccola dacia in campagna, dove lui, Irina, Louisa, e forse i suoi genitori e quelli di lei avrebbero potuto ritirarsi ogni tanto, da qualche parte nel bosco, un luogo ombreggiato con un lago scintillante dove andare a pescare e nuotare, lontano dalla frenesia del traffico e dall’inquinamento della capitale.

    «Autunno… finalmente», disse quasi fra sé, mentre il tassista chiudeva il portellone del bagagliaio e si metteva al volante.

    Crescendo, Fëdor aveva sempre amato le stagioni più fresche. I giorni più brevi. L’inizio della scuola. Conoscere nuovi amici, nuovi insegnanti. Affrontare nuove materie. L’autunno per lui simboleggiava il cambiamento, e il cambiamento era sempre qualcosa di positivo. L’autunno era un periodo di nuovi inizi e Fëdor si chiedeva che cosa gli avrebbe portato quell’anno. Non era povero, ma sicuramente non era un uomo di successo. E tuttavia era contento, perfino speranzoso, forse per la prima volta nella sua vita. Un giorno, se avesse continuato a lavorare duro, sarebbe stato in grado di mettere da parte abbastanza soldi per trasferire la famiglia dal numero 19 di via Gurjanova in un posto grazioso e quieto, lontano da quel tugurio sporco, dimesso e depresso nella parte sud di Mosca. Un posto dove valesse la pena far vivere una famiglia. Con un po’ di verde, magari un giardino, dove avrebbe potuto lavorare il terreno con le sue mani e raccogliere ortaggi.

    Mentre il taxi si allontanava dal marciapiede, Fëdor si allungò sul sedile e si mise le mani sul petto. Autunno. Sorrise. Si trovò a pensare all’autunno in cui aveva visto Irina per la prima volta. Era il primo giorno di scuola media. Ventidue anni prima.

    In quel momento, Fëdor Sherbatov – immerso nel suo mondo, nelle sue memorie – notò appena i due uomini massicci vestiti con giubbotti di pelle nera e guanti dello stesso colore che uscivano dal seminterrato del condominio. E non prestò particolare attenzione alla macchina parcheggiata sulla strada, la Lada bianca con i fari spenti ma con il motore acceso, verso la quale i due uomini erano diretti. L’uomo al volante stava fumando una sigaretta e scrollava la cenere sul cruscotto, ma Fëdor non riuscì mai a ricordare la sua faccia, perché era in ombra e coperta da un cappello. Quando la polizia, più tardi, gli fece delle domande al riguardo, quello fu tutto ciò che fu in grado di dire.

    Quello che ricordava – e che non avrebbe mai dimenticato – era l’esplosione assordante dietro di lui mentre il taxi accelerava lungo via Gurjanova, diretto all’aeroporto internazionale di Domodedovo. Ricordava la palla di fuoco incandescente. Ricordava il tassista che perdeva il controllo dell’auto andando a finire contro un lampione. Ricordava la propria testa andare a sbattere contro il plexiglas divisorio e l’orribile sensazione di calore quando aprì lo sportello con un calcio. Si ricordava di essere balzato in strada, con il sangue che gli colava in faccia, il cuore che gli batteva all’impazzata, mentre si voltava indietro giusto in tempo per vedere una seconda esplosione nel condominio – lo squallido edificio a nove piani al numero 19 di via Gurjanova – disintegrato in un lampo accecante di fuoco e cenere.

    2

    Rubljovka, Russia, 13 settembre 1999

    Oleg Stefanovič Kraskin si svegliò al buio completo.

    Solo, disorientato e coperto di sudore. Il battito cardiaco era accelerato. Le mani tremavano. Le lenzuola erano fradicie. Non vedeva e non sentiva niente e per molti minuti non riuscì a ricordare dove si trovasse, mentre cercava di scacciare dalla mente le immagini di quello che sembrava soltanto un incubo. Un incubo davvero fuori dal comune.

    La grande sala dove si trovava – un tempo così elegante e maestosa, perfino opulenta, con i suoi archi, i preziosi dipinti a olio, i candelabri luccicanti e la gloriosa scala circolare che saliva su, su, su – era in fiamme, invasa da un fumo denso e acre. Gli occhi gli facevano male. I polmoni erano alla disperata ricerca di ossigeno. La pelle si crepava per il calore insopportabile mentre le fiamme correvano ovunque, consumando tutto ciò che trovavano sulla propria strada. Le pareti stavano crollando. Le travi del soffitto si schiantavano al suolo. Oleg non riusciva a trovare una via d’uscita. Voleva chiamare aiuto ma non riusciva a parlare. Sentiva le urla agghiaccianti di altre persone. E una voce che riconobbe subito – era Marina, la sua amata Marina. Stava soffocando. Stava bruciando. E non c’era niente che lui potesse fare per salvarla.

    Oleg scostò le coperte e si alzò in piedi. Tremando, nel buio totale, cercò gli occhiali. Quando li trovò, inforcandoli, prese l’orologio e vide che non erano ancora le sei del mattino. Solo allora si ricordò che non era nel suo modesto appartamento in periferia, ma nel palazzo dei suoi genitori a Rubljovka, nell’enclave recintata dove vivevano le famiglie più ricche e potenti di Mosca.

    Muovendosi a tentoni verso sinistra, avanzando prima di due e poi di tre metri, raggiunse la parete opposta, strisciò fino a trovare le tende, e le aprì. La luce fresca e delicata del mattino inondò la stanza. Oleg non vedeva più le immagini del suo incubo, ma la radura circondata dal bosco sul retro della proprietà dei genitori. Con la casa ancora addormentata, alle prime luci dell’alba, poteva ascoltare le rondini cantare e il ronzio degli insetti che volavano.

    Oleg finalmente tornò a respirare con regolarità. Asciugandosi il sudore dalla faccia e dal collo, lottò per ritrovare l’equilibrio. Quello non era un giorno in cui avere paura. Al contrario, era un giorno che aveva previsto e per il quale si era preparato meticolosamente. Tornò verso il comodino, tirando fuori una sigaretta da un pacchetto comprato la sera prima, prese l’accendino e aspirò diverse boccate di fumo che lo aiutarono a calmare i nervi. Quando ebbe finito la sigaretta, si fece una lunga doccia bollente, si rasò e si vestì con l’abito migliore e scarpe nuove di cuoio. Ora sentiva nell’aria l’aroma della colazione e i passi di sua madre in ciabatte che, quando entrò in cucina, lo salutò con un bacio e un grande sorriso.

    «Vieni, Oleg, siediti… mettiti comodo», disse, mentre gli allungava una tazza fumante di chai. «Tuo padre voleva essere con noi. Ma sai com’è il suo lavoro. Il comitato si riunisce tra due giorni. È partito prima dell’alba. Ma è fiero di te, Oleg – molto fiero – e non vede l’ora di sapere com’è andata. Ha detto di chiamarlo appena avrai la risposta. Non l’avevo mai visto così. Era quasi eccitato».

    Eccitato? Non proprio la descrizione che avrebbe attribuito a suo padre. Ma lo faceva stare bene. Allo stesso tempo era troppo ansioso per mangiare, per ragioni che non avevano niente a che fare con il sogno. Si scusò con la madre, la baciò sulla guancia, prese il cappotto e la valigetta e si diresse verso il garage.

    Qualche momento dopo era seduto al volante della sua nuova, scintillante, Mercedes argentata, e si accendeva un’altra sigaretta, facendo rombare il motore e correndo lungo l’autostrada Rubljovo-Uspenskoje, diretto a est, pronto ad affrontare le due ore di guida nel traffico congestionato dell’ora di punta mattutina. Nel tentativo di dimenticare l’incubo notturno e focalizzare la mente sulla giornata di lavoro che lo attendeva, anch’essa sicuro motivo d’ansia, Oleg accese la radio e si sintonizzò su una stazione di notizie.

    L’annunciatore stava dicendo che un condominio di nove piani, nei pressi dell’autostrada Kashirskoje, era saltato in aria. Oleg non riusciva a crederci. Com’era possibile? Tre attentati in dieci giorni? Da parte di chi? E a che scopo? L’attacco era avvenuto appena prima dell’alba, quando molti dei residenti erano ancora a letto. Gli ospedali si erano già riempiti di feriti. Gli obitori di morti. Le autorità locali avevano riferito alla stampa che erano già stati estratti quasi quaranta corpi dalle macerie. E Oleg era sicuro che il numero sarebbe aumentato durante la giornata. Un portavoce della polizia di Mosca, intervistato sul luogo dell’attentato, aveva detto che apparentemente l’esplosione era stata causata da una grossa bomba posizionata nel seminterrato, vicino alla caldaia, anche se invitava a non trarre conclusioni affrettate prima del completamento delle indagini.

    Era troppo tardi per questo, ormai, pensò Oleg. Le sue mani strinsero il volante fino a sbiancare. Non aveva paura. Era furioso. Il suo Paese era sotto attacco e i militari avrebbero sicuramente preso delle contromisure. Di questo era assolutamente certo. Ciò che non era ancora chiaro era l’identità del nemico e il suo scopo. La Guerra Fredda era finita da oltre un decennio. Non erano gli americani. Non potevano essere neanche i britannici o qualche altro Paese della nato. Allora chi?

    La preparazione in campo legale di Oleg cominciò a dirigere i suoi pensieri. Come partner più giovane di uno degli studi legali più prestigiosi di Mosca, era abituato a fare domande, raccogliere testimonianze, scorrere e analizzare date, luoghi, periodi e dettagli di ogni tipo. Cosa si sapeva con certezza? Che cosa era frutto soltanto di speculazioni e cosa invece era vero? Quali erano le connessioni tra i tre attacchi e cosa potevano rivelare circa i potenziali sospetti e le loro motivazioni?

    Il primo era avvenuto il quattro settembre nella città di Bujnaksk, vicino al confine con la Cecenia ed era stato portato a termine con un camion imbottito di esplosivo, non con una bomba nascosta in un seminterrato. Ma anche in quel caso l’obiettivo era stato un condominio. Oleg aveva visto delle immagini nel notiziario del pomeriggio. Un palazzo di cinque piani era stato ridotto in polvere. La tv aveva mostrato fiamme, fumo, resti umani carbonizzati, bambini che urlavano con le facce insanguinate, alla ricerca disperata di genitori che non avrebbero mai trovato. Sessantaquattro persone erano rimaste uccise e Oleg era riluttante ad ammettere a sé stesso che tutta la vicenda aveva suscitato in lui soltanto un modesto trasporto emotivo. Quei fatti gli sembravano lontani. Era stato terribile – e inaspettato. Ma era accaduto nel Caucaso. Cosa si sarebbe dovuto aspettare? La provincia del Daghestan era un luogo instabile, sempre attraversato da correnti di guerra, un vero e proprio nido di vespe. Due suoi cugini avevano combattuto contro i ceceni in Daghestan. Dal Caucaso non venivano mai buone notizie. Per questo Oleg aveva fatto una smorfia ed era andato avanti.

    Il secondo attentato era avvenuto cinque giorni dopo, il nove settembre. Era accaduto in via Gurjanova, in un quartiere povero e tranquillo di Mosca, a pochi chilometri dall’appartamento di Oleg. Non era stata un’azione portata a termine in un lontano avamposto dell’impero russo, dimenticato da Dio. Era stata una pugnalata al cuore della capitale.

    Vasilij Malenchenko, un importante giornalista investigativo della «Novaja Gazeta», uno dei giornali più influenti della città, aveva riportato che l’esplosione era stata causata da una grossa bomba nel seminterrato del condominio. Malenchenko era rinomato per avere sempre a disposizione notizie attendibili provenienti direttamente dalla polizia o da altri servizi di sicurezza nazionale. Aveva riferito che la bomba era stata posizionata accanto alla caldaia a gas e che non c’erano indizi certi sull’identità degli attentatori, ma che gli inquirenti stavano lavorando sulla pista dei ribelli ceceni.

    Per giorni il governo si era rifiutato di confutare o confermare le informazioni fornite da Malenchenko. Ma tutti, a Mosca e in Russia, si fidavano del giornalista. I vicini e i colleghi di Oleg non parlavano d’altro. Tutti avevano seguito i notiziari. Avevano visto il fumo, il cratere, il cemento fatto a pezzi, le biciclette contorte. Avevano visto il braccio reciso pendere da un ramo, un’immagine simbolica che Oleg temeva di non poter dimenticare mai più. Novantaquattro cittadini di Mosca erano morti, centinaia erano rimasti feriti. Ustionati. Sfigurati. Fatti a pezzi.

    Oleg aveva seguito l’intervista, se così si poteva chiamare, di un uomo che aveva perso la moglie e la figlia. Apparentemente l’uomo era appena salito su un taxi. Si stava recando all’aeroporto per un viaggio di lavoro, quando il condominio alle sue spalle era esploso. La giornalista aveva provato a porgli qualche domanda, con gentilezza e rispetto, ma l’uomo non era stato in grado di rispondere. Tutto quello che fece fu abbandonarsi a un pianto incontrollato, senza vergogna, scosso dal dolore che lo attanagliava.

    Diversamente dall’attacco in Daghestan, quell’evento aveva colpito molto Oleg. Mentre fissava le immagini agghiaccianti che scorrevano sullo schermo, mormorava tra sé ciò che tutti a Mosca stavano pensando in quel momento: «Sarebbe potuto succedere a me».

    E adesso, dopo appena quattro giorni, era accaduto di nuovo.

    3

    Il panico si stava diffondendo in tutto il Paese.

    Oleg pensò per un attimo di fare inversione e di tornare verso la casa dei genitori. Guidare fino al centro di Mosca sembrava una follia. L’attacco di quella mattina era avvenuto a meno di un chilometro dal suo appartamento. Dove il prossimo?

    Ma aveva degli affari urgenti da portare a termine in città. Attendeva questo giorno, lo aveva pianificato con una cura maggiore rispetto a qualsiasi processo a cui aveva lavorato. Perciò decise di rimanere fedele ai suoi propositi e proseguì, imbottigliato nel carosello del traffico per la successiva ora e mezza, diretto a est, al cuore della capitale. Guidando, Oleg continuò ad ascoltare le notizie alla radio e, mentre nuovi dettagli si aggiungevano a quelli già conosciuti, cercava di capire il significato di ciò che era accaduto, come quasi tutti i dieci milioni di abitanti di Mosca in quel momento. Erano morte persone innocenti, donne, bambini. Uccisi nella notte. Durante il sonno.

    Oleg ebbe un sussulto quando un pensiero disturbante lo colse: il suo sogno trattava forse di questo? Il palazzo dove lavorava poteva essere il prossimo bersaglio? O la casa dei suoi genitori? Tutti i luoghi che aveva conosciuto, che aveva amato e chiamato casa, erano destinati alle fiamme? Stava per morire – solo e celibe – a soli ventisette anni?

    Oleg non aveva mai avuto premonizioni prima di allora. E anche il semplice pensiero gli sembrava ridicolo. Era una persona istruita. Si era laureato all’Università di Stato di Mosca, la più rinomata del Paese. Era un avvocato con una carriera in rapida ascesa e un ottimo stipendio. Tra i suoi clienti c’erano le più grandi compagnie di gas e petrolio della Russia. Non era religioso e neanche superstizioso. Si sentì grato di non aver fatto colazione con la madre. Che cosa sarebbe successo se le avesse raccontato il sogno e lei lo avesse riferito a qualcun altro? Sarebbe passato per pazzo. Certe cose è meglio che restino private.

    Proprio in quel momento una notizia importante e alquanto strana venne trasmessa alla radio. Durante un’intervista in diretta, Vasilij Malenchenko, il giornalista della «Novaja Gazeta», aveva riferito che gli investigatori sulla scena dell’esplosione erano sconcertati dall’aver trovato, oltre a tracce di tritolo, anche i resti di una sostanza chiamata rdx o Hexogen.

    «Che cos’è l’Hexogen?», chiese il giornalista.

    «È un composto esplosivo», rispose Malenchenko.

    «Come il tritolo?»

    «Molto più potente».

    «Cosa c’è di strano, quindi?», incalzò il giornalista. «Non è quello che dovremmo aspettarci di trovare sul luogo di un attentato?»

    «No, in realtà. Non in un attacco terroristico come questo», continuò Malenchenko.

    «Perché no?»

    «Perché i terroristi non dovrebbero essere in grado di mettere le mani sull’Hexogen», disse. «È usato solamente dai militari».

    Un brivido percorse tutto il corpo di Oleg, mentre si immetteva nel terzo anello della tangenziale di Mosca, diretto a sud-est. Siamo arrivati a questo? Qualcuno all’interno dell’esercito sta aiutando i terroristi ceceni? Non poteva immaginare un essere così crudele da permettere una simile atrocità. Chi erano queste persone?

    Forse il padre di Marina era l’unico che avrebbe potuto scoprirlo, pensò. Magari non subito, ma comunque presto, in modo da fermarli. E avrebbe anche saputo come punirli in maniera proporzionata alla gravità dei loro atti. Questo pensiero diede a Oleg un po’ di conforto.

    Oltrepassò il fiume e si avviò lungo via Nuova Arbat, lasciando la grande area dell’ambasciata americana alla sua sinistra, l’ambasciata britannica e l’Hard Rock Cafè – un posto che aveva amato frequentare da adolescente – alla sua destra. Alcuni isolati più avanti, ma sempre a velocità forzatamente ridotta, decise di abbandonare l’arteria principale e di immettersi nelle strade laterali, zigzagando fino a raggiungere la Kremlevskaja Nab. Infine, con pochi minuti rimasti, parcheggiò la Mercedes in un garage pubblico dietro il centro commerciale gum, prese la valigetta e s’incamminò verso la piazza Rossa. L’aria autunnale del mattino era fresca, c’era una leggera brezza e Oleg era grato che non fosse estate. Camminando a quella velocità e per quella distanza avrebbe sicuramente sudato molto nel suo vestito di alta sartoria londinese, e si sarebbe presentato all’incontro in condizioni non ottimali. E orde di turisti di ogni parte del mondo lo avrebbero sicuramente rallentato. Ma non oggi.

    In quel particolare lunedì non c’era nessuno per le strade. Si erano dispersi al vento. Al loro posto stavano arrivando centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa. Si stavano posizionando intorno al Museo di Stato, alla tomba di Lenin e alla cattedrale di San Basilio e, ovviamente, intorno allo stesso Cremlino. Blindati per il trasporto truppe erano posizionati in vari punti strategici per chiudere ogni accesso alla piazza. Non uno, ma ben due elicotteri della polizia stavano sorvolando la zona. Mosca era sul piede di guerra.

    4

    Nonostante l’ora, Oleg non osò mettersi a correre per arrivare in tempo all’appuntamento.

    Temeva di essere arrestato, se non addirittura raggiunto da uno sparo, se lo avesse fatto. Cercò comunque di camminare il più svelto possibile senza destare sospetti. Ma mentre procedeva si domandava se trovarsi lì in quel momento fosse una buona idea. Sicuramente l’incontro era stato cancellato. Non si vedeva nessun civile. Forse era davvero meglio tornare a casa dei genitori e riprogrammare l’incontro. Ma continuò ad avanzare.

    Nel momento in cui iniziò a scorgere l’enorme muraglia di mattoni rossi del Cremlino, diretto al centro visitatori della Torre Kutaf’ja, era chiaro per Oleg che non ci sarebbe stato modo di entrare. Poliziotti con armi automatiche sorvegliavano ogni ingresso della sede del governo russo. Tutte le visite guidate erano state cancellate, così come tutti gli incontri, a eccezione di quelli più importanti. Oleg mostrò il suo tesserino a un poliziotto dietro l’altro, spiegando il motivo della sua presenza e con chi avrebbe dovuto incontrarsi. Ogni volta – con sua sorpresa – gli fu permesso di passare. Quando arrivò al banco di accettazione fece scivolare i suoi documenti sotto il vetro antiproiettile e aspettò che la guardia dall’altra parte li controllasse.

    «Attenda qui», disse la guardia dal volto impassibile. «Qualcuno verrà a prenderla».

    «L’incontro è confermato?», chiese Oleg, ancora confuso.

    «Attenda qui», grugnì la guardia, senza tradire emozioni.

    Oleg si voltò e vide un divanetto. Ma non si sedette. Si mise a camminare avanti e indietro, controllando di tanto in tanto l’orologio e, infilando una mano in una tasca, si accorse di aver lasciato in macchina le sigarette. L’incontro sarebbe iniziato fra otto minuti. Era arrivato in tempo. Non era stato cancellato. E non riusciva a capirne il motivo. Ma adesso si pentiva di non aver mangiato niente. Rabbia e incertezza sono un cocktail micidiale. Aveva disperatamente bisogno di fumare. Per il momento si sarebbe accontentato di un bicchiere d’acqua. Ma non fece in tempo. Un attimo dopo un colonello in alta uniforme sbucò fuori da una porta laterale, consegnò a Oleg un tesserino di plastica, che finì appuntato sulla giacca del suo completo, e gli ordinò di seguirlo.

    Oleg fu condotto verso una postazione di controllo con ben quattro guardie armate di fucili mitragliatori. Il colonello gli ordinò di riporre ogni oggetto metallico che portava con sé in un recipiente di legno che venne fatto passare sotto una macchina a raggi x insieme alla sua valigetta, poi esaminata attentamente da una delle guardie e anche dal colonello. Quindi Oleg passò sotto al metal detector senza che nessun allarme suonasse. Ma non era abbastanza, e una delle guardie gli ordinò di togliersi le scarpe, che vennero esaminate con cura. Solo quando il colonnello e le quattro guardie si lanciarono un segnale di intesa reciproco, Oleg fu finalmente libero di proseguire, dopo che ciascuno degli uomini ebbe firmato una sorta di registro. Quindi, il colonello aprì una porta che sembrava l’ingresso di una cripta, con una tessera elettronica.

    Oleg lo seguì in un lungo corridoio che portava alla magnifica Torre Troickaja, alta ottanta metri, costruita più di cinque secoli prima. Una guardia impettita tenne aperta una porta, attraverso la quale Oleg e il colonnello uscirono all’aria aperta. Nuvole scure si stavano addensando. Bandiere della Federazione Russa sbattevano nella brezza che cresceva di intensità. Ancora non pioveva, ma sicuramente si stava avvicinando una tempesta.

    Oleg non era mai stato al Cremlino prima di allora, nemmeno come turista. Non ne aveva mai avuto il tempo e neanche gli interessavano più di tanto i musei e le visite. Non avrebbe mai pensato che un giorno si sarebbe trovato in quel luogo, per nessuna circostanza immaginabile. Ma ora era lì. Alla sua sinistra si ergeva l’Arsenale, un palazzo di un giallo pallido, a due piani, commissionato da Pietro il Grande e che attualmente ospitava i servizi di sicurezza della capitale e dei suoi leader. Alla sua destra il massiccio complesso di marmo e vetro conosciuto come Palazzo di Stato del Cremlino. Ma nessuno di quei due edifici era la loro destinazione. Il colonnello lo condusse verso un ulteriore edificio giallo pallido a forma di gigantesco triangolo isoscele, la sede del Senato, passando accanto a un’altra dozzina di guardie armate fino ai denti.

    La sorveglianza lì era ancora più stretta, tuttavia i due uomini poterono entrare senza ostacoli. Una volta dentro, il colonnello condusse Oleg attraverso un vestibolo che sembrava una caverna fino a una postazione di controllo, dove vennero nuovamente controllati e passati ai raggi X sia loro che gli oggetti che portavano. Un’inserviente vestita in modo semplice, che dimostrava poco più di trent’anni, li stava attendendo. Non sorrise, non strinse loro la mano, non salutò il colonnello come avevano fatto tutte le altre guardie in precedenza. Condusse semplicemente i due uomini in ascensore fino al terzo piano e poi attraverso ulteriori controlli di sicurezza e un labirinto di corridoi decorati con ritratti a olio di tutti i leader russi del passato – da Alessandro il Grande e Pietro il Grande fino a Ivan il Terribile e allo zar Nicola ii –, finché non raggiunsero un’anticamera che pullulava di uomini della sicurezza in abito scuro e con cravatte orribili e giacche rigonfie per le armi.

    Un’anziana signora dall’aria cupa, che indossava un trasandato vestito grigio e con un’acconciatura che colpì Oleg come una reliquia dei giorni del Politburo sovietico, sedeva a una scrivania, dietro al grande schermo di un computer e a un vasto assortimento di telefoni. La donna alzò lo sguardo su Oleg e sul colonnello, ma non disse niente. Premette soltanto un bottone su uno dei telefoni e poi fece un cenno ai due agenti di guardia alla grande porta di quercia.

    Alla sinistra della porta, Oleg notò una sala d’attesa elegante con poltrone imbottite, sedie e un tavolino da caffè in mogano. Ma non ci sarebbe stato bisogno di attendere, né di intrattenere una conversazione o di presentarsi a qualcuno. Non oggi. Perché non appena furono davanti alla porta di quercia, le guardie la aprirono e il colonnello gli fece cenno di entrare. Da solo.

    Oleg fece esattamente come gli era stato ordinato e, con sua enorme sorpresa, si trovò di fronte all’uomo che presto sarebbe diventato presidente della Federazione Russa.

    5

    Aleksandr Ivanovič Luganov sedeva dietro alla sua scrivania, impassibile e imperscrutabile.

    Al momento, era soltanto il primo ministro.

    Ma Luganov era anche il successore scelto dall’attuale presidente, un uomo la cui salute era andata sensibilmente deteriorandosi nelle ultime settimane. Sembrava una scelta improbabile. Le elezioni si sarebbero svolte da lì a un mese. Luganov non era particolarmente conosciuto o amato dalla popolazione russa ma, per via della cattiva salute del presidente in carica, aveva già assunto le funzioni di presidente in molte delle questioni più importanti. Gli ultimi sondaggi mostravano che solo il quattro percento del pubblico supportava l’ex dirigente dei Servizi di sicurezza federali (fsb) come leader della nazione. E tuttavia Oleg sperava che Luganov trovasse il modo di vincere. La gente ancora non vedeva Luganov per quello che effettivamente era: un uomo forte e coraggioso, un uomo con il desiderio di fare ciò che era in suo potere per mantenere la sicurezza nel Paese e restaurare la gloria della grande Madre Russia, così bistrattata e offuscata negli anni recenti. Nessuno sembrava più adatto e preparato di Luganov ad accompagnare la Russia dentro le sfide del ventunesimo secolo. Dire che Oleg si sentiva intimidito alla presenza di Luganov era un eufemismo.

    Vestito con un completo blu scuro, camicia bianca immacolata e cravatta blu navy a pois bianchi, l’uomo seduto dietro la scrivania era relativamente giovane – vicino ai cinquant’anni – e in grande forma fisica. Aveva il fisico asciutto e muscoloso di un lottatore o di un judoka. I suoi capelli biondo sabbia si stavano diradando, e sulle tempie era comparso un tocco di grigio. Non era alto – forse meno di un metro e settanta – sicuramente più basso di Oleg. Ma per Oleg, Luganov era un gigante fra gli uomini, e non aveva dubbi che il mondo prima o poi si sarebbe trovato ad ammirare queste qualità.

    Luganov non sorrise e non fece alcun cenno di saluto a Oleg, che se ne stava immobile al centro del grande ufficio con le pareti ricoperte di pannelli di legno scuro, senza sapere cosa fare. Gli occhi di Oleg perlustrarono la stanza, notando il soffitto ad arco, il candeliere di cristallo sospeso sulle loro teste e la libreria con ante a vetro che correva lungo entrambe le pareti laterali. Alla sinistra del presidente c’era una bandiera russa su un sostegno dorato. Alla sua destra, un’altra bandiera. Anche su questa bandiera c’erano le larghe strisce bianche, blu e rosse, insieme al sigillo di Stato, in rilievo dorato. Un vaso con una grande pianta era posizionato vicino alla credenza che ospitava un televisore a colori, con l’audio muto, che mostrava immagini dal vivo della zona dell’ultimo attentato. Sul pannello alle spalle del primo ministro era montato un bassorilievo in oro con lo stemma nazionale, sormontato da due aquile imperiali e da un cavaliere che uccide un drago.

    Mentre Oleg abbassava gli occhi con l’intenzione di fissare il tappeto decorato in attesa che gli venisse rivolta la parola, colse inavvertitamente lo sguardo di Luganov che gli indicava una delle due grandi poltrone in legno di fronte alla scrivania. Dopo una certa titubanza iniziale, Oleg recepì il messaggio e si sedette, con lo sguardo alla sfilza di telefoni e alle pile di documenti sparpagliati sulla grande scrivania di quercia. Oleg attese, ma l’uomo non disse niente.

    Il silenzio si fece insopportabile. Oleg colse nuovamente un invito del presidente. Si schiarì la gola, si asciugò il sudore delle mani sui pantaloni del completo e si sforzò di guardare in alto, inizialmente la cravatta, poi la bocca, e poi direttamente quegli occhi blu, penetranti e senza emozione.

    «Signor primo ministro, io – ecco, grazie – volevo semplicemente ringraziarla per avere accettato di incontrarmi, soprattutto in una giornata come questa», farfugliò Oleg. «Immagino che lei abbia… voglio dire, ci sono stati avvenimenti che… ecco, è davvero molto triste, un giorno davvero difficile, un periodo di difficoltà per il nostro Paese. So che lei ha molte responsabilità, per cui la ringrazio per la gentilezza di aver concesso il suo tempo a uno come me, in un giorno come questo».

    Luganov lo guardò senza commentare, senza nessun incoraggiamento.

    Oleg si schiarì la voce ancora una volta e si sforzò di continuare: «Il fatto è che… ecco, quello di cui vorrei parlarle, signore, riguarda sua figlia. Come lei già saprà, ci siamo incontrati all’università cinque anni fa. Mi sono subito sentito attratto da lei. Lei è, ecco, davvero brillante. Ma ovviamente questo lo sa già. Mi scuso. È intelligente, bella, sofisticata, ma allo stesso tempo così gentile e divertente, ed è bravissima a narrare storie. È così speciale con le persone… con i bambini, con gli anziani. Ha un modo di fare tutto suo. E io semplicemente non so… ecco, in realtà lo so, signore… io, ecco… il fatto è che mi sono innamorato di lei. Ma non all’improvviso. Ci siamo conosciuti e poi siamo diventati amici. E anche se ero più avanti di lei negli studi, abbiamo continuato a scriverci dopo la mia laurea, così gradualmente sono arrivato alla conclusione che non riesco a immaginare nessun’altra donna con cui passare il resto della mia vita. Ero terrorizzato all’idea di dirglielo perché non volevo fare niente che avrebbe potuto compromettere la nostra amicizia. Ma alla fine, dopo molte discussioni con i miei genitori che lei, ovviamente, conosce molto bene, ho deciso… ecco, che sarei dovuto venire a chiederle il permesso di sposarla. Ecco perché sono qui. E questa è la mia domanda, signore. Mi permetterebbe di offrire a Marina un anello di fidanzamento e una proposta di matrimonio?».

    Oleg sentiva una fitta allo stomaco. Aveva fatto di tutto per evitare di vomitare sulla scrivania del primo ministro. Ma almeno avevo detto quello che doveva dire. Tutto. Non come avrebbe voluto o nel modo in cui si era preparato assiduamente. Ma ci era riuscito. La domanda era stata fatta e ora attendeva una risposta, mentre si fissava le mani.

    Non ci fu nessuna risposta. Almeno per un po’ di tempo. La stanza era di nuovo silenziosa, anche se Oleg poteva sentire il suono dei telefoni che squillavano e voci attutite provenire dall’anticamera. Poteva avvertire lo sguardo delle due guardie in borghese, in piedi dietro di lui, che lo fissavano. Provò invano a immaginare l’espressione dell’uomo dietro la scrivania. Poi, dopo quella che sembrò un’eternità, sentì il suo nome.

    «Oleg Stefanovič», cominciò Luganov, «tu ami il tuo Paese?».

    Oleg alzò lo sguardò, domandandosi se la sua espressione tradiva la sorpresa che provava, sperando di no. Quante volte, di recente, si era esercitato con suo padre per questa conversazione? Avevano discusso circa le probabili risposte una dozzina di volte. Pensava di conoscere Marina abbastanza bene? Quante donne aveva frequentato prima di Marina? Perché quelle relazioni erano finite? Quali erano le sue aspettative riguardo alla sua carriera, i figli, il modo in cui avrebbero vissuto? Come avrebbe mantenuto i figli e la carriera universitaria di Marina, vivendo in una delle città più care della Russia, un novellino appena uscito dalla facoltà di Legge che lavorava da appena un anno? Avevano studiato attentamente le possibili risposte a quelle domande e a molte altre. Ma Oleg non avrebbe mai immaginato una domanda così diretta e ricca di implicazioni profonde.

    «Con tutto il mio cuore, signore», rispose Oleg, traendo confidenza dalla profondità delle sue convinzioni al riguardo e finalmente in grado di guardare negli occhi il potenziale suocero senza esitare. «Adesso più che mai».

    «E mia figlia?», chiese Luganov. «Come posso essere sicuro che non la tradirai mai?»

    «Non ho mai amato nessun’altra, signore», rispose Oleg. «È la prima e l’unica donna per cui abbia provato qualcosa di simile. Signore, lei ha la mia parola, sull’onore della mia famiglia, che mi prenderò cura di lei e la proteggerò, la sosterrò e la nutrirò, adesso e in futuro. Provengo da una buona famiglia, una famiglia rispettabile. Tuttavia, so di non meritare di essere il marito di Marina e tantomeno di essere suo genero. Ma prometto che sarò fedele. Se mi accetterà – se lei mi accetterà – non deluderò nessuno dei due».

    Un telefono sulla scrivania squillò. Luganov non rispose.

    Ci furono due rapidi colpi alla porta. Un generale entrò nella stanza. «Signor primo ministro, la sua chiamata con la Casa Bianca è appena stata inoltrata».

    Luganov annuì quasi impercettibilmente, poi si spinse in avanti sulla poltrona.

    «Ti credo, Oleg Stefanovič», disse. «Ma ho un’altra domanda».

    Oleg deglutì a fatica.

    «Ho bisogno di un avvocato giovane e brillante per il mio staff personale», disse Luganov con calma. «Qualcuno che lavori sodo. Discreto. Qualcuno a cui sia possibile affidare informazioni riservate, soprattutto adesso. E chi potrebbe essere più fidato di un membro della famiglia?».

    6

    Mosca, 16 settembre 1999

    Oleg Stefanovič Kraskin arrivò al Cremlino di buon’ora.

    Non poteva credere alla sua fortuna. Non solo era fidanzato con la figlia del primo ministro, ma faceva anche parte del suo staff. Non aveva svolto nessun colloquio. Non aveva sottoposto nessun curriculum. Non aveva fornito alcuna referenza. Ma quando un uomo che lavorava per i servizi segreti russi – di cui era stato addirittura a capo – ti recluta seduta stante, puoi essere assolutamente certo che le tue referenze siano già state scrupolosamente vagliate.

    Mentre Oleg rifletteva sul vortice di eventi delle settantadue ore precedenti, arrivò a pensare che i servizi segreti avessero cominciato a indagare su di lui già cinque anni prima, quando aveva incontrato Marina per la prima volta. Non averci mai pensato lo imbarazzava. Ma sapeva che il controllo sul suo passato era stato accurato. Luganov era un padre protettivo tanto quanto era un efficiente funzionario. Avrebbe protetto sua figlia con la stessa dedizione con la quale si dedicava alla patria. Ma era anche molto discreto. Nessuno degli amici o degli insegnanti di Oleg aveva mai accennato a un colloquio con l’fsb. Ma senza dubbio erano stati interrogati, perché adesso si trovava al Cremlino con un lasciapassare appeso al collo.

    Non erano ancora le sei del mattino. Era atteso intorno alle sette, ma quello era il suo primo giorno di lavoro. Nei due giorni precedenti aveva concluso il lavoro presso lo studio legale, pulito il suo ufficio e salutato tutti. I suoi colleghi – molti dei quali avevano dai trenta ai quaranta anni più di lui – erano sbalorditi e impauriti allo stesso tempo. Organizzarono una piccola festa per lui, anche se Oleg sapeva bene che non erano sempre così gentili; stavano semplicemente cercando di ingraziarsi il futuro genero del prossimo presidente della Federazione Russa.

    Dopo aver espletato le pratiche di sicurezza e compilato alcuni documenti essenziali, Oleg venne indirizzato all’ufficio di Boris

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