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Delitto a Villa Fedora
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E-book369 pagine5 ore

Delitto a Villa Fedora

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Info su questo ebook

Le indagini del commissario Chiusano

Dall’autrice di Il giallo di Ponte Vecchio

Roma, ottobre 1992. A Villa Fedora, nel quartiere Coppedè, viene allestito il set cinematografico per un film sulla vita di Alberto Fusco, famoso scenografo e proprietario dello stabile, morto da diciotto anni. Tutti i componenti della famiglia sono coinvolti nella produzione. Nel pomeriggio di un’umida giornata autunnale, Liliana Fusco, che sin da giovane fu l’assistente di Alberto e poi ne sposò il figlio, è sola nella villa. Sono all’incirca le otto e trenta di sera quando il suo corpo viene ritrovato, massacrato con una ferocia inaudita. Alcune stanze della villa sono state messe a soqquadro, ma mancano segni di effrazione. Cosa cercava l’assassino? La casa contiene soltanto oggetti appartenuti ad Alberto Fusco. Cosa può avere spinto l’omicida ad agire a quasi vent’anni dalla sua morte? Il commissario Chantal Chiusano e l’ispettore Ettore Ferri sono chiamati a fare luce su una vicenda che si rivela ben presto oscura. Perché gli intrighi familiari sono strettamente intrecciati al destino della splendida villa nel cuore di Roma…

La maestra del giallo italiano è tornata

La villa di una famiglia di cineasti romani, nel quartiere Coppedè, diventa il set di un feroce delitto

Hanno scritto dei suoi libri:
«Letizia Triches è una storica dell’arte attratta dalla perversa creatività del criminale non meno che da quella dell’artista.»
Il Corriere della Sera

«Avvincente.»
La Repubblica

Letizia Triches
È nata e vive a Roma. Docente e storica dell’arte, ha pubblicato numerosi saggi sulle riviste «Prometeo» e «Cahiers d’art». Autrice di vari racconti e romanzi di genere giallo-noir, ha vinto la prima edizione del Premio Chiara, sezione inediti, ed è stata semifinalista al Premio Scerbanenco. La Newton Compton ha pubblicato Il giallo di Ponte Vecchio, Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori, I delitti della laguna e Giallo all'ombra del vulcano, che hanno tutti come protagonista il restauratore fiorentino Giuliano Neri.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2019
ISBN9788822738615
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    Anteprima del libro

    Delitto a Villa Fedora - Letizia Triches

    2489

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: novembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3861-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Letizia Triches

    Delitto a Villa Fedora

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Nota dell’autrice

    Ringraziamenti

    Every single day

    Every word you say

    Every game you play

    Every night you stay

    I’ll be watching you

    Sting, Every Breath You Take

    1

    In un pomeriggio nuvoloso ma stranamente lucente l’autunno si accorse del giardino di Villa Fedora. Le piante rabbrividirono e la prima foglia dell’acero accanto alla casa si staccò. Dalla finestra dello studio Liliana Fusco avrebbe potuto vederla cadere, ma era concentrata sulla schedatura di alcuni oggetti e aveva la testa abbassata. La alzò quando il suono improvviso di una sirena la fece sussultare. L’allarme della villa accanto sommergeva con un’insistenza imperiosa ogni altro rumore proveniente dalla strada. Stranita da quell’urlo prolungato, Liliana pensò di dare un’occhiata e si avviò verso la porta socchiusa, muovendosi con circospezione nella penombra della stanza. Le giornate si erano davvero accorciate, constatò con una punta di inquietudine. Spalancò la porta, scivolò vigile nel lungo corridoio poco illuminato, che conduceva alla scala, e cominciò a scendere i primi gradini con l’intenzione di entrare nel salone di rappresentanza che si trovava al piano terra. Da lì avrebbe potuto dare un’occhiata alla villa dei vicini, per assicurarsi che tutto fosse a posto, ma a metà scala la sirena si arrestò di colpo. Un falso allarme, come è già capitato mercoledì scorso, si disse per rassicurarsi. Rimase ferma dov’era, accarezzò con la punta delle dita il mancorrente, con lo sguardo fisso sulla carta da parati dal raffinato decoro orientale, e tese le orecchie in attesa di percepire altri rumori, ma non la raggiunse alcun suono. Aspettò ancora qualche istante, incerta sul da farsi, esitò e poi decise di proseguire. Una volta in fondo alla scala, girò la testa a sinistra e scrutò nell’oscurità del salone. Avrebbe dovuto essere abituata a stare da sola a Villa Fedora, eppure non era così. Si vergognava di ammettere, anche con sé stessa, che quella grande casa tanto amata le faceva un po’ paura. Fingeva di essere a proprio agio nei lunghi pomeriggi in cui era lì per lavorare alla schedatura dell’immenso patrimonio di oggetti collezionati dal suocero. Il punto era che in quella giornata difficile erano successe molte cose spiacevoli e forse questo aveva provocato in lei un turbamento più opprimente del solito, difficile da rimuovere. Smise di indugiare, entrò nel salone e accese la luce. Non si era mai abituata alla presenza delle attrezzature: cavalletti, stabilizzatori, carrelli, spallacci. Villa Fedora si era trasformata di nuovo in un set cinematografico e ancora una volta era stata profanata. In quei giorni stavano girando un film documentario che riguardava Alberto Fusco, con il coinvolgimento dell’intera famiglia. Ognuno si era ritagliato il proprio ruolo all’interno della produzione, tranne lei, che aveva preferito rimanere in disparte. Intanto passava in rassegna i vari ambienti con una curiosa sensazione di estraneità. Tutto le sembrava familiare, ma in uno strano modo ostile. Aveva l’impressione che, di fronte all’invasione dei cineasti, lo spirito della casa si ritraesse nel tentativo di proteggere i propri segreti. Non era una bella sensazione e Liliana, a disagio, continuava a guardarsi intorno cercando di scacciare dalla mente l’idea di qualcosa o di qualcuno in agguato nell’ombra. Per distrarsi cominciò a rimettere al proprio posto alcune cose. I vetri di Murano, si era raccomandata tanto di non toccarli. Cosa ci facevano lì? Maneggiandoli con estrema cura li riportò nel salottino giallo, ma qui c’era il mortaio di bronzo. E non avrebbe dovuto esserci. Lo prese e lo rimise sul basamento in marmo scolpito che si trovava in un angolo dell’ampio ingresso. Dove era finito il pestello del mortaio? Lo cercò senza successo. L’indomani avrebbe chiesto spiegazioni ai tecnici e li avrebbe pregati di prestare maggiore attenzione a dove mettevano le cose. Si trattava sempre di oggetti di valore e nel viavai delle persone bisognava tenere gli occhi ben aperti per non incorrere in spiacevoli sorprese. In fin dei conti, a parte i sei componenti della famiglia, i tecnici della troupe cinematografica, che avevano messo a soqquadro i vari ambienti della villa per tutta la mattina, erano dei perfetti sconosciuti. Gli altri familiari si fidavano della sua capacità di controllare tutto e avrebbero potuto confermare che lo scopo della sua vita era mantenere viva la memoria di un uomo eccezionale, morto da diciotto anni: suo suocero Alberto Fusco. Solo lei ormai conosceva alla perfezione ogni anfratto, ogni oggetto, ogni testimonianza della casa del famoso scenografo, ma in quel momento non le era di alcun conforto. Stanca, preoccupata, con la tensione che le irrigidiva le spalle, non poteva liberarsi da un chiodo fisso, un pensiero molesto conficcato nel cervello da qualche settimana. Guardò l’orologio da polso. Sua figlia Magda sarebbe passata a prenderla verso le otto. Mancavano quasi quattro ore, dunque, aveva davanti a sé parecchio tempo per andare avanti con il lavoro di schedatura. Preferì lasciare accese le luci del piano terra – le imposte le avrebbe chiuse al momento di uscire – e si diresse verso la scala. Fu proprio in quel momento che suonarono alla porta. Andò ad aprire.

    Magda giunse alle otto in punto, parcheggiò l’auto davanti alla villa, scese e suonò, guardando attraverso le sbarre del cancello chiuso. Alcune stanze erano illuminate. Aspettò qualche minuto, quindi chiuse la macchina e si avviò verso il bar più vicino. Una pioggia silenziosa rendeva scivoloso l’asfalto. Attraversò la strada fasciata dal buio e costeggiò un paio di ville, stando attenta a dove metteva i piedi; con una mano teneva l’impermeabile stretto intorno al collo, con l’altra sorreggeva l’ombrello. Entrando nel bar fu aggredita dalle voci assordanti di un gruppo di ragazzi. Fu costretta quasi a urlare: «Un gettone, per favore».

    Il barista la riconobbe subito, ma non fece commenti. Si capiva che era irritato da tutto quel baccano.

    «Vada nella cabina vicino alla toilette. E chiuda pure la porta», le disse, dandole il gettone. Poi aggiunse: «Il solito?»

    «Sì, un tè al limone, grazie».

    Cinque minuti più tardi erano rimasti da soli nel locale. Il barista la osservava mentre beveva il tè bollente a piccoli sorsi. Il vapore le aveva arrossato il naso. Lei si sentì addosso il suo sguardo e scosse la testa.

    «Non capisco dove sia finita…».

    «Di chi sta parlando?»

    «Di mia madre». Sporse le labbra all’infuori e assunse un’espressione preoccupata. «Insomma, dovrebbe essere a Villa Fedora, avevamo un appuntamento».

    «Forse se ne è scordata e se ne è andata».

    «Lasciando le luci accese? Non è da lei. Non risponde neppure al telefono».

    A quel punto accadde qualcosa al viso di Magda: si morse le labbra e impallidì, mentre si guardava nervosamente intorno, come se cercasse aiuto.

    «Non so che fare», si lamentò.

    «Perché non chiama il 113?».

    La ragazza tentennò, sembrava incerta se seguire o no il consiglio. Infine si alzò dall’alto sgabello accanto al bancone e si diresse nuovamente verso la cabina telefonica.

    Nel giro di una decina di minuti arrivò una volante della polizia.

    Appena entrati, gli agenti si accorsero che era successo qualcosa di spiacevole. Già all’ingresso si notava un caos sospetto, e a mano a mano che procedevano negli ambienti del piano terra, il presentimento si rafforzava. Le stanze illuminate erano state messe sottosopra.

    Fuori la pioggia sussurrava contro i vetri delle finestre.

    Magda Fusco vacillava, ferma ai piedi della scala, mentre uno degli agenti elencava: «Libri al suolo, due cassetti svuotati e il contenuto sparso ovunque, le ante di un armadio spalancate…». Ogni tanto fissava la ragazza, quasi a cercare una conferma. A guardarla, si aveva la sensazione che fosse accaduto l’irreparabile. Con lo sguardo spaurito, non dava segno di seguire l’elenco delle cose fuori posto, restando immobile, silenziosa. Ma alla fine fu lei a fare la mossa decisiva. Spinse un interruttore alla sua sinistra e un fascio di luce obliqua investì il muro delle scale. Poi, prima che gli agenti potessero fermarla, videro la sua ombra stilizzata muoversi veloce su per la parete.

    La seguirono il più rapidamente possibile. Salendo i gradini due alla volta, girarono a destra e avanzarono lungo il corridoio, lasciandosi alle spalle solo un fioco bagliore proveniente dalla scala. Il buio in cui penetrarono aveva una luce sul fondo e in quella luce la ragazza scomparve. Quando entrarono nella stanza, l’unico suono che percepirono fu una specie di sussurro rauco, ripetuto con insistenza. Non era sola? Non che si potesse considerare una persona, nel senso stretto del termine, quella forma scomposta, rannicchiata e incastrata tra la sedia e la scrivania. Il corpo di una donna giaceva a terra, il cranio fracassato, il viso aperto in due. Qualcuno si era accanito sulla sua testa con una violenza spaventosa.

    «Mamma… mamma…», balbettava Magda con voce rauca.

    2

    Una macchina bianca si aprì un varco in mezzo alla folla di curiosi e si fermò accanto alla volante della polizia; ne scese una donna bionda. Non era giovane, doveva essere sulla cinquantina, ma si muoveva come se avesse avuto vent’anni di meno. Avanzò sull’asfalto bagnato di pioggia con un’andatura sicura e le labbra socchiuse. Gli occhi erano chiari e affilati.

    L’ispettore della Squadra Mobile, Ettore Ferri, le andò incontro con un ombrello aperto.

    «Commissario, da questa parte».

    C’era sempre qualcosa di galante nel modo in cui Ferri si rivolgeva alle donne e in quel momento traspariva da come cercava di ripararla dalla pioggia, restandole leggermente distante, sfiorandola appena e bagnandosi al posto suo. Chantal Chiusano sapeva di non correre il rischio di un approccio. A lei spettava solo una rispettosa gentilezza, perché aveva superato di parecchio i quarant’anni. Per questo il commissario non poté trattenersi dall’accennare un sorriso, mentre procedeva, facendo ticchettare gli alti tacchi sull’asfalto. Sbirciava fra la gente che, incurante della pioggia, continuava ad arrivare. Segno che nel quartiere Coppedè in molti conoscevano Villa Fedora e la famiglia Fusco. La sua attenzione si appuntò su una giovane donna avvolta da una coperta, che le nascondeva la nuca. La luce dell’unico lampione la colpiva di traverso, mettendo in risalto solo la parte destra del viso e conferendole un’aria stralunata.

    «Una parente?»

    «Magda Fusco, la figlia della vittima. È stata lei a chiamare i soccorsi», le spiegò l’ispettore.

    «Trattenetela, dopo voglio parlarle».

    Il commissario Chiusano le passò accanto, accennando un gesto di solidarietà, ma la donna si voltò per fissare lo sguardo nel buio cupo della notte.

    Il cadavere era di una donna minuta e bruna. Il corpo conservava la grazia di una giovane e invece era appartenuto a una donna di cinquantaquattro anni, precisò un agente, ma era impossibile ricostruirne la fisionomia. Il viso era irriconoscibile. L’assassino le aveva rubato i lineamenti, letteralmente cancellati da un corpo contundente. Il contrasto tra le forme delicate di Liliana Fusco e la sua testa disfatta era orribile a vedersi.

    Chi l’aveva uccisa doveva trovarsi in uno stato di rabbia furiosa. L’unica spiegazione di una simile mostruosità, pensò il commissario Chiusano, osservando il volto massacrato della donna, incastrata tra la scrivania e la sedia, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla scena. Quali saranno stati i suoi ultimi pensieri?, si interrogava Chantal. Probabilmente alla morte non ci aveva pensato, non aveva immaginato di prendere il largo tanto presto, al contrario di lei che, da quando era morto suo marito, era abituata a sentirsi la morte accanto come una compagna silenziosa e non come una parte inevitabile del lavoro. Chantal avvertì una sensazione familiare. La mente mise a tacere le emozioni e cominciò a suggerirle le prime indicazioni.

    Nella stanza regnava una grande confusione. Soprattutto carte, libri, fascicoli e qualche agenda, tutto accumulato alla rinfusa ovunque. Un pesante posacenere di cristallo era stato rovesciato al suolo, con le sue cicche sparpagliate sul tappeto.

    A ricognizione finita il commissario ebbe bisogno di schiarirsi la voce. Si sentiva ghiacciata fin dentro le ossa, eppure non faceva freddo. Alzò un braccio e Ferri la raggiunse.

    «Chiama Massa. A Pozzi e alla Scientifica penso io».

    In attesa che fossero avvisati il magistrato e il primo dirigente dalla Squadra Mobile, e che arrivassero il medico legale e la Scientifica, Chantal, irrigidita e curva, uscì dalla stanza per parlare con la figlia della vittima, ma una volta fuori fece solo in tempo a scorgere la sagoma di un’autoambulanza che sfrecciava in direzione di via Tagliamento. Istintivamente cercò con gli occhi Magda Fusco, senza trovarla, poi notò un agente venirle incontro trafelato e immaginò cosa fosse accaduto. La giovane aveva un aspetto preoccupante, lo aveva notato nel passarle vicino. Seppe, infatti, che si era sentita male e che era stata portata d’urgenza al pronto soccorso.

    A un tratto la sua attenzione fu attirata da una donna di mezza età, che stava facendo di tutto per non passare inosservata. Parlava ad alta voce e gesticolava.

    «Chi è?», chiese all’agente.

    «La donna delle pulizie, credo».

    «Portala qui».

    Gina Mori era la portiera dello stabile di fronte, ma nei momenti in cui la portineria era chiusa si occupava delle pulizie di Villa Fedora. Dopo alcuni chiarimenti le due donne attraversarono la strada e si diressero verso il cancello. Una nebbiolina leggera stagnava sotto gli alberi del giardino, le finestre erano ancora illuminate e splendevano come fanali gialli nel buio, i cani della villa accanto latrarono all’improvviso. Il commissario registrava i dettagli; le serviva per non soffermarsi troppo sulla decisione appena presa. Ma in certi casi chi se ne frega delle procedure, pensò. Anche se più di una volta era stata redarguita dai superiori per il modo eccessivamente disinvolto con cui conduceva le indagini.

    «Allora ci siamo capite?», insisteva con la portiera. «Non tocchi nulla e non si appoggi da nessuna parte».

    Speriamo bene, si augurava nel frattempo, mentre con un gesto deciso allontanava un paio di giornalisti, che desistettero subito. Non era un mistero, la Chiusano non rilasciava mai interviste.

    Una volta dentro Gina Mori indossò le soprascarpe, una cuffia e una tuta bianca. Quando la poliziotta le aveva proposto una rapida perlustrazione della casa, non se lo era fatto ripetere. Conosceva ogni ambiente a memoria, ma soprattutto sapeva quali erano gli oggetti di maggior pregio.

    «Non riesco a crederci. Come se fa… Secondo lei, commissario, perché l’hanno ammazzata?»

    «Non lo so, ma ho intenzione di scoprirlo. Mi dica, invece, da quanto tempo conosceva Liliana Fusco?»

    «Oramai so’ quasi quindici anni che vengo qui a pulire ed è stata proprio lei, la signora Liliana, ad assumermi».

    Si trovavano ferme nell’ingresso.

    «Abitava qui?»

    «Macché, morto il vecchio proprietario, a Villa Fedora non ci viveva più nessuno. Alberto Fusco era uno scenografo molto importante, sa? Era amico di tutti i registi e degli attori più famosi». Si inorgoglì, come se lei stessa, per il solo motivo di avere avuto a che fare con quelle mura, potesse godere di una certa popolarità. Poi si passò una mano sulla guancia e riprese l’espressione accorata di prima.

    «Me pare impossibile…».

    «Lo capisco. Ma deve darci una mano, sempre che se la senta».

    «Me la sento, me la sento, commissario. Cosa posso fare per esserle utile?», chiese, guardandola con i suoi occhi piccoli e lucenti.

    «Facciamo un veloce giro della casa e mi dica se le sembra che manchi qualcosa o se nota qualcosa di diverso dal solito. Qualsiasi cosa, anche un oggetto spostato. Per ora mi basta questo».

    «D’accordo, ma non sarà facile. In casa ci sono migliaia di oggetti. E poi, per le cose spostate, sarà un problema. Stanno girando un film e non le dico il casino che combinano i cinematografari, ma farò del mio meglio».

    Chantal aspettò che l’altra si muovesse, poi le andò dietro in silenzio, studiandone le reazioni. Dopo un paio di minuti dedicati all’esame dell’ingresso, senza alcun apparente risultato da segnalare, tranne un paio di sedie spostate dalla parete e un tavolino rovesciato, passarono nella prima stanza.

    «Lo studio del vecchio proprietario», spiegò Gina Mori, convinta di dover illustrare ogni cosa. «Come vede è ancora pieno delle sue macchine fotografiche. Le lampade a serpentina le ha progettate lui, all’epoca furono una specie di novità, così mi aveva detto la povera signora Liliana».

    Chantal apprezzò, tra le altre, una vecchissima Kodak e un’antica macchina da proiezione. Dalla posizione di rilievo in cui era collocata si capiva che doveva essere un oggetto prezioso. Sopra c’era scritto

    PATHÉ

    . La stanza era stipata di tracce della storia di Alberto Fusco, cristallizzata su alcuni strumenti di lavoro: lenti di ingrandimento, lastre e fotografie, una lanterna magica, complicati macchinari ottici.

    «E questo è il salottino giallo», aggiunse la portiera subito dopo. «Cioè era il salotto intimo della moglie Fedora. La stoffa sulle pareti e le tende di seta azzurra con quei bei fiori disegnati le ha fatte il marito per lei. Il quadro sopra il divano, invece, è il suo ritratto. Non era stupenda?»

    «Non mi vorrà parlare pure dei mobili liberty e dei vetri di Murano?», esclamò Chantal, esasperata. «Non si offenda, ma non le ho chiesto di mostrarmi le bellezze della casa. Deve solo dirmi se nota qualcosa di strano».

    La portiera scosse la testa per dare a intendere che no, non aveva nessuna intenzione di farle perdere altro tempo. Divenne improvvisamente agitata e si scusò con voce lamentosa.

    «Mi faccia strada, allora», fu la richiesta secca del commissario, che, tuttavia, non poté fare a meno di dare un’ultima occhiata al ritratto di Fedora. Non solo era stata una magnifica donna, ma era anche stata dipinta in modo superlativo. Un quadro pregevole, pensò, e se non ci fosse stato quel corpo straziato al piano di sopra, le sarebbe piaciuto fare una visita approfondita di quella casa ricca di memorie.

    Lo stato delle stanze successive, tutte illuminate, contrastava con l’ordine riscontrato nello studio e nel salottino giallo. Nel salone, occupato da numerose attrezzature cinematografiche, tutto era fuori posto e il grande e soffice tappeto persiano era in parte arrotolato. Persino gli alari e il parascintille del caminetto erano stati spostati, come se qualcuno avesse voluto sbirciarvi dentro. Gina Mori si aggirava guardinga, stando bene attenta a dove metteva i piedi. Dopo alcuni minuti di verifiche scosse la testa e segnalò che non mancava nulla. Nello studiolo, nella sala da pranzo e nel tinello si ripeté la medesima scena: disordine ovunque.

    Una volta in cucina, la donna si guardò intorno con aria sorpresa. Forse non si aspettava che il caos fosse giunto anche lì. Cosa era successo? Pile di piatti, pentole e bicchieri erano appoggiati alla rinfusa sull’enorme tavolo di marmo, il lavandino era pieno di posate e i vecchi rami giacevano a terra. Qualcuno aveva svuotato le due credenze.

    «Ma che cercavano?».

    Invece di risponderle, il commissario Chiusano seguì la traccia di bagnato che conduceva a un piccolo disimpegno sul quale si affacciava un bagno di servizio. La porta era aperta.

    «Lo scopettone e il secchio in genere non stanno lì», sottolineò la portiera dietro di lei. «Prima di andarmene, io li rimetto sempre nello sgabuzzino. E poi mancano gli stracci».

    «Quando è stata qui l’ultima volta?»

    «Ieri pomeriggio».

    «Nota qualche altra cosa?»

    «Non ci sono più gli asciugamani».

    «Ok, ora saliamo di sopra».

    Un attimo di esitazione da parte della donna. «Non me la farà mica vedere… la signora Liliana, voglio dire», bisbigliò.

    «Stia tranquilla, le risparmio lo spettacolo».

    Un sospiro di sollievo, e la portiera seguì la poliziotta con stanca sottomissione.

    Al primo piano c’era fermento. Il medico legale era arrivato e la Scientifica era già al lavoro.

    Chantal lanciò un rapido sguardo in direzione della stanza in fondo al lunghissimo corridoio, quindi si rivolse con gentilezza alla portiera, che sembrava barcollare.

    «Ancora un ultimo sforzo, signora».

    Forse fu per quel signora a cui non era abituata, ma Gina Mori cominciò a piangere, senza emettere alcun suono.

    «Ce la fa a proseguire?».

    La voce di Chantal era un po’ appannata, come se condividesse la sofferenza dell’altra.

    «Ce la faccio, non si preoccupi per me, commissario. È che Liliana mi mancherà tanto». Poi si voltò ed entrò nella prima camera da letto con un’andatura oscillante.

    «Allora?», le chiese Ferri, con un’aria a metà tra la disapprovazione e la curiosità. «La donna delle pulizie ha notato qualcosa di interessante?»

    «Sostiene che a prima vista non mancherebbe nulla. Siamo salite anche al secondo piano, dove c’era il laboratorio del vecchio proprietario, ma niente». Il commissario Chiusano rifletté un istante. «Voglio un elenco delle collane e dei bracciali che si trovano in un paio di scrigni su una toeletta della camera da letto padronale. Erano aperti, ma con i gioielli ancora dentro. Non mi paiono molto preziosi, meglio però far vedere la lista alla portiera, caso mai ne mancasse qualcuno. Ah, un’altra cosa…», aggiunse, «credo che l’assassino abbia usato degli stracci per pulire per terra. Cercateli e ispezionate anche il piccolo bagno dietro la cucina. Deve essersi lavato là dentro dopo il delitto».

    La scena in fondo all’ufficio della vittima, con la schiena di Giovanni Pozzi curva sul cadavere, era un forte richiamo.

    Senza neppure voltarsi la salutò. «Ciao, Ischitana».

    «Ciao, Torino. Come hai fatto a capire che ero qui?»

    «Il tuo profumo».

    Lo guardò, incerta. Aveva esagerato con l’eau de parfum? Lui la rassicurò, scuotendo la testa con garbo, perché aveva intuito l’interrogativo che le era passato per la mente.

    «Non è troppo forte, sono io ad avere un olfatto sensibile. Specialmente per gli odori piacevoli come il tuo».

    Chantal capì di stare arrossendo e si affrettò a riportare il discorso su un binario meno pericoloso.

    «Cosa hai scoperto?»

    «Sono trascorse almeno quattro o cinque ore dal momento della morte».

    Si raddrizzò, distendendosi in tutta la sua altezza e la sua magrezza, incrociò le braccia ed esaminò Chantal con occhi pieni di sorpresa, come se fosse la prima volta che la vedeva e si stupisse del fatto che lei potesse esistere davvero, in carne e ossa.

    «Quindi a occhio e croce l’omicidio dovrebbe essere avvenuto tra le quattro e le cinque del pomeriggio».

    «Te lo saprò dire dopo che me la sarò portata in sala settoria».

    «E l’arma del delitto?»

    «Un oggetto piuttosto pesante, penso a qualcosa di facile da impugnare. L’assassino l’ha colta alle spalle. Forse il primo colpo è stato mortale, ma ha continuato a infierire su di lei come se non riuscisse a fermarsi».

    «Assassino?»

    «Sono quasi sicuro che si tratti di una sola persona».

    «Uomo?»

    «Non necessariamente».

    «Santo cielo, Giovanni, è difficile immaginare che una donna possa avere agito con tanta violenza!».

    Pozzi si astenne da qualsiasi commento e alzò le spalle. La poliziotta, invece, incrociò le braccia al petto. Era spiacevole quel freddo che le scorreva nelle vene. Un principio di influenza? O la solita, vischiosa malinconia che si presentava all’inizio di ogni indagine?

    Tra loro due scese un silenzio complice. Per il momento non c’era nient’altro da aggiungere. Lo salutò e andò dritta verso la porta. Intuendo che continuava a seguirla con lo sguardo, si fermò e si girò sui tacchi sottili.

    «Mi raccomando, fatti vivo al più presto», aggiunse, mentre un curioso languore si impadroniva di lei.

    Fuori la temperatura si era abbassata di qualche grado. Chantal si affrettò verso la macchina. Non vedeva l’ora di rientrare a casa, ma ci mise più tempo del previsto, e quando infilò le chiavi nella serratura del pesante cancello, che immetteva nel cortile comune, erano le undici. Per fortuna aveva smesso di piovere. Si diresse verso il portone della scala

    D

    , lo aprì e chiamò l’ascensore, senza risultato. Di sicuro era fermo all’ultimo piano. Una volta su due gli inquilini dell’interno 14 si scordavano di chiuderne le porte. Stanca e insofferente, si consegnò ai cinque piani che l’attendevano.

    Dentro l’appartamento faceva più freddo che fuori. I condomini non riuscivano mai a mettersi d’accordo e cercavano di rimandare la data di accensione della caldaia per poter risparmiare qualche lira.

    Quel grande palazzo un po’ vecchiotto le era piaciuto subito, così come le era piaciuta l’idea che le finestre dell’appartamento non si affacciassero sulla strada esterna ma sul cortile con la grande palma svettante. Due anni prima si era trasferita a Roma e aveva escluso istintivamente alcuni quartieri, rimanendo in sospeso tra i due verso i quali aveva provato un’immediata attrazione: Garbatella e Testaccio. Alla fine aveva optato per il secondo e non se ne era mai pentita. La presenza del fiume a un passo, il Monte dei Cocci con la sua origine svelata dal nome, per non parlare del temperamento inconfondibile degli abitanti, erano cose che ogni giorno rafforzavano il suo desiderio di trattenersi a lungo nella Città Eterna. Ripeteva a sé stessa che forse lì avrebbe trovato un po’ di pace, eppure sapeva di mentire, perché in modo confuso percepiva dentro di sé il vero motivo che l’aveva spinta a Roma.

    Della sua vita precedente non aveva parlato con nessuno, nemmeno con Giovanni Pozzi. Era sicura che lui non aspettasse altro – e magari avrebbe potuto anche aiutarla –, ma temeva le conseguenze e si era sempre fermata un attimo prima di aprirsi. Tuttavia, la consapevolezza di avere qualcuno pronto ad ascoltarla era una bella sensazione, specie in una serata come quella.

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