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Giosuè in Chipas
Giosuè in Chipas
Giosuè in Chipas
E-book645 pagine9 ore

Giosuè in Chipas

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Info su questo ebook

Quando Giosuè approda in Chipas alla ricerca, come giornalista, di

notizie dei parenti, la guerra civile è appena finita ma cova sotto le

ceneri. Iniziano le sue avventure tra guerriglieri, preti, amori e

appassionate discussioni. Avvolto nella ragnatela di quel clima,

perennemente innamorato di donne complesse e difficili, come la Chipa,

Manuela, Concita, si dibatte fra i giochi di potere economico e politico

che insanguinano quella terra. La sua vita subisce una svolta quando la

Chipa viene assassinata e deve trasformarsi in tenace cacciatore degli

assassini.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220323178
Giosuè in Chipas

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    Anteprima del libro

    Giosuè in Chipas - Ezio Saia

    info@youcanprint.it

    La Chipa all’arrivo

    Quando scese, Giosuè, si disse che aveva sbagliato tutto, che quel caldo era insopportabile; poi vide la donna dal viso pulito, ramato. Aveva trovato la Chipa di Silvano che gli sorrideva:

    «Ben arrivato Giosuè, ben arrivato.»

    Un Giosuè depresso ricambiò l’abbraccio della salvatrice. Era questa donnetta, la venere dorata, l’Atena azteca di cui parlava il finanziere? Il fresco del sotterraneo del parcheggio lo salvò.

    «Coraggio» disse la Chipa «Non fa sempre così caldo, e comunque il mio alloggio ha l’aria condizionata», aggiunse allegra, «In ogni caso ti è andato tutto bene alla dogana», disse, «Per tua cugina Ardea fu un disastro; i nostri finanzieri diedero subito un saggio del miglior terrore locale e imparò subito quanto fosse urticante questo paese.»

    «Turista?» la guardò bieco l'impiegato nella sua divisa unta, scrutando il passaporto. «La racconti giusta?… Turista!? Con questi pochi dollari?». Scosse la testa. «Non la conti giusta.» E bastò un cenno perché arrivassero due poliziotti. Facce dure che, confabulando con l'impiegato, latrarono: «Per di qua», spingendola dentro una piccola sporca stanzetta: un tavolo in lamiera, una panca e un finestrino in alto. La chiusura di quella porta la mandò in tilt…, dice lei «E’ sempre stata in tilt» aggiunse Giosuè. – ne ho da raccontarne per settimane, lei a casa, lei a scuola, lei in tribunale, lei con quella bestia del Morbillo» La Chipa rise: «Da noi il Morbillo si comportò bene.»

    «Me lo racconterai?»

    «Sì, perché no?» e tornò a ridere.

    «Forse, solo allora, si rese conto che non era più in Italia, che era passata dalla farsa italiana – così la chiamava lei - alla tragedia di qui, che quei due potevano fare ciò che volevano. Come lo capì, cominciò a balbettare e perse la testa.

    «Non l’ha mai avuta» fu Giosuè a sogghignare ora. Lei annuì, come se gli strizzasse l’occhio.

    Poi cominciarono a urlare e arrivarono gli schiaffi:

    «Cosa sei venuta a fare puttana?», ringhiavano, «Parla! Allora a chi vuoi contarla?… Che sei venuta a fare in questo paese?»

    «Chiedile se è venuta a battere?» rideva uno «Sei venuta a battere?... Arrivi dall'Italia per battere qua? E allora vediamole queste grazie!»

    E stavano davvero per vederle a suon di sberle, quando lei riuscì a dire che sarebbe stata ospite. «E di chi? E di chi?» lei tirò fuori il biglietto di mio zio. «E questo è il telefono? E chi è questa Chipa?»

    Uno dei due fece il numero e di là qualcuno rispose. Volevano la Chipa? Chi? La Polizia!? Santo cielo. Subito…. La Chipa non c'era: era andata all'aeroporto a prendere qualcuno… Chipa che?...

    Parlavamo e la città scorreva coi suoi miasmi, passammo davanti a una chiesa e all’ambasciata degli States dove un gruppo di dimostranti, quattro gatti, protestava.

    «Ci sono sempre» disse la Chipa.

    «Per gli americani, penso sia normalità quotidiana» osservai.

    «Qui in Sudamerica sicuramente. E’ la nostra mentalità. Dare la colpa agli altri per non guardarci. Si finisce per passare la vita a protestare. I nostri problemi non ce li può risolvere lo stato o la chiesa o il vicino di casa. Anche se ho partecipato alla resistenza, non l’ho fatto perché pensavo che la rivoluzione portasse la felicità a tutti, ma continuiamo con l’Ardea»

    «…Allora, dicevo, … la guardia insistè…» Ah, il cognome!» E così arrivò pure il mio cognome con lo sghignazzo volgare, quando capirono che era un bordello. Ormai lei era terrorizzata «Un bordello!» riferì al compagno e mi fecero cercare con l'altoparlante «Vediamo questa puttana!» disse, con occhi sadici, quello più massiccio, iniziando a fumare.

    Poi entrai io, che non sono certo di primo pelo ma quel giorno ero elegante, truccata senza esagerazione, addirittura con piccoli tacchi.

    «Sembravi una donna di classe?»

    «Non lo so, comunque, classe o non classe m'assalirono:

    «Non me la conti mica giusta, puttana! Fai arrivare per il tuo bordello una donna dall'Italia, ma quando mai!? Le donne partono di qua per andare a far le puttane là, non il contrario» m’aggredì, selvaggio, prendendomi per il colletto. «E fior di donne con la carne giusta … un po' come dovevi essere tu da giovane.» continuò, cominciando a carezzarmi il seno. Poi strappò il bottone «Come queste» disse, ridendo e afferrando il capezzolo. Urlai di dolore, la guardia rise, l’Ardea piangeva.

    «Preferisci qualcosa di più duro, puttana?» disse il più grasso.

    A questo punto l’altro intervenne: «Calmati», disse, «Queste puttane hanno sempre protettori in alto» E poi rabbioso a me «Ma mica contano niente, se non ce la racconti giusta. Sei una puttana, hai capito? Solo una puttana! Niente! … Allora come la mettiamo con questa racchia che viene a far la puttana da te?»

    Io ebbi un moto rabbioso e, con uno strattone, mi liberai:

    Hai ragione, sergente, ho i miei protettori dissi e le mie ragazze vanno alle feste del tuo generale. La ragazza è mia ospite e adesso viene via con me!

    Vidi che anche l’Ardea s’era ripresa, vedendomi tener testa ai due maiali. Avevo una fifa del diavolo mentre uscivo, tenendo l’imbecillina per un braccio, ma sapevo che anche loro ne avevano. In questo paese la paura non manca mai…

    Quello fu il primo contatto dell’Ardea con questo paese: arrivata dalla farsa italiana, aveva perso la testa.

    «Ha perso la testa? Ma allora vuol dire che ce l’’ha», intervenni sadico, «Tra lei e il Morbillo non saprei dire quale è più priva di sale.» La Chipa si mise a ridere «Non posso crederci.» disse con un sorrisone, aperto alla simpatia, complici com’eravamo nell’irridere l’Ardea e quel manicomio del Morbillo. Felice, entusiasta, elettrizzata come una bambina di poter ridere con me, di quei due. Forse si aspettava una difesa d’ufficio e invece ecco che me la ridevo:

    «C’è un baratro tra gli uomini e le donne di quella famiglia, da una parte l’Ardea e la Chela, fanatiche, novelle Che Guevara, pronte a imbracciare il mitra e, dall’altra, la languida, irridente decadenza colta dei maschi.» Alla Chipa, come capii col tempo, non piaceva neppure la Chela ma, come constatai, le donne di laggiù non l’amavano affatto

    La Chipa, che guidava con prudenza in quell’immenso caos, si mise a imprecare contro un’altro Maggiolino, poi sbottò contro quel branco di maschi ubriachi che guidavano come a un rodeo. Poi fummo a casa sua nell’aria condizionata.

    La Chipa era sui quaranta? Tra i quaranta e cinquanta? Non lo so; ma la disinvoltura e l’agilità gliene toglievano. C’era una grossa cameriera che girava per la casa: «Ti presento Ma Delfina, la mia seconda madre.»

    Ma Delfina, sua cuoca tuttofare, mi guardò sostenuta. Guardava con diffidenza anche l’atmosfera di simpatia che si era stabilità tra me e la Chipa, fin da quando eravamo entrati in casa, ridendo mentre lei mi diceva: «Mi devi raccontare tutto di quella pazza famiglia.»

    Prima e seconda serata. il petaceo, i confini, la simmetria.

    Cominciarono le serate a casa con la Chipa che, seduta, rincantucciata in un angolo, i piedi calzati con babbucce da pagliaccio, indossava un completo da clown leggero.

    Infagottata, leggera in quella tuta, con i capelli a coda di cavallo, raccolta con i piedi sul divano, creava una situazione fra me e lei per nulla equivoca.

    In quelle rilassate serate sul divano, mi faceva parlare. Voleva sapere la storia della famiglia, chiedeva di Torino, dei fratelli, di me e mi spronava, sicché io, cominciando dal capostipite a raccontare del farmacista spetezzante, della centrifuga che ululava e assordava tutto il paese, della sua avarizia, della moglie, dei figli, dei suoi fagioli, delle sue erbe medicinali, mentre scorrevano le immagini di roventi telenovele e lei se la rideva.

    Parlai della fuga in Svizzera, di fronte a quel Mussolini, della morte in grazia di dio. Insomma tutto dall’A alla Z.

    La storia del Farmacista petaceo durò due sere, e lei, mentre io parlavo e mimavo, seduta sul sofà, scoppiava a ridere sonoramente con una risata forte, aperta, squillante che coinvolgeva gli occhi e il corpo perché, come la risata scoppiava anche la sua posa, mentre le sue gambe raggomitolate, uscivano dalla cuccia e scendevano dal sofà. Rideva di gusto e queste sue risate interminabili, coinvolgevano anche me e Ma Delfina che, dalla cucina, attirata dalle risate, si affacciò e si sedette ad ascoltare, burbera. Poi si rilassò e cominciò a ridere, non tanto per il mio racconto, ma perché la risata della Chipa era così contagiosa che travolse anche noi. Quando finalmente l’irrefrenabile risata finì avevamo tutti e tre le lacrime agli occhi.

    Ma Delfina s’era sposata a diciassette anni con un infermiere. Poi resasi conto che il marito era Gay, s’era rivolta alla sacra rota e, per pagare il rapace avvocato, aveva lasciato la scuola serale di dattilografia, per uno spossante lavoro in lavanderia. Ne era emersa libera e con un nuovo amore che aveva conosciuto a una festa in parrocchia. Quando lei l’aveva guardato, timidamente, fermo sotto l’immagine di Cristo redentore, lui aveva abbassato gli occhi ed era stata lei ad avvicinarlo.

    Dopo il matrimonio aveva avuto il figlio che ora abitava nell’alloggio a piano terra con lei e col timidissimo marito, subito adottato dalla espansiva e chiassosa famiglia di lei.

    Giosuè non andò a genio a Ma, che si sentiva la guardia armata della Chipa e lui, anche se di famiglia amica, era pur sempre un maschio. «Ma io voglio partecipare alle spese», avevo detto alla Chipa in macchina, «Solo perché tu non ti senta a disagio, te lo permetterò. Ma Delfina, la donna che vive con me, cercherà di pelarti, per non danneggiarmi e quindi sta attento.» aveva risposto lei, aggiungendo: «Se poi, noi tre, non riusciremo a stabilire un buon menage, sarò io stessa a dirti: «Caro Giosuè mi dispiace ma è meglio che noi si viva ognuno per conto proprio.»

    Le cose però si misero bene con Ma, già la quella sera. Come vide la Chipa ridere di gusto, la sua percezione dello straniero cambiò.

    Con Giosuè, soprattutto nei primi giorni, la Chipa, a scanso d’equivoci, marcò sempre con attenzione i suoi territori che dovevo rispettare. La vita l’aveva presa a calci e lei aveva adottato la diffidenza come filtro. Una strada che si dipanava, come appresi in seguito, in totale solitudine, in coerenza con la sua cautela ossessiva, che le rendeva difficile ogni contatto con gli altri.

    Da parte sua Giosuè offrì sempre una galanteria spontanea che non sollevava sospetti.

    Era ossessionata dall’ordine e dalla simmetria e, anche se questo subito non piacque a Giosuè, in seguito, capì che era solo un accorgimento per dare un ordine al caos, anche se lei lo mascherava con motivi estetici:

    «Basta uno spigolo sbrecciato per turbare la bellezza di una camera, una sbavatura di rossetto per rovinare il viso di una donna.» ammoniva.

    La Chipa aveva paura del mondo e viveva da monaca:

    «Ho paura dei maschi di questo paese. In Italia sono diversi, soprattutto i tuoi parenti. Poi conobbi la tua famiglia e Silvano…. Che posso dirti, Giosuè, quella era una famiglia matta e rivoluzionaria fino al midollo, ma rispettosa. L'Ardea era solo più esaltata degli altri: una copia rabbiosa della zia Chela che stava combattendo sulle montagne. Mi chiedi come li ho conosciuti? Ha poca importanza! Il fatto è che, anche oggi, se qui nasci nei quartieri violenti, affamati come il mio, t’inselvatichisci, ti alzi la mattina col pensiero del cibo, scappi appena puoi e, se non afferri le poche occasioni, il tuo destino è segnato. Mi salvò la grande fede di mia madre e la protezione della parrocchia, ben più reale di quella dei poliziotti, che, anche se non sono corrotti, hanno paura di entrare in quei vicoli. La legge sente l’odio che scatena la loro presenza. Noi, mia sorella, io e mia madre, abitavamo in una casa di mattoni, anche questo grazie alla parrocchia e sentivamo ben viva la protezione che stendeva su di noi.

    «A meno che tu non nasca ricco e nei quartieri giusti, Giosuè, non vedi l’ora di fuggire ed è quel che feci io, appena ne ebbi l’occasione, dopo la morte di mamma. Riuscii ad andarmene in Italia e, dopo la morte di chi m’aveva aiutato, mi trovai la far la serva in una casa di due ricchi e avari pidocchiosi, col pidocchioso maschio che mi voleva. Era solo un maiale razzista e la moglie non era diversa. Forse addirittura più meschina. Glielo leggevo dalle smorfie di disprezzo, quando mi dava ordini. Avevano un arredamento scuro, barocco e grandi quadri di caccia alle pareti, poveri scemi!»

    «Ti faceva la corte?»

    «La corte?», rise, «Chiamala corte; appena lei si assentava, lui subito cercava di abbrancarmi: Vieni, bella creola, fatti scopare e io a scappare tra quei mobili scuri, tra quelle porcellane preziose anche rifugiandomi sul pianerottolo, sul balcone e minacciando di urlare. Era così razzista da non riuscire a capire perchè una pezzente come me, non si sentisse onorata di farsi scopare da lui! Mi diceva che donne ben più civili, erano andate sotto di lui. Capirai che onore! e s'incazzava sempre di più. Una volta riuscì ad abbrancarmi:

    «Mi fai impazzire!» mi disse con la bava alla bocca.

    «Cercò di salirmi sopra, le sue mani già sotto le vesti. Che schifo! Capirai, lui, magro, grumoso, quasi pelato, un relitto debole di cuore e io nata nei vicoli! Povero cretinetti, lui e il suo uccello senza peli! Lo sollevai come un cuscino e lo buttai da una parte come uno straccio.»

    Mentre raccontava, il volto della Chipa, passava a un’ondulazione arcigna delle rughe sulla fronte; la sensualità abbandonava le sue grandi labbra, che si assottigliavano impallidendo, di un livore, che mai, altrimenti, nel suo mondo severo, difensivo avrebbe visto la luce:

    «Non che avessi dei problemi a andare a letto con lui!», disse, « e se avesse pagato il giusto, mi sarei presa periodicamente quel suo stupido uccello senza peli. Avevo appena dodici anni – a te posso dirlo, come l’ho raccontato a tuo zio - quando, per la prima volta, la mi prostitui per quattro soldi!… poi continuai un po' commessa, un po’ ladra, un po' serva, un po' mignotta, fino a che un vostro diplomatico gay, mi portò in Italia. Aveva capito la mia voglia di emergere a tutti i costi, e mi trasformò in una spia, insegnandomi i maneggi finanziari. Si fidava solo di me.»

    Ma Delfina guardava la sua Chipa parlare, disapprovando lo sfogo ma la Chipa la rassicurò:

    «Lasciami parlare, Ma, con lui si può fare; è della famiglia» e continuò:

    «Insomma questa Chipa che ora sta di fronte a te, Giosuè, la capi subito quella lenza di quel tuo zio, zoccolante coi suoi piedi piatti per i palazzi ducali di quel paesone. Lo chiamavano Finanziere! E perché no? Finanziere-miracolo! E tutti a levarsi il cappello davanti alla gran testa, unico saggio di una nidiata di matti. Era in gamba davvero, lo zoccolante, e se li cucinava come voleva quei finti Conti e Marchesi. Ma non incantò me cresciuta, allieva dell’altro finanziere ben più criminale.»

    «Lo capii subito di che pasta birbona era fatto. Girava per la case dei Duchi coi fogli da firmare, con le ricevute, con gli assegni, gli occhioni da genio stralunato e sorrisoni, grandi come case. Proprio questo dicevano il vecchio maiale e quella sua moglie balenga: Professionista d'altri tempi! Serio e onesto come il padre. Sì! Professionista in bidoni. pensavo io. Comunque i due allocchi un mattino mi mandarono a portargli un documento e io dissi alla lenza che avevo capito tutto ed ero pronto ad aiutarlo anche col cuore e la carne.»

    «E lui?»

    «Lui non prese la carne ma l’aiuto. Ci capimmo subito. Lo prese al volo. Non si prese mai la minima libertà, non usò mai un linguaggio ambiguo. Conservai sempre per lui un affetto speciale, e cambiai anche la percezione di me stessa, intravedendo per me la possibilità di un futuro rispettabile.»

    «Il cuore, no!», mi disse esplorandomi da capo a piedi, «E meno che mai il resto! Non che non apprezzi ma… ».

    Insomma ci capimmo subito e io ero la ciliegina sulla sua torta.

    Mi chiese, senza sbilanciarsi, se potevo fare questo, se potevo fare quello e non parlò mai di quanto ci avrei guadagnato. Ma io lo sapevo che non m’avrebbe fregato e poi mi piaceva perchè era un signore, perché non aveva puzze sotto il naso e perché tirava un bel bidone ai due maiali. Gli mancava una Chipa e la Chipa era arrivata. Una Chipa, che vide una strettoia verso una fuga dai vicoli.»

    La Chipa non fece tempo a finire il racconto e si addormentò sul divano. Come seppi da Ma Delfina, si addormentava spesso sul divano:

    «Lavora molto e certe volte quando io, lavati i piatti, passo in salotto per salutarla, la trovo addormentata come un angelo col televisore acceso.»

    Ma Delfina, quella Ma Delfina così forte, affettuosa e protettiva con la Chipa, divenne affettuosa anche con quel Giosuè appena arrivato.

    La sera dopo mi chiese di continuare la storia del petaceo. Il racconto divenne più calmo, meno comico e mi accorsi che piaceva anche di più. Ma Delfina, sul dondolo, ascoltava attenta mentre noi sul divano ci mantenevamo nei nostri confini.

    La sera dopo, di sua iniziativa ricominciò a narrare della sua avventura.

    «No! Non la segretaria, ché quella, si sapeva, sarebbe stata strizzata come un straccio. Quando la interrogarono non ebbe nulla da dire.» «La vera segretaria invisibile ero io e gli diedi una collaborazione assolutamente onestà anche quando vidi l’enormità delle cifre. Del resto, lo capii subito, lui, che non truffava per denaro, ma per irridere ai potenti. »

    «Dei due orchi spelacchiati che mi davano lavoro non disse mai nulla, tranne che la loro casa era senza libri e una casa senza libri era una casa senz’anima.»

    «Ma anch’io non ho libri, anch’io non leggo.» gli dissi, preoccupata.

    «Tu avevi appena il tempo di respirare. Non te ne sei mai dimenticata?» rise. Risi anch’io con leggerezza.

    «No, certamente» continuò lui «sei qui di fronte a me, bella, viva, pronta a truffare tutto questo mondo petaceo.»

    «Lei riprese ricordando i discorsi dei due scrofoni sulla famiglia: Sono accampati in un disordine indescrivibile. dicevano.

    «Quel vivere tutti insieme in quella casa-accampamento scandalizzava gli spelacchiati: Una comune, commentavano con disprezzo, "non una famiglia. Libri da tutte la parti, ammonticchiati sulle sedie, sotto le sedie, impilati a terra, sui tetti dei mobili, in un disordine indecente.»

    Ci vedevamo per mettere a punto la truffa, in due o tre vecchi caffè, dandoci del tu e chiamandoci per nome, ma prima che succedesse mi chiese il permesso di farlo. «Il tu è molto intimo qui da noi,» mi disse «Pensa che io davo del lei a mio padre.»

    «Ma io non ti attraggo?» gli chiesi una delle ultime volte prima di partire.

    «Molto» mi rispose lui «sei un fior di donna.»

    «E perché non mi corteggi?»

    «Perché oltre che un fior di donna, sei un fior di signora.»

    Gli chiesi dei libri, di quei libri impilati dappertutto, così come ne aveva parlato il pirla a metà tra lo scandalo e l’ammirazione. «Li hai letti tutti?» gli chiesi, «No, per l’amor del cielo. In quel caos ci sono i miei, quelli ereditati, quelli dei fratelli, quelli di scuola. Il grande lettore della famiglia è il professore ma anch’io da giovane ci davo dentro e anche adesso leggo la sera. Hemingway, i gialli di Maigret, il vostro Cent’anni di solitudine Mi piace leggere; sai perché? Ti porta fuori del mondo. Certe volte guardo tutto quel caos di libri, ne prendo uno in mano, lo sfoglio e mi rallegro che ci siano, fermi ad attendermi per quando andrò in pensione.»

    La Chipa aveva avuto da ragazza un solo accoppiamento soddisfacente con un ragazzo più giovane, parrocchiale, timido, che lei aveva preso dentro di sé, guidandolo con calma, frenandolo, anche se non ce n’era bisogno, con un interminabile preliminare di petting, che il ragazzo neppure immaginava potesse sfociare con la penetrazione.

    Anche di quell’abbraccio timido conservava un buon ricordo. Piccole vene d’oro in un mare di roccia scabrosa e sporca.

    Ora era una splendore, dentro la sua veste da pagliaccio, dove il suo seno, il suo corpo parevano occhieggiare, pur coperti sotto il tessuto leggero della tuta.

    Proposi di uscire la terza sera: «Passata la gran calura, possiamo uscire e vedere questa capitale by night.»

    «Uscire? Mi spiace ma è una città troppo violenta, fa paura uscire per le strade, soprattutto di sera. Questa città possiede una sua aura che senti vibrare nascosta e fremente, senti gli occhi che ti giudicano, i rancori, la rabbia. Ho paura, anche se mi accompagni...»

    «Abiti dignitosi, non provocanti, aspetto dimesso, questa, Giosuè, è la divisa delle donne per salvarsi da questa melma: profilo basso come fa la mia Chipa.» disse Ma Delfina, baciandole la testa, mentre lei fingendo di divincolarsi e sorridendo, accettava l’abbraccio. Quando si alzava dal divano per andare a letto, si stiracchiava come un gatto. In quel momento, in quel vestito informe bianco, emanava, senza volerlo, una gran sensualità.

    Ma delfina cuoca

    Ma Delfina era la regina della cucina, un antro da strega, munito di tutti gli ammennicoli, le droghe, le bacchette magiche. Asserragliata nel suo antro umido, con tutto il ben di dio che la natura azteca offriva, cucinava per lei, per noi, per la sua famiglia, soprattutto, per la sorella, vedova, disoccupata con tre figli.

    Spesso partiva dalla cucina con un piatto di bocconcini, veniva da noi in salotto e ci metteva a forza in bocca uno dei suoi dolcetti di cioccolato, mandorle, cocco, cucinati nel suo calderone di strega.

    La Chipa fingeva di protestare: «Diventerò una palla e non riuscirò più a passare dalla porta.» ma non rifiutava mai.

    In ogni caso, riprende ora Giosuè, nel primo mese, anche quando Ma era indaffarata nel suo antro e Giosuè raccontava, la sentivamo scoppiare a ridere, magari anche solo perché sentiva noi ridere.

    Le due sere in cui raccontai della genealogia delle serve, della rappata, del tenente che voleva cambiare pelle come le tarantole, toltosi il grembiale, era venuta a sedersi in salotto con noi.

    Quando raccontai del Morbillo e delle sue avventure nell’orfanotrofio non ci fu più fine e furono necessarie tre serate. Ma Delfina non si perse un respiro di quel Morbillo nella Casa dell’orfano, fondata coi denari della contessa che, dopo aver gozzovigliato in tutti i sensi, dopo aver raccolto tutti gli uccelli domestici e selvatici e fatto baldoria con tutte le oche, gli agnelli di questo mondo, s’era pentita fondando la Casa dell’Orfano.

    Nella terza fu la Chipa a raccontare le avventure del Morbillo alla Casa Bianca, il suo bordello in Città.

    Ad entrambe piaceva il linguaggio saporito di Giosuè, già anticipato con la rinascita del colombo del farmacista petaceo e quella sera non persero una parola del cavalier Bertelloni, potente nelle mascelle e nelle trombe e poi della fantasmagorica accoppiata di lui, centotrenta chili abbondanti di brodi e ciccia, con la mignottina di appena quaranta collocati tutti, nelle ghiandole del davanzale. Fece udire, Giosuè, i sonori squilli di tromba alla Trattoria del Gallo, fece rivivere le trombe del commendator Bertelloni.

    Rivissero i tre, con Giosuè grottesco cantore, l’incastro divino, la sua trasbordante grandezza, incombente sopra la gallinella dorata, sepolta dal mare di grassi, di carni, di trombe e tromboni. Udirono l’ultimo grido di guerra del commendator Bertelloni, l’ultimo rantolo, e poi gli inutili ansiti della flebile mignotta incastrata, il finale intervento dei discreti Signori del Gallo e infine il provvidenziale intervento per disincastrare le masse, cui aveva amorevolmente assistito la signora Bertelloni in persona.

    Giosuè portò poi la Chipa e Ma Delfina nella camera da letto del commendatore dove assisterono alla serena morte del cummenda, al referto di infarto, mentre la mignotta, spianata come una sogliola, si riprendeva al pronto soccorso. Il tutto conclusosi per il bene degli orfani con l’istituzione del corso di musica Commendator Bertelloni suonatore di tromba.

    Alla terza sera sul palco salì la Chipa a parlare con vivacità del Morbillo.

    Il Morbillo alla casa bianca

    La Chipa riferì quanto sapeva dalla direttrice del Bordello.

    «Mi aspettavo un europeo e vedo invece una faccia ramata con sfumature verdi: un vero indio della foresta.

    C'era la festa di compleanno di una ragazza quando arrivò. Così mandò una ragazza a dirgli: C'è una festa, se vuoi entra, altrimenti siediti da qualche parte che qui si ride, si beve e si balla.

    Lui restò seduto in un angolo, poi si sedette tranquillo in giardino fino alla fine ma già quella sera parlò alla Signora e la chiamò 'Superiora'. Superiora! Non ti fa ridere? Come se quello fosse un convento di monache. Roba da matti! Non poteva proprio trovarlo un nome più ridicolo! La tenutaria rise ma lui non fece una piega e continuò a chiamarla in quel modo. E’ incredibile ma attaccò il virus a tutti che cominciarono a chiamarla Superiora.

    Comunque cominciò da quella sera col tormento della montagna:

    «Quando parto, Superiora?» le chiese. Lei rise: «Domani, domani», «Parto domani?» No! Accidenti no! Domani se ne parla e adesso si va a dormire. E non chiamarmi 'Superiora? Mi fai quasi venire i brividi.» Continuava a dirglielo che i partigiani sarebbero arrivati e che sarebbe andato lassù a combattere: «Hai così fretta di farti ammazzare? E poi non parlare di queste cose, per l'amor di dio! Qui tutto ha orecchie.»

    E dire che fu proprio un periodo brutto: violenze a non finire, sparivano anche i clienti. Una sera ci fu addirittura una sparatoria in giardino; ragazze e ospiti dentro a tremare e le sventagliate di mitra che finivano contro la facciata. lasciarono un morto e. prima di andarsene, sventagliarono col mitra la facciata: il terrore, Giosuè! La morte che ti passa vicina.

    «Il Morbillo non voleva capirlo «Dobbiamo mettere i manifesti agli angoli della città?… » si spazientiva la tenutaria Cari cittadini, i rivoluzionari arriveranno al bordello il giorno tal dei tali? … Prima assalteranno una banca o un ministero poi si porteranno il Morbillo in montagna affinché uccida tanti governativi?

    «Insomma il Morbillo dovette aspettare in silenzio, anche perchè intervenni, io, la Chipa, con la minaccia di rispedirlo come un siluro in Italia, e credimi, malvolentieri, visto quanto era coccolato dalle ragazze.

    Si metteva al piano alla sera, suonava il Bolero, i valzer… ed era una meraviglia vedere le sue mani muoversi come tarantole sui tasti. Travolgeva! Travolgeva quella musica indiavolata; travolgeva le ragazze e i clienti, fermi come mammalucchi, ad ascoltare quell'orgia di note. Aveva scatenato gli applausi la prima volta e da allora, tutte le sere, volevano l'ora scatenata del Morbillo. Avevano pure cercato di ballare, quella musica, come se fosse una specie di Rock e si erano divertiti come matti.

    Io proibivo assolutamente di parlare di guerra e politica e la tenutaria sorvegliava per salvare la casa, le ragazze e i clienti.

    Lei si ritirava nell'ufficio a sentire la radio con le cuffie! Cercava la stazione e sentiva le voci dei ribelli.

    Era un mago coi numeri e ce ne accorgemmo quando cominciò a far tutti i calcoli per le ragazze e per la tenutaria. Moltiplicava, divideva, sommava in un amen e sempre preciso alla virgola. Così le ragazze e i clienti cominciarono a divertirsi, mettendolo alla prova. Alla sera facevano gruppo con le limonate e cacciavano numeri a caso. Lui calcolava e loro controllavano con le calcolatrici. «Incredibile!» ammiravano «Un vero mago!»

    Fece amicizia con Pitagora, un professore di filosofia, alto un soldo di cacio, magro, tranquillo, coi baffetti, che faceva l'amore con gentilezza. Pitagora intervenne una sera e parlò di tempi antichissimi in Grecia, dove era vissuto il vero Pitagora con la sua setta di sacerdoti che adoravano la musica e i numeri.

    «Pitagora?», aveva esclamato qualcuno, «Quello del Teorema?»

    «Sì, proprio quello!» rispose Pitagora «e fu allora che scoprì gli irrazionali.»

    «E che sono questi irrazionali? Numeri matti?»

    «Numeri matti» aveva confermato Pitagora «Numeri che non vanno d'accordo con gli altri.»

    «Ma è vero Morbillo?» e lui, quasi risvegliato da un sogno, aveva pensato un attimo su quella bislacca definizione, senza capirci niente, perché la sua testa era fatta così, e poi aveva annuito: «Numeri litigiosi.» aveva sentenziato

    «Numeri anarchici allora!? Ma allora tutto quello che ci dicono sulla perfezione dei numeri è una palla! Dove te li hanno propinati? Dai preti?»

    «I pitagorici non pensavano che fossero i pianeti a girare. Immaginate un cielo fatto di sfere di vetro eterno; immaginate che ogni pianeta sia attaccato alla sua sfera. Le sfere girano e cantano. Proprio così! Cantano! Musica delle sfere la chiamava Pitagora…. Musica divina che solo gli Dei potevano sentire…. Insomma tutto il bene dell'universo era lassù mentre quaggiù era tutto merda e corruzione.», «Hai ragione, professore! qui tutto degenera e marcisce...» commentò il Morbillo annuendo deciso.

    «Dopo quindici giorni sono andata io stessa dal Morbillo per dirgli che sarebbe partito nella notte. La guida lo stava aspettando nella capanna di una famiglia di tagliatori sulle colline, dove Pitagora lo avrebbe accompagnato; poi sarebbe partito coi tagliatori senza correre il minimo pericolo perché il Morbillo sembrava uno di loro. Uno di loro sputato. In quindici giorni gli avevamo fatto crescere i capelli e, prima di partire, la serva li glieli aveva sforbiciati incolti come li portavano loro. Pitagora, al ritorno, riferì che, calzato e vestito da pezzente, era irriconoscibile.»

    Al Giornale

    Mi feci vedere il giorno dopo al giornale e fui presentato al direttore Invarillo, un signore magro, elegante, ben rasato, affabile, con baffetti radi, con cui Giosuè, si sentì subito in sintonia, presentandogli il suo programma che aveva l’epicentro nella Chela, nell’Ardea, nel Morbillo, nella madre scomparsa, e che, da quel centro, s’irradiava al Cifas e alla nazione.

    Invarillo accompagnando con cenni d’assenso del capo e continui movimenti del labbro in lotta con le punte dei baffi, ascoltò con attenzione, sorpreso dalla ragnatela delle parentele che univano fra loro la Chela, l’Ardea il Morbillo. Anticipai che ce n’erano altre ma che non potevo parlargliene. Non potevo certo parlare di Silvano ma dissi che stavo in casa della Chipa. Sapeva chi era e, gioviale, perfidamente ludico, mi chiese altre notizie su di lei: «Chi è? Ricordamelo un attimo», «Oh, ha fatto servizio e amicizia da noi in Italia» mentii. «Un attimo, vado a informarmi» disse e partì, lasciandomi, in piedi davanti al suo ventilatore. Fuori regnava un cielo di nebbia luminosa. Il sole si faceva strada tra la foschia mattutina.

    Invarillo tornò soddisfatto, sogghignante, il che non era una sorpresa, date le notizie: «E’ la proprietaria di due bordelli. Era una poveraccia e ha seguito una lenza di diplomatico italiano che tornava in Italia, un brutto soggetto che impiastricciava anche con la finanza, finche non lo scoprirono e lo cacciarono. Era la sua mignotta privata, dicono, ma questo come si concilia col fatto che lui fosse gay? Evidentemente la notizie nascono come funghi mangerecci e creano universi fantastici. In ogni caso, là, è crepato ma lei, prima che crepasse, deve averlo ripulito. Fatto sta che è tornata ricca e ha comprato quei due bordelli.

    Questa non è solo la voce comune ma anche quella dell’autorità che la tiene in considerazione perché mantiene un profilo basso e serio.

    Non ci sono dicerie su di lei e non da fastidio al Cifas o ai governativi, anzi sta montando una certa aura di santità come silenziosa partigiana del Cifas in città. Ha una sorella monaca e questa è sempre una buona carta qui; anche la madre, poverissima, era molto religiosa, una specie di suora laica che ha allevato due figlie: una, la suora e l’altra, la Chipa. Anche dall’Italia nessuna segnalazione. Insomma è a posto.»

    «E’ un buon appoggio, se te la farai amica. Ma, se ti tiene in casa, non è già un’amica?» disse strizzando l’occhio a un Giosuè immobile:

    «Mi metterò subito in moto per procurarti interviste nel Cifas ma acqua in bocca; qui tutto ha orecchie. Anche se le cose stanno cambiando, la mia raccomandazione è: profilo basso.»

    Mi fece un gran sorriso e mi prese sotto braccio con viso truffaldino.

    «Intanto puoi inviare al tuo giornale il tuo nuovo indirizzo, il telefono e avvertirli che va tutto bene e puoi anche inviare il tuo primo articolo. Qui ne abbiamo cinque o sei su rivoluzione, città, paese che puoi utilizzare. Cambia qualche cazzatina, bel bimbo, ed ecco che puoi mandarne uno al giorno e intanto aspettare che arrivino i primi contatti. Gira per la città.», disse rifilandomi una pacca amichevole, «annusala, visita tutto, anche i bordelli.»

    In redazione mi presentò gli scamiciati giornalisti presenti.

    « Questo è Figuera Erminio , specializzato in bordelli, questo, Mario Tozzi figlio d’italiani. La madre prepara una pasta miracolosa, gli altri sono» li nominò indicandomeli: «Hiller Iacob , Firmino Matias , Hernandez Cornelio . Strinsi la mano a tutti:

    «Avrai tutto il tempo di conoscerli. Anche gli assenti. Ma adesso devo andare. Trattatelo bene.»

    Due parole sulla mia prima impressione del giorno.

    Mario Tozzi occhi torvi, sopracciglia folte, riccioline come i baffi, voce stridula, ti punzecchiava volentieri con battute salaci e pesanti, Figuera Erminio succhiava in continuazione caramelle alle erbe, Santos Alcides era il tipico zelante, pallido, di corporatura tozza. Discuteva con acrimonia come se fosse sempre questione di vita e di morte, in questo era simile a Hiller Jacob, che, ossessionato dal sesso, diceva di avere dalla nascita il pene fuori controllo, l’opposto del buono del gruppo, ossia di quell’Hernandez Cornelio, che sarebbe stato poi così importante per me. Era il giornalista economico e mi confidò, nei pochi attimi in cui prendemmo un caffè alla macchinetta, che all’inizio tendeva a una scrittura incomprensibile ai non iniziati. «I giornalisti specializzati viaggiano tra Scilla e Cariddi, tra la complicazione iniziatica e la semplificazione banale.» ridacchiò a disagio. Alto, corporatura media, era, come dicevano un tempo le nostre nonne, ben piantato. Indossava sempre abiti grigio anonimo e, quando scriveva, aveva l’aria di un vorticoso prestigiatore. Si diceva che arrotondasse gli spigoli della realtà.

    Tutto cambiò quando s’innamorò di Manuela Socrates, l’aristocratica statua di carne, signora dei salotti, che lo accettò come cavalier servente.

    Perez Belisario era e si comportava come un cacicco. Era convinto di aver meritato la direzione, che invece era stata data a Invarillo, della cui gestione criticava perfino la pulizia delle latrine. Era intrigante, pugnace e si diceva che facesse molti favori in alto e che fosse destinato a una veloce carriera.

    Con Hiller e il suo pene fuori controllo passai presto una memorabile, disperata nottata, sul tetto del giornale. La bella moglie, americana, conosciuta durante l’esilio, dall’aspetto placido e arrendevole, s’era rivelata una crudele Istar, mitica guerriera babilonese.

    Andai a prendere un caffè freddo con Figuera Erminio:

    «Allora sei ospite della Chipa» mi disse bevendo il caffè «Quello che so, penso te lo abbia già detto Invarillo, visto che, per riferirtelo, è venuto da me.» si fece una risata gioviale, quasi grottesca, strizzando l’occhio a Giosuè. Lì in quel Giornale tutti strizzavano l’occhio a Giosuè: «Cosa posso aggiungere?» continuò Erminio «La tizia è modesta, rifugge l’appariscenza, sa muoversi bene. Favorisce le feste e si è districata bene fra rivoltosi e governativi ma lo hanno fatto in molti. Tra convinti rivoltosi e feroci governativi c’è, come sempre, una zona grigia. Ma non succede così dappertutto? Non rispondere; la domanda è del tutto retorica.»

    «Non mi sembra che tu non abbia una gran considerazione di lei.»

    «Non è vero: in questi anni ha tenuto un comportamento riservato da monaca: lavora in finanza e si ritira in casa, non si conosce alcun pettegolezzo. Alla luce di questo riservato comportamento, forse si comprende meglio il suo apparente silenzioso barcamenarsi tra le metà di questa città.»

    «Ma quante metà esistono in questa città?» chiese Giosuè.

    Figuera accennò a ridere in falsetto. «Siamo in una ragnatela e, in una ragnatela, le parti sommate sono molto più grandi dell’unità.»

    «Una ragnatela?»

    «Sì, chiamiamola così. Si è assestata una gran ragnatela con rivoluzione, governo, bande criminali, ecc. Una filigrana di strade che percorre da sempre il paese. Per voi è tutto semplice: un governo, qualche ruberia, un po’ di corruzione, un po' di mafia… ma qui è tutto un'altra cosa. Qui i poteri erano e sono molti; anche se ufficialmente le armi le ha solo il governo. Dittatura? Potere assoluto? Tutto il contrario, tutto intrecciato: molti poteri invisibili e sotterranei, su più strati; poteri che, man mano che si scende verso il basso, si toccano, commerciano e si confondono; ma è difficile capire tutta questa ragnatela per voi: qui ci sono gerarchie parallele, dove tutto si confonde man mano che ci si allontana dalla cima. Governo, bande criminali, rivoluzionari e bande fasciste. Si combattono fra loro ma hanno tutti necessità di rifornirsi di soldi, di droga, di notizie, per cui collaborano, si ricattano, si alleano. Ai livelli più bassi le persone e le organizzazioni non sono più né governativi, né criminali, né fascisti né ribelli. Ecco spiegata la ragnatela che ci avviluppa.

    «E il ragno?»

    «Molti ragni. tanti Taillerand, tanti Fouchet, tante armi.»

    Al caffè, per comprare un cartoccio di dolcetti, passò Firmino Matias.

    Appena uscito, Erminio mi racconto di quel Matias, che si stava arrabattando come un Rigoletto sotto maledizione. La moglie, emigrata di terza generazione, una bella donna, formosa, tradita dal marito, voleva il divorzio. Lui rigava diritto ma ammetteva che le curve della moglie, che tanto aveva amato in passato, ormai lo annoiavano.

    Da giovane aveva combinato pasticci e mascalzonate di tutti i colori. Aveva fatto il ladruncolo, il ladro, ma si diceva anche molto di peggio. Finche qualcuno non l’aveva legnato a sangue, lasciandolo mezzo morto, dietro un umido portone di un vicolo. Da quel giorno era cambiato. Seguivano anni di oscurità dai quali era emerso con un diploma di scuola serale, e tanta voglia di cambiare il mondo, fondando un giornale clandestino che l’aveva mandato in galera. Finiti i tre anni di galera era fuggito con la bella moglie e il figlio negli States dove s’era arrangiato tra lavori nei bar e un’intensa attività di opposizione, sostenuto dalla moglie che aveva condiviso disagi e povertà.

    Giosuè su un tavolo assegnatogli di fortuna, in attesa di un rudere di computer da tavolo che presto avrebbero collegato, sulla seggiola girevole antidiluviana e cigolante, che gli era toccata, iniziò a viaggiare nelle paludi azteche, come un novello Mosè pronto a passare il Mar Rosso.

    Sarebbe passato dal giornale le prossime mattine a spedire un articolo al giorno di quelli forniti da Invarillo, aggiungendo quattro righe private, con cui rassicurare l’Austriaca, che non poltriva ma inseguiva i fantasmi della Chela, dell’Ardea, della mamma, del Morbillo e se ne uscì nel caldo per rifugiarsi nella prima grande, solenne, solida chiesa, doppiamente turrita, la cui frescura in magica unione con gli ori, le pale, gli altari e le arzigogolate creazioni barocche, gli restituì il profumo del tempo, l’atmosfera della morte, e dei pensosi teologi che conosceva.

    Quasi s’addormentò Giosuè, per poi uscire, rinnovato, a sopportare quel caldo che puzzava di marcio, di quella città.

    Era stanco ma soddisfatto. Al taxi diede l’indirizzo della Chipa e, godendosi il panorama della città, vide scorrere con calma, il quartiere dove aveva preso casa.

    L’alloggio, i vicini, il gatto

    L’Alloggio della Chipa era al terzo e ultimo piano di un palazzo in zona semiperiferica di media borghesia con due bagni, tre camere da letto, un salone e un’enorme fumosa cucina. In salotto, un locale ancora più grande della cucina, una piccola libreria, il carrello con televisore e giradischi, a lato due seggiole; davanti al televisore; sistemati ad arco, un sofà rosso bordeaux, due poltrone dello stesso colore e due dondoli in vimini. La Chipa e Ma Delfina mangiavano sul tavolo della cucina e io mi aggiunsi a loro.

    In biblioteca sono conservati i libri di devozione della madre. Accanto tre o quattro austeri libri di finanza, uno di economia, una guida di Torino, Cento anni di Solitudine, un libro sugli dei Aztechi regalatole dall’amica Ramona.

    Alle pareti del salotto una serie di fotografie sono simmetricamente a fianco del mobile libreria, una sola sbiadita della madre, coi capelli bloccati da una crocchia; un viso umile, un sorriso radioso, che scopre una dentatura bianca, ravviva il viso. Le altre foto sono della Chipa e della sorella; nella seconda, la sorella tredicenne ha la testa rapata ed è affiancata, dalla Chipa undicenne; una foto fatta poco prima che la sorella entrasse in convento. Sulle altre pareti una foto della Chipa con Ma delfina.

    Sopra al televisore un vecchio quadro della Madonna.

    La Chipa tornava a casa all’una per il pranzo e verso le sette per la cena. Viaggiava su una rumorosa Volkswagen.

    Dopo la cena Ma Delfina scendeva al pianterreno dove abitava col figlio elettricista. Certe volte si fermava tutta la sera a parlare la Chipa e sedute vicine, come madre e figlia, guardavano la televisione e chiacchieravano. Quando il figlio era in trasferta, lei dormiva in una delle due camere da letto libere, perché aveva paura di dormire da sola a pianterreno.

    L’appartamento confinante era occupato da giovane ambiguo, che, nel pomeriggio fin quasi a mezzanotte, sentiva musica rock al massimo volume, la mattina dormiva fino a mezzogiorno e di notte spacciava. Aveva gli occhi violenti e urlava con le donne che si portava in casa. Certe volte la Chipa bussava alla sua porta per chiedere gentilmente di abbassare il volume e lui l’accoglieva sempre con un insulto «Che cazzo vuoi puttana!», la insultava, «Vuoi il mio cazzo?» ma in genere abbassava il volume.

    Capitava pure che se ne andasse di casa, dimenticando di spegnere la musica che continuava per tutta la notte, finché io non telefonai ai pompieri che sfondarono la porta. Quando tornò la mattina si mise a inveire contro di noi ma noi avevamo avvertito il suo padrone di casa e quello, che attendeva seduto nel salotto della Chipa, si presentò e gli intimò di smetterla, altrimenti l’avrebbe cacciato. Lui, infuriato, lo mandò a quel paese ma la notte successiva fu preso a legnate da due armadi pelosi che gli fecero sentire un anticipo di ciò che gli sarebbe capitato se continuava la sua carriera di bullo.

    Da quel giorno abbassò leggermente la cresta ma era una cresta testarda e solo quando venne a sapere che il padrone di casa era della mala, crudele come lui, l’abbassò del tutto, pur continuando a tenere la musica al massimo volume. Quando poi venne a sapere che la Chipa, quella sua vicina grigia come una suora, dirigeva due bordelli, cominciò a trattarla con rispetto, come se fosse una collega. La salutava, le dava la precedenza alle porte e, certe volte, le faceva l’occhiolino da compare di delinquenza. Continuò invece a trattare male Ma e a chiamarla balena.

    Il paese era ancora dilaniato non tanto dalla guerra civile, ufficialmente finita, ma da un tramonto rancoroso che si sentiva vibrare nell’aria come un nube maligna e che, talvolta, esplodeva in feroci vendette di sangue, ma in quel quartiere di lavoratori e benestanti, la guerra, la rivolta, il dittatore, i soldati di dio non entravano: un’oasi di serenità, dove la miseria, i rancori e la lotta erano lontani.

    Giosuè e la topografia culturale

    Il secondo pomeriggio Giosuè visitò una chiesa barocca con due splendidi campanili. Un barocco abbondante e contorto: finte colonne, vere colonne, diritte, ritorte, una gran cupola, una cornice dipinta di visi di angeli, capitelli, nicchie, affreschi e pale, profeti e santi, al centro una natività quattro cappelle due per lato, la prima, il miracolo dei pani e dei pesci presentava pescioni, grandi, grassi, azzurri, scagliosi, argentati che riflettevano i raggi del sole, meravigliosi pescioni con iridescenti, luccicanti scaglie che nobilitavano un quadro di un redentore opaco, con occhi stralunati simile più a un Gesù che scaccia i samaritani dal tempio, che a un Gesù che sfama i fedeli.

    Era una bella chiesa, anche se, terminata nel 1780, non aveva quel sacro odore che viene dall’antichità dei secoli e la cosa migliore era in quei grassi pescioni appetitosi con gli occhi vivi, guardati dagli affamati occhi dei fedeli.

    A casa con la Chipa, Giosuè raccontò di quei pescioni argentati con occhi vivaci che lo avevano impressionato e la Chipa si fece una battuta.

    «Era ora che tu andassi in chiesa a purgarti dei tuoi peccati!», disse in tono vivace, «Perché una chiesa di periferia e non la cattedrale?»

    «Le sto visitando tutte» disse orgoglioso, Giosuè e fece l’elenco di quelle già viste, mentre la Chipa, di sasso, lo guardava come un alieno venuto dalle stelle e Ma Delfina, udendo quei nomi, dal suo antro gastronomico, dove stava rimescolando un ribollente paiolo, s’affacciò curiosa.

    «Ma che ci racconti Giosuè» esclamò la Chipa, in subbuglio «Pensavamo che tu fossi al giornale o a vedere la città, i suoi monumenti, i suoi mercati… Sei così religioso?»

    «No, affatto,», rispose serio Giosuè, «sono ateo. L’ateismo è nel DNA della famiglia.»

    «Ma guarda tu» esclamò ancora più sorpresa la Chipa, con l’eco di un voluminoso sospiro, emesso dall’emozionata Delfina. «Raccontaci, Giosuè, come sono possibili le due cose?»

    Giosuè non a disagio ma piuttosto incerto perché desideroso di dire cose che piacessero alla Chipa e a Ma Delfina, cominciò dal minuscolo Giosuè all’asilo col suo grembiulino, che diritto, orgoglioso, recitava la Bibbia e i profeti e li elencò alle due donne con la stessa serietà, con lo stesso impegno, con lo stessa voce tonante, con cui li recitava all’asilo, scioccando le due donne, stupite, da un Giosuè tanto inatteso, lo stesso Giosuè del Petaceo e del Cummenda, che le faceva sbellicare dalle risa.

    Poi Giosuè parlò di suor Edelberega. «Mi chiedevano in casa Che farai da grande? rispondevo L’antipapa e se ti sposi, chi sposerai? Una come Suor Edelberega E se non ci fosse? Allora Suor Edelberega"

    La Chipa era commossa. Il Giosuè biblico, solare l’aveva impressionata; lei, nella sua tuta da Clown, non meno provocante di un abito discinto, e Ma Delfina lo fissavano a bocca aperta.

    «Dovremmo noi frequentare più le chiese.» disse poi amara la Chipa.

    «Parla per te» la contraddisse Ma, «Io ci vado per quel che posso. Chi non ci va mai sei tu.»

    A quanto pareva era vero. La Chipa non frequentava la chiesa.

    Intanto la sera si stava chiudendo. Lo si capiva anche dal silenzio che saliva dalle strade, appena un borbottio lontano degli splendori e delle miserie della città, dei suoi asfalti molli che ancora eruttavano la loro nebbiosa calura, un silenzio che, diceva la Chipa, certe volte le faceva pensare che in quella operosa, vivace, variopinta città, tutti fossero morti.

    Ma Delfina si preparava a scendere. Era tardi e Giosuè disse che l’indomani sera le avrebbe divertite ancora con il Morbillo.

    «E’ molto più interessante la tua vita. Ci parlerai di te» disse la Chipa, baciandolo su una gota, dopo uno stesso bacio di Ma.

    Giosuè si ritirò pensando che in quella Chipa, c’era qualcosa di complesso, di profondo, qualcosa di sinceramente francescano: per la Chipa le scarpe erano uno strumento per camminare, la macchina, un mezzo per spostarsi, gli abiti qualcosa per ricoprirsi; non orologio d’oro, non collane, non gioielli, non vestiti lussuosi, che pur avrebbe potuto tranquillamente permettersi.

    Non la disperazione che tormenta uomini e donne quando vedono allo specchio le piccole rughe, i guasti della gravità. Lei non si massaggiava con un diluvio di creme e profumi, che a parere di Giosuè, avrebbero solo offuscato il suo

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