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Racconti dalla valle. Storie del quotidiano
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E-book287 pagine4 ore

Racconti dalla valle. Storie del quotidiano

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Info su questo ebook

Si tratta di storie nate dalla fatica del vivere, sorta di fotografie di anni, lavori, interessi e passioni di una realtà che ormai è ricordo, ma che ancora suggerisce riflessioni e simbologie da curare. I personaggi, nel loro destino sereno o drammatico, non nascondono la loro vulnerabilità e i loro disagi; l'autenticità di alcuni diventa segreto di bellezza per altri, e il pudore si accosta all'ipocrisia con l'intento di rendere i giorni meno pesanti. Il cielo osserva e non nasconde la sua comprensione. I luoghi, come le persone, sono cambiati; rimane inalterato il profilo placido del Monte Guglielmo seduto come a vegliare la valle. Il Mella scende indisturbato nel suo letto, e il Re scorre saltellando divertito alle gioie delle rondini e dei ragazzi che nella calura estiva apprezzano la sua frescura. Sul sagrato, le panchine hanno visto le generazioni avvicendarsi, e i bar hanno saputo accoglierle consolando le miserie di ognuno.

Tutto scorre, diceva il filosofo, lasciando una scia di umanità bisognosa di misericordia. L’ampio ventaglio delle situazioni coinvolge emotivamente anche grazie al fatto che sanno intrecciare vicende personali con la realtà, presentando vari filoni di riflessione, non solo letteraria, nella pluralità di connessioni con il contemporaneo in continui rimandi e sollecitazioni che toccano le nostre sensibilità in fatto di ecologia, senso del vivere, consapevolezza della storia e lucido sguardo sul futuro.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2019
ISBN9788831647502
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    Racconti dalla valle. Storie del quotidiano - Alessio Tanfoglio

    633/1941.

    Al bar di Bobo spagnöl

    Ancora all’inizio del duemila c’erano ben 9 tra osterie e bar a Inzino, paese che contava circa 4500 anime. Ognuno segnava zone e aggregazioni tipiche, del tipo: giovani adolescenti, anziani e uomini maturi, alpini e cacciatori, poi c’erano quelli che si riconoscevano nelle due fedi politiche opposte, e c’era il bar vicino al Santuario, e quello sulla provinciale al centro dell’abitato, oltre a quelli all’inizio e alla fine del paese che delimitavano il confine nord e sud del territorio. Naturalmente ogni bar aveva i propri affezionati frequentatori, anche se ognuno si sentiva libero di andare dove l’esigenza del momento lo indirizzava.

    Il bar Ginepro era stato costruito nel 1953 e dava l’ingresso sul sagrato della chiesa di quel paese sereno, paese della media Valle Trompia, dove il fiume Mella sembra scendere allegramente verso la città. Da subito venne etichettato come ‘èl bar dè la césa’, o ‘bar del preòst’, anche perché alle pareti dei due locali erano appesi crocifissi, madonne, cuori trafitti e santi di vario genere. Quelle immagini invece che invogliare i giovani ad entrare nel locale, per alcune stagioni sembrarono tenerli lontani. E pensare che don Remigio con quelle immagini sacre intendeva suggerire protezione, oltre che essere beneauguranti. Lui avrebbe voluto fossero, diciamo, una sorta di amuleti e simboli magici, ma non fu così, almeno nei primi due anni, e a più d’uno sembrava di entrare in un cenacolo, in una sala di catechismo.

    Quando nel 1962 la gestione passò a Nunzio Loparo, conosciuto da molti in paese come Bobo, Bobo spagnöl per via della sua passione per una morettina di Còrdoba, i ragazzi snobbarono le osterie e si fiondarono quasi tutti proprio al bar della chiesa. Nonostante la bella insegna all’ingresso, nessuno diceva andiamo al bar Ginepro, ma da subito era entrata in uso l’espressione amicale: "da Bobo spagnöl", e a Nunzio questo piaceva. Molti presero a frequentare il locale forse per via del juke-box e soprattutto della televisione, quella scatola nera, magica, che Bobo accendeva solo dalle 16 alle 21 (ultimo spettacolo: Carosello). Quella nuova invenzione tecnologica offriva spettacoli e informazioni sui fatti del mondo, un po’ come la radio, ma con le immagini che inorgoglivano la nostra curiosità. Anche il gruppo degli anziani seduti a giocare a carte nell’altra sala, quella dove c’era il bancone della mescita e ordinazioni, improvvisamente sembrava perdere interesse per la solita sfida, e si animava di vitalità quando Bobo accendeva il televisore. Pareva che anche loro tendessero le orecchie ai prodigi provenienti da quel portentoso cubo.

    In quegli orari la sala si riempiva di bambini, di donne, di giovani e anziani ognuno con i propri interessi e aspettative. Va anche detto che non si erano mai viste prima gambe di donne in un bar, e mai in quello sul sagrato. Ognuno si calamitava nella sala della tivù e si posizionava come meglio poteva perché tutti ambivano a sedersi in prima fila, e per tutta la durata della trasmissione restavano come assorti in una visione mistica. Finita la trasmissione tutti ritornavano alle loro consuetudini, chi alle carte, chi a giocare sul sagrato col pallone o con le figurine dei calciatori, chi semplicemente a discorrere dei fatti del paese, e le donne a casa a preparare la cena. In quelle poche ore di trasmissioni via etere qualcuno acquistava patatine, gelati, bibite o caffè; alcuni addirittura chiedevano pane e salame, altri porzioni di torte alle mele, la specialità di Bobo, come se si sentissero in famiglia, nella propria casa. A volte, ma raramente, alcune coppie facevano il loro ingresso nella sala tivù anche nel dopo cena, aspettando il programma dei quiz che dispensava informazioni e cultura gratis per tutti. Sembrava che quella ventata di novità e tecnologia avesse rinvigorito in tutti, attenzioni e speranze per un futuro migliore, e finalmente nuovi argomenti sostituirono quelli cari al chiacchiericcio quotidiano.

    Fu per merito di Bobo, il gigantesco barista ‘buono come il pane’ come si diceva in paese, se nel bar oltre ai santini e alla Madonna comparvero le gigantografie di cantanti e complessi musicali, oltre alla tivù e al juke-box. Grazie a Bobo spagnöl, chiamato dai suoi coscritti anche semplicemente Còrdoba, i giovani iniziarono a frequentare quelle due stanze. Difatti nel primo mese dal suo arrivo installò il juke-box con le canzoni già famose e i successi recenti, poi appese alle pareti della sala ‘dei gnàri’ anche poster di cantanti e complessi musicali. Ci fu una ventata come di rivoluzione; vicino al faccione di Claudio Villa comparve quello di Gianni Morandi, il viso tenero con gli occhi sognanti di Gian Pieretti, il poster dei Beatles, di Caterina Caselli, dei Rolling Stones che a dir la verità rivaleggiavano nelle discussioni, non sempre vincendo, con i partigiani dei Nomadi o dei Dik Dik, o anche dei Rokes. C’erano ben tre manifesti di Lucio Battisti a colori e in bianconero, su un’auto, in riva ad un lago e all’aperto in una piazza di paese. Morandi e Battisti erano i più gettonati e sembravano essere amati sia dai ragazzi che dalle adolescenti che si vedevano nel bar solo in rare occasioni, e sempre accompagnate da un fratello o da un fidanzatino, o dal gruppo di amici, ma mai sole.

    Tutte le immagini religiose vennero radunate nella sala dove campeggiava il bancone; gli habitué anziani si sentivano come protetti da quelle icone, a loro piaceva così. I giovani se ne stavano di là nella sala adiacente, quasi a proteggersi da una qualche malattia contagiosa.

    Bobo aveva lasciato un posto sicuro all’officina del Bitossi, con una paga niente male, oltre a vestiti sempre luridi e mani nere e callose, e si era ritrovato improvvisamente come in villeggiatura, sempre ben lavato e stirato, a servire bibite e caffè come se fosse in riviera o in una località turistica rinomata. A trentacinque anni aveva preferito accollarsi la gestione del bar invece che continuare la strada già tracciata anche dal papà e da quasi tutti gli amici.

    Alcuni anni dopo quella rivoluzione, era la settimana del Natale del 1970 o del 1971, e faceva freddo come non si era mai visto prima, nel bar stipato in ogni posto a sedere, e con altri in piedi tra fumi di sigarette e microbi ballerini felici di tutto quel sapore di festa, entrarono tre belle ragazze: Gisella, Catia e Michela, diciassettenni elettrificate e vaporose di sorrisi e sguardi limpidi. Impossibile non notarle. Era la prima volta che si vedevano nel bar di Bobo adolescenti non accompagnate.

    I quattro amici, Papio che di nome faceva Venanzio, Giuseppe Bépe sturdìt, Antonio Tone cohatù, e Armandino Cide spugna, oltre i soliti habitué del bar si voltarono a rimirare quelle meraviglie del creato, e per qualche secondo il tempo e il mondo per loro si fermò. Che splendore; tutto sembrò arrestarsi in religioso silenzio, e gli occhi dei presenti andavano e venivano senza riuscire a trovare un punto sicuro. La scena si illuminò di sorpresa e poi d’entusiasmo, almeno questo si leggeva sugli sguardi dei giovanotti che sembravano effettivamente incantati, rapiti da così tanta bellezza, e tutta in un colpo solo! Il tempo sembrò risucchiare in un solare spettacolo ogni cosa; l’apparizione di quelle dee calamitò pensieri e sguardi finché Gisella con decisione chiese un caffè, mentre Catia e Michela una Coca Cola e un’aranciata. Gisella si accese una sigaretta con fare sicuro e provocatorio, aspirò profondamente e dalle sue labbra rosse come ciliegie ne uscì una nuvola bianca di fumo che parve invadere lo spazio, e che si mescolò lentamente a quelle preesistenti, quasi a contrassegnare il territorio della sua presenza, come se con quella nuvolaglia bianca volesse dire ‘ci sono anch’io’. 

        Anche se si presentava come un duro, uno sicuro di sé, Bépe sturdìt era un ventiduenne timido, e verso le ragazze aveva sempre dimostrato grandi insicurezze, però davanti alle tre grazie, in particolare verso Gisella, sentiva una potente attrazione che gli saliva dal profondo e sembrava scaldare ogni suo nervo, ogni suo istinto. Lui non lo sapeva ancora, ma da lì a pochi mesi lei, Gisella, la sua divinità sarebbe diventata sua moglie. Quel buon ragazzo duro nei modi, ma dal cuore di pasta, si rivolse a Venanzio, ritenuto dal gruppo il più sveglio e sgamato, chiedendogli: Bella quella lì, sai chi è? Venanzio, esibendo uno sguardo che sembrava voler dimostrare un certo disinteresse, gli rispose: Non l’ho mai vista, ma mentre lo diceva appariva anche lui come gli altri, incantato. Accortosi dalle occhiate indagatrici di essere stato scoperto, Venanzio aggiunse: Però se ti piace fatti avanti, chiedile di dov’è e come si chiama, poi quel che sarà, sarà. Mentre regalava quel suggerimento, provò una leggera sensazione d’invidia perché avrebbe voluto essere lui a fare il passo. Guardò Bépe sturdit, con freddezza, ma vedendolo raggiante, come rapito in un dolce sogno, lasciò perdere ogni rincrescimento e bevve la sua bibita distogliendo gli occhi dalla scena. Bépe sturdit si sentiva come il primo giorno di scuola davanti alla maestra; troppa era la timidezza per quel passo che avrebbe potuto sprofondarlo nel ridicolo. Dopo una manciata di minuti tornò alla carica: Continua a guardarmi comunicò a Venanzio che con saggia calma gli intimò: Vacci, al massimo ti dice di no, ma Bépe insisteva, in evidente stato alterato dall’emozione: La me àrda, la me àrda, finché ad un certo punto Papio Venanzio, spazientito gli replicò, rivolgendosi anche agli amici vicini: E basta! Prendiamo un panettone; tu Bépe chiedi alla tua bella se vuole uscire con te, se lei accetta, il panettone lo paghi tu, in caso contrario lo paghiamo noi. Detto fatto. Fu così che si sentì autorizzato e si decise a fare il fatidico passo. Gli altri videro tutta la scena, con lui tutto rosso dalla vergogna e dall’emozione e lei che faceva la ritrosa, ma si capì subito che la sorpresa la eccitava. Piacere sono Bépe, e tu? Ciao, sono Gisella. Ti diverti qui? Si sentì preso in contropiede da quella domanda, non immaginando la familiarità e l’assenza di barriere nelle parole della sua dea. Ma non si lasciò scappare la situazione e prontamente rispose: Grazie a te e fulmineamente pensò che un’altra possibilità forse non gli sarebbe capitata mai, perciò aggiunse: Andiamo a fare un giro? Alla sua proposta la ragazza accettò lusingata. Uscirono raggianti e le due amiche iniziarono a parlottare fitto tra loro, come se volessero restarsene da sole, forse impacciate, e rimasero al bancone il tempo di bere le loro ordinazioni finché se ne uscirono senza troppo guardarsi attorno. Quella stessa sera i due piccioncini si rifugiarono nella 500 di Bépe, anche se poco confortevole, e nonostante tutto quel freddo scoccò la scintilla dell’amore. Oggi a distanza ormai di quarant’anni sono ancora insieme a dimostrazione che il colpo di fulmine esiste: tre figli e cinque nipotini, insomma: una famiglia felice.

    Venanzio, Tone cohatù e Cide spugna trascorsero la serata come le precedenti, a chiacchierare di calcio, di rigori negati e altre sciocchezze finché alla solita ora, ed erano circa le 23, pagarono le consumazioni e se ne tornarono a casa, ognuno incamminato su direzioni diverse in quel gelo che sembrava avere ucciso anche i rumori della notte. Fuori infatti era tutto silenzioso, con fili di stalattiti appiccicati alla recinzione della scuola e pendenti dai lampioni; forse la neve era vicina e il Natale anche quell’anno sarebbe stato imbiancato.

        A volte capitava che al bar giungesse qualcuno con un vassoio di pastine per festeggiare il compleanno o qualche avvenimento degno di essere solennizzato. In quelle situazioni il conto era assegnato a colui che aveva estratto lo stuzzicadenti più piccolo. In altre occasioni il debito del dolce o di una bottiglia di spumante, o del giro di pirlo e amari, veniva saldato dall’esito delle carte da gioco. Tutto avveniva nel contesto giocoso accettato da tutti, o quasi, perché si sa che la fortuna è cieca e nel suo giro finisce per accasarsi un po’ con tutti, e tutti prima o poi avranno a turno la sorte di essere i prescelti. La situazione diventava goliardica quando a saldare il conto toccava a colui che si conosceva per avere ‘il braccino corto’, come si dice, era cioè il più tirchio e il più restìo a pagare seppure sempre in prima fila all’atto dell’assaggio. Si trattava di Cesare Perillo conosciuto come él babà, che raramente si accompagnava ai quattro amici per evidente difetto di buonsenso. Succedeva infatti che al momento dell'estrazione dello stuzzicadenti, dopo aver bevuto e mangiato, proprio costui sostenesse: No, io non estraggo nessun bastoncino, al che il resto della compagnia stizzita chiedeva spiegazioni e lui rispondeva, con estrema imperturbabilità, candidamente: Perché sono sfortunato. Nonostante i rimbrotti dei presenti, Cesare restava inamovibile nella sua posizione costringendo il resto del gruppo che rumoreggiava, ad accettare il dato di fatto, e a non considerarlo per il pagamento del conto. Lo sopportavano anche perché sapeva avere, in certe occasioni, quella sfrontatezza che agli altri mancava e che faceva invece comodo a tutto il gruppo. A volte proferiva certe piccanti battute che stordivano per la sfrontatezza oltre che per il contenuto esplicito, pronte all’indirizzo di chiunque, anche verso il don, senza alcuno scrupolo. Per esempio: negli anni dell’austerity, era il 1973-74, la legge imponeva la chiusura di tutti i locali dalle ore 23.00 e a complicare la situazione la domenica non si poteva circolare con l’automobile, ma solo con i mezzi pubblici. La compagnia del bar prese l’abitudine di recarsi alla discoteca Living di Lumezzane, un locale dai soffitti bassi, con molti pilastri, forse uno scantinato arredato con bancone del bar e divanetti sparsi, immancabilmente intasato di fumo di sigarette. E pensare che né io né Venanzio amavamo ballare, anzi diciamo pure che ci andavamo solo per la compagnia, perché a ballare ci sentivamo come scimmioni disarticolati. Forse era per un eccesso di timidezza, o per senso di inadeguatezza, invero nessuno di noi due aveva dimestichezza con le ragazze. Quelle due ore di solito le trascorrevamo seduti sul divanetto o al bancone del bar a parlare dei personaggi che ci circondavano.

    Nel locale era sempre presente un certo Francis di Sarezzo che ricopriva, con una certa disinvoltura e successo con le ragazze, il ruolo di public relation. Era stato scelto dal proprietario tra una decina di altri giovani della zona proprio per la sua avvenenza fisica e i lunghi capelli scuri. Forse lo scelse anche perché aveva un qualcosa di androgino, diciamo: una certa inclinazione che in quegli anni sembrava essere alla moda. Quando all’ingresso del locale Tone cohatù incrociava lo sguardo di Venanzio, si toccava l’orecchio destro esibendo un risolino di derisione, ma Venanzio non lo seguiva su quel terreno, lui così lontano dai pregiudizi, e lasciava cadere le battute volgari che ne seguivano. Questo Francis oltre a movenze femminili aveva un sorriso aperto e sincero che metteva a proprio agio gli avventori. Si presentava sempre ‘in tiro’, capelli a posto e ben vestito, e questo per il proprietario del locale era segno di attaccamento al proprio lavoro e poi, probabilmente tra sé pensava che avrebbe attirato ancora di più il gentil sesso. Era un giovanotto alto, capelli sulle spalle (da dietro lo si sarebbe scambiato per una ragazza), smilzo, con movenze da ballerino; nella camminata sembrava spostare avanti e indietro le spalle come in un contrappeso, o uno stile di danza moderna. Quella sua andatura era caratteristica e se alcuni ragazzotti presero a sbertucciarlo, nel giro di poche settimane altri presero ad imitarlo. Va però detto che se per molti quel portamento sembrava ridicolo, sulle ragazze faceva presa. Non erano poche quelle che parevano essere invaghite dei suoi occhi dolci e i suoi modi gentili. Io, che alcune volte mi aggregavo alla compagnia invece che restare al bar con i soliti quattro vecchi del paese, o a casa ad aspettare Livia che invece preferiva altre compagnie, lo osservavo in quella scena che spesso mi sembrava lui percepisse come il set di un film. Teneva la testa sempre alta, col mento proteso verso una direzione precisa, e non dava alcun segno di indecisione. Erano molte le ragazze che lo avvicinavano e spesso, diceva a noi in confidenza, con le scuse più sciocche solo per avere un momento della sua attenzione, una parola, un suo sorriso. Le più disinibite gli chiedevano il nome e il numero di telefono per un appuntamento. Cesare lo prendeva immancabilmente in giro, apostrofandolo senza alcuna titubanza con epiteti nient’affatto gentili; ‘semiott’ era il più utilizzato e ad esso seguivano: principe delle cagne, adone come én struh, e altre volgarità che è meglio tacere. Ma non era per invidia, perché anche Cesare aveva la fila di sue ammiratrici e sovente si fermava con alcune di loro e non ritornava a casa in nostra compagnia. Il giorno dopo, al bar di Bobo ci raccontava senza vergogna le sue avventure. Stavo dicendo della sua sfrontatezza, sentite un po’.

    La divisa di Francis erano calzoni bianchi con la zampa d’elefante, secondo la moda di quegli anni, e la camicia nera o in alternativa blu scuro ben aperta fino alla fine dello sterno a mettere in mostra una peluria nera che sembrava attirare gli sguardi delle ragazze. Amava mostrarsi, per questo non si lasciava sfuggire alcuna situazione in cui potesse atteggiarsi a divo. Gli piaceva ballare i lenti con belle e meno belle, spudorate o timide che fossero, per questo si creò varie inimicizie tra i ragazzi che frequentavano il locale, che si ritrovavano spesso ‘a bocca asciutta’. Quell’adone si buttava nella mischia con la sicurezza tipica di chi sa del fatto suo, anche se i suoi modi di fare e il suo abbigliamento non avessero mai fatto prevedere un atteggiamento eccessivo. Una domenica, ad accettare il suo invito, fu una prosperosa ragazza del luogo che sembrava la più Venere di quel pomeriggio; lei gli si avvinghiò stretta stretta. Dopo un lungo ballo lento, mentre ritornava a sedere al divanetto dove eravamo stravaccati Venanzio e io, e Cesare in una pausa del suo ballo, fu proprio Cesare che a voce alta gli fece notare i calzoni macchiati proprio dove c’era la tasca sinistra. Gli disse senza preamboli: Ti sei fatto la pipì addosso? Non hai messo il pannolino oggi? Francis diventò rosso per la vergogna e accortosi degli sguardi e dei sorrisi dei vicini, imbarazzatissimo si diresse come una scheggia al bagno, dal quale uscì senza farsi notare. Per il resto del pomeriggio non lo si vide più in sala, e il campo rimase libero per coloro che cercavano nuove conoscenze o nuovi amori. Quando la domenica successiva Venanzio e gli altri lo rividero, io ero rimasto a studiare a casa, mi raccontarono che alla loro domanda sul dove fosse finito nel resto del pomeriggio, lui rispose che era stato con la sua fan, la ragazza con cui ballava, e che poi l’aveva anche accompagnata a casa, non prima di essersi appartati nella stradina del camposanto, che tutti sapevamo essere poco illuminata e fuori dal paese. Ho chiuso in bellezza disse loro, mostrando la panoramica dei suoi denti ingialliti dalle sigarette. Non c’era Cesare in quella situazione, e nessuno aggiunse ironie.

    Quel locale che era freddo e molto umido; a me non è mai piaciuto, e poi il frastuono aumentava con il passare delle ore. Le ragazze sembrava facessero a gara per provocare assumendo movenze particolari che ammiccavano accennando a pose erotico-sessuali; alcune di loro erano oltretutto poco vestite in quell’aperto salone poco illuminato da luci colorate. Però ce n’erano molte di veramente belle, da perderci il sonno. Io mi sentivo a disagio, osservato come una preda da sguardi che sembravano attraversarmi e che mi facevano sentire in imbarazzo. No, non era il mio ambiente. Quasi tutti avevano in mano bicchieri di bevande alcoliche e sigarette, e sembravano tutti felici visto che ridevano e parlavano ad alto volume senza però coprire il fracasso eccessivo della musica; c’era putiferio di gente che andava e veniva muovendosi in tutte le direzioni, caos ingovernabile con schiamazzi e coppie adagiate sui divanetti che cercavano di trovare sfogo ad una parvenza d’intimità. Sembrava di essere allo stadio, ma nelle situazioni peggiori.

    Durante la settimana, complice la scuola per alcuni e il lavoro per altri, solo saltuariamente la compagnia di Venanzio si ritrovava al bar di Bobo spagnöl e di solito per poco, la sera dopo cena. Con la bella stagione, quando il bar scoppiava e non c’era posto a sedere né dentro né fuori, ai due tavolini sistemati sotto il grande e frondoso noce, Armandino detto Cide spugna, si sedeva su una delle tre panchine in cemento poste sul marciapiede, al bordo della strada di terra polverosa. Vi restava poco però, perché iniziava a tossire nel respirare quella limatura pietrosa; in quei pomeriggi afosi, il calore che si sollevava da terra era insopportabile per cui rientrava nel bar e si metteva seduto al primo tavolino libero. Era un tipo simpatico che però parlava poco, per questo non seppe legare con alcun gruppetto seppure si accompagnasse a volte con Venanzio e con me. In quel periodo della mia vita spesso ero taciturno, guardavo e basta, incapace d’intavolare discorsi o giudizi di alcun genere. Ero un giovane tranquillo, sapevo stare in silenzio, spesso per ore e giorni interi, e intanto guardavo tutti, la gente e il mondo, senza sapere pensare niente, senza riuscire a farmi una qualsiasi opinione. A dirla tutta non mi dispiaceva ascoltare, infatti spiaccicavo quasi solo due parole al giorno: si, no, grazie, prego, ciao, e poco altro. Guardavo come si sta alla finestra, quasi senza rendermi conto che immagazzinavo informazioni, non immaginando che la mia testolina le selezionava indirizzandole in argomenti collocati in cartelle prestabilite. Per quale scopo poi, ancora non lo sapevo. Non sapevo ancora a cosa mi sarebbero servite quelle informazioni; quello che mi era chiaro stava nella sensazione di precarietà, d’inutilità di tutto, ma senza alcuna idea di dramma o di sventura. Guardavo con l’idea che era bello, seppure inutile, osservare la sfilata di gente e vita davanti ai miei occhi, anche se ancora non ero pronto per pensare a tutti i perché delle cose. Ne avevo parlato con Venanzio, ma lui invece sembrava sapesse tutto, e in ogni situazione si faceva trovare pronto, come se la vita l’avesse già vissuta.

    Capitava che in certi pomeriggi di tedio domenicale, mi accompagnassi con Cide spugna senza che ci scambiassimo molte parole, ma così, solo per non stare soli nella passeggiata. Io non gli ho mai chiesto perché mi venisse appresso, e nemmeno lui mi chiese mai perché lo accompagnassi nei suoi giri storti per il paese; per me era una situazione che aveva il sapore della solidarietà, e questo è tutto. Bastava che al bar uno dei due dicesse: "Nòm?" e l’altro rispondeva affermativamente allo stesso modo. Ricordo che lo consideravo sfortunato per via della gamba più piccola che si era ritrovato fin da piccolo, e che lo faceva zoppicare, anche se nel campo dell’oratorio sapeva ugualmente giocare e difendersi col pallone.

    Cide aveva quindici anni, uno meno di me che avevo pochi mesi in meno di Venanzio e Tone cohatù. Aveva un aspetto gracile, una voce garbata che ricordava un’alba serena dopo una notte di temporali. Porgeva le parole con un’inflessione esile come il volo di una piuma, ma ricca d’ingenui disegni, come se chiedesse incoraggiamento e affetto. Vestiva con abiti consumati e fuori taglia, o esageratamente larghi o troppo stretti a fasciare quel corpicino smilzo, abiti acquisiti dai fratelli più grandi di lui, Lavinio e Lando, o prestati dal più giovane Lelio che aveva tredici anni. Cide non dava fastidio a nessuno, per questo quasi tutti lo calcolavano meno di niente, tranne quando c’era qualche scommessa e servivano puntate, o quando si trattava di riempire una seconda macchina per andare alla discoteca di Lumezzane o di Marcheno, oppure al ‘Blu note’ di Brescia. Lui però gradiva essere partecipe di un qualche progetto, qualunque fosse, ma senza mettersi in mostra. Di solito si accodava alla compagnia, con Venanzio che sembrava averlo in simpatia e spesso gli dimostrava protezione, come si fa con un fratello piccolo o un uccellino caduto fuori dal nido. Cide lo percepiva come un capo perché sembrava sapesse sempre il fatto suo, e poi gli era anche simpatico e probabilmente la sua presenza lo rassicurava. Infatti

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