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L’oscurità della luce
L’oscurità della luce
L’oscurità della luce
E-book389 pagine5 ore

L’oscurità della luce

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Info su questo ebook

Ember Brycin ha sempre saputo di essere diversa, tuttavia, dopo il brutale assassinio della madre, inizia a vedere cose che non dovrebbero esistere e inizia a credere di essere a un passo dalla follia.
Accusata di aver provocato un incendio a scuola, viene mandata in un istituto per giovani in difficoltà, dove incontra Eli Dragen, un cattivo ragazzo da cui si sente subito attratta.
Poco alla volta, i due creano un legame passionale, pericoloso e pieno di segreti che arriveranno a sconvolgere ancora di più la vita di Ember, conducendola su una strada inimmaginabile.
Ember scopre non solo di essere una pedina fondamentale nella guerra fra i Fae, ma anche un altro mondo dove luce e oscurità si fondono, nel quale nulla è ciò che sembra.
Del tutto sola e senza la possibilità di fidarsi di nessuno, riuscirà Ember a prendere in mano le redini del suo destino?
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2021
ISBN9788855312905
L’oscurità della luce
Autore

Stacey Marie Brown

Stacey Marie Brown is a lover of hot fictional bad boys and heroines who kick butt. Books, travel, TV series, hiking, writing, design, and archery. Swears she is part gypsy, being lucky enough to live and travel all over the world.She grew up in Northern California, where she ran around on her family’s farm, raising animals, riding horses, playing flashlight tag, and turning hay bales into cool forts. Has always been fascinated by things dark and creepy, but needs to be balanced by humor and romance. She believes that all animals, people and the planet should be treated kindly.

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    Anteprima del libro

    L’oscurità della luce - Stacey Marie Brown

    Capitolo 1

    Che casino terrificante si era rivelata quella notte. Non volevo neppure andare, ma avevo perso una scommessa con Ryan. Si trattava solo di una notte. Uno stupido ballo. Cosa sarebbe potuto accadere di così brutto?

    Non sono sempre quelle le ultime parole famose?

    Ispezionai con lo sguardo la palestra addobbata. Cartonati ridicoli e festoni di carta penzolavano dal soffitto. Palloncini rossi e blu ed enormi maschere di cartapesta avrebbero dovuto coprire i canestri e le mascotte della scuola dipinte sulle pareti. Non miglioravano affatto l’aspetto della palestra, né camuffavano il leggero odore di sudore e calzini sporchi.

    «Credevate davvero che sarebbe stato divertente?» Guardai i miei due amici, Ryan e Kennedy.

    Ryan fece spallucce. «È il nostro ultimo anno. Abbiamo pensato di dover venire ad almeno una di queste cose.»

    «E adesso vi state pentendo della vostra stessa idea, non è così?» Incrociai le braccia sul petto, mentre un ghigno beffardo aleggiava sulle mie labbra. Si trasformò rapidamente in una smorfia quando la musica di sottofondo cambiò in un’odiosa canzone pop.

    «Eh, già» ammise Ryan con un sospiro profondo.

    «Forza, ragazzi, cerchiamo di sfruttare l’occasione. Ci siamo agghindati per le feste.» La voce calma di Kennedy mi arrivò a malapena. Era decisamente da lei cercare sempre di trovare un lato positivo in tutto.

    Kennedy non era il genere di ragazza che si faceva notare, men che meno dai ragazzi della scuola. Quanto a me, riuscivo a vedere la bellezza nella sua pelle di porcellana. Ryan diceva sempre che Kennedy era la dolce, io quella salata e lui la spezia. Eravamo amici dai tempi delle medie, quando le persone iniziano a dividersi in fighi e sfigati. Non credo ci sia bisogno di precisare in quale categoria fossimo finiti noi.

    «Vi prometto che se riusciamo ad andarcene inizierò a indossare i pantaloni della tuta con i fronzoli, se ci tenete tanto» dissi io.

    «Prima di tutto, la probabilità che tu possieda un capo d’abbigliamento con sopra dei fronzoli è pari a zero. E in secondo luogo, se davvero possedessi dei pantaloni della tuta con dei fronzoli saresti stata capacissima di indossarli stasera» rispose Kennedy, sistemandosi gli occhiali sul naso.

    «Vero» annuii.

    «Vi va qualcosa da bere?» Ryan fece un cenno in direzione del secchiello porta bibite.

    Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Lo stupendo Ben Harris era fermo tra le persone in coda. Non ero la tipa da prendersi una cotta per il bellone di turno, ma Ben era diverso. Ci eravamo seduti vicini in classe, e avevo imparato a conoscerlo.

    «Ci penso io» mi affrettai a rispondere.

    «Ah, ah!» Ryan sogghignò. «Ci avrei giurato.»

    «Come?» Mi sforzai di sembrare innocente. Non funzionò. Mi conoscevano troppo bene. «Siamo solo amici.»

    «Ah, ah, come no» fecero loro all’unisono.

    Li zittii con un gesto della mano e mi incamminai verso lo stand del rinfresco. «Va be’.»

    Rimasi in piedi alle spalle di Ben per qualche secondo, per prendere coraggio, prima di dargli un colpetto sulla spalla. Sorrisi. «Ehi.»

    Il viso di Ben si illuminò nel vedermi. «Ember.» Il suo sorriso mi provocò uno strano senso di vertigine misto a nausea. «Non sapevo che avessi in programma di venire anche tu. Non avevi detto che di solito non partecipavi a queste cose?»

    Scrollai le spalle. «Ho perso una scommessa.»

    «Be’, sono felice che tu l’abbia persa.» I suoi occhi scivolarono lungo il mio corpo. «Stai bene... voglio dire, sei bella.»

    Non ero abituata ai complimenti, specialmente da parte di ragazzi carini e popolari. Distolsi lo sguardo e intrecciai le dita delle mani, iniziando a torcerle nervosamente. «Ehm... G-gr-grazie. Altrettanto. Intendo dire... anche tu... stai bene vestito così, intendo.»

    Ed ecco la fine che aveva fatto tutto lo strabiliante coraggio che avevo intenzione di tirare fuori. Andato a farsi benedire.

    Lui sorrise. «Grazie. Che ne diresti di un ba...»

    «Ben. Eccoti qui» Kallie Parson si intromise parandosi di fronte a me. Aveva tutte le caratteristiche della perfetta cheerleader: alta, bionda e bella. Non si faceva problemi a mostrare il corpo perfetto in un vestito blu, attillato e scintillante.

    «Sei desiderato immediatamente alla console del dj per l’annuncio della Coppia Cupido di San Valentino.»

    Ben mi lanciò un’occhiata, poi guardò di nuovo Kallie.

    «Va’, tesorino. Muoviti!» Lo spinse via in direzione del palco.

    Alla fine, lui annuì. «Ci vediamo più tardi, Em.» Poi si voltò e scomparve tra la folla.

    Kallie si voltò di scatto e prese atto della mia presenza. I suoi occhi indugiarono su di me e mi squadrarono da capo a piedi prima di atterrare sulla mia faccia. Poi, scoppiò a ridere. «Oh, ma che tenera! Pensi di piacergli... Il belloccio della scuola che si invaghisce della ragazza stramba e incompresa.»

    Mi stava con il fiato sul collo da mesi. Quando io e Ben eravamo stati selezionati per svolgere in coppia un compito assegnato durante la lezione di inglese, era diventato un assalto continuo, fatto di scherzi crudeli e abusi verbali.

    Ben era magnifico e all’apice della catena alimentare nella nostra scuola. Era la star della nostra squadra di pallacanestro, e il sogno bagnato di ogni ragazza. Ogni giorno, Kallie cercava di reclamarlo per sé. Dopo che per anni lo avevo creduto il classico tipo snob e pieno di soldi, si era rivelato davvero gentile e persino timido. Più entravamo in confidenza, più Kallie si faceva determinata a prenderselo e a togliermi di mezzo.

    Scossi la testa. «Wow. Così palesemente triste.»

    «Tu mi stai dicendo che sono triste? Dovresti guardarti allo specchio» rispose Kallie con occhi infuocati. «Non sapevo che streghe e scherzi della natura fossero ammessi ai balli scolastici. Non è contro la vostra religione pagana, o qualcosa di simile?»

    Non era la prima volta che mi venivano rivolti commenti su scope, gatti neri o altri cliché sulle streghe. Con il mio aspetto anomalo e le cose strane che capitavano intorno a me, frecciatine e insulti erano la norma. «Hai una vaga idea di ciò di cui stai parlando, o il tuo vestito ti ha strizzato via anche gli ultimi neuroni superstiti?»

    Kallie si fece più vicina. «Gelosa? Non prendertela con me se il tuo vestito sembra un indumento di seconda mano recuperato dai cassonetti di un Walmart.»

    Strinsi i denti. Non dovevo dargliela vinta.

    «Allora, perché non te ne vai a giocare con la tavola Ouija insieme alla signorina Nessuno e al Teletubby gay laggiù?»

    La mia rabbia repressa stava aumentando sempre di più. Tormentare me era una cosa, ma guai a toccare i miei amici. L’ira che normalmente cercavo di tenere al guinzaglio iniziò a liberarsi. L’oscurità che abitava nel profondo dentro di me e che nascondevo agli occhi del mondo sollevò la testa. Cercava di trovare una breccia nella prigione in cui era rinchiusa, come un mostro che non riuscissi a controllare. «Senti, posso piacerti o non piacerti, non mi interessa. Ma non permetterti di parlare dei miei amici in quel modo.»

    «Altrimenti cosa farai? Mi colpirai con la tua magia vudù?» Il tono era divertito, ma nel suo sorriso c’era una sfumatura di paura. Aveva paura di me. La maggior parte della scuola ne aveva.

    Un’ondata di emozione incontrollata mi attanagliò. Sentii un crepitio dall’alto. Un’unica scintilla cadde dal soffitto. La furia viscerale che sentivo era la sola cosa su cui riuscivo a concentrarmi. «Sta’ zitta.» La mia voce si fece strada fra i denti stretti. «Non sai niente di me.»

    «So che ti illudi di piacere sul serio alla gente» mi schernì Kallie. «E i tuoi amici sono tanto strambi e insignificanti quanto te.»

    La rabbia che ribolliva si liberò, catapultandosi fuori da ogni cellula del mio corpo. «Ascoltami bene, stronza di una sciacquetta anoressica...»

    Le lampadine sopra la mia testa iniziarono a scoppiettare, soffocando il resto delle mie parole. Kallie gridò mentre scintille e schegge di vetro ci piovevano addosso. Studenti e insegnanti cercarono riparo dalla cascata di detriti. Le luci sfarfallarono, creando un effetto stroboscopico all’interno della palestra.

    Poi, tutto saltò in aria.

    Mi guardai intorno, scioccata, mentre la carta crespa e le decorazioni di cartone si trasformavano in palle di fuoco, per poi disintegrarsi in cenere mentre cadevano sul pavimento. I palloncini scoppiettarono come mitragliatrici. Vetro e metallo fischiavano e gemevano, crepandosi a causa della pressione. Il caos prese il sopravvento su ordine e razionalità. Tutti urlavano e correvano in ogni direzione. Suoni e movimenti mi arrivavano così attutiti, era come se ci fosse una parete di vetro tra me e tutti gli altri.

    Le persone mi spintonavano, facendomi perdere l’equilibrio. La parte posteriore delle mie gambe si scontrò con una sedia capovolta e ruzzolai a terra, scaricando il peso del corpo su gomiti e schiena. Il dolore schizzò lungo la spina dorsale, propagandosi nelle braccia. Gli studenti scalciavano e inciampavano su di me mentre si precipitavano fuori dalla palestra. Mi rannicchiai in una posizione di protezione per ammortizzare quella mandria scalpitante, e i miei occhi colsero un bagliore di luce riflessa.

    La palla da discoteca si sganciò dal supporto. Cadde e si schiantò al suolo con un boato tuonante, frantumandosi in mille pezzi. Frammenti di specchio volarono come missili. Un dolore acuto mi attraversò la fronte. Sangue tiepido sgorgò dal taglio e colò lungo un lato del viso. Mi coprii la testa per proteggermi dai piccoli pezzi di vetro e plastica che schizzavano nella mia direzione mentre i detriti si schiantavano al suolo.

    Capitolo 2

    Il suono delle sirene dei camion dei pompieri riecheggiava in lontananza. Vetri rotti e detriti vari mi si erano conficcati nelle braccia e nelle gambe mentre giacevo scomposta sul pavimento della palestra. Gemetti, mi tirai a sedere e diedi uno sguardo intorno. La palestra era vuota. Tutti, insegnanti e accompagnatori compresi, erano spariti.

    Impaurita, mi costrinsi ad alzarmi in piedi. Lanciai un’occhiata a ciò che restava del Ballo in maschera di Mezzanotte. Probabilmente, mi sarei dovuta sentire più dispiaciuta al pensiero che il ballo era stato rovinato. Non lo ero. Ciò che davvero mi preoccupava nel profondo delle mie ossa ammaccate era il fatto che in qualche modo sentivo che la colpa dell’accaduto era mia. Non avevo idea di come o perché lo sapessi, ma era così. Non era la prima volta che accadeva una cosa del genere.

    Zoppicai lentamente verso le porte della palestra. Il mio corpo, e in particolare la schiena, faceva male come se qualcuno mi avesse scaraventata giù da un burrone per poi calpestarmi. Dolorante e coperta di sangue, mi trascinai fuori. La folla di studenti si raccolse in gruppi, proprio mentre ambulanze e camion dei pompieri frenavano bruscamente fermandosi di fronte a me. Mi ritrassi dalle vorticose girandole rosse e blu delle luci d’emergenza.

    «Sta bene, signorina?» Una donna con la divisa da soccorritore si mise davanti a me. La fissai. Il bagliore ripetitivo e intermittente delle luci aumentava il mio mal di testa.

    «Signorina, sta bene? Vediamo di dare una controllata. Questi tagli sembrano profondi.» Mi prese per un braccio e mi condusse verso il retro dell’ambulanza. Dovevo trovare Ryan e Kennedy. Sapevo che erano preoccupati, ma il sangue che mi colava negli occhi mi convinse a rimanere dov’ero.

    La soccorritrice era impegnata a disinfettare e applicare delle garze, quando sentii una voce profonda fuoriuscire dall’oscurità. Riconobbi subito la figura che camminava verso di me. «Merda» mormorai. Non c’era nessuna via di fuga.

    «Signorina Brycin» esordì il preside Mitchell mentre si avvicinava. «Posso parlarle?» Non era una domanda, e nemmeno un’opzione. Annuii, suscitando il fastidio della soccorritrice che stava ancora cercando di posizionarmi una garza sulla fronte. Bendò il taglio alla bell’e meglio e mi rivolse un cenno per farmi capire che ero libera di andare.

    Mi avvicinai circospetta all’uomo alto e imponente la cui sagoma torreggiava su di me. «Allora, signorina Brycin, potrebbe spiegarmi come mai la scuola è esplosa, e ancora una volta sembra esserci di mezzo lei?»

    «I-io non so di cosa stia parlando, signore.»

    «Oh, io credo di sì.» Mi guardò come se si aspettasse che tirassi fuori una bomba dalla tasca, magari svelando i miei piani malvagi e accompagnando il tutto con una risata sinistra, come nel peggiore dei cliché. Il mio stomaco sprofondò. Pensare certe cose di me stessa era una cosa, ma venire esplicitamente accusata era un altro paio di maniche. Ricambiai il suo sguardo e cercai di impedire alla mia espressione di svelare il turbamento che provavo.

    «Crede davvero che io c’entri con questo?»

    «È ciò che ho in mente di scoprire» rispose lui. «Quando si sono verificati i primi incidenti, ho ingenuamente pensato che fossero da attribuire a combinazioni e coincidenze. Quei giorni sono acqua passata.» Lanciò un’occhiata alle sue spalle e fece cenno a qualcuno di avanzare. «Lo sceriffo Weiss avrebbe piacere di interrogarla di nuovo, signorina Brycin.»

    I miei organi interni parvero collassare. Lo sceriffo Weiss era stato convocato per ogni incidente che si era verificato fino a quel momento. Lui, insieme al preside Mitchell, era convinto che ci fosse il mio zampino nelle esplosioni elettriche della scuola, ed erano determinati a trovarne la prova e consegnarmela direttamente alla porta di casa. Non piacevo un granché a nessuno dei due. La cosa era reciproca.

    Un sorrisetto beffardo assottigliò le labbra dello sceriffo mentre si faceva avanti. Non era un uomo imponente, ma i lineamenti affilati, i capelli grigi e la postura rigida lo rendevano minaccioso. Aveva una filosofia di vita molto spiccia, del tipo preferirei-buttarti-prima-in-cella-e-farti-le-domande-dopo.

    «Dunque, signorina Brycin, cosa può dirmi sull’esplosione, stavolta?»

    «Non so se la chiamerei esplosione.»

    «Oh, ma davvero? E allora come la chiamerebbe?»

    «Un blackout più lungo del solito?»

    Proprio come avevo previsto, non parve apprezzare il mio senso dell’umorismo, che anzi sembrò irritarlo ancora di più. «Lo trova divertente, signorina Brycin?»

    «No, per nulla, signore.»

    «Verrà fatto un sopralluogo per controllare l’impianto elettrico dell’edificio, e se ci sarà il benché minimo sospetto che qualcuno lo abbia manomesso, lei sarà la prima persona che verrò a cercare. Intesi?» La sua voce era gelida e severa. Per tutta risposta, annuii rapidamente.

    Gli studenti si stavano radunando intorno a noi e sembravano intenti a origliare, gli occhi che si spalancavano mentre osservavano gli sviluppi del dramma. Rabbia e imbarazzo surriscaldarono il mio corpo. Non mi ero neppure avvicinata al maledetto impianto e alla centralina delle luci. Non sapevo nulla di come si facesse a manometterle, quindi perché mi stavano trattando come una criminale? E, ancora peggio, perché mi sentivo come se lo fossi sul serio? Per la maggior parte della mia esistenza avevo vissuto fingendo di essere normale e che non stessi lentamente impazzendo. Il velo si stava assottigliando. Alle fine, forse mi aveva del tutto dato di volta il cervello e una delle mie personalità multiple era una ginnasta funambola con una laurea in ingegneria elettrica.

    «Convocherò il suo patrigno e domani il preside Mitchell ed io conferiremo con tutti e due alla stazione di polizia. Non avrei dovuto aspettare così tanto. Stavolta troverò le prove, signorina Brycin. La inchioderemo.»

    Deglutii nervosamente. Capivo quanto fosse serio e intenzionato a mantenere la parola. Si allontanò, lasciandomi in piedi circondata da quei pettegoli dei miei compagni di classe. Dovevo andarmene. Mi incamminai nella direzione opposta, cercando di fuggire a tutti quegli occhi inquisitori.

    Sperando di non essere vista, scivolai sul retro della palestra e mi immersi tra le ombre scure. Volevo tornare a casa e strisciare sotto le lenzuola per sentirmi al sicuro in camera mia. Per sapere che il mio patrigno, Mark, sarebbe stato lì per proteggermi. Mi mancavano i giorni in cui ero piccola e Mark mi teneva al sicuro da mostri e uomini cattivi. In qualche modo, sapevo che quegli incidenti non erano qualcosa da cui lui avrebbe potuto proteggermi.

    Proprio in quel momento, una figura oscura con penetranti occhi blu scivolò tra le ombre ed emerse dal buio. Mi irrigidii: la familiarità di quegli occhi mi aveva smosso qualcosa nel profondo. No, non adesso! Strizzai le palpebre. Non è reale. Non è reale, cantilenai tra me e me. Non è proprio questo il momento di impazzire del tutto. Aprii gli occhi e mi si torsero le budella. La figura era ancora lì, gli occhi fissi nei miei, come in attesa. Poi, gli occhi si dissolsero.

    Per anni avevo sentito voci e visto cose che non sarebbero dovute esistere. Ma non erano reali. Non potevano esserlo. Era soltanto la mia mente che continuava a dimostrarmi che mi mancava qualche rotella. Stavo per voltarmi e andarmene, quando sentii una risata profonda rimbalzare sulle pareti.

    «Ember.» Il mio nome lambì le superfici che mi circondavano, e il mio stomaco si contorse mentre cercavo di trovare l’origine del sussurro.

    «Chi è?»

    Una risata turbinò nell’aria mentre una figura sfocata emergeva dalle ombre profonde. Solo gli intensi occhi blu apparivano nitidi. Si mosse lentamente verso di me con lo sguardo che arpionava il mio, provocandomi una stretta al petto.

    «Cinaed» sussurrò. La sua voce era bassa e roca. Non capii cosa avesse detto, ma c’era qualcosa di stranamente familiare in quella parola e nella sua bella voce, come se provenissero da un sogno. «Finalmente.» Avanzò attraverso l’oscurità, avvicinandosi rapidamente.

    La paura mi inchiodò i piedi al suolo. Anche se era proprio davanti a me, i miei occhi non riuscivano a capire o distinguere i contorni della sua figura. Era come se non esistesse del tutto. Mi concentrai sull’unica parte nitida del suo corpo: gli occhi di quel blu irreale. Senza dire una parola, si fece ancora più vicino, mentre il suo sguardo non si staccava dal mio.

    «È da un po’ che ti tengo d’occhio» disse. «Sei diventata una bellissima donna.»

    «C-chi s-sei?»

    «Sarebbe meglio che rivolgessi questa domanda a te stessa.» Un sorriso lento si allargò sulle sue labbra. «Devi smetterla di chiudermi fuori dalla tua mente.» Il suo respiro strisciò lungo il mio collo e mi fece formicolare tutto il corpo. «Somigli così tanto a tua madre.»

    «C-come fai a conoscere mia madre?» La domanda uscì dalla mia bocca prima ancora di rendermene conto. La sua osservazione sembrava alquanto strana, dato che sapevo benissimo di non somigliare affatto a mia madre. Forse avevo preso da lei in quanto a personalità, ma ero sempre stata convinta di aver ereditato l’aspetto del mio padre biologico.

    Mia madre era minuta, con una corporatura piccola e formosa, folti e lunghi capelli color castano ramato e scintillanti occhi marroni screziati di arancione. Io, invece, ero alta quasi un metro e settantacinque, e più atletica che formosa.

    L’unica cosa che avevo preso da mia madre erano i capelli folti, ma i miei erano nero corvino, scalati e mi arrivavano a più di metà schiena; e, fin dalla nascita, ciocche rosso scuro striavano la mia chioma. Tutti erano convinti che fossi stata io a tingerle e glielo lasciavo credere. Alla fine, mi ero stancata di spiegare che si trattava di una stramberia dei miei geni.

    Erano però i miei occhi ad attirare di più l’attenzione, ma non nel senso che avrei desiderato. Non solo erano grandi e prominenti, ma ero una di quelle rare persone con le iridi di diverso colore, e non si trattava neppure di colori ordinari. Una era di uno strano colore giallo-verde acceso, e si illuminava come l’occhio di un gatto, l’altra era di una pallida tonalità lavanda, cerchiata di viola e blu elettrico. Entrambi carini... separatamente. Insieme sulla stessa faccia attiravano occhiate e commenti perplessi.

    Quanto amavo i commenti. Come se non sapessi che i miei occhi erano di colori diversi. Uno di questi giorni avrei risposto con: Oh, ma è imbarazzante. Sono di nuovo uscita di casa con gli occhi spaiati? Con il mio incarnato pallido, i capelli neri a strisce rosse, gli occhi eterocromi e la mia statura, non avevo speranze di passare inosservata.

    «So molte cose di te.» La sua figura sfocata si avvicinò ancora. «Sei destinata a stare insieme a me. Non puoi combattere ciò che sei veramente, mo chuisle mo chroi.» La sua voce era così bella che avrei voluto chiudere gli occhi e fluttuare in essa, lasciando che mi portasse via. «Tu non sei come loro, Ember. Il tuo cuore e la tua mente lo sanno. Devi solo accettarlo.» Mi studiò per un istante, prima di continuare. «Sto rischiando grosso presentandomi a te così, ma stanotte dovevo assolutamente vederti. Sta diventando sempre più difficile tenerti nascosta da lei. Presto, quando finalmente diverrai chi sei, non sarò più capace di tenerti segreta. Voglio che tu sia preparata.»

    «Nascondermi da chi? Di cosa stai parlando?»

    «Em?» La voce di Ryan giunse da dietro l’angolo dell’edificio. «Sei là fuori?»

    Mi voltai di scatto e riuscii a vedere il viso di Ryan che faceva capolino. Quando mi girai di nuovo, ero sola. I miei occhi ispezionarono freneticamente i dintorni, mentre mi chiedevo come avesse fatto la persona, o qualsiasi cosa fosse, a svanire nel nulla, e soprattutto perché. Inspirai a pieni polmoni sopraffatta dallo shock, con la paura e la logica che lottavano tra loro. Dov’è finito? Chi era? Che diavolo è successo?

    Ryan mi venne incontro. «Eccoti qui. Io e Kennedy ti stavamo cercando.»

    Il panico prese il sopravvento. Inspirai piccole boccate d’aria. Stavo decisamente impazzendo, no? Quell’allucinazione andava ben oltre qualsiasi spiegazione ragionevole. Sarei stata bollata come fuori di testa, e stavolta Mark non avrebbe potuto farci niente. Il mio cuore prese a martellare, mi sembrava che il mio stesso corpo stesse andando a fuoco. La sensazione di formicolio lungo la pelle persisteva, segno che la strana figura non era stata un sogno, a meno che la mia immaginazione non fosse migliore di quanto credessi.

    «Ehi, stai bene?» Ryan si appoggiò alla parete accanto a me. I suoi dolci occhi castani erano pieni di preoccupazione. Aveva un volto rotondo e quando sorrideva spuntavano delle fossette. Ryan aveva qualche chilo in più rispetto a quello che sarebbe stato considerato robusto. I suoi abiti e i capelli scuri erano sempre impeccabili.

    Quando lo avevo incontrato, cinque anni prima, mi era piaciuto subito. La sua aura calorosa e rassicurante mi aveva fatto venire voglia di abbracciarlo come fosse stato un grosso, dolce orsacchiotto, ma l’orsacchiotto in questione sapeva essere molto sarcastico.

    «Sì, sto bene. Ho solo bisogno di prendere un po’ d’aria.»

    «Sei una pessima bugiarda.» Colpì delicatamente la mia spalla con la sua. «Ho sentito che lo sceriffo e il preside ti stavano mettendo con le spalle al muro. Tutta la scuola ne parla.»

    Sospirai. «Ti pareva.»

    «Forza, andiamocene a casa.» Ryan mi cinse con un braccio. Io annuii e lasciai che mi guidasse verso il parcheggio. Mentre ci allontanavamo, lanciai un’ultima occhiata oltre la spalla. Nel buio più profondo, riuscii a scorgere un paio di luminosi occhi blu che mi fissavano.

    Capitolo 3

    «Vi chiamo domani, ragazzi» dissi saltando giù dalla Nissan malconcia di Ryan, che si era fermata sul vialetto d’accesso di casa mia. Dopo aver fatto un gesto di saluto con la mano senza neppure voltarmi indietro, mi precipitai all’ingresso ed entrai in casa. Chiudermi alle spalle la porta a doppia mandata mi diede un falso senso di sicurezza. Nessuna porta o serratura avrebbe potuto tenere fuori le cose che mi ossessionavano, ma il suono della toppa che scattava fu comunque di conforto.

    Era troppo presto per sperare di trovare Mark di ritorno dalla sua partita di poker con gli amici, quindi la casa era oscura e silenziosa. Non c’erano lampioni sulla strada dove vivevamo, e i primi vicini di casa si trovavano a quasi cinque chilometri di distanza. Ci eravamo trasferiti a Olympia, Washington, cinque anni prima. Sia io sia Mark ci eravamo innamorati a prima vista della casa simile a un ranch, la cui proprietà confinava con la Capitol State Forest. Amavo il fatto di essere circondata dagli alberi, mi trasmettevano un senso di calma e pace. Ma quella notte, era come se i boschi avessero occhi che mi scrutavano dall’altro lato di una lastra di vetro.

    Attraversai la casa e accesi tutte le luci. Mark si sarebbe messo a urlare per quello spreco di corrente elettrica, e di norma sarei stata d’accordo. In quel momento, però, non mi importava. Volevo sentirmi rassicurata e protetta, e illuminare ogni angolo buio era proprio quello che ci voleva.

    Preparai un tè e iniziai a mettermi comoda. Le mie ossa doloranti e ammaccate reclamavano un bagno caldo, quindi raggiunsi il bagno. Mi svestii e rimasi in piedi davanti allo specchio, rimuovendo i bendaggi dalle braccia. Il mio stomaco si strinse mentre sbirciavo i tagli, o per meglio dire l’assenza di essi. Il sangue secco aveva formato una crosta sul braccio, attorno a una ferita guarita. Afferrai la garza sulla fronte e la strappai via, lasciandomi sfuggire un grido spaventato: c’era una cicatrice che avrebbe dovuto metterci giorni a formarsi.

    Il torpore mi avvolse come un lenzuolo. Le mie ferite erano sempre guarite in fretta, ma in questo caso era successo più velocemente del normale. Lasciai andare una risata folle. Ignorai la vasca da bagno ed entrai direttamente nella doccia. Non appena mi fui messa il pigiama e infilata nel letto, sotto il tepore del piumino, le mie palpebre si abbassarono e sprofondai nel sonno.


    Il fuoco li travolse con una velocità e una precisione devastanti. Le persone caddero sulle ginocchia con urla lancinanti, e le fiamme si avvolsero attorno a loro come serpenti. Li guardai dall’alto. Bambini impauriti si aggrappavano ai loro genitori. Non sentivo nulla nei loro confronti, il potere mi pervadeva mentre li osservavo contorcersi in preda all’agonia. Edifici collassarono dietro di loro mentre le mie fiamme radevano al suolo la città. Le persone non erano il mio bersaglio; erano soltanto ostacoli sul mio cammino.

    «Ember, basta!» Mia madre era lì, di fronte a me, il volto pieno di angoscia e paura. «Non vuoi farlo davvero. Questa non sei tu.»

    Un sorriso si allargò lentamente sul mio volto. «Invece sì.»


    Mi svegliai di soprassalto. Era ancora notte fonda, il sudore mi aveva incollato i capelli alla fronte. Il sogno era evaporato nell’istante in cui avevo aperto gli occhi, ma la sua essenza continuò a stritolarmi il petto, rendendomi difficile respirare. Turbata, gettai le gambe oltre il bordo del letto. Mi alzai in piedi e camminai verso lo specchio, che mi restituì il riflesso dei miei occhi scintillanti. Mi voltai e tirai su la maglia del pigiama. Le mie dita iniziarono a percorrere i segni. Simboli e nodi celtici si intrecciavano e intersecavano lungo la mia schiena in sottili e sinuose linee nere. Vederli mi tranquillizzò, come se mi ancorassero a mia madre.

    Il mio tatuaggio non era una piccola, delicata farfalla o un grazioso fiorellino. No, il mio tatuaggio partiva dal collo e arrivava al fondoschiena, avvolgendosi intorno al mio fianco. Dopo aver perso mia madre, feci un sogno molto intenso. Al risveglio, avevo disegnato uno schizzo dei simboli che avevo sognato, finendo per disegnare il tatuaggio che adesso era parte di me. Mi aveva dato forza, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno dopo la sua morte. Mark non aveva fatto i salti di gioia alla notizia, ma aveva comunque accettato la cosa sapendo che dovevo farlo. Aveva capito che mi avrebbe dato l’impressione di averla accanto. Mentre guardavo il disegno, bellissimo e inquietante, qualcosa dal fondo della mia anima protestò, cercando di dirmi qualcosa. Di qualunque cosa si trattasse, era fuori dalla mia portata.

    Capitolo 4

    Il giorno seguente, le cose andarono di male in peggio. Tra l’incidente a scuola, finito sul giornale locale, e la fabbrica del gossip che faceva gli straordinari, Mark era venuto a conoscenza di ogni minimo dettaglio, vero o no, ancora prima di rincasare dalla sua corsa della domenica mattina con tappa alla caffetteria.

    «Ember?» La sua voce riverberò all’interno della casa.

    Ops... Conosco quel tono di voce. Avrà scoperto quello che è successo ieri notte?

    «Ember Aisling Devlin Brycin! Alza il culo, adesso!»

    Già.

    Sospirai e mi alzai dal letto. La testa e il corpo facevano ancora male, ma non per via delle

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