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The studying hours
The studying hours
The studying hours
E-book380 pagine4 ore

The studying hours

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Info su questo ebook

ROZZO. ARROGANTE. STRONZO. Non c’è dubbio al riguardo, Sebastian Oz Osborne è il miglior atleta dell’università ma anche il più grande stronzo. Un cliché ambulante, sempre pronto a dire sconcezze, un corpo fantastico, uno a cui non frega un cazzo di ciò che pensa la gente.

INTELLIGENTE. ELEGANTE. CONSERVATRICE. Non si cada in errore, Jameson Clarke può anche essere la studentessa più diligente della scuola, ma di certo non è una puritana. Trascorrendo la maggior parte del suo tempo tra le sacre mura della biblioteca, James diffida di guardoni, atleti e stronzi e Oz Osbourne ha tutte queste qualità. Lei è brillante, sarcastica e il contrario di ciò che lui immagina.

Ogni stronzo ha le sue debolezze.
Lui vuole esserle amico.
Lui Vuole passare del tempo con lei.
Lui Vuole farla impazzire.
Lui Vuole lei.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2018
ISBN9788894292190
The studying hours

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    Anteprima del libro

    The studying hours - Sara Ney

    Sara Ney

    The studying hours

    HOW TO DATE A DOUCHEBAG

    vol. 1

    1

    Serie: HOW TO DATE A DOUCHEBAG vol. 1

    Titolo: The studying hours

    Autore: Sara Ney

    Copyright © 2018 Hope Edizioni

    Copyright © 2016 Sara Ney

    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    Progetto grafico di copertina: Angelice Graphics

    Immagini su licenza Depositphotos.com

    Elena Zhogol 163726524 | Martin Mark Soerensen 72653947

    Traduttrici: Verdiana Rigoglioso e Claudia Mongiat

    Editor: Roberta Farrace

    Impaginazione digitale: Antonella Monterisi

    How to Date a Douchebag: The Studying Hours by Sara Ney 

    Published by arrangement with Brower Literary & Management

    Indice

    Prefazione

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

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    38

    39

    40

    41

    42

    43

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Hope edizioni

    Dedicato al più grande douchebag che conosca.

    E lui sa chi è, perché mi ha chiesto di dedicargli questo libro.

    *rotea gli occhi*

    «Quando la vidi per la prima volta seduta a testa bassa dall’altra parte della biblioteca, pensai che sarebbe stato facile. Pensai che forse, se me la fossi lavorata abbastanza a lungo, avrebbe aperto le gambe e si sarebbe inginocchiata per cinque minuti per me. Ma indovinate? Mi sbagliavo».

    SEBASTIAN OSBORNE

    Prefazione

    1

    Jameson

    Alcuni giorni resto a casa a studiare, ma non molto spesso.

    La biblioteca è il mio conforto.

    Il mio rifugio.

    Dove vengo ad ascoltare il suono delle pagine che sfogliate, il debole suono dei tasti dei laptop cliccati, il leggero calpestio di passi che attraversano lentamente il parquet logoro.

    L’edificio è vecchio di centotré anni, uno dei più antichi monumenti al campus, ed è pieno di storia. Pieno di legno intagliato e angoli oscuri; pieno della conoscenza e dei segreti di scienziati, filosofi e studenti.

    Davvero. È l’unico luogo nel raggio di otto chilometri dove posso stare sola con i miei pensieri.

    L’unico posto senza coinquilini, la loro musica, i loro telefoni e il costante turbinio di attività del nostro immobile in affitto fuori dal campus. Non so mai quando aspettarmi un ragazzo sconosciuto rilassato sul nostro divano, estranei che vanno e vengono, o risatine civettuole prima che le porte delle camere da letto vengano chiuse di slancio.

    Lo sgradevole cigolio riecheggiante del letto della tua coinquilina, seguito poco dopo dal gemito delirante in una casa che diversamente sarebbe silenziosa è…

    Imbarazzante.

    E questo è per usare un eufemismo, perché onestamente, come si fa a far uscire quel suono dalla testa?

    Non si può.

    Piuttosto, ci si rifugia in biblioteca.

    Non devo preoccuparmi di essere disturbata da grida, scherzi o interruzioni. O dall’odore di ramen stracotti. Di solito, non devo neanche preoccuparmi di essere distratta.

    Tranne oggi.

    Oggi sono concentrata sul tavolo vicino l’ingresso estremamente caotico, occupato da quattro ragazzi molto grossi, dall’aspetto molto atletico. Ragazzi chiassosi. Ragazzi arroganti.

    Ragazzi abbastanza attraenti.

    Oggi, non riesco a concentrarmi.

    Li noto molto prima che loro notino me, e mi concedo una breve tregua dallo studio per guardare quello più grosso con occhio critico. Con incredibili capelli scuri e sopracciglia ancora più scure, non ha abbassato lo sguardo sul libro aperto davanti a lui neanche una volta. Piuttosto, ha continuato a guardarsi intorno nella sala lettura della biblioteca.

    Proprio come sto facendo io.

    Le braccia incrociate sul petto ampio, le gambe allargate, l’espressione impaziente, quasi come se non tollerasse di essere infastidito dai compiti.

    Mentre deduco che deve essere in attesa che il cielo si apra e che l’universo faccia il lavoro per lui, i nostri sguardi si scontrano; quelle severe, spietate barre sopra i suoi occhi scattano verso l’attaccatura dei capelli mentre le labbra, circondate da una barbetta incolta, si piegano.

    Occhi acuti, così chiari che da qui non posso distinguerne il colore, iniziano la loro graduale discesa lungo la fila di bottoni del mio cardigan prima di fissarsi sul mio petto.

    Rabbrividisco.

    Sorride.

    Il sadico verme sa che il suo sguardo fisso mi sta facendo accapponare la pelle.

    Sta assaporando questo fatto.

    Ragazzi come lui? Senza dubbio il college sarà un breve contrattempo nel percorso della loro vita, un pit stop lungo la strada che li porterà a bullizzare i colleghi, i soci d’affari, e probabilmente le donne.

    Questo ragazzo? È un coglione. Uno con la C maiuscola.

    Interrompendo il nostro fissarci con un battito di ciglia, i miei occhi blu navigano intorno al tavolo, attraccando sul gigantesco ragazzo biondo che sta battendo sulla sua tastiera, la testa che ondeggia al ritmo di qualunque musica stia pompando da quelle Beats nero lucido.

    Poi atterrano sull’ispanico stravaccato sulla sua sedia, che fissa il soffitto e mordicchia una matita gialla.

    Dulcis in fundo? Il ragazzo col collo massiccio e con le braccia tatuate ancora più robuste.

    Incantata, abbasso la testa per sbirciare timidamente da dietro le mie lunghe ciglia: sta chiaramente provando a concentrarsi sul suo lavoro, l’irritazione verso i suoi indisciplinati compagni di tavolo che deturpa il suo bellissimo volto e gli rende tese le spalle.

    Di tanto in tanto, si sposta nervosamente sulla sedia prima di scuotere la testa.

    Soffia fuori uno sbuffo d’aria, innervosito.

    Si sposta sulla sedia. Scuote la testa. Sbuffa l’aria.

    Shampoo. Risciacquo. Ripeti.

    Finché…

    L’intero gruppo è interrotto da una studentessa carina con i capelli castano chiaro raccolti in uno chignon casuale e disordinato. Anche da qui vedo gli occhi pesantemente truccati e le labbra rosso acceso: quel trucco smokey eye non si abbina necessariamente ai suoi legging neri e alla felpa della Iowa, ma chi sono io per giudicare?

    Striscia verso di loro spudoratamente, il fianco appoggiato sul bordo del tavolo, strusciando la punta di un dito lungo la superficie liscia, fin su quel braccio tatuato. Sfiora con l’unghia la pelle nuda del suo avambraccio.

    Lui alza la testa, sorpreso. Concentrato su di lei.

    Faccio un profondo respiro che non mi ero resa conto di trattenere, alla vista del sorrisetto che le fa.

    Si appoggia allo schienale, incrocia le braccia solide.

    Allarga le gambe.

    È carina.

    E ovviamente è il suo tipo.

    Guardo lo spettacolo, inchiodata, mentre lui si alza, un braccio muscoloso che scivola attorno alla vita sottile della ragazza… tolgo un auricolare giusto in tempo per sentire una risatina forzata ed entusiasta fuoriuscire dalla sua gola… afferro il basso timbro della voce di lui mentre conduce entrambi più in fondo alla biblioteca, verso l’ultima fila di riviste e giornali accumulati… faccio un altro respiro quando le sculaccia il sedere con il palmo carico di energia sessuale… sospiro delusa quando girano l’angolo, sparendo dalla mia vista.

    Bene, allora.

    Togliendomi gli occhiali dalla montatura nera, strofino via quello spettacolo dai miei occhi stanchi, chiedendomi per un breve istante come sarebbe essere quel tipo di ragazza, il tipo spensierato che si lascia condurre dai ragazzi tra buie file di libri.

    Per divertimento. Perché fa stare bene.

    Non il genere di ragazza che passa tutto il suo tempo da sveglia a studiare, perché non può permettersi che i suoi voti facciano schifo.

    Mi rimetto gli occhiali, i capelli sulla nuca mi pizzicano per la consapevolezza di essere proprio così. Reprimo uno sbadiglio delicato, spostando lo sguardo.

    Incontro due occhi grigi, freddi e intimidatori che si increspano sapientemente agli angoli come se volessero dire: Ti ho vista guardare ma, tesoro, non trattenere il respiro… lui non uscirebbe mai con una come te.

    E avrebbe ragione… la figura che è appena scomparsa tra le file della biblioteca? Lui non vorrebbe uscire con me. Non mi guarderebbe due volte, se ne avesse occasione.

    Fare del sesso con me? Forse.

    Uscire con me? No.

    Ma indovina un po’? Non lo vorrei neanch’io. Perché semplicemente guardandolo posso dire che è probabilmente un coglione, proprio come il suo inquietante amico.

    E io non vorrei avere nulla a che fare con un ragazzo del genere.

    1

    1

    «Non sei una moglie trofeo.

    Sei più una coccarda di ringraziamento per la partecipazione».

    Sebastian

    «Amico, fammi un favore e vedi se è lei».

    Ignoro la sua supplica, determinato a iniziare questo saggio per la lezione che ho domani di prima mattina, lezione di cui ho bisogno per laurearmi. Pensavo che venire nella silenziosa biblioteca mi avrebbe dato il conforto che mi serve per completare questo compito, ma a quanto pare mi ero sbagliato.

    Completamente sbagliato.

    «Mi stai ascoltando? Ho bisogno che tu vada fin lì per vedere se quella ragazza che sta fissando verso di noi è la mia tutor. Per favore, io sono timido».

    Rimango in silenzio. «Zeke, non andrò fin laggiù solo per vedere se è la tua tutor. Fallo da solo».

    Abbasso la testa e torno sul mio foglio.

    «Sono il capitano della squadra di wrestling, stronzo».

    La mia penna si ferma per la seconda volta. «No, io sono il capitano, stronzo. O l’hai già dimenticato? Sbrigare i tuoi affari sporchi non fa parte del mio lavoro».

    Lagnandosi ma imperterrito, il mio amico ci riprova. «E se te lo chiedo gentilmente?».

    «No. Hai già fatto il cazzone troppe volte oggi».

    Questo lo fa rianimare parecchio. «Parlando di cazzi, e se ti facessi un pompino?». Fa le fusa. «Allora lo faresti?».

    «Lo farei io per un pompino». Il nostro amico Dylan si affaccia dall’altro lato del tavolo, quel tavolo che sembrava largo abbastanza per farci stare tutti quando ci siamo seduti e che adesso sembra della stessa misura di un maxi assorbente.

    «Chiudi quella cazzo di bocca, Landers. Nessuno l’ha chiesto a te», ghigna Zeke.

    «Osborne, vai a vedere se quella è la mia tutor».

    Gesù Cristo! È implacabile. «Non è la tua tutor».

    Lui gira il busto per lanciarle un’occhiata, dubbioso. «Come lo sai?».

    Allunghiamo tutti il collo per gettare una buona occhiata alla tipa in questione, seduta dall’altro lato della biblioteca debolmente illuminata.

    I miei occhi scuri si posano su quella ragazza schiva, curva su una pila di libri, che impugna una matita, scrivendo furiosamente.

    Profonda e concentrata, la ragazza fa sul serio.

    Non è qui per cazzeggiare.

    Passando, l’ho vista un paio di volte, ma non le ho mai dedicato un pensiero fino ad ora, memorizzandola solo come un altro corpo caldo che occupa un intero tavolo che i miei amici e io avremmo potuto usare.

    Intellettuale. Poco avventurosa. Probabilmente una fottuta puritana, se la collana di perle attorno al suo collo è un indizio.

    A stento ha battuto ciglio quando le sono passato accanto con Cindy (o Mindy o qualunque sia il suo nome che faccia rima con Indy) per trascinarla verso il ripostiglio per bagnarmi il cazzo.

    «Come faccio a sapere che non è la tua tutor?», ripeto. «Prima di tutto, la sua faccia è seppellita in quei libri… non si è guardata attorno neanche una volta per tutto il tempo in cui siamo stati qui».

    Le sopracciglia scure di Zeke si sollevano. «Cazzate. Ci ha guardati per tutto il tempo».

    Ignoro la sua espressione e continuo: «Secondo, non sembra che abbia bisogno di un lavoro. Voglio dire, non hai visto le fottute perle attorno al suo collo? Non esiste che abbia bisogno di soldi».

    «Forse le piace aiutare i bisognosi», scherza Dylan.

    «Io sono un bisognoso: ho bisogno di un buon voto in biologia». Zeke ci deride, studiandola attentamente. «Maria la Puritana, laggiù, sembra la fottuta bibliotecaria. Una ragazza del genere resterà single per sempre».

    «Già, ma guardala: indubbiamente non sta aspettando nessuno», osserva Dylan.

    Zeke lo colpisce con uno sguardo torvo e irritato. «Hai appena usato la parola indubbiamente?».

    Il nostro amico lo ignora. «O forse ha dato un’occhiata alla tua faccia incazzata e ha deciso che il lavoro non valeva i quaranta dollari che le avresti dato. E che mi dici di quel twin set? Scommetto che potrebbe aver bisogno di un buon uccello duro». La voce tuonante di Dylan taglia il chiasso, il suo gracchiare fende la silenziosa biblioteca universitaria nel modo più rumoroso.

    «Sembra davvero una stronza totale».

    La risata di Zeke è volgare. «Forse è quello il problema. Ha appena preso un cazzo ed è ancora infilato nel suo culo». Controlla il suo telefono per la quinta volta. «Se non è la mia tutor, allora non mi presento all’esame. Andresti per favore lì per me? Sono troppo pigro per alzare il mio culo da questa sedia».

    Lo guardo, scuotendo la testa per la sua presunzione prima di aggrappare le mani al tavolo di legno e alzarmi.

    «Bene. Qual è il nome della tua tutor?».

    Apre il foglietto che è appoggiato sulla pila di libri e legge ad alta voce: «Violet».

    «Oh, che carino!». Mi sposto senza fretta nella biblioteca, svincolando attraverso l’intricato labirinto di tavoli, il cardigan nero come bersaglio. «Violet».

    La sua classica e liscia coda di cavallo è tirata in alto, neanche un capello fuori posto, e degli occhiali neri sono poggiati sulla sua testa. Indossa una semplice maglietta bianca e un maglioncino nero, un singolo giro di perle avorio luccicanti le circonda il collo.

    Esatto, l’avevo detto… fottute perle.

    I cavetti rosa shocking degli auricolari penzolano sul suo collo.

    Gironzolo più vicino, accostandomi a lei, un po’ come si fa quando ci si avvicina a un cane randagio o a una ragazza quando sai che ha le mestruazioni… con diffidenza, in maniera circospetta.

    Rilassando la punta delle dita sul bordo del solido tavolo di legno, aspetto che lei alzi lo sguardo. Che mi noti. Che dica qualcosa. Che arrossisca.

    Ma non lo fa. Infatti, se questa tipa avverte la mia presenza, è al livello esperto nel nasconderlo.

    Schiarendomi la gola, tiro fuori un saluto informale e cerco di sembrare annoiato. «Ehi».

    La sua mano continua a muoversi sul quaderno, seguendo col dito il paragrafo di mezzo scritto a mano. Con la testa ancora piegata, mormora con la sua vocina: «Non sono una tutor, quindi lascia stare».

    Immagino che questo risponda alla mia domanda. Mi volto verso i miei amici, entrambi mi danno il pollice in su e io scuoto la testa.

    Negativo, Ghost Rider.

    Zeke aggrotta le sopracciglia, incazzato come sempre e guarda il foglietto piegato col broncio. Lo appallottola e lo lancia sul pavimento.

    Bene.

    Immagino che questo sistemi le cose. A parte…

    «Il tuo nome non è Violet?», insisto per avere più informazioni, desiderando che alzi lo sguardo su di me.

    Non sussulta nemmeno.

    «Perdonami se ti deludo, ma no».

    Mi sforzo di ridere, appoggiandomi col fianco al tavolo e incrociando le braccia. «Sto solo controllando. Il mio amico laggiù è stato bidonato dal suo compagno di studio e adesso è depresso».

    «Perché non è venuto lui qui?».

    «Troppo pigro per alzarsi». Uso un tono di voce prosaico.

    «Non per essere scortese, ma se ha bisogno di un tutor, forse la pigrizia è parte del suo problema».

    Ottima osservazione. «Ottima osservazione».

    «Bene, adesso che abbiamo stabilito che non sono questa misteriosa Violet, ho davvero bisogno di tornare a studiare. Stai uccidendo la mia ispirazione.

    «Giusto. Perdonami per averti disturbata». Tiro fuori delle scuse che riescono a suonare sincere.

    La ragazza mormora uno sbrigativo «Mmh…» e ricomincia a spingere la punta del dito lungo il foglio del quaderno a righe, tutto senza guardarmi.

    È davvero maledettamente irritante.

    Insomma, il mio orgoglio sta prendendo una vera batosta. Non succede tutti i giorni che io venga liquidato, e sicuramente non da un qualunque nessuno nella dannata biblioteca, un’ottusa studentessa con una lunga asta ficcata su per il nobile culo.

    Mi giro semplicemente e vado via? Oppure provo ad avere l’ultima parola? Sto qui in piedi, senza davvero sapere cosa fare, e infilo le mani nelle tasche dei miei jeans.

    Questa tipa è riuscita a irritarmi a morte in meno di un minuto e ha avuto le palle di respingermi… e non sono molto sicuro di come gestire la cosa.

    «Puoi andare via adesso», mi legge la mente, la sua voce leggermente affilata.

    Che cazzo di problemi ha questa ragazza?

    «Rilassati», tiro fuori. «Sto andando».

    Ritornare verso il mio tavolo è un tragitto corto ed entrambi i miei amici hanno delle espressioni divertite stampate sulle facce idiote. Trascino la mia sedia, riunendomi a loro con uno sguardo torvo.

    «Non sembra che sia andata così bene», azzarda Dylan.

    «Vai. A. Fanculo».

    «Non è Violet?», chiede Zeke.

    «No». Apro un libro di testo di topografia. «Non è Violet».

    «Ehi, grande Oz», medita premurosamente Dylan. «Scommetto che se tornassi indietro e ci provassi con lei, le daresti qualcosa di cui vantarsi per settimane. Dai alla tipa nerd una ragione per vivere».

    In qualche modo, ne dubito. «Dovrebbe prima tirar fuori la sua faccia dal libro abbastanza a lungo per riconoscermi».

    «Scommetto che riusciresti a farle bagnare le sue mutande bianche da nonna».

    «Puoi dirlo forte che potrei. Come se questo potesse essere difficile».

    Zeke ride. «Diciamoci la verità, non indossa mutande da nonna… è probabilmente una cintura di castità».

    Non che io faccia caso alle mutande bianche da nonna, scivolano tutte lungo le cosce di una donna alla stessa maniera: lentamente e con un dolce suono soddisfacente, quando cadono al suolo.

    Faccio un sorrisetto intenzionale. «Già, probabilmente».

    «Credi che sia vergine?», chiede Dylan ad alta voce.

    Zeke nitrisce, gettando uno sguardo oltre le sue larghe spalle verso la bibliotecaria, che sta camminando lungo il perimetro della sala. Abbassa la voce. «Cazzo, sì che lo è. Guardala. Di sicuro sarà una piagnona post-orgasmo quando finalmente prenderà il…».

    «Va bene, basta così». Lo interrompo bruscamente. Anche io ho i miei limiti quando si parla di umiliare una donna. Lo ammetto, non sono elevati, ma ne ho un paio… e sminuirle sessualmente è uno di questi. «Ti stai comportando da pezzo di merda».

    Lancio un’altra occhiata alla ragazza oltre la mia spalla, ammorbidendo il tono. È piuttosto carina. «Oltretutto, che ti importa?».

    «Non mi importa. Sto solo dicendo che, per tutte le arie che ti dai, non riusciresti a farti scopare da quella ragazza, lo garantisco». Inclina la testa nella sua direzione. «Ho visto il modo in cui ti ha sbattuto via, e non è lo sbattimento a cui tu sei abituato».

    Vero. Come la scorsa notte per esempio: non mi ha richiesto quasi nessuno sforzo scopare nel portico nel retro del club di hockey. Un po’ di chiacchere, un paio di sorrisi provocanti e mi sono ritrovato contro un muro a scoparmi una ragazza qualunque che non mi aveva neanche detto il suo nome.

    «… E scommetto che non riusciresti a farle posare la bocca su nessuna parte del tuo corpo. Ti pagherei addirittura cento dollari».

    Aspetta. Torna indietro.

    Cento dollari?

    Questo attira la mia attenzione e alzo di scatto la testa. Perché?

    Perché sono al verde.

    La verità è che non sono cresciuto frequentando le migliori scuole. Sono sempre stato un wrestler talentuoso, ma mai in grado di permettermi un allenamento extra, la nostra famiglia non aveva il denaro. Quando frequentavo la scuola media, mia sorella ottenne il suo primo vero lavoro dopo la laurea, ma presto finì invischiata in una battaglia legale. Non approfondirò i dettagli, ma ciò dilapidò gran parte della pensione dei miei genitori e con essa il denaro per gli allenamenti di wrestling e il college.

    Quindi sì, diversamente dalla maggior parte dei miei amici, io non sono un privilegiato che sta qui grazie ai soldi dei suoi genitori. Non ho carte di credito illimitate o un sussidio mensile.

    No.

    Potrei anche essere stato benedetto da un talento donato da Dio per sbattere gli avversari al tappeto, ma finanziariamente sono solo armato di una borsa di studio da atleta (una che non posso permettermi di mandare a puttane) e un lavoro. Proprio così. Un lavoro.

    Intendo L-A-V-O-R-O.

    Ossia che, quando non sono a lezione, all’allenamento o a studiare, mi spacco il culo lavorando fino a venti ore la settimana, guidando il carrello elevatore durante il turno notturno in una falegnameria dozzinale a quindici minuti dal campus. Questo paga l’affitto del buco di culo che condivido con il mio compagno di squadra Zeke, un giocatore di football chiamato Parker e suo cugino Elliot.

    Il lavoro mi aiuta a sostenere quelle spese che la borsa di studio e i miei genitori non possono coprire: utenze, benzina e cibo, con pochi avanzi per qualcos’altro.

    E se qualcuno lo scopre, sono rovinato.

    Tecnicamente, non dovrei lavorare; il mio contratto con la Iowa lo proibisce. Ma non c’è altro che io possa fare… devo lavorare, di solito la notte, quando dovrei dormire, studiare e far riposare il mio corpo.

    Quel corpo che incassa colpi regolarmente e che è il mio unico biglietto per un’istruzione di eccellenza.

    Qualche migliaio di bigliettoni aggiuntivi all’anno nella borsa di studio scolastica – finanziati dalla compagnia assicurativa per cui lavora mio padre – aiutano, ma potrei davvero approfittare dei soldi che Zeke ha appena offerto, anche se sono solo cento dollari.

    Quindi.

    Mi ritrovo di nuovo a studiare la ragazza, esaminandola attentamente con rinnovato interesse: cardigan abbottonato, faccia seria, capelli lucenti e scuri, bocca tirata in una linea dritta, la punta rosa della lingua che fa capolino in un angolo, indubbiamente per la concentrazione.

    Immagino di poter sopportare di avere la sua bocca sulla mia per qualche secondo.

    Faccio a Zeke un rigido cenno del capo e, dato che so che pagherà, dico: «Fai cinquecento e abbiamo un accordo».

    Lui sbuffa. «Andata».

    Appoggiandosi sullo schienale, il mio compagno di squadra incrocia le braccia massicce sollecitandomi con uno schiocco delle dita. «Meglio che ti dai una mossa, Casanova, prima che la tipa ti becchi a fissarla e scappi con la coda tra le gambe cucite».

    2

    1

    «La ragazza che ho rimorchiato ieri sera stamattina si è svegliata, si è girata, mi ha guardato e ha detto: Oh, grazie a Dio sei fico. Poi è tornata a dormire».

    Sebastian

    «Credevo che avessimo già stabilito che non sono la tua tutor».

    La ragazza è china, bloccata sul suo libro di testo, l’evidenziatore sospeso sopra il margine destro. Non ha ancora alzato lo sguardo, ma almeno mi ha riconosciuto prima che io prendessi misure drastiche come schiarirmi la voce o bussare sul tavolo.

    Questo lo definisco un progresso.

    «Giusto. Questo l’ho capito la prima volta che sono venuto qui».

    Il suo evidenziatore fluo rimane immobile, sospeso sopra il libro aperto a ventaglio davanti a lei. Lo clicca una volta per chiuderlo, toglie un auricolare e lo tiene sospeso in aria come se aspettasse che io dica qualcosa. «C’è qualcosa che posso fare per te?».

    Inclina la testa di lato, in attesa, ascoltando ma continuando a studiare.

    Decido di rischiare tutto: «Ho bisogno che mi baci».

    Nulla.

    Nessuna reazione.

    Nessun rifiuto, nessun rossore sulle guance, nessun commento.

    Come se questo genere di cose le capitasse regolarmente.

    «Vuoi guardarmi, dannazione?».

    Questo aziona il meccanismo, attira la sua attenzione.

    Alza la testa, la lunga coda di cavallo castana cade a cascata sulla spalla destra, elegante e sofisticata.

    I suoi occhi sono di un blu brillante, le ciglia lunghe.

    I nostri sguardi si incontrano.

    Si uniscono.

    I battiti cardiaci martellano.

    Potrei buttare lì qualunque fottuto cliché… sarebbero tutti fastidiosi, ma eccoci qui.

    Lei mi sta guardando con diffidenza, quegli occhi blu si stringono in modo scontroso.

    L’agitazione fa allargare le sue narici.

    Molto poco promettente.

    Liquidandomi dopo un lungo periodo di silenzio, rimette a posto il suo auricolare, abbassa la testa e con l’evidenziatore riprende i tratti costanti e senza sforzo sulla pagina distesa davanti lei.

    «Sei ridicolo»,

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