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Storia di un filibustiere
Storia di un filibustiere
Storia di un filibustiere
E-book320 pagine4 ore

Storia di un filibustiere

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Info su questo ebook

Una fotografia del nostro Paese, dal dopoguerra ad oggi, scattata attraverso il racconto della vita avventurosa e sgangherata del protagonista. Mariano Gentile è un oste di quartiere. A settant’anni suonati, continua a lavorare nel suo locale. Grazie all'esperienza e agli espedienti che pone in campo, Mariano riesce a tirare avanti, mentre molti colleghi giovani e blasonati crollano sotto i colpi della pandemia. Ma la sua non è stata un'esistenza facile. Nato povero in un remoto paese ciociaro, Mariano è stato costretto a trasferirsi a Roma giovanissimo per lavorare ed aiutare la famiglia. Nel tempo, ha costruito un piccolo impero costituito da ristoranti e immobili. Un benessere franato sotto i colpi delle riforme fiscali e di un divorzio disastroso. Allo stesso tempo non ha mai rinunciato a "correre la cavallina”. Ma è anche finito in coma per un tentativo di rapina. Nonché altre avventure narrate nel romanzo. Il protagonista è inciampato più volte nel suo percorso di vita, ma si è sempre rialzato grazie alla capacità di reinventarsi. Mariano Gentile incarna quell'italianità fatta di creatività, di cialtronaggine, di furbizia e di ingenuità che caratterizza il nostro DNA.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2021
ISBN9788869632853
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    Storia di un filibustiere - Vincenzo Gambardella

    Vincenzo Gambardella

    STORIA DI UN FILIBUSTIERE

    Elison Publishing

    © 2021 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN   9788869632853

    A mia mamma, Anna Maria

    Capitolo 1

    Cipolle, amore e fantasia

    Mi chiamo Mariano Gentile. Un cognome soave, per una vita ruvida. Sarà per via del nome, chissà. Va a sapere come ti cambia il destino quando te lo affibbiano all’anagrafe. Se oggi potessi scegliere lo cambierei con uno nobile, tipo Lamberto o Ludovico.

    Già, Lamberto Gentile. Sembra il nome di un vino in offerta da Eurospin. Per molti il nome Mariano deriva da Marte, o marziale.

    Dunque, io sarei un tizio che è nato gentile, ma che ha lottato per farcela. Oppure, all’opposto, sono un tipo macho che si mostra dolce.

    Buono per un politico o per un agente segreto. Un po’ meno per uno come me, che di mestiere e di vita fa l’oste di quartiere.

    Sono nato settantatré anni fa, in un piccolo paesino della Ciociaria, dalle parti di Capranica. Penultimo di cinque figli. Una cifra considerata la taglia standard familiare dalle mie parti, a quell’epoca. Mio padre faceva il contadino in appezzamento di terreno di sua proprietà, e al contempo badava agli animali.

    Al giorno d’oggi si definirebbe un "imprenditore agricolo a vocazione DOP{1}, con proiezione Glocal{2} del made in Italy".

    Fa molto radical-chic. Ai miei tempi si diceva zappatore e basta.

    Mia madre faceva quadrare i conti e allevava cinque cuccioli indisciplinati. All’occorrenza dava una mano al coniuge.

    Con il senno di poi, proprio non capisco la fecondità dei miei genitori. Mio padre sgobbava dall’alba al tramonto tra il bestiame e i campi. Mia madre teneva in piedi la dimora; un casolare sperduto in mezzo alla campagna, simile a quelli che si notano scorrendo lungo l’autostrada. Ma non era il Mulino Bianco della pubblicità. Piuttosto una casa colonica che sembrava stare in piedi per scommessa, piena di rattoppi.

    Beh, di recente ho capito che la natalità era correlata all’assenza di Reality. Gli unici Reality del tempo erano le terga. Già, le chiappe. C’era da poco da scegliere alla sera per mio padre: o fissava quelle della vacca, o si interessava a quelle della consorte. Potendo scegliere, ha optato per la seconda possibilità.

    Guarda e riguarda, è giunta la cicogna portando anche me, in un caldo mese di maggio, il periodo mariano. Non era scontato che superassi il parto. Mia mamma ha sgravato in casa, a pochi metri dalla mangiatoia, il giorno prima che la mucca partorisse un vitello. La levatrice fu la stessa, sia per lei che per la mucca. Vacche, cavalle, donne, scrofe; in fondo è poi così diverso dare alla luce un cucciolo? Così si ragionava all’epoca, considerati i rari e distanti ospedali. È già tanto che non sono nato nella mangiatoia! Sono venuto alla luce sano, senza grossi problemi di gestazione. Constatato il lieto evento, i miei genitori hanno deciso di dedicarmi alla Madonna.

    Ecco svelato l’arcano del mio nome.

    In seguito, appena mia madre si è ristabilita, sono ripresi i Reality ed è arrivata mia sorella, tanto per non farsi mancare un sostegno femminile in vecchiaia, assecondando la mentalità del tempo: la figlia femmina deve stare vicino ai genitori fino alla fine. Costi quel che costi.

    Tornando ad oggi, spesso ascolto le clienti trentenni mentre aiuto a servire in tavola le portate. Compresse tra lo Smart Working{3}, la spesa al centro commerciale e la DAD{4}, sono distrutte, poverine. Alla sera vogliono solo sedere in poltrona e svagarsi con la TV, piluccandosi l’Isola dei Famosi o il Grande Fratello. Al limite Barbara D’Urso o la Toffanin, per le più intellettuali.

    E guai a disturbarle. L’epiteto rivolto al maritino pruriginoso è:

    «Ma come ti viene?! Ma non capisci che sto esaurita?! Che schifo di intelligenza emotiva! È colpa di chi ti ha educato così … e non farmi dire chi! Meglio che non parlo!»

    Insomma, è colpa della suocera se il coniuge è un gorillone attizzato.

    Quando io ero bambino l’intelligenza emotiva maschile consisteva nel presentarsi in casa sporco di fango e terra dopo una giornata nei campi, con la pelle riarsa dal sole. Gettarsi un secchio d’acqua indosso, all’aperto. D’inverno e d’estate. Fare uno spuntino con pane e cipolla, salire in camera da letto ancora sgocciolante, dove la mogliettina aspettava compunta. Chiudere la porta a chiave, e darci giù di Reality, tra gli afrori d’orto appiccicati alla cute.

    Non ho mai sentito mia madre lamentarsi di questo grado di sensibilità. Al massimo ho udito un cigolio sospetto e dei colpetti ritmici nel muro. Sono ricordi sfocati, e non potrei giurarci. Ma erano piuttosto frequenti.

    Eravamo da poco usciti dalla guerra, e si notava. Quando scendevo in paese, lungo il percorso non potevo non notare dei ruderi di casolare bombardati circondati da radure piene di alberi spezzati. Mi hanno raccontato che quando sono nato, nel sottoscala del Municipio bivaccavano ancora delle famiglie sfollate in seguito ai bombardamenti, in attesa di ricevere assistenza.

    Le strade non erano asfaltate. Quando pioveva diventavano un pantano e noi tremavamo al pensiero di rovinarci le calzature. Dalle mie parti si usava la collezione moda: Haute-Couture-Pret-a-Porter-Autunno-Inverno-Primavera-Estate. In pratica avevi un solo paio di scarpe e te lo facevi bastare. Se le rompevi o le rovinavi, problemi tuoi! Oggi la signorina Thunberg ci darebbe una medaglia per una scelta così Eco-Friendly nel vestirci. Non sapevo di essere stato così all’avanguardia.

    All’epoca era normale, per quelli come noi.

    La gente era povera, questo me lo ricordo bene. Ma povera-povera. Vestivamo sempre uguale, come nei cartoni animati. Ci passavamo i vestiti e i giocattoli tra fratelli e cugini. Talvolta anche tra conoscenti. Le case erano fredde e spoglie, dominate da un focolare che sembrava trafugato direttamente dagli scavi archeologici di Pompei. Se lo scostavi di colpo, talvolta nidiate di scarafaggi si disperdevano, scappando via in tutte le direzioni. I muri attorno a quell’attrezzo infernale erano neri di fuliggine. Alcuni si vantavano di quelle macchie di Rorschach{5}: più erano estese e più indicavano abbondanza di cibo!

    C’erano bambini dappertutto. Appena il tempo volgeva al bello, venivano spediti dai genitori in strada a giocare, mentre loro badavano ai neonati. Non potevi essere un bambino timido o introverso. Mamma e papà ti mettevano letteralmente alla porta; consumavi spazio in casa. Quindi o socializzavi e ti facevi valere, o eri marchiato come lo scemo del paese. La psicologia cognitiva infantile consisteva nel menare più forte possibile.

    Gli abitanti più fortunati possedevano una bicicletta. Mentre i carretti trainati da animali, (per lo più ronzini) erano i corrieri Amazon del tempo. Trasportavano qualunque cosa, come oggi. Mi hanno raccontato che hanno provato anche a contrabbandare delle signorine giunte da Roma, decise a fare Business in provincia, sostituendosi ad altri non meglio identificati sfogatoi.{6}

    Solo che il Don ha beccato il losco traffico ed è insorto subito.

    È stato più celere della Celere! Ha denunciato tutto e ha stroncato sul nascere l’iniziativa di imprenditoria femminile. In paese nessuno ha capito come sia potuto accadere. Qualche pettegola ha spifferato, forse. Ma aleggiava il sospetto che un marito infedele avesse confessato i suoi sensi di colpa, e che il Don Camillo de noantri non avesse esitato nel ricondurre il gregge sulla retta via.{7} Non contento, il prelato strigliava i fedeli con delle omelie-fiume sul valore della rettitudine, semmai non fosse chiaro ai peccatori-porcelloni il rischio delle pene dell’inferno comminate per lussuria. Ragionandoci oggi, dopo una settimana trascorsa a sgobbare tra campi e officine, doveva essere sublime recarsi a Messa la domenica per essere cazziati dal pulpito.

    Con tanto di indice puntato indosso, a caso, modello Savonarola.

    Così era, all’epoca. Il Don, il Sindaco, e il maresciallo dei Carabinieri erano figure intoccabili. Una mezza parola, e il popolo seguiva a ruota.

    So a cosa state pensando. No. Non è il film di De Sica: Pane Amore e Fantasia.

    È la mia prima infanzia, trascorsa nella remota provincia ciociara. L’odore del pane e cipolle serviti come merendina, mi è rimasto dentro. Ecco perché la identifico come un’infanzia Cipolle, amore e fantasia.

    Scrivo prima, perché si può dire che sia trascorsa velocissima. Quasi non ricordo di essere stato bambino. A nove anni e mezzo, infatti, iniziò la mia seconda infanzia. Un pomeriggio mio padre mi prese in disparte, mentre ero intento a giocare a pallone con mio fratello maggiore. Mi cinse le spalle, mi baciò sulla testa e mi ha disse:

    «Bravo Mariano. Da domani tu scendi in paese a vendere il latte. Ora sei grande. Devi aiutare la famiglia.»

    La mattina dopo i miei genitori mi buttarono giù dal letto prestissimo. Per fortuna evitai la mungitura nella stalla, effettuata praticamente di notte. La materia prima mi attendeva, ancora calda nei bidoni di latta. Di bollirla, di sterilizzarla, di filtrarla del grasso e delle impurità, neanche a parlarne.

    «Come natura crea, Gentile conserva.» mi verrebbe da dire, parafrasando un vecchio spot pubblicitario della Cirio.

    Io ero attonito. Con gli occhi pieni di sonno, infreddolito e impaurito dal compito che mi aspettava, guardai fuori dalla finestra. Il cielo albeggiava. Come potevo portare tutti quei bidoncini sino in paese?

    Ma ecco! Notai mio padre che rientra in cucina con un fare sornione. Recava con sé un giogo e un bilancino simile a quello del fruttivendolo. Ricordo che sorrideva. Non so se avesse appena consumato un Reality oppure se gongolasse all’idea di nuova forza-lavoro disponibile in casa Gentile. Sta di fatto che agganciò le tanichette alle estremità del giogo. Lentamente, lui e mia madre me lo calarono sulla collottola. Sentii subito il peso gravare sul mio corpo. Ero terrorizzato. Ma dopo qualche secondo, devo ammettere che la faccenda non fu insopportabile. Le taniche erano piccole, e soprattutto il giogo redistribuiva il peso sulla mia intera (esile) figura. Più complicato fu stato imparare ad usare il bilancino. All’epoca non esisteva il tetra-pack usa e getta per il latte.

    In realtà non esisteva proprio il tetra-pack!

    Dovevo presentarmi in paese, bussare alle porte, versare in un misurino il latte, pesarlo sulla bilancia, e travasarlo nella bottiglia di vetro che il cliente mi allungava. Incassare i soldi e saldare il resto.

    Tutto ciò, a nove anni e mezzo. Quasi tutte le mattine. Scuola o non scuola. In tutte le stagioni. Con il buono o il cattivo tempo.

    Tutto sommato, i compaesani mi trattarono bene. Un po’ perché forse gli facevo compassione, con la mia complessione minuta. Un po’ perché conoscevano la mia famiglia. Ci conoscevamo tutti in paese e nel circondario. Mi dispiace usare uno stereotipo, ma non posso scrivere altro che: «si dormiva con le porte aperte.»

    D’estate era così.

    Sta di fatto che all’inizio tutti mi aiutarono con le prime armi del mestiere. Travasavano il latte, mi indicavano a cosa corrispondevano le tacche, mi pagavano e mi contavano il resto. Dopo un po’ di tempo, a furia di ripetere le operazioni, diventai autonomo. Anche se la faccenda mi pesava, ero orgoglioso quando tornavo a casa col giogo scarico e restituivo i soldini nella manona di mio padre. Che in cambio ogni settimana mi retrocedeva una mancetta. Quando riuscivo a piazzare tutto il prodotto, scattava una extra-bonus.

    Insomma, a dieci anni ero diventato un lavoratore a cottimo, con contratto Co. Co. Pro. Assunto in un’impresa familiare!{8} Solo che ancora non lo sapevo.

    Una mattina come tante, mi presentai dalla sora Gilda armato di bidoncini di latte, bilancia, e misurino. La sora Gilda era una signora non proprio giovane, nei miei ricordi di bambino. E non proprio snella. Sfiorita, si direbbe oggi. Abitava nel centro del paese in un’abitazione a piano terra. Un basso, simile a quelli nei vicoli di Napoli. Il marito era emigrato nel Nord Italia per lavorare come operaio. Così si diceva in giro. A me non interessava più di tanto. Per me la cliente era solo una tappa del giro. Speravo che lei comprasse tanto latte così che io potessi tornare presto alle mie cose. La sora Gilda mi accolse come sempre, con i suoi capelli rossi fiammanti e un maglione scollato che puzzava di fumo di sigaretta. Mi chiese 70 Decilitri di latte. Come al solito, io travasai il latte dalla tanica nel misurino, quindi lo pesai sulla bilancia. Feci per travasarlo nella bottiglia di vetro, quando la sora Gilda mi bloccò il polso.

    «Fermo un attimo, tu.»

    Mi intimò. Pareva arrabbiata con me, ma non capivo il perché. La sora Gilda mi ordinò di entrare in casa. Un’abitazione composta da una stanza e un bagno. Tirò giù dallo scaffale una bilancia da tavola.

    «Metti un po’ qua il misurino.»

    Mi ordinò di pesare. Io non ci pensai su due volte ed appoggiai il misurino sulla bilancia. E lì si consumò il dramma: l’ago dell’apparecchio si arrestò a sessanta decilitri. Dieci decilitri in meno.

    «Lo sapevo, bassttardo{9} lazzarone che non sei altro!» inveì subito la sora Gilda.   «In campagna da te so’ tutti ladroni, uee!»

    La gentildonna mi mollò uno scappellotto. Che però beccò la guancia mentre io tentavo di sfuggire. Il risultato fu un mezzo ceffone. Bruciava!

    «Mo ssto latte me lo prenno io, chiaro? Per tutto er’ latte che m’hai fregato! Dijie a mamma tua che venisse qui se nun glie sta bene!»

    La sora Gilda era scatenata. Mi afferrò per un braccio e mi cacciò di casa. Quasi mi tirò addosso il misurino.

    Mio padre mi aveva equipaggiato con una bilancia taroccata!

    Ho fregato decilitri di latte dal conto, ad ogni cliente. Pensate quante persone ho rifornito, tutti i giorni, e calcolate la cresta sulla spesa accumulata. Quel giorno non completai il giro. Mi sentii un verme mentre tornavo a casa intersecando le viuzze del paese. Tenevo lo sguardo basso. Avevo la sensazione che la gente incrociandomi, mi squadrasse da capo a piedi riconoscendomi come colpevole di un delitto. Fui tentato di passare in chiesa e confessare tutto a Don Camillo de noantri. Poi, pensai che avrei preso altre mazzate seguite da decine di Ave Maria da sviscerare in ginocchio. Declinai le intenzioni.

    Così, tornai a casa. Mio padre era nei campi. Mi accolse mia mamma, che subito si preoccupò nel vedermi tornare fuori orario, con i lucciconi agli occhi e una guancia arrossata. E i bidoncini pieni.

    «Oddio, Mariano, ma che ti è successo?!» mi corse incontro. «Ti sono saltati addosso?»

    Solo in quel momento, fissandola negli occhi, non so perché, scoppiai a piangere.

    Mia mamma mi condusse per mano in cucina, mi fece sedere e mi ha preparò un infuso calmante con tante erbe. Mi riempì di carezze sulla testa, una medicina magica ai miei tempi.

    Quando ebbi finito di sfogare la frustrazione, mi accucciai davanti a lei e le raccontai tutto per filo e per segno. Lei ascoltò in silenzio. Io terminai di descrivere i fatti singhiozzando. Seguì uno strano silenzio.

    «E quindi, alla fine ti sei fatto scoprire dalla Signora Gilda? Tutto qui?»

    «Sì. È stato brutto, mamma. Grazie che ci sei.»

    A quel punto mia madre mi mollò un ceffone. Sulla guancia sana.

    «Mamma!»

    «Così impari a farti fregare da una vecchia! In paese fregano tutti. In Italia fregano tutti! E tu freghi chi ti frega! Ma che ti pensi che la Gilda non vende le sigarette di nascosto! Mica è una Santa! La puzza non la senti quando vai dai lei? Oddio, che zuccone!»

    «Ma, mamma, non si fa! Il prete  …»

    «Ma grullo che non sei altro! Ma che non avevi capito che il latte non era giusto? Che pensavi di portare dieci litri di latte sul groppone? Era per far commovere a’ gente! Mo amo' chiuso er gioco, dovemo da dà er latte preciso.»

    «E ora?»

    «Butta quel latte prima che torna tuo padre, va! Gli dico che sei inciampato e ti è caduto per strada. Ringrazia Dio che mo’ hai trovato me sennò stasera un voto a San Crispino dovevi fare! Va, e nun te fa vedè in giro per casa oggi!»

    Io ero mortificato. Vidi la stessa espressione arcigna della Sora Gilda disegnarsi sul volto di mia madre.

    Quel giorno imparai la mia prima lezione da Co. Co. Pro. del settore caseario: mai fidarsi di una donna sola in casa.

    Tutto sommato a me piaceva frequentare la scuola. Così tanto che ho impiegato otto anni per conseguire la licenza elementare. Mi sono fermato lì. Credo che gli insegnanti me l’abbiano concessa per disperazione. Se avessi continuato così avrei rischiato di passare direttamente dalla scuola alla caserma, per svolgere il servizio di leva obbligatorio. Per me entrare in classe e sedermi al banco era un momento di calma e di socializzazione. Lo so, è strano. Di solito i bambini odiano stare rinchiusi in un banco, soggetti alla disciplina della maestra, imparando cose che non gli interessano affatto. Io no. Per me la scuola significava un’aula con un minimo di riscaldamento, stare quieto senza prendere ordini da mamma e papà, senza il latte da vendere e senza la sora Gilda in agguato. Nonché vivere la ricreazione assieme ad altri bambini, che non fossero i miei fratelli maggiori.

    Di mazzate pedagogiche dalle maestre ne ho ricevute poche, a dire il vero. Ero vivace, come tutti i bambini, ma non indisciplinato. Chiacchieravo tanto, con tutti. Il problema era l’apprendimento. Oggi si declina nella: "valutazione del rendimento scolastico complessivo in funzione della griglia dei parametri formativi multidimensionali{10}".

    Ai miei tempi era la pagella che portavi a casa di nascosto, sperando di sfuggire in qualche modo alle mazzate di mamma e papà, qualora fosse stata indecente. Io facevo in modo di beccarmi la febbre o il raffreddore in tempo di scrutini. Di solito la pietà nel vedermi infermo nel letto era superiore alla rabbia omicida che montava alla vista dei miei voti.

    Mazzate a scuola. Mazzate a casa. Mazzate tra bambini.

    Ecco, questo è stato il tema educativo della mia infanzia. Maria Montessori sarebbe stata lieta nel vedere i suoi precetti pedagogici applicati alla lettera nel mio paese. In realtà non credo che il fenomeno fosse un problema della Ciociaria, quanto lo standard formativo italiano del dopoguerra.

    Non ero scemo. È che proprio non riuscivo a concentrarmi e fare i compiti in quella Casbah che era casa mia. Ero bravo con le tabelline, a far di conto e a imparare i nomi delle città sulla cartina. Conoscevo le province d’Italia a memoria. Tutto qui. Invece alla mia età ancora oggi non mi è chiaro a cosa serva distinguere tra il predicato nominale e il predicato verbale all’interno di una frase. Quando provavo a domandarlo ai miei genitori, la risposta era laconica:

    «Mariano, ma parla potabile! L’importante è che te capiscono coi fatti, pure se muggisci! Alla gente nun’ glie frega niente d’ascoltà l’altri ...»

    Ecco, c’era sempre questo riferimento educativo bestiale nella mia formazione primaria. Gli animali, come Benchmark{11} di vita. Oggi si paga il canone per guardarli su Geo&Geo{12}. Ai miei tempi era gratis.

    Anche la mia educazione sessuale mosse i primi passi in tal senso. All’età di undici anni, mio padre decise che io fossi abbastanza maturo da conoscere i rudimenti della riproduzione sessuata.

    Forse state pensando al classico discorso delle api e dei fiori che i genitori di oggi intavolano, con molto imbarazzo, con i figli (che in realtà ne sanno più di loro, essendosi a lungo documentati su Internet).

    Mio padre invece, fedele alla tradizione familiare del Reality, concluse che io dovessi essere autodidatta. Un pomeriggio di aprile, mi concesse l’onore di accompagnarlo mentre conduceva la vacca a farsi montare dal toro di proprietà di un amico, in un podere poco distante.

    Insomma, la mia educazione sessuale fu un’ingroppata tra due bestie. Con i fattori e i braccianti che incitavano e insultavano gli amanti, assiepati dietro la staccionata. Molto educativo, non c’è che dire. Anche in tema di privacy. Al di là dell’atto sessuale, di cui avevo sentito parlare in classe, ciò che mi ha segnato (e non me ne faccio un vanto) fu la constatazione della totale assenza di corteggiamento e di preliminari bovini. Un’annusata reciproca alle parti intime, e via con il Reality a tutto spiano!{13}

    Lo so, forse è superfluo parlarne. Però, le esperienze di infanzia si sedimentano nella nostra memoria più profonda. Volente o nolente esse influenzano le nostre interazioni più viscerali, divenuti adulti. In sintesi, sto parlando di come avrei trattato le donne, una volta sviluppato. Di certo i Reality percepiti a casa, e i Reality bovini{14} non mi aiutarono a sviluppare una profonda empatia verso il gentil sesso.

    In seguito, in questo libro, capirete a cosa alluda.

    Tornando all’aspetto scolastico, gli insegnanti erano abbastanza disperati con me. Provarono a mettermi in punizione dietro la lavagna, a sbeffeggiarmi davanti agli altri allievi quando non facevo i compiti a casa, e infliggendomi diverse altre micro-umiliazioni. Deleterie, nella psicologia di un bambino. Io li ho odiati per anni, per quel loro comportamento. Durante l’adolescenza quando li incrociavo per le vie del paese, fantasticavo di tirargli i bidoncini del latte in testa per punirli. Poi, da adulto (e senza l’aiuto dello psicanalista) compresi in realtà quanto essi tenessero a me.   Ero il classico studente del tipo: signora, suo figlio è intelligente ma non si applica!.

    I professori cercarono di salvarmi da un destino di ignoranza, pungolandomi l’orgoglio ed i sensi di colpa. Fattori che andavano a farsi benedire quando la mattina dovevo correre a vendere il latte e il pomeriggio ero obbligato a dare una mano nei campi e con gli animali.

    Ma va bene così. Tutto sommato, ciò che ho imparato a scuola elementare di dimostrò essere il bagaglio indispensabile utile come bagaglio culturale per sviluppare il mio futuro mestiere:

    Socializzare, far di conto, conoscere i luoghi e le abitudini di un posto. Grazie, Maria Montessori.

    Un altro concetto che ci venne inculcato presto fu quello del ciclo della vita. Un po’ perché la mortalità infantile era ancor alta, anche in età scolare. Un po’ perché la vita media non era quella di oggi. Ricordo che in paese circolassero pochi anziani, chissà perché. Li incrociavo distrattamente alla festa patronale, e l’anno dopo non li vedevo più.

    Ma come tutti i bambini, non è che facessi molto caso a quelle vicende terrene e ultraterrene.

    I miei genitori, sempre attorno ai nove anni di vita, decisero che dovessi scoprire l’ineluttabilità della vita

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