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L'incostante via dell'odio
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L'incostante via dell'odio
E-book198 pagine2 ore

L'incostante via dell'odio

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Info su questo ebook

Il racconto parte dalla Sicilia e porta il lettore in giro per il mondo. Motivo: la ricerca della figlia del boss Santamaria, fuggita con un pericoloso terrorista, affidata a un nipote giornalista a cui fa una solenne promessa.
Un romanzo che attinge dall’universo teatrale e cinematografico, mantenendo sempre intatto l’ampio respiro della narrazione.
L’intricata trama è interamente costruita sulla correlazione tra temi storico-sociali ‒ mafia italiana, terrorismo islamico, dogmi religiosi e continui rimandi a personaggi ed eventi di notevolissima risonanza, che sono impressi nella mente di ogni lettore e contribuiscono allo sviluppo di una storia più che mai attuale.
Grazie alle sue abilità narrative, l’autore accompagna i protagonisti nel loro percorso di crescita personale esplorando il complesso mondo della psicologia umana.
In un’atmosfera thriller, carica di colpi di scena spesso violenti e repentini, l’occhio vigile del narratore esplora le gerarchie familiari, i legami sentimentali e i rapporti sociali intessuti tra i vari personaggi cogliendo il complesso mondo della psicologia umana.
L’incostante via dell’odio è un’opera in cui confluiscono cronaca, mistero e avventura, arricchita da un leggero alone di romanticismo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2021
ISBN9791220818018
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    Anteprima del libro

    L'incostante via dell'odio - Enzo Ferrara

    Il patto

    Non parlarmi d’accordi, abbominato

    nemico , […]

    Nessun patto fra l’ uomo e il lione

    Nessuna pace tra l’eterna guerra

    dell’agnello e del lupo, e tra noi due

    né giuramento né amistà nessuna.

    ( Iliade , Omero)

    Benedetto Santamaria guardava l’orologio di nascosto da Ciccio Farruggia che continuava a parlare.

    Erano le ventidue e dieci e ancora Jano non arrivava.

    «…Questa è la terza volta che quel bastardo di Liborio ci vuole fottere.» continuava con forza Ciccio. «Il Canalone è nostro! È sempre stato nostro! Nitto, che facciamo? Ci grattiamo le palle senza fare niente? Che cosa gli dico ora io alla madre di Salvo? Che suo figlio è morto per niente? Che cosa stiamo aspettando? Che ci ammazzino altri ragazzi?»

    Ciccio Farruggia dall’alto del suo metro e ottanta sovrastava Nitto ma non lo dominava. Parlava con calma, ma dava forza alla voce senza gridare. Anche il suo volto esprimeva collera, una rabbia pronta a esplodere.

    I suoi incalzanti interrogativi avevano costretto Nitto Santamaria a dare una risposta.

    «Tu pensi che ci possiamo parlare con Liborio?»

    «Parlare? Ci dobbiamo sparare! Nitto! Che ci parli a fare con questi pezzi di merda? Questi non hanno rispetto per nessuno, sono solo dei grandissimi figli di puttana!»

    «Ciccio, ti pare opportuno in questo momento fare la guerra a questi bastardi? Te lo chiedo come a un fratello, la possiamo affrontare una guerra in questo momento?»

    «Perché, ci sono momenti che si possono fare le guerre e momenti che non si possono fare? Se ti devi togliere un dente marcio te lo levi prima che infetti gli altri.»

    Santamaria afferrò il concetto. Ciccio Farruggia era un uomo deciso a tutto, anche a prendere il potere. In tempi diversi avrebbe fatto lui il ragionamento del suo compare. Scrollò dal suo cervello i pensieri personali e assunse il ruolo che gli spettava.

    «Hai ragione. Prendi i picciotti che ti servono e rompigli le corna a questi bastardi!»

    Ciccio Farruggia sospirò di sollievo e accennò a un sorriso di soddisfazione.

    «Ci penso io. Tu non ti devi preoccupare di niente!»

    I due uomini si salutarono con un bacio sulle guance. Ciccio rassicurò ancora il suo capo. «Tranquillo, ci penso io!»

    Nitto rimase solo, prese il cellulare e chiamò.

    «Dove sei?» disse.

    «L’aereo è arrivato in ritardo. Siamo a dieci minuti.» rispose la voce.

    «Entra da dietro, hai capito?»

    «Va bene.»

    Dalla sua finestra Nitto Santamaria guardava in lontananza la strada che avrebbe portato Jano al cancello della villa. La giornata era stata grigia e ventosa. Gli alberi di limoni, mossi dal vento, sembravano imitare l’ondeggiare del mare che si intravedeva. Sentiva vicino la sua fine, il distacco da quella terra che lui sentiva madre. Nitto Santamaria vedeva la sua fine avvicinarsi a grandi passi. Una sorte segnata come in una tragedia greca.

    Ricordò quel giorno nell’anfiteatro di Siracusa.

    Graziella, la figlia più piccola che studiava recitazione, aveva una piccola parte nella rappresentazione dell’Edipo Re, gli spiegò: «Vedi, papà, il protagonista, Edipo, viene a sapere che nel suo destino era scritto che egli avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Terrorizzato, fa di tutto affinché questo non accada e scappa da casa. N on sa che coloro che lo hanno cresciuto non sono i suoi veri genitori, ma persone che lo avevano accolto in fasce. Il suo cammino lo porta in un paese dove regnano un re e una regina che, egli non sa, sono i suoi veri genitori. Gli eventi lo costringeranno a uccidere il re, suo padre a sposarne la vedova, la sua vera madre.»

    Nitto ascoltò con un misto di tenerezza e orgoglio paterno: «Cosa significa? Che il destino di ognuno di noi è già scritto e non possiamo fare niente per cambiarlo?»

    «Bravo, papà, è proprio così!»

    «Ma tu ci credi a queste cose?»

    «Noooo! Questo è teatro e nel teatro le storie sono finzione. Oggi non è più così. Oggi il destino di ognuno di noi non è scritto da nessuna parte, oggi il destino ce lo costruiamo noi con le nostre mani, con la nostra intelligenza. Dobbiamo credere in noi, nelle nostre capacità.»

    «E tu ci credi in te?»

    «Certo che ci credo. Io sono sicura che sarò una grande attrice, che la gente quando mi vedrà in teatro mi applaudirà e si alzerà in piedi.»

    E si mise ad applaudire e ridere, contagiando con la risata anche il padre.

    A distanza di tempo, l’autorità di Nitto Santamaria era rimasta inalterata, come quella di un monarca: accettata e mai messa in discussione.

    Aveva perso la baldanza nello sguardo e nel corpo. I suoi settant’anni erano appesantiti in un corpo tozzo e poco agile. Aveva smesso di lottare contro la tendenza alla rotondità e alla perdita di capelli. Adesso appariva un po’ buffo nel suo metro e sessantacinque, con pancetta e pelata. Quello che non aveva perso era il suo acume e la sua prudenza. Riusciva ancora a catturare le persone con la sua affabilità per trasformarsi poi in spietato giudice in caso di uno sgarbo.

    Aveva ancora tutti i requisiti che gli avevano consentito, dopo aver superato tre tentativi di eliminazione, di essere un capo mafia temuto e rispettato.

    Dalla finestra seguì con attenzione la macchina di Jano che entrava dal cancello e si fermava nello slargo. Dall’Audi 2000 blu scesero due giovani. Non fu il figlio che Nitto seguì con lo sguardo ma l’altro. L’uomo si muoveva a disagio, guidato con larghi gesti verso l’ingresso posteriore della villa.

    Era un giovane sui trent’anni, alto circa un metro e ottanta, giacca blu e pantaloni di jeans, camicia bianca, capelli scuri e ondulati, carnagione chiara e una leggera ombra di barba non rasata. Camminava senza fretta, con l’aria di chi non conosce il posto, ma non lo spaventa.

    Nitto si preparò come se fosse importante per lui fare una buona impressione. Si guardò allo specchio, si lisciò i pochi capelli alle tempie, si aggiustò la camicia e accolse il nuovo venuto con un sorriso.

    «Massimo! Finalmente ho il piacere di vederti!»

    Con imbarazzata cortesia, il giovane porse la mano.

    «Ma come? La mano mi dai? A tuo zio? Un abbraccio è quello che ci vuole!»

    E abbracciò il giovane con calore non ricambiato.

    «Massimo è un po’ stanco, sai, il viaggio…» disse Jano.

    Nitto avvertì in quelle parole una nota di giustificazione per il comportamento del cugino e si congratulò mentalmente con il figlio.

    «Ma certo, certo! Vieni, vieni, Massimo! Accomodati!»

    Lo condusse nella sala grande. Qui due divani, un finto camino e mobili in stile fintamente classico arredavano una stanza in maniera impersonale.

    Il giovane si guardò intorno.

    «Signor Santamaria, perché ha voluto vedermi? Non capisco il motivo di questo incontro.»

    «Massimo, tu sei mio nipote, il figlio di mio fratello. Non ti pare un motivo valido? Fatti vedere! Sei proprio come tuo padre! Sai che cosa invidiavo io a tuo padre? Il fatto che fosse più alto di me. Ma siediti, ti prego!» disse con un sorriso conciliatore.

    Massimo si sedette, ma il suo atteggiamento restava di chiusura.

    Jano, in disparte, osservava senza intervenire.

    «Ho saputo che ti sei laureato con bei voti, bravo! Sono contento che almeno qualcuno della famiglia ci sia riuscito. Tuo cugino, invece, ha preferito lasciare la scuola. La verità sai qual è? Che ci piacciono assai le femmine, e siccome per le femmine ci vogliono i soldi, lui ha detto: vado a lavorare, e i soldi me li spendo tutti a donne. Hai capito? Quella testa d’asino lì!» disse con tono di affettuoso rimprovero, indicando il figlio.

    Massimo lo interruppe: «Signor Santamaria…»

    «Ma come mi chiami? Signor Santamaria? Zio Nitto, mi devi chiamare!»

    «Signor Santamaria,» insistette Massimo, «ho accettato questo incontro perché la persona che mi ha avvicinato a Milano ha parlato di problemi di carattere familiare che si dovevano discutere. La nostra parentela è purtroppo inevitabile, ma per quanto mi riguarda lei è per me un estraneo.»

    Jano si mosse per intervenire. «Senti…» Nitto lo bloccò con un gesto facendo capire al nipote che aspettava che lui concludesse il suo pensiero. Jano con uno scatto uscì dalla sala.

    «Il fatto di essere il figlio di suo fratello, non vuol dire che io debba, necessariamente, sentire un vincolo di parentela, così come non lo sentiva mio padre. Quindi le chiedo di dirmi ciò che deve, dopodiché potremo parlare anche attraverso avvocati.»

    Ci fu un momento di silenzio. Nitto si alzò e fece alcuni passi, una pausa, gli si rivolse guardandolo negli occhi.

    «Ti chiedo scusa, se mi sono permesso di essere tuo zio e di avere di te il ricordo di un bambino con cui giocavo. Hai ragione tu. Il tempo e le azioni degli uomini cambiano anche quelli che una volta erano vincoli di sangue. Ho sempre ammirato tuo padre per la sua intelligenza. Ma poi lui, come un principe offeso, ci lasciò. Lasciò la Sicilia, la sua città, la sua casa. Forse dal suo punto di vista fece una cosa che tu giudicherai giusta. Ma permettimi di dirti una cosa che da tanto tempo conservo nel mio petto, una cosa che come una rivelazione io ebbi un giorno. Mi sono chiesto: ma se mio fratello, più piccolo di me, più intelligente di me, se questo mio fratello che io guardavo come una possibilità di aiuto, una speranza, invece di lasciare questa terra, si fosse messo a lottare, anche contro di me e per me, forse io non sarei qui e tu non mi guarderesti come mi guardi ora.»

    Fece una breve pausa e poi riprese.

    «Ma non ti ho fatto venire qui per raccontarti vecchie storie ma perché ti voglio proporre un affare, un’opportunità, che puoi accettare o rifiutare, ma prima mi devi ascoltare.»

    Massimo fu colpito dalle inaspettate parole dello zio.

    «Signor Santamaria, non so che tipo di affare lei mi voglia proporre, ma non credo…»

    «Intanto mi potresti ascoltare! Che dici?»

    «La mia posizione di giornalista m’impone di essere rispettoso della legge…»

    «La legge non c’entra con quello che ti devo dire. È soltanto una questione di famiglia. La mia famiglia, che è un po’ anche la tua. Lo so che tu sei rispettoso della legge e questo ti fa onore, ma io mi fido di te, forse sbaglio, ma correrò il rischio. Tu sei venuto qua e sei uno dei pochi che conosce il mio rifugio. Domani o stasera stessa, potresti fare una telefonata e dire ai carabinieri: Nitto Santamaria si trova in tale posto. Ma sono sicuro che non lo farai.»

    Massimo non rispose. Inghiottì e si mise in posizione di ascolto.

    «Hai conosciuto tuo cugino Jano, lui ha quattro anni più di te; hai anche due cugine, Angela, che è sposata e fa il medico, lontano dalla Sicilia, e poi c’è Graziella, la più piccola. Anche tu hai una sorella, Adriana, come sta?»

    «Bene.»

    «Ha finito l’università?»

    «Sì.»

    «Spero che la vita le dia tutto quello che il suo cuore desidera.» Fece una lunga pausa durante la quale si alzò, prese un bicchiere d’acqua, ingoiò una pillola e tornò al suo posto.

    «So che tu hai finito bene i tuoi studi. Ti sei laureato, come si dice… con lode…»

    «Come lo sa?»

    «Non importa. Adesso cosa ti aspetti dalla vita?»

    «Ho studiato per fare il giornalista e voglio fare questo.»

    «Bene! Sono sicuro che riuscirai. Tu sei intelligente, hai carattere.»

    «Parla come se mi conoscesse!»

    «Ti piaccia o no sei un Santamaria.»

    Massimo non rispose.

    «Adesso parliamo di affari. Ti sei laureato con una tesi su, aspetta devo averla scritta…» frugò nella tasca e tirò fuori un foglietto piegato. «L’Islam e la democrazia occidentale. Incontro o scontro…»

    «Mi dirà, spero, come l’ha avuta. La mia tesi di laurea risale a cinque anni fa.»

    «Vedi, Massimo, se tu vuoi fare il giornalista, devi cogliere le opportunità che la vita ti offre. In questo momento hai un grande vantaggio, ma offuscato da un tuo risentimento non riesci vederlo. Tu in questo momento sei davanti a un pluriricercato dalle polizie di mezzo mondo e la sola cosa che sai fare è quella di essere… sdegnato. Somigli molto a tuo padre in questo. Perché non fai più il giornalista e un po’ meno il nipote?»

    Massimo afferrò il consiglio e allentò la sua difesa.

    «L’ascolto.»

    «Bene. Mia figlia, tua cugina Graziella, è scomparsa. Non sappiamo se è scappata o è stata

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