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L'Atlante del Silenzio
L'Atlante del Silenzio
L'Atlante del Silenzio
E-book431 pagine6 ore

L'Atlante del Silenzio

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Info su questo ebook

In una Palestina sconvolta, come oggi e sempre, dall'odio religioso, un

uomo benestante ed inquieto viene riafferrato dalla vita che aveva

rifiutato, da presenze familiari seppellite in sepolcri che scopre

vuoti.

Mentre legioni e zeloti affilano le armi per la lotta finale

fra Figli della Luce e Figli delle Tenebre, un vecchio rivoluzionario

pentito lo arruola in una battaglia combattuta sul filo della memoria,

sulla punta di uno stilo. Perché non tutte le parole di un profeta morto

vent'anni prima sono state raccolte.

Tra apostoli pentiti e

presenze demoniache, affaristi ed eremiti, sacerdoti e sicari, i due si

consumano nel fissare in ragni di inchiostro le parole di un Regno

misterioso -a sollecitare l'Assenza. A colmare il silenzio di Dio.
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2021
ISBN9791220346245
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    Anteprima del libro

    L'Atlante del Silenzio - Giuseppe Autiero

    Prima Parte

    1.

    La luna di Adar è sorta, ma l’equinozio non ha portato la primavera. Non è il mite vento mediterraneo che increspa le acque della rada, nel tramonto che sa d’inverno: a spingere la nave del Re verso l’Egitto sarà il qadim, il vento fresco degli altopiani orientali. Ha attraversato le colline di Galilea ed ora batte il porto di Cesarea, fa oscillare le navi onerarie alla fonda nella rada del Sebasto.

    Erode Agrippa compare, circondato dai mercenari galli che brandiscono scuri -procede lento, per dare modo a tutti di omaggiarlo, augurargli un felice viaggio. Sono schierati lungo i portici, per quel giorno sgombrati dalle merci: cortigiani della Traconitide dalle vesti sfarzose, principi carovanieri nabatei, finanzieri della Batanea, armatori di Cipro e Creta; quindi i sacerdoti del Tempio di Augusto, che hanno appena tratto fausti auspici sul viaggio; delegazioni delle città fenicie venute a ridefinire le concessioni, messi della Decapoli, ambasciatori delle città dell’altipiano siriano; la pattuglia di indovini e filosofi alle cui chiacchiere il Re ama passare le sere vuote; i maggiorenti di Cesarea, latifondisti, incettatori di derrate, esattori, delegati delle corporazioni dei mestieri, commercianti che hanno profittato dell’evento per un’ispezione ai loro fondachi; ci sono anche i Giudei della città, ma coi visi scuri. In fondo, attorniato da legionari, attende il Procuratore Gessio Floro -lo sciacallo.

    Antistene li conosce, di tutti potrebbe elencare i vizi nascosti, le ricchezze ancora più celate -e le ambizioni. Erode Agrippa fa gesti vaghi, forse sorride. Ormeggiata sotto il faro che il vecchio Erode, il Grande, volle dedicare a Druso, la trireme romana attende, scura contro il cielo del tramonto: un Leviatano, emerso a divorare la preda.

    Il Procurator Augusti si piega verso il Re, gli dice qualcosa. Agrippa accenna, non sorride più: già guarda in avanti, come tutto il corteo -verso quel tabernacolo in fondo, i cui teli sbattono al vento; ne emergono alcune figure velate: cortigiane, concubine, donne il cui potere Antistene sa, e teme -una loro maldicenza, un capriccio, bastano a stroncare carriere, a rovinare affari. Il corteo femminile si apre: eccola, colei che tutti attendono.

    Berenice, la sorella del Re, Regina ella stessa di quel regno dagli incerti confini, tra Galilea e le steppe di Syria. Non si vede da mesi nella loro capitale, la Cesarea di Filippo, oltre il lago di Genezaret. Voci la dicono malata, forse moribonda. Dall’Egitto sono venuti per lei medici famosi, guaritori, le preghiere di santi uomini sono state sollecitate dagli eremi del Fosso di Ghor. Infine, si mostra. Leggera, a passi minuti, avanza verso il fratello: il qadim le incolla la tunica addosso. Il viso, pallidissimo, è schiacciato sotto un turbante di seta. Il Re l’attende: Berenice si protende in un bacio delicato.

    Non sono tutti così casti i loro baci, nell’alcova…

    Antistene trasalisce, a quella frase pronunciata in un greco dall’accento esotico: quell’insinuazione può costare la vita. Gli altri fingono di non aver sentito: ma Antistene commette un errore -si volge, nota una figura corpulenta, riccamente abbigliata; forse un mercante fenicio, che respira pesantemente, un sorriso ad increspargli la barba curata.

    Un mormorio si alza: una folata ha strappato il turbante a Berenice, rivelandone il cranio rasato. Le cortigiane si affrettano a coprirla coi veli, scortandola nel tabernacolo. Il Re non ha alcuna reazione, si dirige all’imbarco della trireme: il qadim sembra incalzarlo, cacciarlo da quella città in cui la sua autorità non si estende molto oltre cerimonie e feste. Il tramonto si fa sera: i richiami dei marinai, lo sciabordio della trireme che si stacca lenta dal molo.

    La fila dei convitati si scioglie, tra scalpiccii, voci basse, svolazzare di mantelli. Allora è vero… -riprende quella voce ansante, sorniona. La Regina ha offerto i suoi capelli in un voto. Forse andrà a scioglierlo a Gerusalemme -dice quell’omaccione incosciente, sul cui viso florido le lampade dei portici, oscillando, balenano lame di ombra.

    Antistene si allontana: un errore può bastare, per oggi. Alla fine del molo, lo aspetta il gruppo di Ebrei. Il sacerdote Eleazar indossa lo shaluk, la tonaca giallo croco con le nappe color giacinto, segni della sua appartenenza ai Leviti; con lui c’è Shimon, uno degli anziani della congregazione che gestisce la sinagoga. Gli altri, restati indietro, sono commercianti, portano camicie ricamate, grossi anelli alle dita o appesi al collo: Antistene preferirebbe discutere con loro, tra mercanti ci si intende, piuttosto che avere a che fare coi modi trasversali dei religiosi giudaici.

    Avevamo in animo di venire da te, stimato Antistene, poi…

    Poi avete pensato che la mia conceria vi avrebbe messi in stato di impurità. Non temete, le greggi stanno scendendo dai pascoli. Saranno qui per l’inizio del mese di Nisan… puntuali, come ogni Pesach.

    Ecco, di questo volevamo parlarti. Molte famiglie non celebreranno la festa in città… Respiriamo paura, chi può si trasferisce a Gerusalemme.

    Avrete bisogno di meno agnelli.

    Molti li hanno già acquistati da te, versandoti l’anticipo… Come dire…

    Restituirò la caparra. Posso fare altro per i miei fratelli Giudei?

    Eleazar riprende: Ci sarebbe un’altra questione. C’è un terreno adiacente alla sinagoga, il cui proprietario è un uomo difficile, un Greco…

    Sostene, l’usuraio.

    Esatto… Più volte gli abbiamo fatto offerte, spingendoci ad un prezzo superiore al valore del terreno. Ma lui vuole mettere alla prova la nostra pazienza.

    L’anziano Shimon sbotta: Sostene sta costruendo un’officina, lasciandoci una via di accesso malagevole.

    E sull’altro lato c’è un mio magazzino. Ma non posso cedervelo -dice Antistene.

    I giovani sono esasperati, ci sono state zuffe.

    Il sacerdote riprende: Questa città è avvelenata dall’insofferenza reciproca. Tu, che sei un timorato…

    Non lo sono, Eleazar. Sono un uomo d’affari, che può darvi un consiglio su come si gestiscono gli affari a Cesarea. Un dono al Procuratore potrebbe spegnere qualche tensione. Non meno di quattro talenti.

    Shimon ghigna: Per Floro non ne basterebbero venti!

    Probabile. Ma è un tentativo che va fatto. Nel frattempo, tenete a freno i leoncelli di Giuda. La Decima Legione è acquartierata fuori le mura. Antistene sta per aggiungere qualcosa, ma desiste. Saluta, si avvia verso l’ippodromo: i Giudei avrebbero saputo presto dell’Editto con cui Nerone aveva affidato il governo della città ai Greci. I tempi della pacifica convivenza tra le varie genti di Cesarea stanno per finire. Qualche luce si accende: inizia la prima notte di Primavera.

    2.

    La conceria è a ridosso delle mura, in una zona poco urbanizzata: gli odori della lavorazione ammorbano l’aria, soprattutto in estate -ma Yarikh, il contabile, non sente quasi più quel puzzo. Ispeziona l’opificio deserto: le vasche per la macerazione, i sacchi di calce con cui la pelle viene disidratata, i bottali per la concia… Controlla gli strumenti per la scarnatura, che le pelli ad essiccare sui telai siano tese. Gli basta uno sguardo per verificare che sia tutto pronto per l’indomani. L’ultimo locale è il deposito dei cuoi pronti alla spedizione; cataste di pelli caprine con il pelo ancora attaccato, le grandi pelli bovine -domani saranno caricate sugli asini, destinate all’opificio di Muhraqa, tra i boschi del Carmelo. Sarebbero diventati calzari e corazze per i legionari, fibbie e scudisci.

    Dietro una tenda c’è il locale dei registri: anche quelle colonne di cifre sono strumenti ben allineati. Il padrone non tarderà, la cerimonia per la partenza del Re è certo finita. In un angolo, il giaciglio su cui il contabile passerà anche quella notte; gli altri due sorveglianti hanno chiesto il permesso di fare un salto a casa, per una rapida cena -così hanno detto. Yarikh glielo ha concesso: hanno mogli giovani. Stasera è la notte dell’equinozio: in molte case, in templi, nei boschi, molti celebreranno riti più o meno strani, a divinità dai nomi impronunciabili, forse persino a demoni -tutti, tranne i Giudei. I due torneranno stanchi, forse ubriachi: anche stanotte lui veglierà da solo. Yarikh sente il cigolio della porta, riconosce il passo sul pavimento chiazzato dalla concia. Il contabile prende la brocca del vino. Il padrone vuole cenare?

    Antistene dice: Tra poco ci sarà festa al Palazzo di Erode, saremo ospiti del Procuratore… -vuota la coppa. Al porto sono stato avvicinato dagli anziani della sinagoga.

    Per il magazzino? Cosa hai risposto?

    Quello che mi hai consigliato tu.

    Ci creerebbe un problema, e non risolverebbe il loro.

    Lo penso anch’io. Allargare di un cubito una via d’accesso ad una sinagoga non basterà. Troppi soffiano sul fuoco.

    Cesarea non è più quella di una volta. È arrivata troppa gente strana, da troppi posti… -mormora il contabile.

    Tu vieni da Tyro, giusto?

    Che c’entra, sono qui da tanti anni… È un’altra cosa.

    Sì, le cose che non vanno riguardano sempre gli altri.

    Yarikh prende i faldoni dei conti. Possiamo rinviare…

    No. La luna di Adar splende tonda, è il momento.

    Il contabile comincia dalle uscite: i pagamenti ai macellatori, ai fornitori di calce e legno di quercia, i salari degli operai della conceria, dell’opificio, dei pastori… La voce si va spegnendo. Antistene è distratto, si versa altro vino.

    Cosa c’è, padrone?

    La coppa viene vuotata. Poco fa ho fatto un errore.

    Mio suocero dice che il giusto pecca settanta volte al giorno.

    Io non sono un giusto. C’era un mercante, nel corteo, parlava a voce alta di cose che i saggi tacciono. L’ho ascoltato.

    Descrivimelo… Poi, Yarikh riflette: Forse è Lamech. Commercia in armi. Dicono che quando compare è prossima una guerra. Lo chiamano la Cometa Nera.

    È un Fenicio?

    Non saprei. Una volta, a Sidone, parlava in greco con accento aramaico. Si diverte a sembrare un senza patria. Posso informarmi.

    No. Ricomincia.

    Yarikh apre il secondo faldone, quello più corposo delle entrate: le greggi, la vendita dei prodotti in cuoio, l’incetta di grano dalle pianure di Jezreel… Il viso del padrone resta indecifrabile, la coppa è riempita e vuotata per la terza volta. Allora il contabile tace. Aspetta.

    Antistene indica l’ambiente semibuio. Sai che questa sala era tutta la conceria, una volta. La tana del vecchio Yoel. Il suo nerbo di cuoio vibra ancora, tra queste pareti: ma stavolta l’impugno io. Una piccola officina, a lavorarci eravamo in tre: Yoel, la sua moglie bambina ed un ragazzo scappato di casa.

    Yarikh pensa che è la prima volta che non parlano di lavoro. È nervoso.

    Mi ha insegnato tutto lui del mestiere. I suoi consigli sono incisi in me, le cicatrici delle sue nerbate sono i comandamenti del mio apprendistato. Li rileggo passandoci le dita.

    Era un Giudeo?

    Sì. E questo mestiere è impuro, secondo gli scribi. Doveva sottoporsi a lunghe purificazioni, prima di salire al Tempio. Ma nessun bagno, nessun balsamo di Jeriho poteva eliminare il puzzo dalla sua pelle… dalla mia pelle. Infine, ha smesso di andare a Gerusalemme.

    Il contabile va alla cassapanca, cerca altro vino.

    No, Yarikh, basta. Al palazzo di Erode non voglio arrivarci già ubriaco. Indica i fogli di papiro: Sei un buon amministratore. Ma queste tue colonne di cifre… sono troppo allineate, perfette.

    Il dipendente impallidisce: Perché mi dici questo, padrone? Mai, in questi anni… mai ti ho…

    Lo so, non mi derubi, come fanno altri nella tua posizione. Eppure, hai quattro bambini. Magari tua moglie non sempre condivide la tua onestà.

    Chana è figlia di un Giudeo osservante. Spesso non è d’accordo con le cose che le vengono in mente… -Yarikh d’un tratto ha paura, di quella confidenza.

    Dei miei affari ne sai più tu di me, ormai.

    Non volevo arrivare a questo.

    Perché? È così che si fa, per diventare tu il padrone, un giorno. Non è il pensiero di tua moglie? Succede, che uno cominci ed un altro finisca. Tu non sai come ha fatto un senza casa come me a diventare il padrone, qui… Nessuno lo sa, in effetti -una ruga, quella che i lavoranti temono, gli storce la bocca.

    La moglie di Yoel aveva pochi anni più dei miei, per questo forse il vecchio la trattava allo stesso modo. Le nerbate che le dava mi facevano male. Era come se fossi picchiato due volte, per le colpe di tre persone. È una storia banale, successa mille volte. Se due debolezze si uniscono, è per farne una più grande. Eravamo molto giovani. Lei, a sera, quando riassettavamo, mi diceva che il marito non le si accostava più. Io sapevo che preferiva le prostitute del porto. Mi trovai a baciare i suoi lividi, le nostre cicatrici combaciavano. Lei desiderava un figlio, eppure ne aveva paura: temeva che sarebbe stata la prova dell’adulterio. I Giudei lapidano le donne come me, diceva.

    Da fuori, le folate del qadim portano suoni lontani, forse risate e balli di festa, forse urla di agguati ed omicidi. A Cesarea, in quei mesi, entrambe le possibilità sono verosimili.

    Antistene riprende il racconto come se, dopo averlo taciuto per vent’anni, abbia fretta di vomitarlo. Una sera Yoel ci sorprese. Non urlò, non cercò un’arma, andò a prendere il nerbo… era appeso là dov’è ancora. Era ubriaco, scivolò sulle chiazze e cadde nella vasca della concia. Io gli porsi la mano, lui mi tese il nerbo. Riuscii a tirarlo verso il bordo. Poi, quando tutto il suo peso si appendeva allo scudiscio… ricadde indietro. La concia gli entrò nella strozza.

    Gli è sfuggita la presa… vero?

    Oppure fu la mia mano ad aprirsi… questa è la parte del racconto che spetta a te… Dopo il tempo del lutto, sposai la vedova: ci furono gli invitati, il banchetto coi musicanti. Ma lei non mi volle più nel suo letto. Qualche mese dopo, un mattino, la ritrovai a faccia in giù, nella stessa vasca.

    Padrone…

    Era tempo che questa storia venisse raccontata. Le cose succedono perché ci siano racconti.

    Arrivano i due operai, che restano sorpresi e allarmati, a vedere il padrone là, a quell’ora.

    Sicuro che ci sia bisogno di questa guardia notturna?

    La situazione peggiora… Vuoi essere scortato fino al Palazzo? … Padrone, prendi almeno una spada!

    Vado a comprarla da Lamech.

    3.

    Eumene odia le feste. C’è sempre il momento, ed è arrivato, in cui qualcuno dice: Chiedete ad Eumene… -perché è finito il vino, perché qualcuno ha vomitato nella piscina, perché un lettino s’è sfondato sotto troppe persone… Come se l’Intendente del Procuratore fosse tenuto a fare il cerimoniere, il cantiniere, lo stalliere e tutto il resto: il servo dei servi di Gessio Floro. A volte gli viene voglia di urlarlo a tutti, ai proprietari che lo pregano di dilazionare l’imposta fondiaria, ai delegati dei villaggi che non hanno da pagare il testatico, ai pubblicani che gli chiedono tempo per l’esazione: urlare che lui, quei sacchetti di denaro, li vede giusto il tempo di contarli e registrarli, alla presenza di due centurioni, prima che spariscano nel pozzo senza fondo del Procurator Augusti.

    Poco dopo mezzanotte: la festa è al punto in cui sono tutti ubriachi, avanzi di cibo galleggiano nella piscina, le danzatrici sono state trascinate qua e là, nei portici o sulla spiaggia ai piedi del Palazzo, per la seconda fase delle loro prestazioni. La musica sbanda, qualcuno canta a squarciagola, i servi nelle cucine si ingozzano coi resti del banchetto.

    Eumene avanza cauto tra i tavolinetti ed i lettini su cui stravaccano i mercanti, gli ambasciatori dalle barbe unte, gli affaristi Siro-greci che raccontano storielle oscene. Sprofondato nei cuscini, il Procuratore ascolta un mercante che lo fa sorridere: ma guarda, sembra proprio Lamech… La Cometa Nera è comparsa nel cielo di Cesarea, dunque.

    Guai se il Procuratore lo notasse: Floro ha sempre comandi pronti per Eumene. L’Intendente ha una meta, oltre l’orgia, verso il fondo del porticato. Là c’è una porticina nascosta: la sua via per le stelle. Nella penombra, nota la presenza dei legionari: il Centurione Sesto Lucilio ha schierato mezza centuria, tra l’esterno del Palazzo e il porticato. Eumene ne sente le voci, a volte un clangore di armi. Sono coscritti dai villaggi dell’altopiano syriano, o Samaritani che non vedono l’ora che scoppi finalmente la rivolta per massacrare Giudei. Eumene ne avverte l’afrore maschile, mescolato all’odore di cuoio sudato. Per lui, molto più eccitante della coppa di vino resinato bevuta a stomaco vuoto.

    Una scala stretta, ed è sulla terrazza. Il qadim è cessato, una brezza dal mare gli porta ricordi degli anni ad Atene. Com’era grande il cielo sull’Acropoli, com’era bello ascoltare le lezioni dei maestri dell’Accademia… Allora non sembrava che ci fossero contraddizioni, tra le parole dei filosofi, le cose del mondo e quel che la sua anima sentiva. Era persino possibile sognare di scrivere, diventare un maestro anche lui…

    Poi dalla Macedonia era arrivato suo padre, che forse si era stancato di ripetere a chiunque che il figlio minore studia filosofia ad Atene, sì, coi figli dei patrizi romani. Il mondo prima ti mostra l’eden, poi ti spiega che purtroppo la realtà è altro, ci sono doveri ed opportunità da cogliere. Per esempio, quel ruolo prestigioso di intendente del nuovo Procuratore della Giudea: L’inizio di un cursus honorum che ti porterà lontano! Suo padre conosceva troppa gente, tra Atene e Roma: soprattutto aveva il dono di puntare, tra tutti i generali romani in lotta, sempre su quello che sarebbe diventato Imperatore. Ma col figlio piccolo non era stato così lungimirante: con Floro, il suo cursus sarebbe corso probabilmente dritto nel carcere mamertino con l’accusa di peculato… a meno che, prima, la rivolta dei Giudei che quel pazzo sta aizzando non ammazzi tutti loro.

    Percorre il terrazzo fino all’estremo, là dove il Palazzo di Erode guarda il mare. Eumene respira, ascolta le onde che si frangono contro il promontorio roccioso su cui Erode il Costruttore aveva innestato il suo ennesimo Palazzo. Proteso nel mare, forma una insenatura contigua a quella del Sebasto, il porto vero e proprio, che Erode aveva strappato al mare con un’opera ciclopica. Eumene aveva sentito i racconti dei vecchi: di come i mecanopoiòi avessero costruito enormi cassoni di 30 cubiti, riempiti con calcestruzzo e quindi posati sul fondale, a creare i frangiflutti su cui erano sorti i moli. Gli stessi vecchi dicevano che, secondo loro, il porto stava sprofondando…

    L’ambizione di Cesarea era rivaleggiare col Pireo… Eumene sorride: nulla era paragonabile all’Atene della sua giovinezza, anche se doveva ammettere il genio costruttivo di Erode, che era riuscito a creare un vero porto, incastrandolo su una costa che correva piatta ed uniforme per mille stadi. Inventarsi una città, una capitale, non era da tutti: l’errore era stato riempirla di cani e gatti, di Siro-greci e Giudei.

    Cesarea non gli piaceva, sentimento che sentiva contraccambiato: i Greci lo disprezzavano quale esattore di Floro, i Giudei sputavano al suo passaggio per i suoi gusti sessuali, normali presso gente civile come gli Ateniesi. Aveva un’unica consolazione: Cesarea gli offriva l’occasione di verificare l’efficacia degli insegnamenti ricevuti dai suoi maestri scettici… Il vecchio Archelao insegnava che non conosciamo niente, in effetti, solo le nostre impressioni -soggettive, mutevoli, incerte. Nulla si sa… -diceva- Tutto si immagina.

    Cesarea incarnava quell’idea: costruita sul niente e già avviata a sprofondare nel niente, non si capiva neppure quando era… -per i Giudei, quello è l’anno 3827, per i Romani l’819, per i Greci invece il 129. Il peggio erano i soldi: sul tavolo di Eumene affluivano le monete più strane, denari romani, zuzim fenici, dracme greche, monete dei Maccabei o coniate dalle dinastie dei Seleucidi, dei Tolomei e dei Lagidi, e poi sicli ebraici, mine, talenti… I primi tempi, Eumene aveva provato a impilarle per tipo, a calcolarne l’equivalente in sesterzi secondo il cambio corrente… poi arrivavano i centurioni, che insaccavano tutto alla rinfusa.

    Per non parlare delle religioni, dei mille riti e credenze che correvano in quel fazzoletto di terra che era da sempre il ritrovo di ogni esaltato e profeta. Nulla si sa, aveva ragione Archelao: in quella parte di mondo che gli è toccata, tutto diventa relativo, ogni certezza deve annacquarsi, adattarsi a genti diverse, a lingue e credenze e suscettibilità disparate… Eppure… Eumene guarda verso sud, dove si intravede un profilo scuro, frastagliato. Laggiù c’è la roccaforte di Giuda, i monti che fanno da bastioni a Gerusalemme. Nella città, protetti da una muraglia formidabile, c’è una serie di Cortili concentrici… al centro dei quali è il Tempio, dentro il quale c’è l’area proibita del Santo. Poi, oltre un enorme, pesante velo, si apre il Santo dei Santi, dov’è lo sgabello sotto i piedi del Dio, il luogo nel quale solo il sommo Sacerdote, una volta all’anno può entrare… In quella terra instabile, c’è un grumo duro, impenetrabile: una fede senza incrinature, la certezza assurda che un Dio unico avesse parlato ad un uomo e ad un popolo. Un Dio geloso, di cui i Giudei temevano di pronunciare il nome segreto -lo mormorava solo il sommo Sacerdote, nel Santo dei Santi. Lo chiamavano la Presenza… A pensarci, Eumene, l’uomo di mondo scettico ed annoiato, avvertiva un brivido inspiegabile. Non era mai salito a Gerusalemme. Sospira ad Atene, piuttosto, a quella rocca di civiltà e bellezza, sempre pronta a cambiare idea, a credere che sia vero il contrario dell’ultima verità.

    Cosa ci faccio qui? -sbotta nel solito lamento. Mentre sui suoi libri di filosofia si depositano strati di polvere, mentre sprofondano nel mare del niente i sogni di carriera accademica, lui è là, impantanato nella modernità che avanza, avanza verso l’abisso di una guerra.

    Si volge verso la città. Cesarea è un sesterzio per metà affondato nel mare e per metà aggrappato alla spiaggia… Ormai vede monete ovunque. Sì, è proprio una moderna città greco-romana: di fronte al Palazzo, per tutta la lunghezza della spiaggia si stende l’ippodromo, alla fine del quale si erge il grande Tempio di Augusto, quindi le terme… ed un uomo.

    Sta là, seduto coi piedi a penzolare nel vuoto. Potrebbe essere un Sicario, uno di quei fanatici che stanno dilagando in Giudea… Per troncare il suo cursus, forse non c’era bisogno di una guerra: bastava un pugnale dalla lama ricurva. Poi, vede sul muretto una brocca di vino. Antistene… sei tu?

    Vieni a sedere, Eumene.

    Restano così, a dar da mangiare alle prime zanzare, guardando le luci riflettersi sulle acque cupe. Cosa si festeggia, precisamente? -Eumene con un gesto largo indica la città, i boschi, l’oscurità oltre il semicerchio delle mura. Si risponde da sé: L’unico che avrebbe un motivo per festeggiare, e non solo nella notte dell’equinozio, è il cavaliere Gessio Floro.

    Le corazze in cuoio sono state consegnate giorni fa.

    Anche lui, a battere cassa. Lo so, Antistene… Il Procuratore ha autorizzato il pagamento. Sei fortunato, altri fornitori aspettano mesi.

    Eumene ha notato che Floro, che teme solo la moglie ed il Governatore della Syria (quando c’è), non vuole conti in sospeso con Antistene. Un altro indizio del mistero che circonda quell’affarista: non si capisce a quale gente appartiene, parla greco, latino ed aramaico. Mercante abile, spietato con i lavoratori, eppure sembra disinteressato alla ricchezza.

    Non ti vedo spesso, al foro… -dice Eumene- I tuoi affari dove li tratti?

    Sui tetti del Palazzo di Erode… –e non sembra una battuta. Antistene non fa mai battute solo per ridere. Alle terme, in genere. I vapori caldi intontiscono i miei clienti.

    Eumene ricorda la visione di quell’uomo robusto, tra i fumi del calidarium… Aveva notato la ragnatela di cicatrici che gli percorreva la schiena, braccia e gambe, come pochi legionari potevano esibire. Da quale guerra veniva? Di certo, stava continuando a combatterla.

    Viene uno scoppio di risa, da giù. Eumene soffia: Cleopatra vuole vederti. Domani stesso.

    Che vuole, la moglie del Procuratore?

    Non lo so. In questo Palazzo, l’Intendente di Floro se ne intende meno di tutti, di molte cose… Più che altro, devo tenere il sacco aperto al saccheggio.

    Non durerà.

    Sta già finendo. È venuta la Cometa Nera, lo hai visto?

    Sì. Lamech mi ha proposto di accompagnarlo, più tardi. Da qualche parte, fuori le mura.

    Non dirmi niente, non voglio saperlo. Eumene scende dal muretto. Chissà quanto ci vorrà, ancora… -dice volgendosi verso l’alone di luce che sale dalla piscina. La vigilia di una sentinella, sulle mura, dura solo tre ore… Beate loro.

    4.

    Non ci sono carri grandi come quello, tra Syria e Idumea: le fiancate decorate da intarsi colorati, trainato da quattro asini, cela sotto il pianale una dispensa, otri di vino, un campionario della mercanzia; un impalcato offre copertura: srotolando le cortine, i passeggeri sono al riparo dal sole; dentro, i sedili sono forniti di cuscini, il pianale è coperto da tappeti. Sembra un cocchio imperiale, degno dei sovrani dei tempi antichi. Il conducente fenicio, Ithobaal, ne è fiero: è la sua casa ed il suo altare. Il padrone viaggia in continuazione, ed è uomo abituato agli agi. Ne ha bisogno, obeso com’è: il servo ne sente il respiro affannoso, nonostante i rumori della corsa notturna, nelle pause della conversazione con quel faccendiere di Cesarea. L’aria è serena, una luna enorme splende sulla catena del Carmelo. La stradina risalta bianca, tra il sonno dei campi coltivati. Due cavalieri nabatei precedono il carro: sanno loro dove si va, come sempre.

    Quest’anno la notte dell’equinozio invade il cielo con una luna piena -Lamech fa un gesto in alto. Un evento raro, che raddoppia la frenesia… e la superstizione!

    Tra questi campi c’è un tempio? -chiede Antistene.

    Il tempio sono i campi, la natura stessa…

    Vuoi incuriosirmi.

    Voglio donare la mia curiosità a chi sembra non averne.

    Alla mia età, si sa già tutto… cosa c’è in fondo alle braccia di un’altra donna, in fondo ad un’altra coppa di vino.

    A sentire nominare il vino, Ithobaal si passa il dorso della mano sulle labbra secche. Ha sete.

    Lamech dice: Non sei vecchio abbastanza per scoprire la curiosità della terza età, quando ormai non devi dimostrare più niente a nessuno. Sei troppo giovane, Antistene!

    Ecco che il padrone ricomincia a giocare con le parole. Stavolta parla in aramaico… Ma quante lingue conosce? Ithobaal si concentra sui quarti dei cavalli della scorta, ogni tanto alza gli occhi alla strada: intravede qualcosa, come una lucciola, più avanti.

    Lamech ha le dita grassocce strette da anelli. Sai, faccio il mercante per necessità. In realtà sono un filosofo che studia il divino nell’umano. Cerco di spiegarmi il bisogno degli uomini di credere in esseri superiori. I mille racconti con cui costruiscono mitologie, inventando riti e preghiere… mi affascinano. Battaglie nei cieli, sangue di giganti che impasta la terra e genera uomini, denti di drago seminati, dèi squartati e resuscitati, enormi tartarughe che reggono la terra, vergini rapite nel sottosuolo… Che fantasia!

    Sono solo le chiacchiere con cui gli uomini cercano di non sentire il silenzio, di non vedere il buio.

    A Cesarea mi diverto sempre, qui si cambia religione ad ogni incrocio di strade.

    I miei concittadini credono a tutto.

    Non i Giudei.

    Molti di loro si sono ellenizzati, frequentano le terme, parlano greco…

    Quando scoppierà la guerra, non esiteranno… Ascolta, Israele! è la preghiera che sale dal Tempio… Ascolteranno.

    Si dice che il tuo arrivo sia il segno dell’inizio.

    Mi chiamano la Cometa Nera, lo so. Le armi servono sempre, e qualcuno deve pur venderle… come altri vendono corazze ai legionari. Ma siamo arrivati. Speriamo di essere in tempo. Di questo rito mi hanno solo parlato, non l’ho mai osservato.

    Ithobaal ferma il carro; è inquieto, potrebbe essere un agguato -troppe bande di briganti corrono quelle contrade. Il padrone sembra sempre tranquillo, allegro come un bambino. Il conducente lo aiuta a smontare. L’operazione è complicata, finché, in uno scricchiolio degli assali, Lamech non depone la sua massa a terra. Lungo la stradina sono fermi veicoli, cavalli: gli animali sono inquieti. Ithobaal resta con gli altri conducenti: proverà a farsi offrire del vino.

    Alla luce della luna, Antistene vede filari di zolle rivoltate, che vaporano nel fresco della notte. Più avanti, in un boschetto di quercioli, le luci di torce sembrano una nota stonata. Ci sono persone strette nei mantelli. Lamech fa rumore, strascicando le babbucce: alcuni si voltano, facce inespressive, uomini anziani, alcune donne.

    Antistene pensa che la notte è ancora giovane: l’effetto del vino del Procuratore è svanito, nella corsa. Non ha sonno, neanche stanotte: in fondo è la stessa cosa, restare sveglio a casa o qui.

    Qualcuno si avvia, altri seguono: superato il boschetto, le torce si fermano al limite degli alberi, illuminando un tratto del campo. Antistene vede le figure nei mantelli disporsi intorno ad un solco: domani i contadini malediranno gli sconosciuti che, chissà perché, hanno calpestato il terreno dissodato. Nel solco c’è un cumulo di foglie. Poi, da più voci, si alza un canto monotono, sottotono, che si va facendo più forte…

    Ishtar sono io, la sola unica,

    a cui nessuno può paragonarsi.

    La Dea sono, maestra di grandi e umili,

    quella che depone e feconda,

    quella che sradica e distrugge.

    La sola sono a risplendere nei cieli,

    dal punto che muore il giorno, la sola.

    Dall’alba al tramonto, io sono colei

    che è in prima linea nella battaglia.

    Le figure cominciano ad ondeggiare al canto, alzando e abbassando le braccia -braccia candide di donne, muscolose di uomini. Anche la luna di Adar, enorme, è ferma ad ascoltare.

    Sono la donna che ti inebria, io,

    colei che ti porta nell’alto dei cieli.

    Sono colei che ti conforta, io,

    accanto al vino, quando siedi.

    La donna devota al marito io sono,

    quella che ti calma quando sei in collera.

    Sono l’amante cortese

    nell’intimità della casa.

    Sono la pietra preziosa, io,

    la punta di una spada

    che penetra nelle carni.

    Il mucchio di foglie, nel solco, si muove: in un fruscio, bianchi tentacoli si alzano al cielo -come germogli di una pianta che cercano la vita, la luce. Il coro si è fatto grido.

    Io sono colei che a notte,

    nel cielo, riempie di luce il firmamento!

    Colei che genera il timore della notte

    e l’inquietudine, io sono!

    I tentacoli si rivelano per braccia e gambe di una donna. È nuda: si inarca, solo foglie residue nascondono il ventre. Emerge il viso: sopracciglia nere, palpebre azzurre, guance di belletto, palmi delle mani colorati. Antistene ha visto nella Phoenike prostitute mascherate allo stesso modo… I capelli, impastati di fango, sono attaccati al cranio.

    Sono colei che dà parola alle prostitute

    nei templi, quella che fa parlare il fango!

    L’urlo è un richiamo, che trova infine risposta. Da una quercia viene un rumore di rami. Un uomo nudo è aggrappato nel folto: salta a terra, sul terreno soffice i piedi non fanno rumore. Si avvicina al solco. Il sesso è in erezione. La donna si scuote, dalla gola vengono suoni inarticolati, animaleschi… allarga le gambe, il solco della terra continua nel solco del sesso, velato solo da una manciata di foglie. Il coro emette un ultimo grido, le torce vengono abbassate e spente nella terra molle.

    Sono la pietra preziosa, io,

    la punta di una spada

    che penetra nelle carni!

    L’uomo, dalle carni brune e magre, famelico come un lupo, è su di lei. La donna rovescia indietro il capo in una posa innaturale. L’uomo sembra svanire nella donna, che è ricaduta, quasi svanita nel letto di foglie. Solo la luna di Adar illumina il coito: un frusciare secco, di foglie. L’uomo morde uno dei seni… Poi, si ferma. Si solleva.

    Un mormorio corre tra i presenti. Antistene vede quella figura efebica in piedi, foglie attaccate sulle cosce, sul ventre piatto… Gli occhi del giovane si dilatano, si rovesciano, il bianco si illumina al riflesso della luna: cerca qualcuno, tra i presenti -come lo fiutasse. Un gorgoglio emerge dalla gola. Alcune donne si allontanano, impaurite. Antistene è tra gli ultimi, a fianco di Lamech. Coglie un sorriso nel mercante: i denti riflettono anch’essi il biancore della luna.

    Infine, il brontolio dell’efebo diventa voce: ma stravolta, inumana -le parole sono quelle che potrebbe pronunciare un lupo. Chi sei … TU!!! -si slancia. Contro Antistene.

    Abbatte come pali le figure che gli si parano davanti: un indemoniato, la bava alla bocca. Antistene si sente puntare da quello sguardo bianco, senza pupille, bersaglio di quella ferocia demoniaca… Istintivamente, arretra di un passo… Ha tempo di pensare una sola cosa: Perché?

    L’ossesso protende le mani artigliate per avventarsi: ma un baleno squarcia il buio, sibili metallici fendono l’aria. Le braccia dell’uomo, recise di netto, cadono a terra. I Nabatei, con le scimitarre impugnate a due mani, si dispongono per un nuovo attacco. Ma Lamech mormora una frase: gli armati si ritirano, lasciano il giovane ad urlare e scalpitare tra i solchi, ad inzuppare di sangue nero la terra calpestata, violentata. Solo allora incominciano le urla, la fuga.

    Ithobaal non si meraviglia di niente: non può, al servizio di Lamech. Tornando a Cesarea, frusta gli asini: la notte è vecchia, la luna sta tramontando. Ascolta con mezzo orecchio le chiacchiere del padrone: non gli interessa poi molto la causa delle urla -con Lamech, ha visto di peggio.

    Il mercante soffia, nel buio: Sei rimasto colpito, vedo. Mi fa piacere per te.

    Antistene dice: Quel grido… Chi sei tu? Non capisco il senso…

    Mah, è una buona domanda. È quella che ci si pone in genere dopo i trent’anni, diciamo alla tua età. Te la sarai già fatta da solo, guardandoti allo specchio. Non è obbligatoria una risposta.

    Mi avrebbe attaccato.

    Era drogato. Tranquillo, d’ora in poi potrà attaccarti solo a morsi… -e ridacchia, Lamech, inciampando nel respiro. A parte questo divertente intermezzo, il rito mi ha deluso. In Egitto ho visto acrobazie rituali… e sessuali più complesse.

    Invocavano Ishtar…

    Una divinità antica, che ha preso molti nomi… Astarte, Afrodite… Una dea madre. I soliti simboli, la terra fecondata dal cielo… questi miti sono ripetitivi, sempre storie di morte e ritorno alla vita, spesso tramite rapporti sessuali o versamenti di sangue. Le tre ossessioni dell’uomo: lussuria, guerra, morte.

    Sarà la primavera, che sveglia il sangue.

    "O è il contrario. Forse questi assatanati immaginano di risvegliare la natura

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