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L'Aggressività come garanzia per una pacifica convivenza
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E-book270 pagine2 ore

L'Aggressività come garanzia per una pacifica convivenza

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Info su questo ebook

Un testo che mostra come le diverse forme di aggressività divengono

complementari, tanto da garantire la pacifica convivenza all'interno di

una specie, ma anche tra specie diverse. Il tutto è stato calibrato

sull'attività dei cani da guardiania, ma non mancano riferimenti a noi

umani. Vi è anche un capitolo che affronta il tema della biomeccanica in

ambito cinofilo, troppo spesso disatteso nella selezione.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2021
ISBN9791220357883
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    Anteprima del libro

    L'Aggressività come garanzia per una pacifica convivenza - Freddy Barbarossa

    Origine e funzioni dell’aggressività

    I centri nervosi implicati nel comportamento aggressivo.

    Il controllo neuronale del comportamento aggressivo, effettuato da alcune regioni del nostro cervello in seguito meglio descritte, è organizzato in ordine gerarchico e programmato. I movimenti muscolari relativi all’attacco e alla difesa sono programmati da circuiti neuronali localizzati nel tronco dell’encefalo. Le attività dei circuiti troncoencefalici sono a loro volta controllate dall’ipotalamo e dall’amigdala [vedi fig.].

    il Sistema limbico che comprende le aree cerebrali maggiormente

    coinvolte nelle varie forme di aggressività;

    tratto da www.crulygirl.naturlinl.pt

    Negli esperimenti in vivo sui gatti è emerso che sia il comportamento predatorio che quello difensivo possono essere evocati dalla stimolazione della sostanza grigia periacqueduttale (PAG) del mesencefalo. Già con la semplice stimolazione artificiale dei circuiti neuronali, emerge come le differenti tipologie di aggressività ed i comportamenti connessi abbiano origini diverse per far fronte ad esigenze, per l’appunto, di tipo diverso. ROBERTS e KIESS (1964), impiantando degli elettrodi nel cervello di gatti, in un punto dove lo stimolo suscitava l’attacco predatorio, hanno dimostrato che la stimolazione dell’istinto predatorio non implicava la contestuale sollecitazione dell’esigenza di nutrimento. Infatti, gatti che non avevano mostrato una naturale propensione a sopprimere ratti, a seguito della stimolazione, uccidevano il ratto senza di fatto nutrirsene nonostante risultassero affamati.

    Pertanto, si è visto che l’attacco di tipo predatorio non è sinonimo di comportamento nutritivo.

    Inoltre, il sistema della elettrostimolazione ha consentito di rilevare che, per esempio, l’aggressività predatoria e quella difensiva suscitano sensazioni ben diverse. PANSKEPP (1971) osservò nei suoi esperimenti con i ratti che essi preferiscono la stimolazione delle aree cerebrali che evocano l’attacco, anziché quelle interessate nell’aggressività difensiva.

    Negli esperimenti di condizionamento operante emergeva in modo evidente come i ratti, pigiando una leva, interrompevano lo stimolo evocante l’attacco difensivo, facendo altrettanto per autostimolarsi l’attacco predatorio. Si è dunque evidenziato che la stimolazione delle aree cerebrali scatenanti l’attacco predatorio costituisce un rinforzo positivo per l’animale, mentre quella interessata nella difesa un rinforzo negativo. Vedremo più avanti, in alcune citazioni riferite alle ricerche fatte dall’etologo Konrad Lorenz, come il comportamento aggressivo stimolato dalla predazione non crea sconforto o disagio, ma al contrario una sorta di senso di gratificazione, mentre l’aggressività difensiva, a salvaguardia della propria incolumità, di quella della prole come anche a difesa del territorio, è accompagnata da stress e preoccupazione che può sfociare in panico e quindi implica sempre e comunque un forte senso di disagio.

    Altri esperimenti hanno aiutato a comprendere le implicazioni neuronali nel comportamento aggressivo. SHAIKH, SIEGEL e collaboratori (1999) hanno indagato i circuiti neuronali dei gatti per individuare i centri responsabili del comportamento aggressivo, sia di tipo predatorio che di difesa. Hanno utilizzato una tecnica particolare che consentiva sia l’elettrostimolazione che l’infusione di sostanze chimiche in alcune aree del cervello. I dispositivi utilizzati a tal fine si chiamano elettrodi a cannula e sono costituiti da una cannula in acciaio inossidabile, rivestita da materiale isolante con la sola punta scoperta per consentire la trasmissione degli stimoli elettrici. Questi esperimenti hanno consentito di evidenziare che il comportamento aggressivo, sia predatorio che difensivo, può essere attivato dalla stimolazione di diverse regioni della sostanza grigia periacqueduttale (PAG). Anche le ricerche e gli esperimenti di Shaikh e Siegel hanno, come già accennato, evidenziato l’influenza dell’ipotalamo e dell’amigdala e della loro funzione eccitante ed inibitoria, attraverso le interconnessioni neuronali con la PAG [vedi figura].

    Il diagramma mostra le interconnessioni tra parti dell’amigdala,

    dell’ipotalamo e della sostanza grigia periacqueduttale e i loro effetti

    sulla rabbia difensiva e sul comportamento predatorio dei gatti..

    Diagramma tratto dal Carlson.

    Per dare una idea di cosa in concreto avveniva negli esperimenti anzidetti, ne descriverò uno al quale ha collaborato anche SCHUBERT (1996) .

    Fu collocato un elettrodo a cannula nella PAG dorsale ed un elettrodo tradizionale a filo metallico nell’ipotalamo mediale. La stimolazione della PAG dorsale sollecitò nel gatto una rabbia difensiva e la contestuale sollecitazione dell’ipotalamo mediale amplificò tale comportamento. Ciò conferma quanto già sperimentato in precedenza, ma la tecnica con la cannula ha consentito di ottenere altre informazioni. Infatti, l’infusione nella PAG dorsale di AP-7, bloccando i recettori NMDA (recettori ionotropici per il glutammato) inibiva gli effetti della stimolazione dell’ipotalamo mediale. Segno questo di un diretto collegamento e di una interconnessione immediata tra PAG e ipotalamo. Tale scambio di informazioni tra le due strutture cerebrali è stato ulteriormente confermato iniettando del tracciante retrogrado (fluorogold) nella PAG, che è andato a marcare dei neuroni nell’ipotalamo.

    Attraverso l’autoradiografia di fettine di tessuto della PAG contenenti NMDA radioattivo, si è riscontrata una densa presenza di recettori NMDA in quell’area, mentre attraverso la procedura a doppia marcatura si è visto che gli assoni che l’ipotalamo mediale invia alla PAG sono glutamatergici. Questa metodologia e altre simili, hanno consentito di osservare che le tre principali regioni dell’amigdala e due regioni dell’ipotalamo controllano la rabbia difensiva e la predazione , entrambi evidentemente controllate dalla PAG.

    L’aver potuto determinare questa rilevante ed inconfutabile importanza delle citate regioni cerebrali nelle manifestazioni aggressive non significa che altre aree siano del tutto disinteressate da tale fenomeno comportamentale. Anzi, è senza dubbio il contrario ed è assunto ormai comunemente condiviso che molte altre regioni siano a vario titolo coinvolte ed interferiscano in questo tipo di comunicazioni trasmesse dalla complessa rete di neuronale.

    Vari nuerotrasmettitori sono coinvolti nel comportamento aggressivo. Per esempio, generalmente l’aumento dell’attività delle sinapsi serotoninergiche inibisce l’atteggiamento aggressivo. Nel Proencefalo la sezione degli assoni serotoninergici facilita l’attacco aggressivo, presumibilmente rimuovendo un effetto inibitorio (VERGNES et al. 1988). Per tale ragione, alcuni medici hanno utilizzato farmaci serotoninergici per inibire l’aggressività e dunque l’atteggiamento violento nell’uomo.

    Sono state effettuate ricerche su un gruppo di scimmie alle quali è stato prelevato un campione di liquido cerebrospinale per rilevarne la concentrazione di 5-HIAA (un metabolita della serotonina 5-HT ). Al momento del rilascio della serotonina, la maggior parte del neurotrasmettitore viene riassorbito attraverso la ricaptazione, ma la restante parte, diffondendosi, si degrada in 5–HIAA che confluisce nel liquido cerebrospinale. Alti livelli di questo metabolita nel LCS (liquido cerebro-spinale) sono pertanto indice d’un alto livello di attività serotoninergica.

    Dalle ricerche di vari studiosi (MEHLMAN et al.1995; HIGLEY et al. 1996) è emerso, ad esempio, che le giovani scimmie con una minore concentrazione di 5-HIAA si esponevano con maggiore facilità a situazioni di rischio, rispetto a quelle con una concentrazione maggiore. Le scimmie contraddistinte da una minore concentrazione di 5-HIAA nel LCS avevano manifestazioni di aggressività anche verso animali gerarchicamente e fisicamente superiori. È dunque tacito che questo indice di ridotta attività serotoninergica evidenzia una minore inibizione dell’aggressività. Ovviamente bisogna essere cauti nell’interpretazione dei dati sperimentali, non dimenticando che la causa scatenante di una reazione comportamentale non sarà mai dovuta ad un solo fattore specifico, ma che nella vasta e complicata rete neuronale del nostro labirinto cerebrale intervengono sempre una serie di interconnessioni corroboranti o modulatori. Allo stesso modo, un neurotrasmettitore non ha mai una sola specifica funzione, ma interviene in molteplici altre elaborazioni di trasmissioni sinaptiche. Per tornare alla serotonina, essa non agisce solamente nell’inibizione dell’aggressività o dell’atteggiamento violento, ma più in generale sembra esercitare una funzione di controllo generale in tutti quelli che possano considerarsi atteggiamenti pericolosi.

    In uno studio di COCCARO e KAVOUSSI (1997) è stato dimostrato come la fluoxetina, meglio conosciuta in commercio con il nome di Prozac, che è un agonista della serotonina, abbassa in modo evidente i livelli di irritabilità. Uno studio di (BRUNNER et. al. 1993) ha evidenziato uno stretto legame genetico tra la serotonina ed il comportamento antisociale nell’uomo ed in particolare nei maschi. La sindrome antisociale ereditaria verrebbe provocata e quindi trasmessa dalla mutazione del gene delle monoamino-ossidasi di tipo A (MAO-A). Questo gene è localizzato sul cromosoma X e poiché nei maschi è presente un solo cromosoma X, di frequente si evidenziano in loro delle alterazioni dovuti a tale cromosoma. Dal momento che la MAO-A è l’enzima responsabile della degradazione della serotonina, si comprende la ragione di una maggiore tendenza all’aggressività delle persone con la tara genetica di un disordine X-dipendente.

    Questo particolare problema, concernente il cromosoma maschile, ci introduce nel campo specifico dell’aggressività nei maschi.

    Tutti gli studi sinora svolti hanno evidenziato come il controllo ormonale intervenga nel comportamento aggressivo. L’attività ormonale che stimola gli atteggiamenti finalizzati all’accoppiamento è strettamente connessa con il comportamento aggressivo per la conquista della femmina. Persino nelle specie dove non è necessario combattere per motivi territoriali, si manifestano comportamenti aggressivi volti alla conquista del partner.

    Del resto, in senso più lato, anche le strategie del gentiluomo, messe in atto per conquistare la donna, sono una forma di aggressività, interpretando la parola nel senso più puro della sua origine etimologica.

    La derivazione dal latino, della parola aggressività, si compone dalle parole ad (moto a luogo) e gredior dall’origine celtica gradi (procedere per gradi o passi). Dunque nell’accezione più comunemente condivisa adgredior essa viene tradotta con andare verso, ovvero raggiungere un obiettivo. Da ciò è facilmente deducibile che l’impegno di ottenere un risultato sia da considerarsi una forma di aggressività che, posta in questi termini, la scinde in modo netto da quella accumunata solitamente alla violenza. Per tornare all’esempio di cui sopra, le strategie di conquista di una donna, volte a sgombrare il campo da altri pretendenti, possono considerarsi una evoluzione dell’aggressività, tra la sublimazione e la ritualizzazione. Ma questo è un argomento di cui racconterò più avanti.

    Torniamo al contesto fisiologico-ormonale e a come i comportamenti aggressivi risentano degli effetti organizzativi ed attivanti degli ormoni.

    Negli esperimenti sui roditori di laboratorio si è evidenziato che la secrezione degli androgeni comincia in fase prenatale, diminuendo con la crescita per tornare ad aumentare nel periodo della pubertà. Il fatto che nella pubertà aumenti anche l’aggressività tra maschi lascia desumere che tale comportamento sia anch’esso controllato dai circuiti neuronali stimolati dagli androgeni.

    Già nel 1947 BEEMAN scoprì che la castrazione riduceva l’aggressività e che le iniezioni di testosterone la ripristinavano. La precoce androgenizzazione influisce sullo sviluppo del cervello, rendendo i circuiti neuronali di controllo del comportamento sessuale più reattivi al testosterone in età adulta.

    Anche VOM SAAL nel 1983, nei suoi esperimenti, trova conferma del fatto che una precoce androgenizzazione sensibilizza i circuiti neuronali, abbassando la soglia di attivazione del comportamento aggressivo in età avanzata. Questo fenomeno ovviamente non riguarda solamente l’aggressività finalizzata alla copulazione, ma interviene anche in comportamenti diversi, come la difesa del territorio o del rango gerarchico all’interno di un branco o gruppo, ovvero di una società organizzata.

    All’interno di questo capitolo ho accennato alla suddivisione delle aree cerebrali interessate a vario titolo nelle manifestazioni aggressive attraverso la loro attività neuronale. BEAN E CONNER (1978) hanno dimostrato, attraverso l’innesto di testosterone nell’Area Preottica Mediale (APM) di ratti maschi castrati, che tale stimolazione dei neuroni sensibili agli androgeni ripristinava l’atteggiamento aggressivo sia nel comportamento sessuale che tra maschi. Possiamo dedurne che l’area preottica mediale è coinvolta nei comportamenti di tipo aggressivo collegati all’attività della riproduzione.

    Inoltre è stato evidenziato che l’ipotalamo maschile e quello femminile sono funzionalmente diversi. Già nel 1971, RAISMAN e FIELD scoprirono, nei ratti, un nucleo situato nell’area preottica mediale dell’ipotalamo, poi chiamato nucleo sessualmente dimorfo, che nei maschi era più grande rispetto alle femmine. Mentre alla nascita detti nuclei sono di grandezza uguale, sia nelle femmine che nei maschi , già pochi giorni dopo si evidenzia una notevole differenza nella crescita. La crescita è scatenata dall’estradiolo che è stato aromatizzato a partire dal testosterone. Successivamente, questa differenza di grandezza dei nuclei sessualmente dimorfi nell’ipotalamo è stata verificata anche in altre specie di animali e tali differenze sono riscontrabili anche tra l’uomo e la donna (SWAAB e FLIERS 1985).

    E’ stato visto che l’aggressività nelle femmine e tra femmine di roditori può essere stimolata con l’innesto di testosterone. Abbiamo così una ulteriore conferma che gli androgeni producono un effetto organizzativo sull’aggressività delle femmine.

    L’aggressività più sviluppata nelle femmine è l’aggressività materna, volta alla difesa della prole. Anche in questo caso abbiamo l’intervento di un ormone, il progesterone, i cui livelli incidono su tale aggressività (MANN, KONEN e SVARE, 1984).

    Si è però rilevato che, per verificarsi detto atteggiamento aggressivo materno, non è sufficiente la sola presenza di ormoni ovarici o ipofisari, ma che intervengono fattori tattili ed olfattivi. Ovvero, in assenza dei neonati o di possibilità di allattamento tale comportamento non si verifica (SVARE e GANDELMAN, 1976). Esiste quindi una combinazione di elementi che includono paradigmi comportamentali trasmessi geneticamente che esulano dalla mera attività neuronale modulata dagli ormoni. Vediamo ora gli effetti degli androgeni sul comportamento umano.

    Questo studio tornerà utile quando, più avanti, andrò a comparare l’aggressività animale e quella umana.

    Anche nell’uomo troviamo una maggiore presenza di aggressività nel maschio che non nelle donne, e questo già in giovane età. A prescindere dai comuni modelli educativi occidentali o, ancor più, p.e. nei paesi del sud dell’Asia o del nord Africa, che accettano e pertanto stimolano una maggiore aggressività nei ragazzi piuttosto che nelle ragazze, non si può negare una influenza di natura biologica in tale differente potenziale aggressivo.

    Come studiato nelle varie specie di animali, così anche nei primati l’esposizione prenatale agli androgeni incrementa il comportamento aggressivo, per cui costituiremmo l’unica eccezione se non così fosse anche per noi umani, o meglio noi animali razionali.

    Gli effetti degli androgeni si manifestano con la pubertà, quando iniziano ad aumentare i livelli di testosterone nei ragazzi, che in quel periodo dello sviluppo tendono in modo maggiore ai comportamenti aggressivi. Anche nell’uomo le lotte fra maschi e l’aggressività a scopo sessuale sono soggetti a questa interferenza ormonale. Ovviamente non esistono ricerche supportate in modo scientifico, che comprovino in modo inconfutabile tali teorie sugli esseri umani , non potendo per ovvie ragioni etiche riprodurre nell’uomo gli esperimenti effettuati sugli animali da laboratorio. Ciò nonostante, abbiamo qualche testimonianza storica significativa che, quantomeno, ci suggerire di non essere molto lontani dalla verità con le nostre deduzioni.

    Infatti, alcune autorità, in passato, hanno tentato di reprimere le aggressioni sessuali attraverso l’evirazione dei condannati per tali crimini. Effettivamente si è rilevato che, con il cessare della pulsione sessuale, venivano meno anche gli attacchi aggressivi sia etero- che omosessuali ( HAWKE, 1951; STURUP, 1961; LASCHET, 1973).

    Ora abbiamo imparato, studiando i metodi della ricerca scientifica, che ci vuole ben altro per cominciare a poter parlare di risultati inconfutabili che possano costituire dogma. Di contro, per quanto consapevoli dei limiti insiti in certi risultati, questi non possono essere del tutto disattesi. In casi particolari ci sono stati anche trattamenti con steroidi di sintesi, che inibiscono la produzione di androgeni da parte dei testicoli e che hanno effettivamente ridotto l’aggressività a sfondo sessuale, ma come osservato anche da Walker e Mayer (1981), l’efficacia dei farmaci antiandrogeni viene meno nelle altre forme di aggressività. Anche le misurazioni dei livelli di testosterone, paragonati al tasso di tendenza a comportamenti aggressivi, hanno stabilito una correlazione diretta. Bisogna però qui ribadire che correlazione non è sinonimo di causalità. Infatti, nessuno studio correlazionale è in grado di darci la certezza che alti livelli di testosterone inducano ad atteggiamenti aggressivi o alla dominanza su altri.

    Secondo gli esperimenti effettuati da Mayer-Bahlburg (1981), i tentativi di dimostrare la causalità tra gli effetti organizzativi attivazionali del testosterone e l’aggressività durante e dopo il periodo della pubertà nei maschi umani si sono dimostrati vani. Mentre, se anche le ricerche di Albert, Walsh e Jonik (1993) hanno altrettanto dimostrato che l’aggressività non aumenta con i livelli di testosterone, che essa non viene eliminata con la castrazione e non viene incrementata con le iniezioni di testosterone, essi sono giunti a conclusioni diverse. Ovvero, asseriscono che la confusione venga ingenerata dalla mancanza di una opportuna distinzione

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