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Pestilenza
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E-book453 pagine5 ore

Pestilenza

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Info su questo ebook

Sono arrivati sulla Terra ‒ Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte ‒ quattro Cavalieri in sella ai loro temibili destrieri, diretti ognuno verso un angolo del mondo. Quattro Cavalieri con il potere di distruggere l’umanità, giunti sin qui per sterminarci tutti.
Quando Pestilenza arriva nella cittadina di Whistler, in Canada, Sara Burns sa per certo che tutte le persone che lei conosce e ama sono destinate a morire, a meno che il Cavaliere dalle fattezze angeliche non venga fermato. Ed è proprio questo che Sara ha in mente di fare quando, con un colpo di fucile, lo disarciona dal suo cavallo.
Peccato che nessuno l’abbia avvisata che la bestia immonda non può morire.
Si ritrova quindi prigioniera di un Cavaliere immortale e molto, molto arrabbiato, il cui unico scopo è farla soffrire. Più il tempo passa, però, e più Sara è incerta sui sentimenti che il messaggero dell’Apocalisse nutre per lei e... viceversa.
Sara può ancora salvare il mondo, ma per farlo dovrà essere disposta a sacrificare il suo cuore.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2021
ISBN9788855313063
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    Anteprima del libro

    Pestilenza - Laura Thalassa

    Prologo

    Immagine che contiene arma Descrizione generata automaticamente

    Arrivarono con il temporale.

    Il cielo si gonfiò e grosse nubi scure presero a ribollire e ad accavallarsi. L’aria del deserto si addensò, satura di umidità e di un odore mefitico e opprimente.

    Poi, il bagliore della folgore.

    Bum!

    Come se avesse preso fuoco il mondo rutilò, ed ecco apparire quattro figure spettrali in groppa alle loro temibili cavalcature.

    I mostruosi destrieri si impennarono e scalciarono mentre i loro padroni posavano sul mondo i loro implacabili sguardi di ghiaccio.

    Pestilenza, la corona appoggiata sul capo.

    Guerra, con la sua lama d’acciaio in alto sopra la testa.

    Carestia, che in mano reggeva una falce e una bilancia.

    E Morte, l’inviso Morte, con le ali nere ripiegate dietro la schiena e stretta nel pugno una torcia di fumo ributtante.

    I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, giunti a rivendicare la Terra e annientare i suoi abitanti umani.

    Il cielo si annerì e i corsieri partirono alla carica, gli zoccoli che alzavano sbuffi di polvere a ogni passo.

    Nord.

    Est.

    Sud.

    Ovest.

    Quattro Cavalieri al galoppo verso altrettanti angoli del globo, mentre alle loro spalle le macchine morivano e i fusibili saltavano. Internet crollò e i computer smisero di funzionare. I motori si spensero e gli aerei precipitarono dal cielo.

    Una alla volta, tutte le più grandi innovazioni della tecnologia cessarono di esistere e il mondo ripiombò nell’oscurità.

    Così fu e così sarà, perché l’era dell’uomo è tramontata e al suo posto è giunta quella dei Cavalieri.

    Sono discesi sulla terra, pronti a sterminarci tutti.

    Capitolo 1

    Anno cinque dell’era dei Cavalieri.

    «Tiriamo a sorte.»

    Sposto i miei occhi nocciola sui fiammiferi che Luke ha in mano. Ne prende uno e lo accende sul tavolo grezzo; la fiamma brilla intensa per un attimo poi lui la soffoca soffiandoci sopra.

    Sopra le nostre teste, le luci della stazione dei pompieri emettono quel ronzio fastidioso che di questi tempi è tipico di quasi tutti gli apparecchi elettrici, come se da un momento all’altro dovessero spegnersi.

    Luke ci mostra il fiammifero con la punta annerita.

    «Chi lo pesca resta indietro e porta a termine il piano.»

    Ecco la terribile decisione che abbiamo preso: una persona destinata a morire, tre a salvarsi.

    Tutto pur di uccidere quel bastardo figlio di puttana.

    Luke appoggia il fiammifero con la punta annerita insieme agli altri tre sul palmo, poi nasconde entrambe le mani sotto il tavolo per mischiarli.

    Fuori, dietro a una delle autopompe smantellate, ci aspettano i nostri effetti personali, quelli che ciascuno di noi ha preparato per la fuga.

    Sempre ammesso di essere tra i fortunati.

    Alla fine, Luke alza la mano, dal cui pugno chiuso spuntano gli steli tutti uguali.

    I primi a scegliere sono Felix e Briggs, gli altri due pompieri. Felix estrae il suo fiammifero... e ha la punta rossa.

    Soffia fuori l’aria. Si vede chiaramente che vorrebbe accasciarsi contro lo schienale della sedia, tanto grande è il sollievo, ma è troppo macho e troppo consapevole della nostra presenza per farlo. È il turno di Briggs... rosso anche lui.

    Io e Luke ci scambiamo uno sguardo.

    Uno di noi morirà.

    Intuisco che Luke si prepara a restare indietro. Gli ho già visto quell’espressione sul viso una volta, mentre cercavamo di domare un incendio che ci aveva circondati. Il fuoco si muoveva come se fosse guidato da Satana in persona, e lui aveva la faccia di un condannato a morte.

    Eravamo sopravvissuti entrambi. Forse riusciremo a sconfiggere anche questo diavolo.

    Mi avvicina il pugno chiuso. Sono rimasti solo due steli.

    Cinquanta e cinquanta di possibilità.

    Non sto a pensarci troppo e prendo un fiammifero.

    Il mio cervello ci mette un attimo a realizzare.

    Nero.

    Il nero significa... il nero significa morte.

    Sento i polmoni svuotarsi.

    Guardo i miei compagni di squadra, sui cui visi si alternano pietà e orrore.

    «Prima o poi dobbiamo morire tutti, no?» dico.

    «Sara...» comincia Briggs. Sono quasi sicura di piacergli più di quanto sia lecito tra colleghi e amici. «Vado io al posto tuo.» Come se questa dimostrazione di coraggio servisse a qualcosa; come se tu potessi chiedere a una ragazza di uscire con te, dopo che sei morto.

    Stringo il pugno attorno al fiammifero che ho ancora in mano. «No» rispondo, mentre sento la determinazione farsi strada dentro di me. «È deciso.»

    Tocca a me. Tocca. A. Me.

    Inspiro a fondo.

    «Quando sarà tutto finito,» aggiungo «per favore dite ai miei genitori cosa ho fatto.»

    Cerco di non pensare alla mia famiglia, evacuata insieme agli altri abitanti della città all’inizio della settimana. Mia madre, che quando ero piccola mi toglieva la crosta dai toast, e mio padre, che mi ha guardato affranto quando gli ho detto che mi ero offerta volontaria per restare indietro e fare l’ultimo turno. Ai suoi occhi sembravo già morta.

    In teoria avrei dovuto raggiungerli nel capanno di caccia del nonno.

    Non succederà più.

    Felix annuisce. «Contaci, Burns.»

    Mi alzo. Gli altri non si muovono.

    «Andate» li sprono alla fine. «Sarà qui a giorni.»

    Ore, più probabile.

    Devono aver capito che non ho voglia di perdere tempo a discutere, perché neanche ci provano a opporsi o a tergiversare. Uno alla volta mi si avvicinano e mi stringono in un abbraccio.

    «Doveva andare in modo diverso» mi sussurra Briggs all’orecchio, l’ultimo a lasciarmi andare.

    Doveva, poteva... Non ha più senso pensarci adesso. Tutto il mondo avrebbe dovuto essere diverso. Ma non lo è, ed è questo che conta.

    Ferma davanti all’ampia finestra li guardo allontanarsi. Luke va in garage a slegare il cavallo; Briggs e Felix sono già in sella alle loro bici, ognuno con lo zaino in spalla.

    Aspetto che siano lontani prima di andare a recuperare le mie cose. Faccio scorrere lo sguardo sul borsone, stracolmo di tutto ciò che potrebbe servirmi per sopravvivere – inclusa una raccolta delle opere migliori di Edgar Allan Poe – e poi mi soffermo sul fucile del nonno, il cui metallo oliato ha un’aria particolarmente letale.

    Non è il momento di avere paura, non finché non avrò completato la mia missione.

    Posso anche essere destinata a morire, ma mi porterò dietro quello stronzo infernale.

    Capitolo 2

    Nessuno sa da dove provengano i Quattro Cavalieri, solo che un giorno si sono presentati sui loro stalloni, lanciandosi al galoppo attraverso città e campagne, e al loro passaggio la tecnologia umana si è frantumata come onde sugli scogli.

    Nessuno ne ha colto il vero significato, a maggior ragione quando, all’improvviso, i Cavalieri sono scomparsi in maniera repentina, così come erano arrivati.

    I nostri strumenti elettronici non hanno ripreso a funzionare, ma noi abbiamo cominciato a cercare una spiegazione razionale per quegli eventi inesplicabili. Un’eruzione solare. Un attacco terroristico. Impulsi elettromagnetici coordinati.

    Tralasciando il fatto che nessuna di quelle teorie avesse un senso, erano comunque più ragionevoli dell’avvento di un Apocalisse biblica, così le abbiamo buttate giù con una smorfia, come una medicina cattiva, e ce le siamo fatte andare bene.

    Poi Pestilenza è riapparso.

    Rimango seduta a lungo al nostro tavolo, dopo che i miei colleghi – ex colleghi – se ne sono andati. Faccio scorrere le dita sulla cassa levigata del fucile del nonno, cercando di riabituarmi alla sensazione di averlo in mano.

    Se escludiamo le ultime settimane, durante le quali ho fatto volare lattine su lattine, erano anni che non toccavo un’arma.

    D’altronde, il numero di esseri viventi da me uccisi con questo fucile arriva addirittura a uno: un fagiano, la cui morte ha tormentato a lungo i miei sogni di dodicenne.

    Dovrò usarlo di nuovo.

    Mi alzo e lancio un’altra occhiata fuori dalla finestra. La bicicletta e il piccolo carrello improvvisato che le ho attaccato dietro alla bell’e meglio sono in mezzo allo spiazzo, con il cibo, il kit di pronto soccorso e altri oggetti utili. Più in là, i boschi tappezzano le colline che circondano la piccola città canadese di Whistler. Chi l’avrebbe mai detto che un Cavaliere si sarebbe spinto fin quassù, in questo angolo sperduto di mondo?

    Spronata da un impulso improvviso, raggiungo il frigorifero e prendo una birra: il mondo potrà pure finire, ma alla birra non ci rinuncio!

    Tiro via il tappo e vado nella sala comune. Accendo la tv.

    Niente.

    «Oh, porca di quella merda!» Sto per crepare nel peggiore dei modi e la tv decide di smettere di funzionare proprio oggi?

    Le sbatto sopra la mano aperta.

    Ancora niente.

    Snocciolando una sequela di parolacce di cui mio nonno sarebbe stato fiero, tiro un calcio all’inutile apparecchio, più per spregio che altro.

    Lo schermo crepita e torna in vita. Compare l’immagine di una presentatrice, il cui viso mi appare sgranato e deformato dalle righe colorate.

    «... sembra che si stia spostando attraverso la British Columbia... in direzione dell’oceano Pacifico...» Il rumore bianco statico rende difficile distinguere con chiarezza le parole. «... e si lascia alle spalle una scia di Febbre messianica...»

    È sufficiente che Pestilenza attraversi una città perché questa si infetti.

    Gli studiosi – quelli che continuano a dedicarsi al proprio lavoro anche dopo il declino della tecnologia – non sono riusciti a capire molto di questa epidemia: solo che è incredibilmente contagiosa e che l’elemento principale di trasmissione è il Cavaliere. Però le è stato dato un nome: Febbre messianica, o semplicemente la Febbre. Il nome è stato inventato da fantasmi, ma è questo ciò a cui si è ridotto il mondo: morti viventi, santi e peccatori.

    Spengo la tv, afferro lo zaino e il fucile ed esco fischiettando il tema di Indiana Jones. Forse, se farò finta che questa sia un’avventura e io un’eroina, eviterò di tormentarmi su quello che sono costretta a fare per salvare la mia città e il resto del mondo.

    Trascorro quasi tutta la giornata e parte della sera a preparare il mio bivacco, in un punto lungo l’autostrada che da Sea porta a Sky, il percorso più probabile del Cavaliere. Mi auguro – Signore, ti prego, fa’ che sia così – che si presenti quando ci sarà ancora luce. Se già di giorno ho una mira pessima, di notte è più probabile che colpisca me stessa piuttosto che lui.

    D’altronde, considerata la mia fortuna odierna, c’è anche la possibilità – un’enorme possibilità – che Pestilenza cambi strada, oppure che sia furbo e decida di avvicinarsi da un’altra direzione. Forse mi sfilerà accanto senza che neanche me ne accorga.

    Forse, forse, forse.

    O forse può essere che persino gli esseri più spaventosi e terribili posseggano un pizzico di logica.

    Afferro il fucile e le munizioni di scorta, striscio vicino all’autostrada e mi preparo all’attesa.

    Arriva con la prima neve della stagione.

    Il mattino successivo, un silenzio ovattato avvolge il mondo intero. Una coperta bianca e soffice ammanta il paesaggio e trasforma la strada in un nastro perlaceo. Nevica ancora e, immerso in tutto quel candore, lo scenario è assurdamente bello.

    All’improvviso, dagli alberi si alzano in volo gli uccelli. Trasalisco quando li vedo in alto, sopra di me, con le forme scure che si stagliano sullo sfondo del cielo coperto.

    Poi, da una dozzina di direzioni diverse arriva l’ululato dei lupi, e quel suono primordiale mi fa scorrere un brivido lungo la schiena. È come un segnale di avvertimento e sulla sua scia l’intera foresta prende vita. Predatori e prede mi sfrecciano accanto senza distinzione. Procioni, scoiattoli, lepri, coyote... uno di fianco all’altro. Vedo anche un puma procedere a grandi balzi in mezzo a tutti loro.

    Un attimo e sono spariti.

    Rilascio un sospiro tremante.

    Arriva.

    Mi accovaccio nella foresta semibuia con il fucile stretto tra le mani. Ne controllo la camera. Tolgo e rimetto le cartucce per assicurarmi che siano inserite nel modo corretto. Aggiusto e poi aggiusto ancora la presa.

    Ed è mentre sto ricontando le munizioni che ho in tasca che sento drizzarsi i peli sulla nuca. Sollevo lentamente la testa, lo sguardo fisso sull’autostrada abbandonata.

    Lo sento prima di riuscire a vederlo. Il suono cupo degli zoccoli del suo cavallo risuona nella mattina fredda, all’inizio così lontano che penso di averlo immaginato. Poi si fa sempre più forte e infine lo vedo.

    Perdo secondi preziosi a fissare a bocca aperta quella... cosa.

    È avvolto in un’armatura d’oro e monta un destriero bianco. Un arco e una faretra gli spuntano da dietro la schiena. I capelli biondi sono schiacciati sotto la corona, anch’essa d’oro, e il suo viso... il suo viso ha tratti angelici, orgogliosi.

    È quasi troppo per occhi umani. Troppo bello, troppo nobile, troppo sinistro. Non me lo aspettavo così. Non mi aspettavo di dimenticare me stessa e la mia missione di morte. Non mi aspettavo di sentirmi... commossa dalla sua presenza. Non con tutta la paura e l’odio che mi ribollono nello stomaco.

    La verità è che mi travolge, lui, il primo Cavaliere dell’Apocalisse.

    Pestilenza il Conquistatore.

    Capitolo 3

    Nessuno sa perché i Cavalieri siano arrivati cinque anni fa, o perché siano spariti quasi subito, né tanto meno perché Pestilenza, e solo lui, sia tornato per gettare il mondo nella disperazione.

    Naturalmente, tutti, e intendo proprio tutti, hanno una loro teoria – la maggior parte plausibile come la storia di Babbo Natale – ma nessuno ha ancora avuto l’occasione di mettere uno di questi Cavalieri con le spalle al muro e pretendere delle risposte.

    Quindi non ci resta che tirare a indovinare.

    Una delle poche certezze è che una mattina di sette mesi fa siamo stati informati della presenza di un Cavaliere nei pressi del parco nazionale delle Everglades, in Florida. C’è voluta quasi una settimana perché arrivasse anche il resto delle notizie: una strana malattia si stava diffondendo tra gli abitanti di Miami.

    Poco più tardi è stata annunciata la prima morte. I media hanno dato ampia risonanza alla notizia, e per le poche ore successive una donna ha detenuto il titolo di unica vittima; poi, però, il numero dei decessi è raddoppiato, e raddoppiato ancora, crescendo esponenzialmente e decimando prima la popolazione di Miami, poi quella di Fort Lauderdale e Boca Raton. L’infezione è risalita lungo la costa orientale degli Stati Uniti seguendo il percorso del sinistro Cavaliere.

    Questa volta, quando la creatura attraversava una città, non era la tecnologia ad andare distrutta, ma i corpi. È stato allora che il mondo ha capito che Pestilenza era tornato.

    Lo fisso. Non ha nulla di umano, così come la sua cavalcatura non ha nulla di equino.

    Nell’ultimo video che ho visto galoppava attraverso le strade di New York, arco alla mano, e scagliava frecce sulla massa urlante di persone che cercavano di darsi alla fuga.

    Ho dovuto guardare il notiziario cinque volte prima di crederci.

    Poi, non ce l’ho più fatta.

    E ora eccolo, davanti a me in carne e ossa. Pestilenza.

    Clop... clop... clop...

    Il Cavaliere e il suo destriero avanzano lentamente. La neve gli si è raccolta sulle spalle e sui capelli, ed è strano, ma tutto quel bianco riesce, in qualche modo, a esaltare la sua particolare e aliena bellezza.

    Trattengo il fiato per paura che il vapore del respiro possa tradire la mia presenza, ma lui sembra non prestare alcuna attenzione a ciò che lo circonda. Non ne ha bisogno perché chi, tranne me, si metterebbe volontariamente sul cammino dell’incarnazione fisica della peste?

    Senza mai togliergli gli occhi di dosso, alzo il fucile.

    Impiego solo qualche secondo a prendere la mira. Punto al petto perché è l’unica parte che posso verosimilmente sperare di colpire.

    Sento lo stomaco stringersi mentre fisso il Cavaliere attraverso la mia arma.

    Ho già visto uomini morire. Ho visto il fuoco mangiarsi i corpi fino a coprirli di vesciche e renderli irriconoscibili e ho odorato il tanfo vomitevole della carne bruciata.

    Eppure.

    Eppure, il mio dito esita sul grilletto.

    Non ho mai ucciso, fagiano escluso. Poco importa che questa creatura non sia umana e abbia tracciato un sentiero di morte lungo tutto il Nord America, resta il fatto che sembra viva, senziente, e sì, umana. Motivo per cui devo lottare contro me stessa per convincermi a farlo.

    Imbraccio meglio il fucile e chiudo gli occhi. Se porterò a termine questa missione, mamma vivrà e lo stesso papà. Briggs, Felix e Luke. I miei amici, i miei colleghi e le loro famiglie vivranno. L’intero mondo su cui Pestilenza ha posato gli occhi vivrà.

    Mi basta solo spostare il dito di qualche millimetro.

    Non ho mai pensato di essere una codarda, ma per un secondo sono vicina ad arrendermi.

    ’Fanculo te e la tua morale, Burns, fa’ in modo che la tua morte non sia inutile.

    Inspiro, espiro e premo il grilletto.

    Pam!

    La detonazione fa quasi più male del rinculo del fucile, un rumore secco che riecheggia nella foresta silenziosa.

    Davanti a me, il Cavaliere emette una specie di grugnito: la scarica di pallini lo ha colpito al petto e la forza dell’impatto lo fa volare giù dalla sella. Il cavallo si alza sulle zampe e scalcia nell’aria con un nitrito spaventato, poi corre via al galoppo.

    Sento lo stomaco in subbuglio.

    Tra un po’ vomito.

    Il destriero sta ancora scappando.

    Forse è lui che diffonde la malattia e non il suo Cavaliere. O forse lo fanno entrambi.

    Non posso correre rischi.

    «Mi dispiace» sussurro mentre prendo di nuovo la mira.

    Questa volta è più facile premere il grilletto. Forse perché l’ho già fatto, forse perché sono pronta al rinculo o allo scoppio della polvere da sparo, o forse perché uccidere un animale è più facile che uccidere un uomo, e lasciamo stare che nessuno dei due sia quello che sembra.

    La bestia scalcia con le zampe anteriori, emette un nitrito angosciante e viene scossa da un brivido, poi crolla a terra a neanche cinquanta metri dal suo padrone. Non si muove più.

    Rimango immobile diversi secondi per riprendere fiato.

    È fatta.

    Che Dio mi benedica, l’ho fatto davvero.

    Poso il fucile e raggiungo l’autostrada, gli occhi incollati sul Cavaliere. La sua armatura è un disastro. Non saprei dire se i pallini abbiano trapassato il pettorale o si siano limitati a intaccare il metallo, quello che è certo è che gli hanno massacrato il bel viso.

    La bile mi brucia la gola. Una corona di sangue si sta già formando attorno alla sua testa, ma, nonostante la sua faccia sia un ammasso di ferite, lo sento lamentarsi.

    «Oddio» sussurro.

    Questa cosa è ancora viva.

    Faccio appena in tempo a voltarmi che comincio a vomitare.

    Il suo respiro mi arriva in rantoli gorgoglianti. Allunga la mano e con le dita mi sfiora la punta dell’anfibio.

    Faccio un salto indietro e urlo. Per poco non cado.

    Non mi ero resa conto di essermi avvicinata tanto.

    Devo finire questa cosa.

    Mi tremano le gambe, ma corro a riprendere il fucile.

    Perché non l’ho portato con me?

    Con la mente annebbiata dal panico non riesco a ricordare accanto a quale albero l’ho lasciato... e il Cavaliere è ancora vivo.

    Lascio perdere la ricerca del fucile e mi precipito verso il bivacco. Tra le mie cose ci sono dei fiammiferi e una piccola latta di liquido per accendini.

    Mi tremano le mani quando li prendo; poi, senza pensare, torno da lui.

    Vuoi farlo davvero?

    Osservo confusa gli oggetti che ho in mano.

    È vivo e tu vuoi bruciarlo mentre ancora respira? Tu, un pompiere?

    Il fuoco non è una morte clemente. Anzi, forse è una delle peggiori. A quanto pare io non lo odio abbastanza, perché riesco a sopportare a malapena l’idea di ciò che sto per fargli.

    Mi avvicino al Cavaliere e sollevo il coperchio della latta. Mi mordo il labbro a sangue mentre gliela rovescio addosso e osservo il contenuto uscire gorgogliando. Lo inzuppo dalla testa ai piedi, ma devo fermarmi per vomitare ancora.

    Alla fine, riesco a versare tutto il liquido.

    Ora il problema sono i fiammiferi. Le mani mi tremano così tanto che non riesco a reggerli e cadono di continuo. Provo e riprovo finché non ne stringo uno tra le dita. Il passo successivo è sfregarlo sulla scatola.

    Il Cavaliere cerca di afferrarmi una caviglia.

    «... pregoooo...» geme da quella che una volta era la sua bocca.

    Mi scappa un urlo. Credo che fosse una supplica.

    Non guardarlo.

    Devo fare cinque tentativi prima di riuscire ad accendere quel cazzo di fiammifero. Se la mano non mi tremasse al punto di farmi perdere la presa, è probabile che sarei rimasta a fissare la fiamma finché non mi avesse bruciato le dita, invece il fiammifero mi cade.

    I vestiti si incendiano immediatamente e Pestilenza lancia un urlo di dolore.

    Il tanfo di carne bruciata comincia a diffondersi nell’aria mentre il fuoco si autoalimenta.

    Mi rendo conto in ritardo che l’armatura impedisce alle fiamme di procedere spedite, trasformando una morte già lenta in agonia. Il calore è troppo intenso e il fuoco troppo forte perché possa toccarlo, altrimenti gli avrei già tolto il pettorale e spento tutto.

    Mi vengono dei conati a vuoto. Non credo che sarei riuscita a dare a questa creatura una morte più orribile neanche volendolo.

    Urla fino a perdere la voce.

    Nessuno merita di andarsene in modo tanto doloroso. Nemmeno un messaggero dell’Apocalisse.

    Arretro e sento che le gambe mi cedono.

    Non mi sembra di aver compiuto un gesto nobile. Non mi sento un’eroina che ha salvato il mondo.

    Mi sento un’assassina.

    Avrei dovuto mettere anche una birra tra le mie cose... o magari cinque. Non è uno spettacolo a cui assistere da sobri.

    Però lo faccio. Guardo la sua pelle ricoprirsi di vesciche, annerirsi e poi bruciare. Lo osservo morire lentamente, ogni secondo un’agonia straziante. Rimango al suo fianco per ore, seduta sul ciglio di un’autostrada che ormai nessuno percorre più, e per tutto il tempo gli unici testimoni di quello che succede sono gli alberi che ci circondano come sentinelle.

    La neve si raccoglie attorno al suo corpo e si scioglie quando tocca i resti fumanti.

    A un certo punto sollevo lo sguardo e noto che il cavallo è sparito. Rimane solo una scia di sangue e neve calpestata in direzione del bosco. Razionalmente so che dovrei cercare il fucile, seguire le tracce dell’animale e, dopo averlo trovato, ucciderlo.

    Razionalmente lo so, ma ciò non significa che lo farò. Ho già dispensato troppa morte per oggi, ci penserò domani a finire.

    Il cielo si scurisce e io resto seduta nello stesso punto, finché il freddo non mi penetra nelle ossa.

    Alla fine, mi decido a tornare alla mia tenda. Allungo le gambe irrigidite, sento il corpo dolorante e la nausea non è ancora passata. Non so se la peste si sia già impossessata di me, o se questi sintomi siano imputabili alla mancanza di acqua, cibo e un riparo caldo per tutto il giorno. Comunque sia, mi sento malissimo.

    Mi sento morire.

    Mi lascio cadere sul sacco a pelo, e neanche mi prendo il disturbo di coprirmi.

    Comunque sia, ce l’ho fatta.

    Pestilenza è morto.

    Capitolo 4

    Mi sveglio con la sensazione di una mano sulla gola.

    «Di tutti gli esseri umani abietti che ho incontrato sul mio cammino, tu sei di certo la peggiore.»

    Spalanco gli occhi.

    Un mostro incombe su di me. Ha la faccia butterata e coperta di buchi sanguinolenti, la pelle è carbonizzata, scabra e in certi punti manca del tutto.

    Non lo riconoscerei se non fosse per gli occhi.

    Occhi azzurro cielo. Lo stesso colore con cui dipingono sempre i soffitti delle chiese.

    È il mio Cavaliere.

    Redivivo.

    «Impossibile» dico in un sussurro.

    Odora di cenere e carne bruciata.

    Come ha fatto a sopravvivere?

    Stringe la presa sul mio collo. «Tu, folle umana. Credi davvero che dall’inizio di questo viaggio non abbiano già provato a fare quello che neppure a te è riuscito? Hanno cercato di spararmi a Toronto, di sventrarmi a Winnipeg, di dissanguarmi a Buffalo e strangolarmi a Montreal. Hanno fatto questo e molto altro in città il cui nome dubito che sapresti riconoscere, perché voi volubili umani non vi preoccupate mai di guardare oltre voi stessi.»

    Altri ci hanno già... provato?

    Provato e fallito.

    È come prendersi un bicchiere d’acqua gelata in faccia. Ovvio che qualcuno avesse già provato a ucciderlo. Avrei dovuto immaginarlo.

    Però non ho mai visto nessun filmato, né sentito alcun resoconto di questi tentativi. Chiunque abbia provato a eliminarlo non è riuscito a dire al resto dell’umanità che non può essere ucciso.

    «Ovunque vada,» continua lui «c’è qualcuno come te. Qualcuno che pensa di potermi uccidere per salvare questo mondo malefico.»

    Non riesco a guardare il suo viso consumato e grottesco. Eppure, sembra già migliorato rispetto a quando l’ho lasciato, quando non era che un ammasso di cenere.

    Pestilenza mi attira a sé. «E ora pagherai per quello che hai osato fare.»

    Mi strattona per il collo.

    Anche le ultime vestigia di sonno mi hanno ormai abbandonato. Cerco di afferrargli la mano e urlo quando mi trovo sotto le dita solo ossa e tendini.

    Come fa a usare la mano quando non c’è rimasto che questo, ossa e tendini? La sua presa è come l’acciaio, inflessibile.

    Pestilenza mi tira fuori dalla tenda e mi getta a terra. Cado a quattro zampe nella neve bassa.

    Un attimo dopo sento un ginocchio premermi sulla schiena. Mi fa scorrere le mani sul tronco alla ricerca di altre armi. Rabbrividisco quando lo sento toccarmi con le ossa scarnificate. Fruga nelle tasche e ne tira fuori il coltellino svizzero e la scatola di fiammiferi.

    Nella tenue luce blu scuro che precede l’alba, la foresta è ammantata da un’atmosfera sinistra. C’è un silenzio di tomba, ora che tutti i suoi abitanti se ne sono andati da tempo.

    Dopo la perquisizione, Pestilenza fa una pausa. «Dov’è il tuo spirito combattivo?» mi chiede beffardo quando resto lì immobile. «Prima sei stata veloce ad agire. Che fine ha fatto la fiamma che anima voi umani?»

    Io sto ancora cercando di convincere la mia mente che quel mucchio di carne bruciata da cui mi sono allontanata ieri sera si è in qualche modo rigenerato. E parla.

    «Non hai niente da dire, eh?» Un attimo dopo mi afferra i polsi e li lega sopra la testa con uno spago che deve aver preso dalla mia roba. «Bene, meglio così. La conversazione di voi mortali lascia sempre a desiderare.»

    La pressione contro la mia schiena si alleggerisce.

    «In piedi» ordina.

    Ci metto un secondo di troppo a elaborare le sue parole, e lui usa la corda per tirarmi su. Ancora una volta ho l’occasione di guardarlo bene.

    È addirittura più mostruoso di quanto abbia creduto all’inizio. I capelli, il naso e le orecchie sono scomparsi, la pelle è tutta annerita. Non ha più nulla di umano, e di certo non assomiglia a qualcosa che dovrebbe essere vivo.

    L’armatura d’oro è ancora al suo posto e sembra intatta anche se la ricordo rovinata dal fuoco e intaccata dai pallini. Non riesco a vedere le braccia sotto di essa, ma non credo siano messe meglio del resto del corpo, considerando come il metallo sferraglia a ogni movimento.

    E le mani... delle mani non è rimasto che l’osso bianco e pochi brandelli di carne. Lo stesso per i piedi e le caviglie.

    I fianchi sono nascosti da una delle mie coperte. Deve averla rubata mentre dormivo. Il pensiero mi strappa una smorfia di disgusto.

    Pestilenza mi riporta all’autostrada tirandomi per i polsi legati. Sento il sangue defluirmi dal viso quando scorgo il cavallo bianco in paziente attesa del suo padrone, il fianco intriso di sangue. Scalpita sull’asfalto coperto di neve e stronfia. Quando mi vede lancia un nitrito spaventato e scarta di lato.

    Senza curarsi del cattivo umore della sua bestia, Pestilenza fissa l’estremità della corda dietro la sella.

    Io sposto lo sguardo tra i miei polsi legati e il destriero. «Che fai?»

    Lui mi ignora e si issa in groppa all’animale.

    «Non mi uccidi?» mi decido a chiedergli alla fine.

    Si volta, e c’è un’espressione incattivita sullo sfacelo che è la sua faccia.

    «Oh, no. Non ho intenzione di lasciarti morire. Troppo facile. La sofferenza è prerogativa dei vivi. E neanche immagini quanto ti farò soffrire.»

    Capitolo 5

    Per tutto il giorno Pestilenza conduce il cavallo al trotto lungo l’autostrada, costringendomi a corrergli dietro se non voglio essere trascinata per i polsi. Per fortuna sono un pompiere e non un colletto bianco e sono abituata a ore e ore di lavoro fisico. Nonostante ciò, e nonostante riesca a tenere il passo con il cavallo e il Cavaliere, è un cazzo di fastidio e presto i miei vestiti caldi sono zuppi di sudore.

    Attraversiamo Whistler e i miei occhi scorrono da un punto di riferimento all’altro. È il paese dove sono nata e cresciuta, dove ho trascorso gli inverni a fare snowboard e le estati a nuotare nel lago Cheakamus, dove ho imparato a guidare l’auto di famiglia e dove ho conosciuto il primo amore e dato il primo bacio, e ancora tutti gli altri momenti che hanno significato qualcosa nella mia vita. Quando ce ne andiamo, sento il bisogno di salutare tutto quello che è stato con un bacio d’addio.

    Corro per ore, finché

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