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Beethoven: La straordinaria complessità di un genio
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E-book596 pagine8 ore

Beethoven: La straordinaria complessità di un genio

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Info su questo ebook

Ludwig Van Beethoven fu uno dei più grandi geni mai esistiti; forse, secondo l’opinione di molti, il più grande musicista di tutti i tempi. Il suo contributo fu inestimabile, la parabola artistica inseparabile dal suo percorso umano. Beethoven fu il primo musicista “indipendente” della storia. Compose per sé, non per i committenti, e per esprimere i palpiti segreti dell’anima. Ponendo se stesso al centro della propria opera, divenne una figura eroica, riversando nella musica i propri affanni personali e trasformandoli in un messaggio di pace e di speranza universale. Questo volume è un viaggio per accostarci a Beethoven, scandagliandone l’animo e le sfaccettature della complessa personalità. A partire dalla descrizione delle caratteristiche fisiche, attraverso la ritrattistica e le testimonianze di personaggi coevi (come Rossini), conosceremo il Maestro affrontando vari aspetti della sua esistenza: il quadro storico, le vicende politiche, gli amori, le amicizie, il coinvolgimento con gli ideali illuministi, gli slanci emotivi e gli influssi sui futuri romantici.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788836160952
Beethoven: La straordinaria complessità di un genio

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    Anteprima del libro

    Beethoven - Rocco Di Campli

    copertina.jpg

    Rocco Di Campli

    s BEETHOVEN

    La straordinaria complessità di un genio

    Ai miei genitori che, oltre a molte altre doti, hanno avuto anche la (rara) pazienza di aspettare che alcuni sogni prendessero forma e sostanza.

    Alla memoria di Roberto Giorgio, che aveva la capacità di creare sempre la giusta armonia con il prossimo.

    A Melissa D’Alonzo, che accoglieva la vita con gentilezza e il suo sorriso solare.

    Alla mia insegnante di pianoforte, Annamaria Losco, che mi ha accompagnato in un percorso di crescita personale e musicale.

    Guida alla lettura di una biografia musicale

    Prefazione di Pietro Bisignani, cantore pontificio

    C’è chi la musica la ascolta, c’è chi la musica la sente, c’è chi la musica la scrive, e c’è poi chi la musica la vive. C’è chi la legge, chi la capisce (almeno, così dice), chi la insegna e chi la esegue. E ancora: c’è chi la musica la racconta sia attraverso una partitura scritta sia attraverso una biografia. Ognuna di queste figure chiama in causa, oggi più che mai, una grande, ma al tempo stesso, ristretta specializzazione o meglio, sensibilizzazione. Ma parliamo dell’oggetto in questione, che è poi il motivo per cui, ad esempio, abbiamo avuto un Beethoven, parliamo per un attimo della musica come vita e come arte del vivere di un determinato popolo; parliamo della musica come patrimonio, inafferrabile nella sostanza, ma al tempo stesso interpretabile a ogni esecuzione. È dal popolo che si genera una musica ed è dalla musica che si genera un popolo: entrambi sono strettamente connessi a dir poco da centomila anni circa, attraverso e per mezzo di un lungo passaparola da un pensiero creativo all’altro. La musica, e in particolare una specifica composizione di un dato periodo storico, esiste in funzione di un uomo (il compositore) che la immagina dentro di sé, che la coglie dai suoi pensieri e poi la conia, la intaglia, la ritaglia e le dà una forma: la trascrive riunendo il già esistente – che riecheggia da sempre inconsapevole – con il nuovo. Da pensiero creativo e misurato la musica diviene dunque oggetto cartaceo fruibile poi da tutti; a volte memorabile, come nel caso di Beethoven.

    Da questo, procedendo a ritroso, arriviamo alla storia dell’uomo, al lavoro dell’uomo, e dunque alla relazione che la musica ha con la nostra vita, cosa ancora oggi non compresa fino in fondo; la musica come valore umano e sociale, del singolo e della collettività, la musica come stimolo alla relazione tra le parti. Ma in questo cammino a ritroso arriviamo anche alla storiografia e, più indietro, al mito, ai cantori dell’oralità, e non solo. Penetriamo così la natura dell’uomo che, nella sua infinita creatività millenaria, come un’energia rinnovabile, un bel giorno trova il suo mezzo, trova e adotta gradualmente lo strumento della scrittura; uno strumento, al suo inizio, tanto discusso ma tanto potente, che nel corso dei secoli, poi, ha addirittura cambiato le regole della musica stessa. Si delinea così, dal cantore del mito a oggi, una doppia identità, una distinzione più marcata, più potente e più duratura, una scissione, insomma, fra il compositore e l’esecutore. Direte: il compositore scrive, l’esecutore esegue. No, troppo semplice, non funzionano così le cose nell’arte musicale. Un esempio: il pittore, attraverso il suo atto creativo, è l’unico protagonista. Terminata la sua opera, essa non ha poi bisogno di interpreti che la porgano al pubblico, di interpreti che con nuovi pennelli e nuovi colori ridipingano la tela infinite volte; il processo creativo ha inizio e termine con il primo e unico artista creatore. Al contrario, sia nella musica che nella danza, ci sono infiniti performer, tutti con la loro priorità interpretativa, sensibile e rivelatrice (a volte), dinamica, estemporanea, personale e relativa, pronti a riscrivere una nuova versione dell’opera, come una nuova tela. L’esecutore, se è un degno performer, non esegue, è più giusto dire che interpreta. In caso positivo, interpreterà, sì, per mezzo del suo colto ragionamento, ma ispirato e illuminato da un sapere occulto, inspiegabile e non trasmissibile attraverso la logica. In caso contrario, ispirato o no, interpreterà sempre qualcosa: interpreterà i suoi disguidi tecnici, le sue ingenuità musicali, la sua strabiliante tecnica e altro ancora, inconsapevolmente o meno. Naturalmente, non possiamo non riconoscere anche il valore sensibile e interpretativo del singolo ascoltatore, del tipo di individuo presente in sala il quale, a buon diritto, percepisce ciò che percepisce, diversamente da un altro qualsiasi individuo, che magari gli è seduto accanto. Ma la grande rivelazione non è ancora questa: il primo e più grande passo relativo all’interpretazione – non lo immaginerete mai – si compie proprio durante l’atto del comporre. È un momento, quello creativo, molto particolare e intimo, dove il compositore, con il proprio corpo, con il proprio ragionamento non fa che interpretare la sua stessa idea, o meglio, la sua voce interiore, per poi tradurla in note musicali, ritmi, indicazioni di piano, pianissimo, mezzoforte, sforzato, diminuendo, cercando di comprendere e di rendere comprensibile quell’idea ai futuri interpreti; e le risorse teoriche e tecniche non saranno mai sufficienti per trasmettere l’idea nella sua interezza, perché si tratta di un’idea viva, che va ben oltre le possibilità materiali della trascrizione su carta. Ogni scrittura, musicale e non, ha poi sempre questo grande limite: riuscire a fornire all’interprete la giusta chiave perché egli, attraverso la semplice lettura, riesca a cogliere ciò che nel nostro caso è oltre la partitura, un oltre che non è trascrivibile, che si trova oltre quella soglia che sicuramente il compositore ha visto, sentito e varcato. Nessuna scrittura, poi, garantisce una lettura efficacemente artistica, a meno che l’interprete non abbia anch’egli, oltre a tutti i requisiti tecnici e le conoscenze teoriche, la giusta intuizione capace di dare o ridare vita a ciò che è semplicemente scritto sulla carta. L’arte musicale in questo è molto severa, non perdona, non si concede al primo bravo lettore di turno; l’arte musicale chiede una sorta di intuizione metafisica, un vedere oltre le cose, o meglio, vedere cose nelle cose, e questo può anche definirsi un atto d’amore che ogni interprete sarebbe tenuto a compiere, anche se purtroppo non è sempre così. Dunque, non lasciamoci incantare dagli sfarzi delle sale da concerto, dai direttori e dai musicisti in genere: non sapremo mai che cosa avrebbe voluto Beethoven, e con lui tutti gli altri compositori, senza un riscontro effettivo dell’autore. Mi tornano in mente i Concerti con l’autore tenuti per molti anni a Pescara, dove Luciano Berio istruiva personalmente i musicisti che avrebbero dovuto suonare la sua musica, e si ascoltavano, poi, esecuzioni magistrali; in altre occasioni quegli stessi musicisti tornavano a Pescara per altri concerti, ma non riuscivano a produrre la stessa musica: la qualità artistica e il livello di esecuzione, senza una presenza come quella di Berio, si abbassava in modo stupefacente. Questa è una lampante dimostrazione di come l’idea, una volta fissata sulla carta, mostri già il suo primo limite, un limite che non cesserà di esistere, di riproporsi infinite volte a ogni nuova performance, a ogni nuova interpretazione.

    Ed eccoci all’incontro-scontro tra l’idea del compositore e l’idea del performer, due verità da considerare di pari importanza rispetto a uno stesso brano musicale. E sappiamo quanto, nella storia dell’uomo, questo strumento mediatore dell’interpretazione (che si muove tra l’interiorità del compositore e l’interiorità dell’interprete) sia costato al compositore e alla sua musica, alla cui performance noi assistiamo sempre ignari di tali complessità. Il performer, pur trovando qualsiasi musica già pronta sulla carta, già solo eseguendola, un po’ alla volta la cambia, la gira, la ritorce, la distende, e inevitabilmente vi introduce qualcosa di sé; un sé che è certamente anche il risultato di un’epoca, e poi di un’altra e di un’altra ancora. Ognuno di noi, nel passato, nel presente e nel futuro è e sarà sempre il risultato dell’epoca che lo nutre, che lo veste, che lo accoglie, che lo educa, e non solo. Allora, immaginiamo quanto la sola memoria umana, il semplice passaparola, con immensa audacia, col passare del tempo possa cambiare le carte in tavola (le note in carta), possa sciogliere nodi o annodare nuove trecce. Immaginiamo, malgrado l’esistenza di una partitura, quante versioni del Chiaro di Luna, lontane o vicine tra loro, lontane o vicine alle sue origini, siano state eseguite. Oppure immaginiamo in quanti luoghi, tra i più disparati al mondo, si sia udita la famosa terza maggiore discendente che apre la quinta Sinfonia di Beethoven, cantata dalle persone in modo giocoso e incalzante: Tan Tan Tan Taaa!. Mandibole di tutte le culture e di tutte le età si saranno mosse all’unisono, magari nascondendo un regalo dietro le spalle, prima di offrirlo al fortunato o alla fortunata. Tutti o quasi, almeno una volta, avranno rievocato questo particolare effetto sorpresa sonoro che quelle quattro note ci offrono generosamente. Immagino Chuck Berry, il famoso cantante di Rock and Roll afro-americano, cantare il suo Roll over Beethoven creato sull’onda di un moto di disappunto: nato come un raffinato e artistico sfogo quotidiano verso la sorella Lucy, quel brano divenne molto presto uno dei suoi brani di maggior successo. Ed ecco Ludwig, per un disappunto in famiglia, cavalcare il Rock and Roll insieme a Tchaikovsky e ad altri, tutti presi di mira da Chuck, l’afroamericano.

    Soffermandoci ancora per un attimo sul periodo storico che precede la scrittura, potremmo dire che questo incontro di verità, racchiuso tra idea e interpretazione dell’idea, avviene già con i greci e la mitologia, avviene con l’epopea, avviene prima di Platone, con l’oralità. A questo proposito potremmo affermare che, dai greci all’Amazzonia, ogni racconto mitologico dedicato a un evento particolare, seppur diverso da un altro racconto riguardante il medesimo evento, ha sempre lo stesso valore: un valore che dal cantore arriva al popolo. Un valore, come abbiamo già accennato, sempre in cammino, testimone di verità. Ogni racconto mitologico, seppur diverso da un altro racconto, è allo stesso modo vero. E ugualmente avviene tra i nativi delle Americhe, ad esempio, nel racconto mitologico che, oggi come ieri, trova spazio nella foresta Amazzonica attraverso il canto di un piccolissimo e invisibile uccellino, l’Uirapurú, definito dagli indios della foresta il dio dell’amore. E sappiamo quante versioni di questo racconto, nella sterminata Amazzonia, siano state narrate, tutte a loro modo vere, siano esse intonate dallo sciamano, dal guaritore o dal cantore. Ed ecco che anche il grande compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos (e non è che un piccolo esempio) si interessa al canto di questo mitico uccellino, si interessa al mitico racconto. Siamo qui nel pieno rapporto tra compositore e cantore, anzi, direi nel rapporto inverso. Ribaltati i ruoli, questa volta è il compositore (Villa-Lobos) a diventare interprete, interprete di un Mito narrato da sciamani, guaritori e cantori; una sorta di effetto domino che dalla fitta boscaglia del tempo arriva fino a noi. Villa-Lobos, con la sua filosofica pena (rubo la metafora a San Filippo Neri, riferendosi egli al giovane studente G. P. da Palestrina), ma anche e soprattutto con il suo pensiero tecnico, libera dalle gabbie della ratio il grazioso uccellino. L’Uirapurú, diventato ormai poema sinfonico, vola ancora più alto, esce dalla foresta, visita città e, cantando e narrando la triste storia di una coppia di amazzoni innamorati, arriva nei teatri di tutto il mondo. Siamo ancora una volta nell’ambito dell’oralità ma, con Villa-Lobos, in una oralità scritta: siamo all’ennesimo passaparola che, infine, incontra la penna, e sarà quest’ultima a trasformare il mitico volo del mitico volatile in un’opera d’arte. E a questo punto non posso fare a meno di ricordare Senofane (570-475 a.C.), che il filosofo italiano Carlo Sini definisce «il primo cantore che scrive i suoi testi, il primo cantore che apre l’uomo a un nuovo mondo, il mondo della letteratura (fatto di lettere), della storia, e abbiamo così la nascita dell’uomo della mente». E ancora, questo uomo della mente non può non riportare alla memoria l’espressione proprietario di un cervello con cui argutamente Beethoven si firmava in una delle lettere al fratello, e che altrettanto argutamente Di Campli utilizza come titolo di uno dei paragrafi di questo libro. Con quella frase Beethoven, grato al proprio genio musicale e spirituale, lontano dai pensieri materiali, rispondeva alle sottili provocazioni terrene (finanziarie) del fratello. Beethoven che, come Senofane, è un uomo della mente, al contrario di quegli uomini che dormono, di quelli che non sanno nemmeno di essere addormentati. Sini ci dice che «non possiamo comprendere Senofane se non conosciamo bene la storia greca di quel periodo, l’economia di quel periodo, come si onoravano gli dei […]». Possiamo dire la stessa cosa per Beethoven e per tutti gli altri diretti partecipanti alla storia umana e musicale: una biografia generosa non deve solo raccontare il personaggio, ma la storia di quel periodo, l’economia, gli aspetti politici e religiosi, e Rocco Di Campli non manca di esporre questi aspetti. Siamo alla musica e alla preistoria della musica, siamo al cantore, siamo al fattore rituale, siamo dunque alle identità e all’incontro-scontro tra queste. Ma entrambi, compositore e interprete, nei diversi ruoli e momenti, proprio lì, nel pieno delle loro differenti attività, a loro modo complementari, non fanno che descrivere se stessi, tracciare le loro identità, le loro personalità. Nello scrivere un brano o nell’interpretarlo siamo sempre noi il soggetto del nostro mondo, nel modo più sottile e sincero. Componendo o suonando composizioni di altri autori, come anche semplicemente parlando degli altri, non facciamo altro che dare notizie su noi stessi, su chi siamo, su cosa scegliamo di osservare e su come osserviamo la cosa. Comunichiamo al mondo circostante che cosa ci piace osservare e come descriviamo ciò che ci piace, le parole che usiamo… E questo riguarda anche la variabilità della storia, del lavoro storiografico, dei suoi punti di vista e dei suoi naturali movimenti; nel nostro caso riguarda anche il lavoro di un biografo; ma riguarda anche la nostra società attuale, caratterizzata dalla realtà virtuale: i social non fanno che studiare e osservare i nostri gusti, come raccontiamo e cosa raccontiamo. Dunque, tornando a noi, è vero che oggi come ieri ci troviamo a leggere una nuova biografia, ma al tempo stesso ci troviamo a leggere l’autore di tale biografia, e ciò che egli ha privilegiato in questo scritto. Niente paura, questo è sempre avvenuto e sempre avverrà, e anche qui è valida la metafora dell’energia rinnovabile. Scrivendo, un nuovo biografo rinnova e si rinnova, perché è lui ad osservare e non un altro; e indagando su nuovi fronti, che egli stesso senza quella biografia non avrebbe mai pensato di esplorare, le sue connessioni neuronali aumentano, si rinnovano, e lo stesso accade alla percezione del suo mondo interiore e del mondo che è fuori. Ogni storico pone il suo sguardo da uno o più punti di osservazione della cosa, ma la cosa stessa gli sfuggirà sempre di mano. Aspettiamoci, dunque, non la verità, ma delle nuove verità.

    Perché il genio di casa Beethoven ricerca affannosamente il dipinto di suo nonno, che il padre aveva presto venduto al primo offerente? Dipende solo dal cattivo rapporto padre-figlio o c’è qualcos’altro? Ci sarebbe da discuterne. Nonno Ludwig certamente non è per Beethoven solamente una figura di famiglia: c’è ben altro che con molta forza lo accomuna a lui, lo attrae e lo conforta.

    Un’altra domanda: chi è Rocco Di Campli? Perché lui e non uno storico? Da un certo punto di vista trovo sia stata una scelta, da parte della Casa Editrice, molto audace, sì, ma anche molto moderna, e soprattutto fuori tendenza. Dirò di più. Questo fa tornare in me la speranza, e con me probabilmente anche a Rudolf Arnheim avendo egli desiderato una scuola, o ancor più, uno stato che si preoccupasse di alfabetizzazione dei sensi del suo popolo. Come si nota fin dalle prime righe, Di Campli è sicuramente un uomo chiaro, dettagliato, minuzioso, sensibile e colto, ma principalmente onesto. Questo si evince puntualmente dalla sua fretta di dichiararsi un semplice utente, un fruitore molto appassionato di musica. Dunque: da fruitore a fruitore, virtualmente, questo libro sarà godibile come una simpatica ma istruttiva chiacchierata al bar…

    Ebbene, con grande piacere e soddisfazione in questa biografia io vedo e ascolto la voce del popolo passionale e sensibile, la voce dell’utente che scende in campo e che, malgrado le grandi difficoltà che questa società generosamente offre a molti di noi, sopravvive alla grande, tira dritto e si nutre della sua stessa passione, accompagnandosi con la sua profonda sensibilità umana e musicale. E qui torno per un attimo al valore sociale della musica. Di Campli studia, ricerca, crea percorsi alternativi, cresce, scrive, tiene conferenze; facendo questo si libera dall’ancora delle difficolta che molto spesso vorrebbe portarci giù.

    È una grande ricorrenza quella che stiamo festeggiando con questa biografia, il nostro mitico Ludwig van Beethoven (oggi è lui il mito), che io ho avuto il grandissimo piacere fisico e spirituale di cantare, sia nel coro della Rai di Roma sia in quello all’Accademia di Santa Cecilia: interpretazioni che mi hanno lasciato sensazioni memorabili e indescrivibili.

    Questo libro è anche un messaggio forte per noi tutti, e sembra dire: Quando nella vita tutto sembra portarci a fondo, tutto sembra mancare, i conti non tornano, le porte degli uffici si chiudono, i servizi che vorremmo scompaiono o non esistono, è allora il momento di tirarsi su le maniche, scendere in campo e provare a dire la nostra. E Di Campli, l’utente, come si definisce lui, la sua la dice molto bene. Oscar Wilde afferma che il critico ha il compito di educare il pubblico e l’artista quello di educare il critico, ma Rocco Di Campli fa ancora qualcosa in più. Notate l’ironia: egli non vuole passare per musicista né per esperto o specialista; egli stesso si definisce solo un grande e appassionato fruitore. Egli è sicuramente un entusiasta, ma, per dirla con Wilde, «egli è anche colui che porta dentro di sé i sogni, le idee e i sentimenti di migliaia di generazioni». Mi auguro dunque – e ci sono tutte le carte per far sì che ciò avvenga – che dopo questa lettura nascerà nei vostri cuori molta più voglia di diventare appassionati fruitori, per sensibilizzare la vostra anima e scendere in campo culturale, malgrado le condizioni esterne. Come i compositori di musica, anche noi, musicisti e non, abbiamo sempre bisogno di ascoltare la nostra voce interiore, una voce che non mente, una voce che però ha bisogno di silenzio, di sincerità e sensibilità, una voce che si rivolge a un orecchio particolare: «l’orecchio del cuore» (come lo chiama Sant’Agostino). Dunque, mi auguro che si faccia silenzio in aula, per poter più lietamente pensare. Per quanto riguarda il geniale festeggiato, a mio parere, che abbia avuto un nonno cantore, che tale nonno abbia praticato per anni il rito, ebbene, questo non è poco: non gli è decisamente passato inosservato, anche se, in fin dei conti, non ha avuto modo di goderselo questo nonno così speciale, a quanto pare. A proposito di nonno Ludwig, il rito, come sappiamo tutti, è il seme ancestrale dell’arte, e anche oggi, se lo si pratica con devota profondità, non pensando solamente o ingenuamente di far bene il proprio compito, ma di elevare il proprio canto e di condurre l’ascoltatore alla più alta meditazione, tutto questo ci riporta in un attimo ai primordi. Il rito rende tutti partecipi, ognuno con il proprio compito, e il canto non è intrattenimento, ma ha valore concelebrante. Il canto rituale ci riporta alle origini dei tempi, perché la funzione rituale nasce lì, agli albori, e ogni rito autenticamente vissuto li rievoca istantaneamente.

    Quando il Neanderthal e il Sapiens praticavano il rito, ovvero cantavano, danzavano e davano valore alle loro cerimonie tribali nelle caverne e all’aperto, era proprio lì che già veniva esercitata eroicamente e pateticamente quella a cui poi abbiamo dato il nome di Arte. Infatti arte e rito, fondamentalmente, hanno in comune una radice etimologica di provenienza indoeuropea, un comune denominatore che ci riporta alle origini dei loro significati (movimento, danza, dare valore, avvalorare), ed è ragionevole pensare che il Grande Nonno, avendo anch’egli vissuto fin dalla tenera età tutto ciò, avrà contribuito a infondere nel cuore e soprattutto nel sangue del festeggiato Ludwig quel tratto genetico, quel profilo del DNA in cui noi tutti riconosciamo l’espressione del genio.

    Introduzione

    Quando, lo scorso febbraio, mi si presentò l’incredibile opportunità di scrivere un libro sulla vita e le imprese di Beethoven, da sempre il compositore che amo di più in assoluto, e quindi di avere l’onore di plasmare una nuova biografia del Maestro allo scoccare del duecentocinquantesimo anniversario della nascita, comprensibilmente ero molto elettrizzato dall’idea. L’impresa era a dir poco allettante, un’occasione unica, ed ero così grato per ciò che mi stava capitando che lì per lì non mi soffermai a valutare le incertezze connesse con il compito assegnatomi.

    Fu solo qualche settimana dopo aver firmato il contratto per scrivere questo libro che, navigando su Internet, mi resi conto dell’enorme impresa nella quale mi ero imbarcato e dello spaventevole numero di studi di saggistica scritti e pubblicati sull’argomento. Sulle prime ero atterrito. È chiaro che quando sono approdato al progetto della stesura di questo saggio l’argomento non mi risultava affatto nuovo. Ma non avevo mai pienamente focalizzato quanto materiale fosse stato scritto sulla gigantesca figura di Beethoven, fatto che tuttavia certamente non ci deve meravigliare.

    Fermo restando il mio entusiasmo per la straordinaria avventura, stato d’animo che è rimasto ovviamente intatto, probabilmente un simile compito avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque si fosse trovato al mio posto. Dovevo ritagliarmi un posto in un territorio già dominato da autorevoli studiosi. Naturalmente non volevo né potevo deludere le aspettative di chi aveva scommesso su di me, anche come forma di ringraziamento per la fiducia accordatami, questo è sottinteso. Dal lato tecnico la mia vera preoccupazione era connessa con il mio tentativo di essere originale, nei limiti del consentito, e al tempo stesso fedele alla più rigorosa storiografia beethoveniana, per non rischiare di creare falsi o di commettere sacrilegi rispetto alle biografie ufficiali.

    Va premesso che scrivere qualcosa di nuovo sul conto di Beethoven, cercando di metterne in rilievo aspetti che non siano già stati ampiamente trattati e indagati a fondo dai pilastri della critica e dai biografi più famosi – i quali in alcuni casi hanno compiuto sforzi immani, raggiungendo risultati davvero stupefacenti – è un’impresa ardua, per non dire impossibile. Allo stesso tempo, questa non è certo una ragione sufficiente per rinunciare e gettare la spugna.

    Forse non è ancora stato detto tutto ciò che si poteva dire.

    Peraltro, sul versante opposto, non si può rifuggire completamente da aspetti per così dire inflazionati, dai dogmi e dai cliché, soprattutto per via della meritata popolarità planetaria – si potrebbe dire universale, un termine che si adatta perfettamente a Beethoven per ragioni che chiariremo in seguito – del nostro protagonista. Non possiamo cioè evitare certi aspetti pittoreschi e determinati tratti caratteristici che, oltre a fornire elementi di realtà, rappresentano la materia prima dell’aneddotica beethoveniana, in molti casi veramente esilarante. Non possiamo trascurarli e dimenticare di aggiungere queste pennellate al quadro generale, altrimenti si rischierebbe di alternare i lineamenti del personaggio e di renderne irriconoscibile il ritratto biografico tracciato. Questi aspetti biografici delle descrizioni beethoveniane forniscono infatti un’immagine gustosissima del compositore e non possiamo assolutamente prescinderne.

    È altrettanto vero che un personaggio come Beethoven deve essere raccontato con la dovuta solennità. Si può infatti indagare come e quanto si vuole, in ogni direzione, elaborare qualunque tipo di analisi, ma almeno nelle prime battute, nel prendere confidenza con l’argomento e nel fare conoscenza con il genio di Bonn, Beethoven va presentato secondo i canoni, con tutta la grandiosità che gli spetta.

    La complessa personalità di Beethoven, alla quale fa proprio riferimento il titolo del libro, costituisce anche al giorno d’oggi un rompicapo così interessante da continuare a irradiare il suo fluido magnetico sugli studiosi e i profani, musicisti, dilettanti e gente comune, tutti indistintamente, ugualmente e innegabilmente catturati dalla trascinante forza espressiva e comunicativa del Maestro. Non ne siamo solo ammirati ma anche soggiogati. Questa sua complessità inafferrabile, che a volte sfugge alle leggi della comprensione e non si lascia mai racchiudere completamente in schemi e categorie, ne fa un costante oggetto d’indagine ed è una delle ragioni principali – ma non l’unica – della sua attualità, una caratteristica che lo pone anzi in una dimensione a parte, fuori dal tempo. Il suo fascino è intatto e tale da sfuggire egregiamente all’assalto del tempo, non conosce la ruggine, come un metallo prezioso e inossidabile che basta lucidare e rispolverare.

    Proprio grazie a tale complessità, nonostante la ricchissima bibliografia, esiste sempre un margine di studio, una zona crepuscolare, qualche feudo da poter ancora esplorare e raccontare.

    Preso atto di ciò, la vera sfida che volevo e dovevo raccogliere era quella di cercare ugualmente di dire qualcosa che non fosse stato già detto e scritto da altri autori, o quantomeno di provare a dire le cose già dette ma presentandole in un modo nuovo, pur continuando a mantenermi nel rispetto e nel solco della tradizione. Era questo il dubbio principale che mi ha assillato, soprattutto in fase d’impostazione dell’opera. Se la sfida sia vinta o persa, chiaramente non posso stabilirlo. Ciò che posso garantirvi è che in corso d’opera non ho mai perso di vista questo obiettivo.

    Comunque la mia sensazione di smarrimento descritta all’inizio è presto scomparsa, così come si era presentata. Infatti mi sono subito reso conto di due circostanze fondamentali: la prima è che, anche se per ipotesi avessi acquistato e letto tutti i libri esistenti sulla vita e l’opera di Beethoven, e non credo sia un’analisi umanamente fattibile, una tale ricerca non sarebbe bastata a risolvere problemi che restano ancora aperti dopo oltre due secoli di biografie.

    Nel corso del tempo si è susseguita una serie di eminenti studiosi, che hanno dedicato la loro esistenza, come una missione, allo studio e all’approfondimento della vita e dell’arte di Beethoven. Nonostante l’ingente massa di questi studi, esistono questioni rimaste in sospeso, tuttora irrisolte, sull’esistenza e sulla musica del grande compositore. Quindi non potevo certo coltivare la chimerica e illusoria speranza di risolvere misteri che da più di duecento anni danno da scrivere e da pensare a storici, biografi e musicologi. Non poteva essere questo il mio ruolo. Dovevo raccontare il mio Beethoven, questo è ciò che ero chiamato a fare.

    La seconda circostanza consiste semplicemente nel fatto che Beethoven è uno di noi, un amico dell’umanità, se così mi è concesso dire. Il grande Ezio Bosso lo considerava addirittura un padre, uno dei motivi fondamentali per i quali aveva intrapreso e abbracciato la carriera musicale. Quindi dovevo solo ricordare a me stesso le ragioni per le quali Beethoven è sempre stato così importante per me e per la storia musicale del mondo anche se, in realtà, non le avevo mai dimenticate. E allora mi sono rasserenato, riprendendo il lavoro con rinnovata energia e, se possibile, spinto da una carica ancora più forte di prima. Logicamente i rischi che paventavo non si sono dissolti di colpo ma si sono ridimensionati secondo una diversa visione del lavoro.

    Proprio come gridava Schröder, il bambino pianista nei fumetti dei Peanuts, ho realizzato che «Beethoven è la risposta». E allora, dato che questo è anche il mio pensiero, il mio credo, è proprio lì, in Beethoven e in chi ama il compositore, che sono andato a cercare le risposte alle mie eventuali incertezze. Sarà forse un caso, tra l’altro, che il personaggio dei fumetti abbia lo stesso cognome di una cantante del Fidelio, Wilhelmine Schröder?

    La dottoressa Miriam Zanetti, della casa editrice, quando ci siamo sentiti al telefono per la prima volta, mi ha detto una frase, semplice ma fondamentale, risolutiva: «Gradiremmo ricevere un libro scritto con il cuore».

    «Certamente lo sarà!» Ho promesso. Era quello il segreto, il principio di fondo. Ed è esattamente quello che ho cercato di realizzare. Già durante la telefonata dunque mi ero reso conto che questa era la strada giusta, forse l’unica che potessi veramente percorrere. È così infatti che ho cercato di procedere, dall’inizio alla fine del progetto, ho sempre cercato di tenere ben presente questo criterio ispiratore, questa semplice, ma forte motivazione. Ed è questo che mi ha permesso di resistere all’assedio delle incertezze, quando il fantasma del dubbio mi ha fatto vacillare.

    Essendo da sempre un convinto e fervente estimatore di Beethoven, devo confessare che la tentazione di stilare un panegirico o un’apoteosi inizialmente è stata forte e ho dovuto resistere, astenendomi dal confezionare un inno di ringraziamento di un fan verso il proprio idolo.

    Una biografia, sia pur non accademica, anche se caratterizzata da un intento prevalentemente divulgativo piuttosto che didattico, deve sempre basarsi su una rigorosa ricerca bibliografica e non può essere presentata da un’unica prospettiva, ma deve garantire una visione ragionevolmente panoramica e per quanto possibile imparziale, altrimenti porterebbe con sé un difetto d’origine: quello di tessere una lode a senso unico, un tributo monotematico.

    Intendiamoci, non ci sarebbe nulla di male, di per sé. Se stessi scrivendo un componimento personale, come una poesia, una canzone, un romanzo o una ballata, non vi sarebbe nulla di sbagliato in un tale approccio. Ma questo libro appunto non è una finzione narrativa. Come tale ha l’obiettivo e l’ambizione – sana – di raccontare lo svolgimento dei fatti. Deve dunque conservare le caratteristiche storiche e la documentazione scientifica proprie di una biografia.

    Ho cercato pertanto di tirare le somme sperando di ricavare, per quanto possibile, un quadro organico e un resoconto dettagliato, raccogliendo dati, informazioni e commenti per poi trasferire, a mia volta, i fatti salienti ma anche impressioni e sensazioni. Sono stato animato da un costante trasporto verso l’obiettivo e verso la materia ma senza mai allontanarmi da una rigorosa ricerca basata sulle opinioni e le testimonianze riferite dagli studiosi.

    Alcuni argomenti hanno giustificato la scelta dell’inserimento di qualche focus di approfondimento, interventi monografici che si intercalano, anche se in modo rarefatto, al testo vero e proprio e alle pagine del percorso biografico.

    Prologo

    «Proprietario di un cervello»… e di un’anima

    Il talento è ciò che un uomo possiede, il Genio è ciò che possiede un uomo.

    Guy Debord

    Il bizzarro titolo che ho scelto per questo paragrafo e per aprire il saggio, parafrasando un fatto reale, fa riferimento a un simpatico aneddoto – la vita di Beethoven risulta costellata di scene divertenti.

    Fu lo stesso Beethoven ad autodefinirsi in questo modo, «proprietario di un cervello» appunto, firmandosi così in risposta al fratello, Nikolaus Johann, con il quale non andava molto d’accordo, per usare un eufemismo, e che aveva creduto di umiliarlo e metterlo in difficoltà mandandogli una lettera nella quale si era firmato «proprietario di terre». Mi sono permesso di aggiungere una coda, un corollario a tale fiera affermazione di Ludwig perché mi pareva giusto completare con un ultimo tocco questa straordinaria dimostrazione di orgoglio e dignità.

    La lettera in questione è un biglietto di auguri spedito da Nikolaus Johann per il Capodanno 1826, il penultimo vissuto da Beethoven. Come possiamo notare, Ludwig non si lasciò affatto impressionare dal commento del fratello e non subì passivamente la provocazione, anzi rispose per le rime alla stoccata, anche se in modo elegante e originale, sfoderando a sua volta un vero colpo di fioretto. Del resto non era certo tipo da accettare torti in silenzio. Sapeva essere ruvido all’occorrenza ma al tempo stesso non mancava di spirito ed era capace di un umorismo sferzante. L’aneddoto è molto esilarante, soprattutto perché mostra come a volte Beethoven avesse la battuta pronta.

    Al di là dell’aspetto colorito, l’episodio mette in luce due fatti essenziali, che è interessante mettere subito a fuoco: innanzitutto la coscienza che Beethoven aveva del proprio genio e soprattutto della missione terrena della quale si sentiva investito, la profonda consapevolezza del messaggio che sentiva di dover e voler lasciare al mondo; in secondo luogo, dall’affermazione citata emerge il ruolo fondamentale che Beethoven attribuiva all’arte come forma di aristocrazia dello spirito, una nobiltà che egli considerava ben superiore a quella ereditaria, acquisita per diritto alla nascita e assegnata dai titoli nobiliari e dal lignaggio. Relativamente a questo secondo aspetto, in particolare, si tenga presente che Beethoven, nonostante le asperità caratteriali, non visse tale nobiltà dello spirito e tale coscienza di sé come giustificazione per legittimare un altezzoso atteggiamento di superiorità verso gli altri, bensì come uno slancio dell’anima, che lo portò a consegnare alla memoria e al genere umano il dono più prezioso che egli aveva: la sua suprema arte e tutto sé stesso.

    Per avere una misura di come gli amici, i contemporanei e i posteri giudicarono Beethoven è utile iniziare a conoscerlo attraverso le loro parole, nelle citazioni illustri di vari personaggi.

    Il suo contributo alla musica è stato immenso e la portata del suo esempio è inestimabile. I suoi diretti successori, come Schumann e Wagner, lo considerarono una sorta di chiaroveggente. Beethoven arrivò a influenzare non solo Schubert, colui che forse più di tutti ne assorbì e ne interiorizzò il pathos e l’atmosfera, ma anche i musicisti romantici e tardo-romantici: Berlioz, Mendelssohn, Schumann, Brahms, Liszt e perfino Chopin, che con Beethoven aveva davvero poco in comune, ne furono tutti variamente influenzati, in qualche modo. Nel suo libro I capelli di Beethoven – una biografia ma anche un resoconto dell’influenza esercitata sugli immediati successori – l’autore Russell Martin ci racconta che Liszt, Chopin, Berlioz e Ferdinand Hiller a Parigi formarono un quartetto di ammiratori, quasi fanatici, di Beethoven, dando vita a un circolo che contribuì in maniera significativa a consolidare quell’aura mitologica che già circondava la figura di Beethoven. Nel giro di qualche decennio dalla morte del compositore, infatti, era sorto e aveva rapidamente iniziato a diffondersi – soprattutto grazie al contributo di Hiller1 – un vero e proprio culto beethoveniano, al punto che la figura di Beethoven veniva venerata quasi come una divinità. Fu dunque questo pugno di artisti, un quartetto di ferventi e devoti ammiratori ad alimentare, almeno in una fase iniziale, la mitopoiesi beethoveniana.

    1. Con la sua opera Vite di artisti, Hiller era diventato anche un apprezzato biografo, compiendo in ambito musicale (fatte le debite proporzioni) un’operazione simile a quella che Giorgio Vasari aveva realizzato relativamente ai pittori e agli architetti.

    Così come non tardò a diffondersi il mito, altrettanto forse ci si rese conto che era quasi impossibile mantenere un giudizio davvero equilibrato e obiettivo nei confronti di Beethoven, senza lasciarsi appunto influenzare dall’aura del mito, in un senso o nell’altro, come su una bilancia sensibilissima e difficile da calibrare. Si passava così da coloro che lo avevano deposto sull’altare della gloria – la stragrande maggioranza – ad altri – ben pochi in verità – che invece non volevano neppure sentirne parlare ed erano refrattari al suo nome.

    A onor del vero va segnalato che ci fu anche chi non lo amò particolarmente, come il grande Ciaikovskj, che appunto faceva parte di questa netta minoranza e addirittura temeva Beethoven, di certo inquietante specialmente rispetto al rasserenante clima di Mozart. Si pensi anche a Debussy e soprattutto Weber, forse il più irriducibile dei detrattori fatta eccezione per un personaggio che avremo modo di presentare, il capostipite indiscusso degli anti-beethoveniani per eccellenza. Per dovere di cronaca e per par condicio dobbiamo conoscere anche il loro giudizio critico, così si potrà disporre di un quadro pressoché completo.

    E dato che era difficile mantenersi obiettivi riguardo a Beethoven, nessuno certamente poté rimanere indifferente al suo lascito: neanche coloro che apparentemente affermavano di volerlo ignorare e preferivano fingere che non fosse esistito poterono evitare l’eredità di quel gigante. La figura del titano infatti è immensa e per alcuni purtroppo fu ingombrante.

    Tra i numerosi ammiratori di Beethoven, Schumann e Wagner, in particolare, oltre che due pilastri della musica, furono anche illustri esponenti della critica musicale e spesso scrissero sulle riviste specializzate articoli di commento alle sue opere. Anche Weber, come i due colleghi, oltre che compositore fu anche un giornalista musicale. In questo senso dunque rappresentò il polo opposto di Schumann e Wagner.

    Parlando di Beethoven in una lettera ad un editore di Mannheim, scrisse: «potrebbe essere grande se volesse soltanto tenere a freno la sua esuberante fantasia». In realtà si tratta di un commento che, ben lungi dall’insulto, non fa che riconfermare, sia pur involontariamente, l’indiscutibile grandezza di Beethoven. Ne troveremo infatti un sorprendente corrispettivo nelle parole di Giuseppe Carpani, che invece era un fervente sostenitore. In uno dei suoi articoli Weber arrivò addirittura a tracciare una recensione satirica della Quarta Sinfonia.

    Ma, come preannunciato, sarà dato a tutti lo stesso diritto di parola. Tra l’altro, nonostante questi giudizi critici, tra i due vi fu una certa stima e un vero fair play tra colleghi. E comunque, come potete notare, neppure i contrari mancarono di rispetto al grande genio. Ascoltiamo le parole di Ciaikovskj, che si dimostra un cauto ascoltatore di Beethoven e si dichiara un fervente sostenitore di Mozart, paragonato a un messia.

    Mi inchino davanti alla grandezza di alcune sue opere, ma non amo Beethoven. Il mio atteggiamento verso di lui mi ricorda ciò che provavo durante l’infanzia nei confronti del Dio Sabaoth, un sentimento di stupore misto a paura senza amore. Cristo, al contrario, suscita proprio ed esclusivamente un sentimento d’amore.

    E se Beethoven occupa nel mio cuore un posto analogo al Dio Sabaoth, amo Mozart come il Cristo della musica.

    Wagner, pur non essendo assolutamente un emulo di Beethoven anzi, era quanto di più lontano ci fosse dal suo idolo, fu un suo grande ammiratore e tributò sempre lusinghiere, entusiastiche parole di lode alle opere del Maestro, verso il quale nutriva una venerazione sacrale.

    Per quanto riguarda gli epigoni, Schumann, Schubert e Brahms, dal canto loro, risultarono invece profondamente ispirati e colpiti dal suo esempio, folgorati dal particolare clima emotivo e dagli schemi compositivi delle sinfonie beethoveniane. Per rendersene conto basta ascoltare l’incipit di due grandiose sinfonie, molto devote al genio di Bonn, nello spirito e forse anche nella costruzione tematica: la Quarta di Schumann, splendida e trascinante, specie dopo il primo cambio di tempo, e il lento, maestoso ingresso della Prima Sinfonia di Brahms. Anche il primo movimento dell’Incompiuta di Schubert, nonostante le notevoli differenze stilistiche, tradisce indubbiamente un’inquietudine crescente che, nel suo lievitare, ricorda molto l’intensità espressiva delle atmosfere beethoveniane, pur senza scatenare tempeste di elementi o schierare furie titaniche.

    Con la musica di Beethoven un altro mondo si rivela a noi […]. È certamente magico lo stato in cui entriamo quando, ascoltando un’opera beethoveniana, noi percepiamo in tutte le parti della composizione uno spirito ora delicato, ora tenero, ora terribile, un trasporto pieno di palpiti, un gioire, un languire, un bramare, un inebriarsi che paiono muovere dai più profondi recessi del proprio essere.

    Richard Wagner

    Beethoven trova talvolta i suoi motivi nella strada per trasformarli in sentenze universali.

    Robert Schumann

    A proposito della qualifica di chiaroveggente attribuita a Beethoven, possiamo in effetti riflettere sul fatto che il genio riverbera sempre attraverso le epoche. Lo stesso Leonardo Da Vinci, per fare l’esempio più illustre e clamoroso, con la sua quasi soprannaturale versatilità e la sua capacità divinatoria di anticipare il progresso nelle invenzioni e negli studi compiuti su quasi tutto lo scibile, era un uomo fuori dal tempo, un precursore quasi intrappolato nell’epoca in cui visse.

    In realtà Beethoven non fu l’unico genio della musica a ricevere la qualifica di chiaroveggente e a essere al centro di una simile leggenda. Lo stesso bizzarro fenomeno infatti capitò a Schubert, soprattutto per la sua velocità di composizione, considerata quasi soprannaturale, paragonabile o perfino superiore a quella di Mozart. In ogni caso, quasi tutte le composizioni di Beethoven dell’ultimo periodo si presentano così ermetiche che furono apprezzate e comprese appieno solo nel Novecento.

    Tra le varie citazioni che mi è capitato di trovare e di raccogliere, ce ne sono un paio che mi hanno particolarmente colpito. La prima è di Victor Hugo, che paragona Beethoven a uno specchio sospeso e immerso tra le nuvole, nel quale ogni ascoltatore potrà riconoscere ciò che desidera e si aspetta di trovare: «il sognatore allora vi riconoscerà il proprio sogno, il pescatore la propria tempesta, il lupo le proprie foreste».

    La seconda citazione è contenuta nel film Lezione 21 di Alessandro Baricco dove Ludwig, chiuso e protetto ma imprigionato nella bolla del suo isolamento acustico, viene paragonato a una nave in bottiglia tra le onde. Quest’ultima in particolare è un’immagine suggestiva e poetica, di particolare effetto emotivo. Ascoltiamo poi anche qualche altra testimonianza, come quella, particolarmente incisiva, di Richard Specht.

    Ricordiamo inoltre un passo tratto dall’orazione funebre scritta dal poeta Grillparzer e letta dall’attore Heinrich Anschutz, un commento molto significativo che ci fa comprendere la portata e l’irreversibilità del contributo di Beethoven nell’Olimpo della musica immortale. Possiamo poi segnalare anche il commento che il principe Boris Galitzin rivolse al Maestro dopo la prima esecuzione della Missa Solemnis, nel 1824.

    Il maggior segno della forza di Beethoven è che, a distanza di quasi due secoli dalla sua morte, egli non ha posteri ma solamente contemporanei.

    Noi viviamo infatti il dramma della sua musica come se fossimo stati testimoni all’inizio, e così il dramma della sua vita; come se egli ancora fosse tra noi e potessimo udire quella sua voce irata […]. Nulla è svanito, nulla è pietrificato dell’umanità che in lui divenne suono […]. Musica viva come il primo giorno e splendida come allora […]. Vive sovrana nella stessa indipendenza nella quale visse sovrano il suo creatore, il più libero di tutti e insieme il più solitario.

    Richard Specht

    Dal tubare della colomba allo scrosciare della tempesta, dall’impiego sottile dei sagaci artifici al tremendo limite in cui la cultura si perde nel tumultuante caos della natura, egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte.

    Franz Grillparzer

    Il vostro genio ha superato i secoli e non vi sono forse uditori abbastanza illuminati per gustare tutta la bellezza di questa musica; ma saranno i posteri che renderanno omaggio e benediranno la vostra memoria molto più di quanto possano fare i contemporanei.

    Boris Galitzin

    La seconda delle tre B: giochi enigmistici

    La mia fede musicale è nella chiave di Mi bemolle maggiore, che contiene tre B: Bach, Beethoven e Brahms!

    Hans von Bülow

    Naturalmente dopo la scomparsa di Beethoven la musica non ha affatto cessato di esistere, grazie al cielo. Al contrario, la storia ci ha regalato tante perle del Novecento che rappresentano un patrimonio dell’umanità, per non parlare dei maestri romantici e tardo romantici.

    Ma in un certo senso l’affermazione di Grillparzer è indovinata perché dopo Beethoven è come se la musica si fosse in qualche modo azzerata per ricominciare il suo corso, fondandosi su nuove basi. Di sicuro l’arrivo di Beethoven, che irrompe quasi come un fulmine a ciel sereno nei cieli dell’arte, ha implicato un ripensamento profondo dell’intero edificio musicale. La metafora dunque non è poi così sproporzionata.

    Anzi, sono parole che, lette con la consapevolezza e il senno di poi si dimostrano straordinariamente esatte e profetiche – come spesso ci capiterà di riscontrare – e rivelano, oltre che la forza del genio beethoveniano, anche lo straordinario talento di molti suoi contemporanei nel riconoscere la luce del suo genio.

    Alcuni coevi di Beethoven, infatti, fossero amici o conoscenti, artisti o profani, si rivelarono capaci di un intuito musicale

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