Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La sfida dei gemelli
La sfida dei gemelli
La sfida dei gemelli
E-book427 pagine6 ore

La sfida dei gemelli

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Allorché Caramon Majere e Tasslehoff Burrfoot viaggiano nel futuro, si ritrovano in una terra arida e tempestosa: Raistlin ha raggiunto il suo status di divinità in competizione con  la Regina delle Tenebre. Caramon non solo capisce di dover entrare in azione, ma che avrebbe dovuto farlo prima. Viaggiando nel tempo, con Tasslehoff, concepisce un piano rischioso per salvare il mondo dalla distruzione.
Mentre Lord Soth, roso da profonda invidia, persegue un oscuro piano all’insaputa di Kitiara, Tanis Mezzelfo, a Sancrist, accetta l’aiuto di Lord Gunthar e dei Cavalieri di Solamnia per fortificare la Torre del Sommo Chierico e difendere Palanthas dai cavalieri oscuri.
La storia dei gemelli Majere procede in un magnifico crescendo tra gli orrori dell’Abisso...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita21 apr 2021
ISBN9788834436271
La sfida dei gemelli

Correlato a La sfida dei gemelli

Titoli di questa serie (70)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La sfida dei gemelli

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La sfida dei gemelli - Margaret Weis

    Libro primo

    Il Martello degli Dei

    Come acciaio affilato, lo squillo di una tromba squarciò l’aria autunnale mentre gli eserciti dei nani di Thorbardin, sulle loro cavalcature, scendevano nelle Pianure di Dergoth per incontrare il nemico: i loro consanguinei. Secoli di odio e di malintesi fra i nani delle colline e i loro cugini delle montagne, quel giorno, tinsero di rosso le pianure. La vittoria era ormai priva di senso, un obiettivo che nessuno cercava. Vendicare i torti commessi da bisavoli morti da lungo tempo era lo scopo di entrambe le fazioni. Uccidere, uccidere e uccidere ancora, era questa la Guerra della Porta dei Nani. Fedele alla sua parola, Kharas, l’eroe dei nani, combatté per il suo re sotto la montagna. Rasato, la barba sacrificata per la vergogna di dover combattere i suoi consanguinei, Kharas si trovava fra le avanguardie dell’esercito, piangendo mentre uccideva. Ma mentre combatteva, arrivò d’un tratto a capire che la parola vittoria era stata distorta fino ad acquistare il significato di annientamento. Vide cadere gli stendardi di entrambi gli eserciti, li vide giacere calpestati e dimenticati sulla pianura insanguinata mentre la follia della vendetta travolgeva entrambe le armate in una spaventosa ondata rossa. E quando capì che non aveva importanza la vittoria di questo o di quel contendente, poiché in realtà non vi sarebbe stato alcun vincitore, Kharas scagliò a terra il suo martello, forgiato con l’aiuto di Reorx, il dio dei nani, e lasciò il campo.

    Molte furono le voci che urlarono «Codardo!». Se Kharas le sentì, non vi prestò nessuna attenzione. Conosceva nel suo cuore il proprio valore, lo conosceva meglio di chiunque altro. Asciugandosi le lacrime amare dagli occhi, lavandosi le mani dal sangue dei suoi consanguinei, Kharas cercò in mezzo ai morti fino a quando non trovò i corpi dei due amati figli di re Duncan. Sollevò i corpi mutilati e storpiati dei due giovani nani e li issò sul dorso di un cavallo; poi Kharas lasciò le Pianure di Dergoth e si avviò verso Thorbardin con il suo fardello.

    Kharas, in sella al suo destriero, andò molto lontano, ma non abbastanza da sfuggire al frastuono delle voci rauche che gridavano vendetta, del cozzare dell’acciaio, delle urla dei morenti. Non si voltò a guardare. Sentì che avrebbe continuato a udire quelle voci fino alla fine dei suoi giorni.

    L’eroe dei nani era giunto alle pendici dei Monti Kharolis, quando udì l’inizio d’un pauroso rimbombo. Il suo cavallo si mosse di scatto. Il nano lo trattenne e si fermò per tranquillizzare l’animale. Nel frattempo, si guardava intorno inquieto. Cos’era mai? Non era un fragore di guerra e neppure un suono naturale.

    Kharas si voltò. Il suono proveniva da dietro di lui, dalle terre che aveva appena lasciato, terre dove i suoi consanguinei si stavano ancora massacrando nel nome della giustizia. Il suono crebbe d’intensità, trasformandosi in un rombo grave, sordo e tonante che si avvicinava sempre più. L’eroe dei nani rabbrividì e abbassò la testa, quando l’orrendo boato fu su di lui, tuonando attraverso le pianure.

    È Reorx, pensò con dolore e orrore. È la voce del dio infuriato. Siamo condannati.

    Il suono colpì Kharas, insieme all’onda d’urto: una raffica di calore e un vento bruciante, fetido, che quasi lo spazzò via dalla sella. Raffiche di sabbia e di polvere e di ceneri lo avvolsero, trasformando il giorno in un’orribile notte. Gli alberi intorno a lui si piegarono e si contorsero, i cavalli nitrirono per il terrore e quasi s’imbizzarrirono.

    Accecato dalla nube di polvere insopportabile, soffocando e tossendo, Kharas si coprì la bocca cercando – come meglio poteva, in quella strana oscurità – di coprire anche gli occhi dei cavalli. Perse la cognizione del tempo, in quella nuvola di sabbia, di cenere e di aria arroventata. Ma, con la stessa repentinità con cui era venuta, la tempesta cessò.

    La sabbia e la polvere si depositarono. Gli alberi si raddrizzarono. I cavalli si calmarono. La nuvola si allontanò, sospinta dai venti più dolci dell’autunno, lasciandosi alle spalle un silenzio più spaventoso del frastuono rimbombante.

    Carico di orrendi presentimenti, Kharas pungolò i suoi cavalli affaticati perché proseguissero quanto più rapidamente possibile e s’inoltrò in mezzo alle montagne, cercando disperatamente un punto da cui la visuale potesse spaziare. Alla fine trovò una sporgenza rocciosa. Impastoiati a un albero gli animali con il loro triste fardello, Kharas si spinse con il suo cavallo sulla roccia e guardò sopra le Pianure di Dergoth. Sbigottito, fissò ciò che gli si parava davanti agli occhi.

    Nessun essere vivente si muoveva laggiù. In realtà, là sotto non c’era niente del tutto; niente, salvo una distesa di roccia e di sabbia annerita e devastata.

    Entrambi gli eserciti erano stati completamente spazzati via. L’esplosione era stata talmente devastante che neppure i cadaveri erano rimasti sulle pianure coperte di cenere. Perfino l’immagine del territorio era cambiata. Lo sguardo inorridito di Kharas andò al luogo dove un tempo si ergeva la magica fortezza di Zhaman, con le sue guglie che dominavano la pianura. Anch’essa era stata distrutta, ma non totalmente. La fortezza era crollata su se stessa e adesso, cosa ancora più orribile, le sue rovine assomigliavano a un cranio umano conficcato, ghignante, sulla spoglia Pianura della Morte.

    «Reorx, Padre, Forgiatore, perdonaci», mormorò Kharas, con le lacrime che gli offuscavano la vista. Poi, la testa china per il dolore, l’eroe dei nani lasciò quel luogo per far ritorno a Thorbardin.

    I nani avrebbero creduto, poiché così Kharas avrebbe riferito, che la distruzione di entrambi gli eserciti sulle Pianure di Dergoth era stata causata da Reorx. Che il dio aveva, nella sua collera, scagliato il proprio martello contro gli eserciti, colpendo i propri figli.

    Ma le Cronache di Astinus registrano in modo veritiero ciò che accadde quel giorno sulle Pianure di Dergoth:

    Ora, all’apice dei suoi poteri, l’arcimago Raistlin, conosciuto come Fistandantilus, e il chierico dalle Vesti Bianche di Paladine, Crysania, cercarono di entrare nel Portale che conduce all’Abisso, per sfidare la Regina delle Tenebre.

    L’arcimago aveva commesso crimini tenebrosi per raggiungere quel punto, il vertice della sua ambizione. Le vesti nere che indossava erano macchiate di sangue: in parte il suo stesso sangue. Eppure quell’uomo conosceva l’animo umano. Sapeva come distorcerlo e piegarlo, inducendo ad ammirarlo coloro che invece avrebbero dovuto vituperarlo e respingerlo. Una di questi era Dama Crysania della Casa di Tarinius, una Reverenda Figlia di Paladine. Crysania soffriva d’una breccia fatale nel candido marmo della sua anima. E tale breccia Raistlin aveva scoperto e allargato in modo che la crepa si estendesse a tutto il suo essere, per arrivare infine al suo cuore...

    Crysania lo aveva seguito fino al temuto Portale. Qui lei aveva invocato il suo dio, e Paladine aveva risposto, poiché era lei la sua eletta. Raistlin aveva fatto appello alla propria magia e aveva avuto successo, perché fino a quel giorno non era mai vissuto uno stregone potente quanto quel giovane.

    Il Portale si era aperto.

    Raistlin si era mosso per valicarlo, ma un magico congegno per i viaggi nel tempo fatto funzionare da Caramon, fratello gemello del mago, e dal kender Tasslehoff Burrfoot interferì con il potente incantesimo dell’arcimago. Il campo magico era stato disgregato...

    ... con impreviste e disastrose conseguenze.

    Capitolo primo

    «M pf», fece Tasslehoff Burrfoot. Caramon fissò il kender con occhio severo. «Non è colpa mia! Davvero, Caramon!» protestò Tas. Ma proprio mentre parlava, lo sguardo del kender andò al territorio circostante... Alzò gli occhi a fissare Caramon, poi li riportò sul territorio. Il labbro inferiore di Tas cominciò a tremare e il kender allungò la mano verso il fazzoletto, nel caso in cui avesse starnutito. Ma il suo fazzoletto non era là, le sue borse non erano là. Tas sospirò. Nell’eccitazione del momento se n’era dimenticato: tutto era rimasto nelle segrete di Thorbardin.

    Era stato un momento eccitante. Un attimo prima lui e Caramon si trovavano nella magica fortezza di Zhaman, intenti ad attivare il magico congegno per i viaggi nel tempo; l’attimo successivo Raistlin aveva operato la sua magia e, prima che Tas avesse il tempo di accorgersene, c’era stata una terribile baraonda: le pietre cantavano, le rocce si frantumavano... e l’orribile sensazione di venire tirati contemporaneamente in sei direzioni diverse e poi, wuush, si erano trovati là.

    Dovunque fosse . Comunque, non pareva trovarsi dove avrebbe dovuto.

    Lui e Caramon erano su un sentiero di montagna accanto a un grosso macigno, affondati fino alle caviglie in un fango viscido color grigio cenere, che ricopriva completamente il terreno sotto di loro fin dove Tas riusciva a spingere lo sguardo. Qua e là, bordi frastagliati di rocce infrante sporgevano dalla cedevole superficie di quella coltre di cenere. Non c’era alcun segno di vita. Niente avrebbe potuto essere vivo in quella desolazione. Non c’era nessun albero in piedi, soltanto moncherini anneriti dal fuoco spuntavano dallo spesso strato di fango. Fin dove poteva arrivare l’occhio, fino all’orizzonte, in ogni direzione, non c’era nulla se non la devastazione più totale e definitiva. Il cielo stesso non offriva nessun sollievo. Sopra le loro teste, si stendeva grigio e vuoto. Ma a occidente sfumava in uno strano colore violetto, un cumulo ribollente di nuvole luminescenti inghirlandate da lampi d’un vivido azzurro. Fatta eccezione per il lontano rombare del tuono, non c’erano suoni... né movimenti... niente.

    Caramon esalò un profondo sospiro e si sfregò una mano sul viso. Il calore era intenso, e già, malgrado si trovassero là soltanto da pochi minuti, la sua pelle intrisa di sudore era coperta da un sottile strato di cenere grigia.

    «Dove siamo?» chiese, con voce calma e misurata.

    «Sono... sono certo di non averne la minima idea, Caramon», dichiarò Tas. E dopo qualche istante: «E tu?».

    «Ho fatto tutto come mi hai detto tu», replicò Caramon, e la sua voce suonò ancora sinistramente calma. «Hai affermato che Gnimsh aveva detto che tutto quello che dovevamo fare era pensare a dove volevamo andare, e che lì ci saremmo trovati. Io so che pensavo a Solace...».

    «Anch’io!» gridò Tas. Poi, vedendo Caramon che lo fissava infuriato, il kender esitò. «Per lo meno ci ho pensato per la maggior parte del tempo...».

    «La maggior parte del tempo?» chiese Caramon con voce ancor più calma.

    «Insomma...» deglutì Tas, «io ho... ho pen... pensato, ma solo per un istante intendiamoci, a quanto... ehm... a quanto sarebbe stato interessante e unico, visitare... uhm... uhm...».

    «Uhm cosa?» incalzò Caramon.

    «Una... uhmmmm».

    «Una cosa?».

    «Mmmmmm», bofonchiò Tas.

    Caramon inspirò fragorosamente.

    «Una luna!» esclamò Tas.

    «Una luna!» ripeté Caramon incredulo. «Quale luna?» chiese un istante dopo, guardandosi intorno.

    «Oh», Tas scrollò le spalle, «una qualunque delle tre. Suppongo che una valga l’altra. Molto simili, immagino. Salvo, naturalmente, che tutte le rocce di Solinari dovrebbero luccicare d’argento, e quelle di Lunitari essere d’un rosso smagliante. E immagino che la terza debba essere tutta nera, anche se non posso dirlo di sicuro, non avendo mai visto...».

    A questo punto Caramon cacciò un ringhio, e Tas decise che sarebbe stato assai meglio tenere a freno la lingua. E riuscì anche a farlo, per circa tre minuti, durante i quali Caramon continuò a scrutare i dintorni con una faccia solenne. Ma ci sarebbe voluta una capacità di autocontrollo ben maggiore di quanta il kender possedeva (oppure un coltello acuminato alla gola) per costringere la sua lingua a star zitta più a lungo.

    «Caramon», farfugliò, «tu pe... pensi che ci siamo davvero riusciti? Che siamo arrivati su una... uhm... luna, intendo dire. Questo non assomiglia certo a nessun posto in cui sono stato prima. Non che queste rocce siano d’argento, rosse, o anche soltanto nere. Hanno più che altro il colore della roccia, ma...».

    «Non ne dubiterei affatto», disse Caramon, cupo. «Dopotutto, non ci hai già condotto in una città marittima che si trovava nel bel mezzo di un deserto...».

    «Neanche quella è stata colpa mia!» esclamò Tas, indignato. «Diamine, perfino Tanis ha detto...».

    «Tuttavia», il volto di Caramon s’increspò, perplesso, «questo posto sembra davvero strano, ma per qualche motivo ha un aspetto familiare».

    «Hai ragione», annuì Tas un istante dopo, tornando a fissare il paesaggio desolato, soffocato dalle ceneri intorno a loro. «Mi ricorda qualcosa, adesso che l’hai detto. Soltanto che», il kender rabbrividì, «non ricordo di essere mai stato in un posto così orribile... salvo l’Abisso», aggiunse sottovoce.

    Le nubi ribollenti si avvicinavano sempre di più mentre i due parlavano, stendendo un’ulteriore, plumbea cappa sopra quella terra spoglia. Cominciò a soffiare un vento rovente e a cadere una pioggia sottile, mescolandosi con la cenere che aleggiava nell’aria. Tas stava giusto per commentare la qualità melmosa della pioggia quando, all’improvviso, senza nessun preavviso, il mondo esplose.

    Per lo meno, fu questa la prima impressione che ebbe Tas: una luce vivida, accecante, un crepitio assordante, un rombo che scosse il suolo, e Tasslehoff si trovò seduto nel fango grigio, fissando istupidito un gigantesco foro che era stato aperto nella roccia da un’esplosione a non più di cento passi da lui.

    «In nome degli dei!» rantolò Caramon. Tese le braccia verso il basso, agguantò Tas e lo trascinò in piedi. «Stai bene?».

    «Penso... penso di sì», disse Tas, un po’ scosso. Mentre guardava, la folgore colpì di nuovo, sprizzando dalla nube fino al suolo, scagliando in aria rocce e cenere. «Caspita! Questa sì che è stata un’esperienza davvero interessante. Anche se non m’importa affatto ripeterla subito», si affrettò ad aggiungere, timoroso che il cielo, che di momento in momento stava diventando più buio, potesse decidere di riservargli un’altra volta quell’elettrizzante esperienza.

    «Dovunque siamo, sarà meglio lasciare quest’altura», borbottò Caramon. «Vedo che, almeno, qui c’è un sentiero. Deve condurre da qualche parte».

    Lanciando un’occhiata lungo il sentiero intasato dal fango, giù fino alla valle sottostante parimenti soffocata dal fango, Tas ebbe il fugace pensiero che «da qualche parte» dovesse essere ugualmente grigio e melmoso come «qui», ma dopo aver dato un’occhiata al volto cupo di Caramon, il kender decise prontamente di tenere per sé quel pensiero.

    Mentre arrancavano giù per il sentiero in mezzo alla melma, il vento rovente prese a soffiare con maggior forza, conficcando nella loro pelle frammenti di legno annerito e di cenere. Le folgori danzavano in mezzo agli alberi, facendoli esplodere in globi fiammeggianti verdi o azzurri. Il terreno continuava a essere scosso dal violento rimbombo del tuono. Le nubi tempestose continuavano ad ammassarsi all’orizzonte. Caramon accelerò il passo.

    Mentre scendevano lungo il pendio, entrarono in quella che un tempo doveva essere stata, così immaginò Tas, una bellissima valle. In un’altra epoca, pensò Tas, qui gli alberi dovevano essere stati un avvampare d’oro e di arancione autunnali, oppure del verde tenero della primavera.

    Qua e là vide spirali di fumo arricciarsi verso il cielo per venire spazzate via immediatamente dal vento tempestoso. Senza alcun dubbio generate da altri fulmini abbattutisi al suolo, pensò Tas. Ma in una strana maniera, anche questo gli ricordò qualcosa. Come Caramon, anche lui cominciava a convincersi sempre di più che conosceva quel posto.

    Guadando il fango, cercando d’ignorare ciò che quella sgradevole sostanza stava causando alle sue scarpe verdi e ai suoi gambali azzurri, Tas decise di tentare un antico espediente kender da usare quando si è smarriti. Chiudendo gli occhi e cancellando ogni cosa dalla sua mente, ordinò al cervello di fornirgli un’immagine del paesaggio davanti ai suoi occhi. La logica kender, piuttosto interessante, che soggiaceva a questo concetto consisteva nel fatto che, essendo probabile che qualche kender della famiglia di Tasslehoff fosse stato in precedenza in quel posto, il ricordo fosse stato in qualche modo trasmesso al suo discendente. Anche se ciò non era mai stato scientificamente verificato (gli gnomi ci stavano lavorando e avevano affidato il compito a un comitato), era sicuramente vero che, fino a quel giorno, non si era mai saputo che anche un solo kender si fosse smarrito su Krynn.

    In ogni caso Tas, immerso fino agli stinchi nel fango, chiuse gli occhi e cercò di evocare un’immagine dei suoi dintorni. E, subito, una si manifestò alla sua mente, così chiara nella sua precisione che lo colse quasi di sorpresa (certo le mappe mentali dei suoi antenati non erano mai state così perfette). C’erano alberi, alberi giganteschi, e c’erano montagne all’orizzonte. E c’era anche un lago...

    Riaprendo gli occhi, Tas rantolò. C’era un lago! Prima non l’aveva notato, probabilmente perché aveva lo stesso colore grigio, melmoso, del terreno coperto di cenere. C’era ancora acqua, là dentro? Oppure anche il lago era pieno di fango?

    «Mi chiedo», rifletté Tas, «se lo zio Trapspringer abbia mai visitato una luna. Se è così, questo giustificherebbe il fatto che io riconosca questo posto. Ma certamente l’avrebbe detto a qualcuno... Forse lo avrebbe fatto, se i goblin non l’avessero mangiato prima che ne avesse avuto la possibilità. Parlando di cibo, questo mi ricorda...

    «Caramon!» urlò quindi Tas al di sopra del vento e del rimbombare dei tuoni. «Hai portato acqua con te? Io no. E non ho niente da mangiare. Non pensavo che ne avremmo avuto bisogno, visto che stavamo per tornare a casa e tutto il resto. Ma...».

    D’un tratto Tas vide qualcosa che scacciò dalla sua mente ogni pensiero di cibo o di acqua, e dello zio Trapspringer.

    «Oh, Caramon!». Tas si strinse al grosso guerriero, additandogli qualcosa. «Guarda, pensi che quello sia il sole?».

    «E cos’altro potrebbe essere?» sbottò Caramon, burbero, con lo sguardo puntato su un disco acquoso, giallo-verdognolo, che era comparso attraverso uno squarcio delle nubi tempestose. «E, no, non ho portato acqua, con me. Perciò non parlarne, eh?».

    «Oh, insomma, non c’è proprio bisogno che tu sia sgarb...» cominciò a dire Tas. Poi vide la faccia di Caramon e subito si azzittì.

    Si erano fermati, dopo un lungo diguazzare nel fango, a metà strada lungo il pendio. Il vento caldo soffiava tutt’intorno a loro facendo svolazzare il ciuffo di Tas come uno stendardo e sferzando il mantello di Caramon. Il grosso guerriero stava fissando il lago, lo stesso lago della cui presenza Tas si era accorto. La faccia di Caramon era pallida, gli occhi turbati. Un attimo dopo riprese a camminare, arrancando con espressione cupa lungo il sentiero. Con un sospiro, Tas lo seguì nello squish squash del fango appiccicoso. Aveva preso una decisione.

    «Caramon», riprese a dire, «andiamocene da qui. Lasciamo questo posto. Anche se è una luna come quella che lo zio Trapspringer deve aver visitato prima che i goblin lo mangiassero, non è un gran divertimento. La luna, voglio dire, non l’essere mangiato dai goblin che, suppongo, non sia neanche quello molto divertente. A dirti la verità, questa luna è noiosa almeno quanto l’Abisso, e altrettanto puzzolente. Inoltre, là nell’Abisso non avevo sete... Non che io abbia sete adesso», si affrettò ad aggiungere, ricordandosi troppo tardi che non avrebbe dovuto parlarne, «ma la lingua mi si è quasi asciugata, se capisci quello che voglio dire, il che mi rende difficile parlare. Abbiamo il congegno magico». Stringeva nella mano sollevata il congegno a forma di scettro incrostato di gioielli, nel caso in cui Caramon avesse dimenticato, nell’ultima mezz’ora, che aspetto aveva. «E ti prometto... Io giuro solennemente... che questa volta penserò a Solace con tutto il mio cervello, Caramon. Caramon, io...».

    «Zitto, Tas», gli intimò Caramon.

    Avevano raggiunto il fondovalle, dove il fango arrivava fino alle caviglie di Caramon, il che significava che arrivava a mezzo polpaccio di Tas. Caramon aveva ricominciato a zoppicare da quando era caduto, storcendosi il ginocchio, là nella magica fortezza di Zhaman. Adesso, oltre alla preoccupazione, c’era un’espressione di viva sofferenza sul suo viso.

    E c’era anche un’altra espressione. Un’espressione che fece provare a Tas, nel suo intimo, un formicolio: un’espressione di autentica paura. Tas sussultò, si guardò rapidamente intorno, chiedendosi cosa mai Caramon avesse visto. Le condizioni, lì sul fondo della valle, parevano uguali a quelle che avevano incontrato più in alto: un’orribile, desolata distesa grigia. Niente era cambiato, salvo il fatto che si stava facendo più buio. Le nubi della tempesta avevano nuovamente nascosto il sole, con un certo sollievo da parte di Tas, poiché si trattava di un sole malsano che rendeva quel paesaggio ancora più squallido e grigio. La pioggia batteva, più intensa a mano a mano che le nuvole tempestose si facevano vicine. A parte questo, non pareva ci fosse nient’altro di spaventevole.

    Il kender si sforzò al massimo per mantenere il silenzio, ma le parole gli schizzarono fuori dalla bocca prima che riuscisse a fermarle.

    «Che cosa succede, Caramon? Non vedo niente. Il ginocchio ti fa male? Io...».

    «Stai zitto, Tas!» gli ordinò Caramon, con voce tesa e tirata. Guardava intorno a sé con gli occhi spalancati, serrando e disserrando nervosamente le mani.

    Tas sospirò e si tappò la bocca con la mano per imbottigliare le parole, deciso a restarsene zitto anche se questo avesse dovuto ucciderlo. E quando fece silenzio, si rese conto che lì intorno c’era davvero molto silenzio. Non c’era assolutamente nessun suono, quando il tuono non rimbombava, neppure l’usuale combinazione di suoni che era abituato a sentire quando pioveva: l’acqua che sgocciolava giù dalle foglie degli alberi, spiaccicandosi sul terreno, il vento che soffiava tra i rami, gli uccelli che si dedicavano ai loro canti della pioggia, per lamentarsi delle piume bagnate...

    Tas provava una strana, tremante sensazione dentro di sé. Guardò i moncherini arsi degli alberi con più attenzione. Anche se bruciati, erano giganteschi, quasi certamente gli alberi più grandi che avesse mai visto in vita sua, salvo per...

    Tas deglutì. Le foglie, il colore dell’autunno, il fumo dei fuochi delle cucine che si levava arricciandosi dalla valle, il lago, azzurro e liscio come il cristallo...

    Sbattendo più volte le palpebre, si sfregò gli occhi per liberarli dalla pellicola gommosa di fango e di pioggia. Si guardò intorno, sollevando lo sguardo sul tratto di sentiero che si erano lasciati alle spalle, verso quel gigantesco macigno... Fissò il lago, che poteva vedere molto chiaramente attraverso i moncherini bruciati degli alberi. Fissò le montagne con i loro picchi aguzzi e frastagliati.

    Non era stato lo zio Trapspringer a trovarsi là, prima...

    «Oh, Caramon!» bisbigliò, in preda all’orrore.

    Capitolo secondo

    «C he c’è?». Caramon si voltò, guardando Tas in maniera così strana che il kender sentì il formicolio che provava dentro di sé diffondersi all’esterno. La pelle d’oca gli stava comparendo lungo tutte le braccia.

    «N... niente», balbettò Tas. «Soltanto la mia immaginazione. Caramon», si affrettò poi ad aggiungere, «andiamocene! Subito. Possiamo andare dove vogliamo! Possiamo tornare indietro nel tempo, quando eravamo tutti insieme, quando eravamo tutti felici! Possiamo tornare indietro, fino a quando Flint e Sturm erano vivi e Raistlin indossava ancora le vesti rosse, e Tika...».

    «Chiudi il becco, Tas!» sbottò Caramon, minaccioso. Le sue parole vennero accentuate da un lampo che fece sussultare perfino il kender.

    Il vento stava crescendo d’intensità, sibilando con un suono arcano attraverso i resti degli alberi morti, come se qualcuno stesse esalando un tremulo respiro attraverso i denti stretti. La pioggia calda e viscida era cessata. Le nuvole sopra di loro passarono via turbinando, rivelando il pallido sole che sembrava ondeggiare nel cielo grigio. Ma all’orizzonte le nuvole continuavano ad ammassarsi, e diventavano sempre più nere. Lampi multicolori guizzavano in mezzo a esse, impartendo alla coltre turbinante una lontana, micidiale bellezza.

    Caramon riprese a camminare lungo il sentiero fangoso, serrando i denti per il dolore alla gamba ferita. Ma Tas, guardando in fondo al sentiero che adesso conosceva fin troppo bene, anche se era talmente diverso da lasciare sgomenti, poté vedere dove svoltava. Sapendo ciò che si trovava dietro quella curva, rimase là dov’era, piantato saldamente in mezzo alla strada, gli occhi fissi sulla schiena di Caramon.

    Dopo qualche istante di anormale silenzio, Caramon si rese conto che c’era qualcosa di sbagliato e si guardò intorno. Si fermò, il volto tirato per il dolore e la fatica.

    «Su, vieni, Tas!» lo sollecitò, irritato.

    Attorcigliandosi i capelli intorno a un dito, Tas scosse la testa.

    Caramon lo fissò furibondo.

    Tas alla fine esplose. «Quelli sono vallenwood, Caramon!».

    L’espressione severa sul volto dell’omone si addolcì. «Lo so, Tas», disse con voce stanca. «Questa è Solace».

    «No, non lo è!» gridò Tas. «È... è soltanto un posto dove c’erano dei vallenwood! Devono esserci un sacco di posti dove crescono i vallenwood!».

    «E ci sono un sacco di posti dove c’è il lago Crystalmir, Tas, o dove s’innalzano i Monti Kharolis, o dove si erge quel macigno lassù dove tutti e due abbiamo visto Flint seduto che scolpiva il legno, o dove si stende questa strada che conduce a...».

    «Non puoi saperlo!» gridò Tas con rabbia. «Sì, non puoi saperlo». All’improvviso corse avanti, o tentò di farlo, trascinando i piedi in mezzo al fango appiccicoso quanto più velocemente possibile. Incespicò su Caramon, afferrò la mano dell’omone e la tirò. «Andiamo! Andiamo via da qui!». Ancora una volta alzò la mano che stringeva il congegno per i viaggi nel tempo. «Po... possiamo tornare a Tarsis! Là, dove i draghi mi hanno fatto crollare addosso un edificio! Quella era un’epoca in cui ci divertivamo, era molto interessante. Non ricordi?». La sua voce acuta stridette attraverso gli alberi bruciati.

    Allungando una mano, la faccia scura, Caramon tirò via il congegno magico dalla mano del kender. Ignorando le frenetiche proteste di Tas, strinse il congegno tra le dita e cominciò a torcere e a girare il gioiello, trasformando gradualmente l’oggetto da uno scettro scintillante in un semplice, anonimo ciondolo. Tas lo contemplò con aria infelice.

    «Ma perché non ce ne andiamo via, Caramon? Questo posto è orribile. Non abbiamo né cibo né acqua e, da quello che ho potuto vedere, ci sono assai poche probabilità di trovarne qui intorno. Inoltre, abbiamo buone possibilità di venire sparati fuori dalle nostre scarpe, se una di quelle saette ci colpisse, e quella tempesta si sta avvicinando sempre di più, e tu sai che questa non è Solace».

    «Non lo so, Tas», replicò Caramon con calma. «Ma lo scoprirò. Cosa c’è? Non sei curioso? Da quando in qua un kender arriva a rifiutare la possibilità di vivere un’avventura?». Riprese a scendere il sentiero con passo claudicante.

    «Sono curioso come qualunque altro kender», borbottò Tas, abbassando la testa e trascinandosi dietro a Caramon. «Ma un conto è essere curiosi di un posto dove non si è mai stati prima, e un altro essere curiosi di casa propria. Non bisogna mai essere curiosi delle cose di casa tua! La casa non dovrebbe mai cambiare. Se ne sta là in attesa del tuo ritorno. La casa è un posto che ti fa dire: Perdiana, sembra proprio uguale a come l’ho lasciata quando me ne sono andato!, e non: Perdiana, pare che sei milioni di draghi ci siano volati dentro e abbiano distrutto tutto!. La casa non è un posto per le avventure, Caramon!».

    Tas sollevò lo sguardo sbirciando la faccia di Caramon per vedere se la sua argomentazione avesse fatto una qualche impressione. Se l’aveva fatta, non si notava. C’era un’espressione di severa determinazione su quella faccia colma di dolore, che lasciò Tas piuttosto sorpreso... sorpreso e anche stupito.

    D’un tratto Tas si rese conto che Caramon era cambiato. E non soltanto per aver rinunciato allo spirito dei nani. C’era qualcosa di diverso in lui: era più serio e... sì, responsabile. Ma c’era qualcos’altro, rifletté Tas. L’orgoglio, decise dopo un minuto di profonda riflessione. L’orgoglio di sé, l’orgoglio e una ferma decisione.

    Questo non è un Caramon disposto ad arrendersi facilmente, pensò Tas con un tuffo al cuore. Questo non è un Caramon che ha bisogno di un kender che lo tenga lontano dai guai e dalle taverne. Tas sospirò desolato. Avrebbe sentito la mancanza di quel vecchio Caramon.

    Arrivarono a una curva della strada. Tutti e due la riconobbero, anche se nessuno disse niente: Caramon, perché non c’era niente da dire, e Tas perché si rifiutava di ammettere di averla riconosciuta. Entrambi scoprirono che il loro passo si era fatto strascicato.

    Un tempo i viaggiatori che aggiravano quella curva avrebbero visto la Taverna dell’Ultima Dimora risplendente di luci. Avrebbero sentito il profumo delle patate speziate di Otik, avrebbero udito il chiasso delle risate e dei canti aleggiare fuori dalla porta tutte le volte che veniva aperta per accogliere i pellegrini o i clienti fissi di Solace. Come per un tacito accordo, sia Tas sia Caramon si fermarono prima di svoltare quell’angolo.

    Non dissero ancora nulla, ma ognuno fissò la desolazione davanti a sé, i moncherini degli alberi riarsi e distrutti, il suolo coperto di cenere, le rocce annerite. Nelle loro orecchie risuonava un silenzio più intenso e spaventoso del rombo del tuono. Perché entrambi sapevano che avrebbero dovuto udire Solace, anche se non potevano ancora vederla. Avrebbero dovuto udire i suoni della città: il martellare del fabbro, il cicaleccio del giorno del mercato, i richiami dei venditori ambulanti, dei bambini, dei bottegai, il vociare della locanda.

    Ma non c’era nulla, soltanto il silenzio. E, molto lontano, in distanza, il sinistro rombo del tuono.

    Infine, Caramon sospirò. «Andiamo», disse, e si incamminò zoppicando.

    Tas lo seguì lentamente. Le sue scarpe erano talmente incrostate di fango che gli pareva di portare gli stivali ferrati di un nano. Ma le scarpe non erano neppure lontanamente pesanti quanto il suo cuore. Più e più volte bofonchiò tra sé: «Questa non è Solace, questa non è Solace, questa non è Solace...» fino a quando non cominciò a sembrargli uno degli incantesimi di Raistlin.

    Aggirando la curva, Tas sollevò gli occhi intimorito...

    ... ed emise un enorme sospiro di sollievo.

    «Cos’è che ti ho detto, Caramon?» gridò, sopra il gemito del vento. «Guarda, non c’è niente, niente del tutto. Nessuna locanda, nessuna città, niente». Infilò la piccola mano in quella grande di Caramon e cercò di tirarlo indietro. «Adesso andiamo via. Ho un’idea. Possiamo tornare indietro, al tempo in cui Fizban ha fatto scaturire dal cielo l’arco dorato...».

    Ma Caramon, scrollandosi di dosso il kender, stava già procedendo con passo zoppicante, il volto cupo. Poi si fermò, e fissò il suolo. «Cos’è questo allora, Tas?» chiese, con voce tesa per la paura.

    Masticandosi nervosamente l’estremità del ciuffo, il kender si avvicinò, fermandosi accanto a Caramon. «Cos’è?» replicò, cocciuto.

    Caramon glielo indicò.

    Tas tirò su col naso. «Be’, è un gran tratto di terreno che è stato sgombrato. D’accordo, forse c’era qualcosa. Forse un grosso edificio. Ma adesso non c’è, e allora, perché preoccuparsi? Io... oh, Caramon!».

    All’improvviso, il ginocchio ferito dell’omone aveva ceduto. Caramon vacillò, e sarebbe caduto se Tas non l’avesse sorretto. Con l’aiuto del kender, Caramon raggiunse il ceppo di quello che era stato un vallenwood insolitamente grande, sul confine di quel tratto di terreno vuoto e coperto di fango. Appoggiandosi a esso col volto pallido per il dolore e gocciolando sudore, Caramon si sfregò il ginocchio ferito.

    «Cosa posso fare per aiutarti?» chiese Tas, ansioso, torcendosi le mani. «Ecco! Ti fabbricherò

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1