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La Grande Caterina di Russia
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E-book801 pagine12 ore

La Grande Caterina di Russia

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Info su questo ebook

La parabola che portò una giovane principessa tedesca, il cui destino poteva essere quello di sposare un nobile conterraneo, a sedere sul trono di uno dei paesi più grandi e potenti del XVIII secolo ci parla dell’importanza cruciale giocata da una serie di circostanze che, come in uno strano allineamento degli astri, vanno inaspettatamente a coincidere; tuttavia – e questa biografia ne dà ampiamente atto – sarebbe ingiusto imputare solo alla benevolenza del fato la fortuna di Caterina II. Determinata, ambiziosa, scaltra nel saper cogliere le opportunità che le si presentano, instancabile lavoratrice al servizio del suo impero, Caterina la Grande è stata spesso giudicata non solo per il suo operato in politica interna ed estera, ma anche per le voci più o meno veritiere sulla sua vita privata, per i suoi numerosi amanti, nonché per le misteriose circostanze in cui trovò la morte suo marito, lo zar Pietro III. In questo libro l’autore cerca di far luce sulle varie definizioni – usurpatrice, Semiramide del Nord, imperatrice illuminata – che, nel bene e nel male, ancora circondano la figura di Caterina II, regalando al lettore il ritratto esaustivo di una delle donne più straordinarie del passato.

Antonio Stolfi è nato a San Marino nel 1949, e all’età di 9 anni emigra con la famiglia a Parigi. È in questa città così stimolante e vivace che matura la sua formazione culturale e professionale, dove svolge la sua attività lavorativa in qualità di dirigente presso diverse multinazionali. Ha inoltre ricoperto l’incarico di console generale di San Marino a Parigi. Per ragioni di lavoro torna in Italia, prima a Torino, poi a Milano e nel 2006 è di nuovo a San Marino dove tutt’ora vive e, ora in pensione, si dedica – tra l’altro – allo studio della storia con l’intento di “conoscere la storia per capire i giorni nostri”. Tra le sue pubblicazioni: Cavour. L’uomo, il politico, l’Unità d’Italia (2011); Ponti di Parigi Una passeggiata poetica lungo le rive della Senna lontano dal traffico caotico della metropoli (2014, Monografia), l’opera ha conseguito il Premio della critica al concorso letterario WORLD LITERARY PRIZE (Parigi 13 giugno 2015); Il Romanzo della Contessa di Castiglione (2017), meritevole di sette premi in altrettanti concorsi letterari sia nazionali sia internazionali tra cui il prestigioso Mario Pannunzio di Torino.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9788830639829
La Grande Caterina di Russia

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    Anteprima del libro

    La Grande Caterina di Russia - Antonio Stolfi

    cover01.jpg

    Antonio Stolfi

    La Grande

    Caterina di Russia

    Regno e amori imperiali

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3613-2

    I edizione aprile 2021

    Finito di stampare nel mese di aprile 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La Grande Caterina di Russia

    Regno e amori imperiali

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Note dell’autore

    Date:

    Sono indicate secondo l’antico calendario giuliano utilizzato in Russia, che ha undici giorni di ritardo sul nuovo calendario gregoriano utilizzato in Occidente. In alcuni casi, le due date sono indicate.

    Denaro:

    1 rublo valeva 100 copechi. Circa 4 rubli = 1 sterlina = 23 libbre francesi negli anni 1780. Un rublo = 4,33 franco francese (unità monetaria dal 5 aprile 1795). A quei tempi, un gentiluomo inglese poteva vivere un anno con 300 sterline, un ufficiale russo con 1.000 rubli ossia circa 6.150 Euro.

    Fonti storiche desunte da Memorie, Diari,

    Corrispondenze, documenti degli archivi di Stato

    e della biblioteca russa e slava.

    Presentazione

    La Grande Caterina, imperatrice di tutte le Russie, non nasce russa ma lo diventa per apparire più russa dei russi e per meglio capire il suo popolo. È una donna colta e astuta, piena di foga, con intelligenza politica e fascino irresistibile. Questa piccola principessa tedesca, Sofia d’Anhalt-Zerbst, nata nel 1729, sale al trono della Russia a trentatré anni con il nome di Caterina II e da allora conosce un’ascesa senza uguali. Esercita, da autocrate, un potere assoluto, finanzia gli Illuministi poi la controrivoluzione.

    Prima del matrimonio cresce in una società intrisa di cultura francese, culla delle idee illuministiche. Osserva con devozione la religione ortodossa ma si tiene in corrispondenza con Voltaire e Diderot. Appassionata alla politica e all’amministrazione dello Stato governa con la collaborazione dei suoi amanti-consiglieri e uno di questi, il principe Potëmkin, prevale su tutti.

    Al fine di promuovere i valori d’ordine pubblico, progressi economici e educativi per agganciare il paese all’Europa occidentale, controlla di persona la gestione del suo vasto impero. Protegge e incoraggia l’arte, la letteratura e il commercio. Suscita l’ammirazione nonostante la sua condotta molto disinvolta, persino scandalosa: i suoi amanti (in tutto 21 o 22) diventano ministri, generali, ambasciatori e principi. Per soddisfare tutti i suoi appetiti sessuali fa realizzare una camera dei piaceri completa di macchine, oggetti, mobili, sculture e affreschi erotici molto espliciti.

    La Grande Caterina passa a miglior vita il 17 novembre 1796 a seguito di una crisi cardiaca. Tuttavia, i ben informati rivelano che la Zarina è morta dopo una relazione sessuale con un cavallo; la macchina ideata per consumare questo idillio cede sotto il peso dell’animale.

    Troppo spesso, a causa di una vita nella quale sessualità disinibita e ricerca della felicità hanno un ruolo predominante, il suo regno è sminuito a semplice cerchia di amanti. Il proposito di questo libro è documentare il vero contributo dato da Caterina II alla Russia.

    Introduzione

    La Crimea è sempre stata e rimane una parte inscindibile della Russia dichiara Vladimir Putin, il nuovo zar della Grande Russia. Il presidente russo in tre giorni si prende la Crimea. A fronte della persistente crisi politica, il governo locale dichiara la propria volontà di separarsi dall’Ucraina chiamando, il 16 marzo 2014, a referendum la popolazione di Crimea: l’esito della consultazione vede un’altissima maggioranza favorevole all’autonomia.

    Il 15 maggio 2014, il referendum per l’annessione alla Russia da parte della Repubblica autonoma di Crimea vede un’affluenza pari all’84,2%. Il quorum di validità del referendum, fissato al 50%, è superato ma la legittimità della consultazione è contestata da parte della comunità internazionale. Il Cremlino s’è preso la penisola, strappandola all’Ucraina, perché può disporre a suo piacimento del porto di Sebastopoli e tenere lì la propria flotta; è un obiettivo irrinunciabile.

    Il passo successivo di Putin è di tenere l’Ucraina a debita distanza dall’Europa per questioni di politica e strategia internazionale. La Russia, se l’asse di Kiev si spostasse da Mosca a Bruxelles, percepirebbe la cosa come una minaccia alla propria sicurezza, poiché spalancherebbe la prospettiva di una presenza Nato fin sul confine con l’Ucraina: il ventre molle del Cremlino. Putin teme, infatti, che l’Ucraina, muovendosi verso occidente, faccia un passo chiaro verso una futura adesione all’Alleanza atlantica. Una posizione dettata anche dal mancato rispetto delle promesse degli occidentali, che garantirono a Gorbaciov, quando l’URSS acconsentì alla riunificazione tedesca, che la Nato non si sarebbe allargata a est. L’Ucraina non solo non deve entrare nel blocco militare occidentale, ma neanche avere una posizione neutrale. Questa è la linea rossa di Putin. In verità, nell’approccio del presidente russo ci sono anche degli imperativi di politica interna. La formazione a Kiev di un governo filo-occidentale riformista e sostenuto dalla volontà popolare è una minaccia letale al potere dello stesso Putin. L’Ucraina diverrebbe una cinghia di trasmissione per le idee politiche occidentali e servirebbe da modello per l’opposizione russa, che si batte contro Putin, il suo crescente autoritarismo e il capitalismo di stato che domina la scena economica a Mosca.

    La guerra civile in Ucraina è figlia dell’intervento pianificato russo per destabilizzare il paese e portare a compimento un piano di annessione delle regioni orientali dell’Ucraina. La fame di espansione e di potere della Grande Russia echeggia attraverso i secoli da quando prende slancio ai tempi di Caterina II, rivive durante il regime dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e giunge ai tempi nostri con le rapide mosse e il disegno di Putin.

    Durante il suo regno, Caterina II ingrandisce la superficie della Russia con l’ausilio di varie conquiste territoriali, principalmente in Crimea contro i Turchi e in Polonia. Tuttavia, lascia irrisolta la questione d’Oriente.

    Le pagine che seguono costituiscono un viaggio nel tempo in compagnia della Grande Caterina sollevando un velo sulla storia della Russia. Il velo è a volte infuocato, burrascoso e anche sovversivo; un velo poco conosciuto e perfino segreto.

    Attraverso il testo grandi e illustri personaggi rivivono il tempo della lettura e suscitano la strana e piacevole sensazione di averli al nostro fianco. Ora inizia il viaggio sulle grandiose e sterminate terre della Russia… Non ne uscirete indenni!

    L’autore

    Capitolo I.

    La conversione

    In un registro della chiesa di Stettino in Pomerania nella Prussia orientale (oggi Szcecin in Polonia nord-occidentale), il parroco annota:

    2 maggio 1729 (21 aprile per gli ortodossi)

    Nata Sofia Federica Augusta di Anhalt-Zerbst

    Paternità: Cristiano Augusto, generale prussiano,

    Principe di Anhalt-Zerbst

    Maternità: Giovanna Elisabetta di Holstein-Gottorp,

    Principessa tedesca.

    La neonata è figlia di un rampollo senza fortuna del casato d’Anhalt-Zerbst che ha fatto carriera al servizio del re di Prussia e raggiunta una certa agiatezza sposa nel 1727 la principessa Giovanna Elisabetta di Holstein-Gottorp (1712-1760); un matrimonio che lo lega indirettamente a due case regnanti europee. Per le circostanze della geopolitica e dei matrimoni, la casa di Holstein-Gottorp occupa una posizione chiave nella politica baltica. Per contrastare l’aggressività danese, gli Holstein-Gottorp stringono un’alleanza con la Svezia. La madre di Carlo XI, re di Svezia (1655-1697) è una principessa Holstein-Gottorp e la maggiore delle sue figlie, Edwige Sofia sposa Federico IV (1671-1702), duca di Holstein-Gottorp. Edwige Sofia (1681-1708), duchessa di Holstein-Gottorp sarà poi la nonna del futuro Pietro III di Russia. Federico IV, succeduto al padre sul trono di Danimarca e Norvegia, concede al fratello secondogenito Cristiano Augusto (1673-1726) alcuni piccoli principati tra cui il piccolo feudo di Eutin. Inoltre, secondo le tradizioni di famiglia è eletto vescovo luterano di Lubecca. È sua figlia Giovanna Elisabetta a dare alla luce la principessa Sofia Federica Augusta il 2 maggio/21 aprile 1729 a Stettino, dove suo marito il principe di Anhalt-Zerbst, fedele vassallo del re di Prussia, è governatore. Sofia, soprannominata Figchen, apparentemente un diminutivo tedesco di Federica (piccola Federica), è la primogenita di Cristiano Augusto (1690-1747) e di sua moglie Giovanna Elisabetta. Alla nascita i suoi genitori sono dispiaciuti che non sia un maschietto e forse è da lì che proviene la sua volontà di dimostrare che vale quanto un uomo in un’epoca in cui il sesso determina il valore.

    Il padre di Sofia è un uomo retto, modesto e avaro che si sente legato da un rapporto di vassallaggio con il re di Prussia. Buon soldato, ha fatto il suo dovere con fedeltà e coscienza ma senza distinguersi per particolari azioni. Sua figlia lo ricorda così: Non ho mai conosciuto un uomo più sincero di mio padre, tanto nei suoi principi quanto nelle sue azioni. Possiede le solide e un po’ monotone virtù della sua casta e della sua stirpe: senso del dovere, dell’ordine, della disciplina, del risparmio; probità inattaccabile, mente meticolosa e priva di fantasia, pietà austera con una certa tendenza al misticismo.

    Sua moglie, la madre di Sofia, ha un carattere opposto al suo: tanto lui è modesto, parsimonioso, retto, tanto lei è ambiziosa, volubile, civettuola, intrigante, spendacciona e di costumi leggeri (debolezza questa che non si rivela a Stettino ma solo durante il suo soggiorno alla corte russa dove si fa un amante e ne rimane incinta con grande imbarazzo di Sofia, a quel tempo già fidanzata del granduca Pietro, erede al trono russo). Dicerie da villaggio sostengono che Sofia sia figlia di Federico II re di Prussia, ma non sono molto credibili. Più verosimilmente, se si pone in dubbio la paternità ufficiale, il suo vero genitore sarebbe un diplomatico russo, Ivano Betskoi, conosciuto durante un viaggio a Parigi nel 1728. Questo giovane gentiluomo nel tempo diventa un grande personaggio e muore coperto d’onori in tarda età a San Pietroburgo. Diventata imperatrice, ella permette a quest’uomo di sedersi in sua presenza, mentre gli altri dignitari rimangono in piedi e gli bacia sempre le mani quando entra in una stanza dove lui è presente. Il comportamento molto frivolo della principessa di Zerbst, sua madre, suscita molte congetture ma anche, in alcuni, il gusto per la leggenda o la predestinazione. Questo ragionamento, alterato con l’idea dell’eredità biologica, tende a dimostrare che il genio politico della futura sovrana sarebbe quello di Federico II, come la sua passione per la Russia e il popolo slavo deriverebbe dell’avventura parigina di sua madre con il conte Betskoi. Questi deboli indizi, con il loro fascino, possono ammaliare ma non è il caso di soffermarcisi più di tanto.

    Il matrimonio è combinato dalla famiglia, i due futuri sposi si conoscono appena. Quando ottiene il grado di generale maggiore e comanda l’ottavo reggimento di fanteria, il principe si sposa – un po’ tardi: è prossimo alla quarantina. La sposa ha solo quindici anni. La ragazza, senza fortuna, anche se di ottima famiglia, è allevata alla corte di suo zio, il duca di Brunswick; il principe Cristiano Augusto non è, per lei, un partito brillante, è appena degno.

    A quei tempi, il regime politico non impedisce, anzi forse anche favorisce la francofilia specialmente nelle classi agiate, le quali ne danno prova, servendosi del francese come lingua corrente e assumendo preferibilmente nelle famiglie, istitutori francesi. Sofia cresce nella massima semplicità. La sua educazione, austera, rigida, con poco affetto attorno a sé, è affidata a una donna francese, Elisabetta detta Babette Cardel, un’ugonotta, ossia protestante di confessione calvinista, la quale le insegna con la lingua francese, le maniere e le grazie della società di cui fa parte. Le fa anche apprezzare la letteratura francese dell’epoca. Altri educatori indigeni completano questo programma educativo robusto a sufficienza. Poiché ritiene d’avere un aspetto ordinario, molto presto, la principessa si dedica alle attività attinenti ai valori spirituali, come la lettura e lo studio. Una sola materia le è terribilmente ostica: la musica. Non ha orecchio e per tutta la sua vita considera la musica un insieme di suoni privi di significato. Da autentico maschiaccio è indifferente alle bambole, al cucito e al ricamo. La situazione di abbandono affettivo si accentua per Sofia quando, all’età di due anni, la madre le dà un fratellino: tutta la tenerezza materna si riversa sul nuovo nato (anche perché di salute malferma). Racconta nelle sue memorie Sofia: Due anni più tardi mia madre diede alla luce un bimbo, che idolatrava. Io ero soltanto tollerata e spesso sgridata con durezza e violenza, né sempre a ragione. Me ne rendevo conto sebbene non mi spiegassi ancora con chiarezza i miei sentimenti. L’amarezza di essere solamente tollerata la segna profondamente e per reazione diventa egoista e costantemente avida di amore; avida di essere amata e ammirata insieme.

    Questa carenza affettiva (che il padre, preso dal suo lavoro non può compensare), non riesce a soffocare la naturale esuberanza e vivacità di Sofia. Spiega, però, sul piano psicologico, la sua volontà di affermazione anche nel rapporto amoroso, che ne caratterizzerà la vita adulta (sottomettersi al partner, significa dipendere dal suo affetto, che può essere finto o venire a mancare: per evitare delusioni, meglio comandare, essere l’uomo nella coppia, anche se si veste la gonna). Poi, per il resto della sua vita, esprime costantemente quel terribile e travagliato bisogno di affetto che è come l’incosciente ricerca dell’amore materno che le è stato negato.

    La madre di Sofia è stata allevata da Elisabetta Sofia Maria, sua madrina, vedova del duca di Brunswick Wolfenbüttel, che ha combinato il suo matrimonio e le ha pagato la dote. Giovanna Elisabetta trascorre con la sua benefattrice parecchi mesi l’anno e porta la figlia con sé. Introdotta da sua madre nei più alti palcoscenici delle corti tedesche, ben più vasti di quanto può offrire Stettino, si fa notare per il suo carisma. Un commento di V. A. Bilbassov la definisce ben fatta, con una bella figura, più alta della media. Non è bella ma ha un’espressione simpatica; la franchezza dello sguardo e la grazia del sorriso la rendono molto attraente.

    Un secondo fratello nasce nel 1734; a lui pensa con affetto e nostalgia quando lascia la sua famiglia mentre il cadetto, per lei, non esiste. Nelle sue Memorie ne parla appena e il poco che annota è semplicemente per dire della sua morte a dodici anni a seguito di una febbre e che è diventato zoppo dopo un incidente accaduto nella sua prima infanzia. Figchen è di robusta costituzione – sebbene relativamente – se confrontata alla maggior parte dei bambini delle famiglie principesche in cui i matrimoni consanguinei provocano frequenti casi di degenerazione; i suoi due fratelli sono ritardati mentali e le sue due sorelline muoiono in tenera età. Lei stessa soffre per anni di eczema, impetigine e infezione di natura scrofolosa. Periodicamente le tagliano i capelli perché pieni di croste. A sette anni ha una pleurite, poi soffre di una malformazione alla colonna vertebrale che la costringe per interi quattro anni a indossare giorno e notte un busto ortopedico. Quando ha undici anni, finalmente, la sua schiena ridiventa dritta; in seguito, grazie all’attività sportiva e a una vita in luoghi aperti, ha un’ottima salute.

    Il 1741 segna un radicale cambiamento nella posizione dinastica del casato di Holstein-Gottorp. La vedova di Pietro il Grande sale al trono con il nome di Caterina I e lascia le redini del governo al suo amante Menshikov. Purtroppo Menshikov, che è stato, quando Pietro era vivo, un amministratore capace di portare a termine i progetti e le volontà del suo amico, si rivela totalmente incapace di governare da solo – e non è la sensuale e indolente Caterina che può essergli d’aiuto. Quindi, dopo la morte di Pietro comincia un interregno durante il quale si susseguono dei sovrani più o meno capaci. Gli affari dello Stato vanno alla deriva e il Tesoro è consumato in inutili sprechi. Elisabetta Petrovna è la seconda delle figlie di Pietro il Grande e della sua seconda moglie Caterina Prima ma nonostante il suo prestigio è costretta, dopo la morte di sua madre, il 17 maggio 1727, a lasciare il trono al giovane Pietro II; lui ha dieci anni ed è figlio dello sfortunato Alessio Petrovic Romanov, decapitato per ordine di suo padre perché reo di complottare contro la sicurezza dello Stato. Alessio, da tempo contrario alle riforme di suo padre, è per Pietro un rivale pericoloso: la sua esistenza è una minaccia per il futuro di ciò che ha realizzato. Nessuna esitazione, Pietro fa processare suo figlio, lo fa condannare a morte; ma non può affrontare lo scandalo di un’esecuzione pubblica di un principe ereditario: Alessio è ucciso in prigione. Il piccolo Pietro II, dopo tre anni di regno muore ed è sostituito, il primo febbraio 1730, dall’imperatrice Anna Ivanovna, figlia dello zar Ivan, fratello maggiore di Pietro il Grande. Elisabetta, bandita dalla corte, con in eredità il temperamento sensuale del padre e, libera da ogni controllo esterno, si abbandona ai suoi amori senza riserve.

    Anna Ivanovna, prima di morire di tubercolosi tre mesi dopo la nascita del suo unico figlio Carlo Pietro, nomina erede Ivan Antonoviev, suo bisnipote figlio di sua nipote Anna Leopoldovna e di suo marito Antonio Ulric, principe di Brunswick-Lüneburg, quando è ancora nella culla. Il 28 ottobre 1740, la zarina Anna Ivanovna muore lasciando la reggenza al suo amante Biron fino alla maggiore età di Ivano VI. Ma i macchinosi piani di Anna Ivanovna sono spazzati via il 22 novembre 1741 a seguito di una cospirazione incoraggiata dalla Francia e orchestrata dall’ambasciatore di Francia il marchese di La Chétardie e da un chirurgo d’origine francese, un certo Lestocq, per portare Elisabetta Petrovna al trono. Elisabetta s’impadronisce del potere spazzando via l’imperatore bambino e la sua famiglia tedesca facendoli scomparire in prigione o condannare all’esilio perpetuo in Siberia. La figlia di Pietro il Grande sale al trono di suo padre con le acclamazioni di un popolo infastidito e disgustato dalla tirannia di una lunga lista di tedeschi avventurieri, avidi e arroganti. Da subito, Elisabetta mette ai posti di comando dei russi di vecchia stirpe, inaugura una politica dichiaratamente russa e anche xenofoba, ritenendo che la Russia si è già sufficientemente aperta all’Occidente e non ha più bisogno di essere governata da stranieri. Si proclama l’ereditiera delle idee di suo padre e la prosecutrice della sua opera. Fa rinascere il culto di Pietro il Grande: il piedistallo su cui conta di riporre la sua popolarità.

    Elisabetta assomiglia alla bella Caterina sua madre, ma forse è ancora più bella con i suoi magnifici occhi blu. Ha un fisico attraente e molto ben proporzionato; il suo unico difetto è il naso piccolo e a patata, ereditato da sua madre, la sua fisionomia ha comunque una dolcezza inesprimibile resa ancor più soave dal fascino della sua conversazione sovente viva e di solito seducente. Tuttavia, se assomiglia alla madre con le qualità che rendono la compagnia di una donna tanto piacevole, se la supera con la sua sfrenata inclinazione ai piaceri, non ha come lei quella forza d’animo che provoca sulle persone del suo entourage un ascendente irresistibile su tutto quello che condividono. Invece di dominare gli altri, Elisabetta si lascia dominare e questa sua debolezza è la prima causa della sfortuna di Pietro III. E questo spiega in parte il carattere di Pietro III, le sue colpe e le sue disgrazie vissute nel mezzo d’intrighi fomentati contro di lui da ambiziosi e perfidi cortigiani di codesta principessa.

    Anche se parla correntemente francese, tedesco e italiano, Elisabetta è assolutamente ignorante – Pietro il Grande nel rieducare la Russia, sembra aver dimenticato l’educazione dei propri figli. Comunque, Elisabetta, con la sua bellezza, la prestanza della sua persona e il suo fascino tiene dignitosamente il suo rango nelle cerimonie ufficiali e durante i balli a corte. Tuttavia, è estremamente maleducata; e, seguendo in ciò il triste esempio e i geni dei suoi genitori, è di una grande facilità di costumi simile a una vera e propria scostumatezza. Dopo il suo mancato matrimonio si lascia coinvolgere, con sconcertante incoscienza per una principessa, scegliendo i suoi amanti tra cocchieri, lacchè, cantori nelle chiese e altri personaggi di bassa estrazione. La predilezione di Elisabetta per gli uomini umili è sicuramente dovuta alle origini di sua madre (ex lavandaia) e al desiderio di incanaglirsi per vendicarsi delle umiliazioni subite dai successori di suo padre.

    Ha appena compiuto trent’anni, ma per la sua indipendenza Elisabetta rifiuta di prendere marito con il quale dovrebbe condividere l’impero; ma non per questo rinuncia alle delizie dell’amore e neanche alla felicità della maternità. Siccome assieme alle tante sue debolezze ha anche quella di essere devota al feldmaresciallo Alessio Razumovski, suo capocaccia, i due si sposano in segreto. I frutti di quest’unione clandestina sarebbero tre figli, due maschi e una femmina; ma la cosa non è mai stata dimostrata e nessuno è mai stato riconosciuto ufficialmente. Razumovski non è l’unico amante di Elisabetta, lei ha bisogno di cambiare spesso e si concede generosamente; ma l’abile favorito le lascia presentare solo quelli che ritiene non essere sufficientemente intelligenti o ambiziosi per compromettere la sua posizione. Al gusto per la voluttà, Elisabetta aggiunge prima la passione per la buona cucina, poi quella per il vino. Le feste, i balli, le mascherate, i divertimenti più puerili hanno per lei la meglio sugli affari, con relativi cambiamenti di pettinatura e di abiti (ha quindicimila abiti e cinquemila paia di scarpe!); riempie così le sue giornate invece di dedicarle al bene dell’impero.

    Quello che, dopo Alessio Razumovski, ha più ascendente su Elisabetta è il cancelliere Alessio Bestuzev-Rjumin, l’uomo più audace e più abile di tutta la Russia. Governa insieme all’imperatrice, suo favorito e a tutti i ministri; da solo risolve, si può dire, gli affari sia esterni sia interni all’impero. Anche il conte Ivan Ivanovich Shuvalov è uno dei favoriti di Elisabetta ma usa il suo credito solo per incrementare le sue ricchezze e lascia a suo cugino Pietro Shuvalov la smania d’intrigare. Abile adulatore dell’imperatrice, Ivan Schuvalov le parla solo di umanità e gloria. Così facendo, le estorce doni di grande valore e infonde in lei il desiderio di fare scrivere la storia della Russia; desiderio che riesce a fare girare a suo profitto guadagnandosi le lodi di Voltaire.

    Nonostante ciò, Elisabetta, senza figli (sic), vuole togliere alla famiglia di Anna Ivanovna la speranza di risalire sul trono. Per questa ragione nomina come suo successore Carlo Pietro Ulrico, nipote di Pietro il Grande e figlio del duca di Holstein-Gottorp e di Anna, figlia di Pietro il Grande; da parte paterna ha diritto alla corona di Svezia, da parte materna a quella della Russia. Nel 1742 lo chiama a San Pietroburgo, gli fa ripudiare la fede luterana per la religione ortodossa, prende il nome di Pietro Federovich e lo dichiara granduca della Russia e suo erede presunto. Questo principe ha solo quattordici anni.

    Più tardi, nel 1743, pensano di fargli sposare Sofia di Anhalt-Zerbst di circa un anno più giovane di lui. Tutta l’Europa equivoca sui motivi di quest’alleanza attribuita alla mediazione del re di Prussia. È vero che Federico la desidera ma senza un motivo estraneo alla politica, le sollecitazioni del sovrano sarebbero inutili.

    Dal 1716 l’educazione di Elisabetta Petrovna è affidata a dei governanti occidentali (francesi, italiani e lettoni), dai quali apprende le lingue, la danza e l’etichetta di corte. Tale duplicità culturale caratterizzerà la sua vita futura. L’educazione occidentale è funzionale ai progetti del padre: Pietro la vuole, infatti, maritare a Luigi XV re di Francia o quantomeno a un Borbone di rango principesco. La proposta è tuttavia rifiutata dopo lunghe trattative, citando come pretesto anche le oscure origini materne.

    Molto tempo prima di salire al trono degli zar, Elisabetta è promessa in matrimonio al principe Carlo Augusto di Holstein-Eutin, fratello della principessa di Anhalt-Zerbst madre di Sofia; ma giunto il momento delle nozze, il principe si ammala e muore di vaiolo. Elisabetta innamorata all’eccesso si abbandona al più amaro dei dolori e dal profondo della sua disperazione fa il fioretto di rinunciare al matrimonio, fioretto che, come già detto, è, almeno in pubblico, rispettato. Anche se da allora Elisabetta cede all’amore suscitato da alcuni suoi cortigiani, non dimentica la dolce tenerezza per l’uomo della sua prima passione. Onora la sua cara memoria con una specie di culto e ne parla con le lacrime agli occhi.

    La scelta dell’erede in Carlo Pietro favorisce sul piano politico gli interessi russi perché impedisce l’unione dell’Holstein-Gottorp con la Svezia nell’eventualità che il ragazzo fosse riconosciuto erede al trono di Svezia, perché nipote della sorella maggiore di Carlo XII, la cui sorella minore Ulrica Eleonora, moglie di Federico d’Assia – allora regnante – non ha eredi. La Svezia, nel 1741, invade la Russia nella speranza di recuperare una parte dei territori perduti nel 1721 con la pace di Nystadt. Nel 1743 l’esercito russo sconfigge quello svedese e con la pace di Abo Elisabetta impone alla Svezia di rinunciare al progetto di proclamare Carlo Pietro di Holstein erede al trono.

    La madre di Sofia, donna intrigante e affascinata dall’attrattiva dei titoli nobiliari, seguendo gli affari della Russia, vede il futuro Pietro III ben posto per succedere a sua zia Elisabetta Petrovna e pensa a una possibile unione con sua figlia. La principessa d’Anhalt-Zerbst, memore del tenero ricordo che Elisabetta ha di suo fratello, decide di approfittarne per assicurare un trono a sua figlia. Il suo progetto è affidato al re di Prussia che prima lo approva e poi lo appoggia con tutta la sua influenza. Già nel 1739, dopo un incontro a Eutin tra Sofia (dieci anni) e Carlo Pietro (undici anni), suo cugino di terzo grado da parte degli Holstein, i pettegolezzi di corte parlano di una possibile unione. Durante questo primo incontro Sofia viene a sapere che il bambino ha un brutto carattere e, cosa appena credibile, che beve alcolici. Quando Carlo Pietro parte per la Russia per ricevere il titolo di granduca, nel 1743, anche Sofia non rimane indifferente e comincia a pensare a un possibile futuro assieme a lui. Nelle sue memorie scrive: … di tutti i pretendenti che mi erano stati offerti, lui era il più importante. Nel frattempo, Giovanna Elisabetta furbescamente fa recapitare un ritratto di Sofia all’imperatrice di Russia per mettere in luce se stessa e sua figlia.

    Quasi tutti quelli che nella Storia si sono fatti una posizione importante credono a presagi che avrebbero rivelato il loro futuro fasto: questa convinzione in una specie di predestinazione è anche stata la loro forza nei contrasti affrontati nel corso di una vita tormentata. Nell’estate 1743, come ogni anno, la duchessa di Brunswick (zia e madrina di Giovanna Elisabetta di Holstein-Gottorp, madre di Sofia) organizza nella sua residenza a Granenhof i suoi famosi ricevimenti di cui molte personalità europee contemporanee parlano con ammirazione. Da quando ha otto anni Sofia vi è accolta con un affetto tanto sincero quanto indulgente. Alla fine di una splendida e luminosa giornata di luglio Sofia, con i suoi quattordici anni appena compiuti a fianco dell’anziana padrona di casa, guarda con invidia alcune principesse più grandi di lei mostrare le loro mani al famoso canonico cattolico nonché chiaroveggente, l’abate Mengden. La duchessa di Brunswick sa leggere negli occhi di Figchen la sua adorata figlioccia.

    «Vorresti anche tu mostrare le tue mani piccola Figchen?».

    Sofia si fa timida e abbassa le palpebre.

    «Caro abate» prosegue la duchessa «vuole cortesemente guardare un istante le mani di questa fanciulla? È figlia di mia cugina di Anhalt-Zerbst. La proteggo perché in lei c’è tanta semplicità».

    Un giorno racconta lei stessa nelle sue Memorie egli dice a mia madre: «sulla fronte di vostra figlia vedo per lo meno tre corone». Mia madre ride mentre ascolta la predizione; egli le dice che non deve dubitare un istante del futuro, poi, invitandola ad avvicinarsi a una finestra, le dice delle cose che la stupiscono tantissimo ma le vieta di rivelarle. Questa innata prudenza, che le circostanze svilupperanno maggiormente, assieme alla favorevole audacia suscitata dalla fiducia nella sua stella, saranno molto utili alla futura granduchessa. Tuttavia, l’abate Megden predice delle corone ma dimentica di indicarne il prezzo.

    Sempre nel 1743, quando Sofia ha quattordici anni, sembra che il suo destino debba prendere una piega ben diversa. Il fratello minore di sua madre, Giorgio Ludovico che di anni ne ha ventiquattro, s’innamora della nipote. Lui, per un breve periodo sospira e spasima, poi si decide di dichiarare la sua passione all’allibita Sofia. Lei, anche se colta di sorpresa e impreparata per una rivelazione di questo genere, accetta ugualmente di sposarlo purché i genitori diano il loro consenso. Questo corteggiamento con speranze di matrimonio sembra, secondo quanto scrive la protagonista, contribuire a stimolare la sua sessualità adolescente. Lei stessa scrive della violenza con cui galoppai a cavallo dei cuscini nel mio letto fino esaurimento delle mie forze e della passione per l’equitazione. Passione che nasce a quell’età e poi si afferma nella vita adulta con riflessi sulla sua struttura psicologica e sfera sessuale. Sofia è già sensuale – senza saperlo; è elevata nell’innocenza assoluta. La sua sensualità è animalesca e inconscia, come quella dei bambini privi di curiosità.

    Il ritratto di Sofia piace. Un bel giorno di gennaio 1744 giunge al domicilio degli Anhalt-Zerbst una lettera da San Pietroburgo. È del maggiordomo del granduca Pietro che su ordine della zarina invita Giovanna Elisabetta e sua figlia alla corte russa. Lo scopo dell’invito non è dichiarato ma è evidente che Sofia è la prescelta per essere la moglie del futuro zar, il granduca Pietro. Eppure il prestigio della giovane è scarso e non sono né l’oro né una vantaggiosa alleanza che militano in favore di Sofia. In verità, dopo le difficoltà di successione create da rivendicazioni al trono da vari pretendenti, Elisabetta è determinata a non avere complicazioni diplomatiche o rivendicazioni stravaganti. Per di più, Sofia è giovane e senza esperienza politica: in apparenza non è un pericolo per il trono della Russia. La scelta della sposa fornisce agli osservatori un’indicazione sulla futura politica estera del governo russo. A questo punto, una volta sul posto, soltanto un errore grossolano può interrompere la trattativa. Invece, la madre esita forse combattuta tra l’affetto per il fratello (ma che cosa dirà mio fratello Giorgio?, chiede a Sofia) e l’ansia per il futuro della figlia in un paese tanto instabile. Sofia rincuora i genitori e li convince a intraprendere il viaggio in Russia e afferma che lo zio innamorato non può che volere la mia fortuna e la mia felicità. Sofia ha solo quattordici anni ma capisce qual è la posta in gioco. Per niente ignorante del prestigio e del potere attribuiti alla sua futura posizione, le è facile vincere le perplessità di sua madre poiché per una giovane della sua condizione sociale il matrimonio è l’unica proposta rispettabile; è naturale ambire al miglior matrimonio possibile, l’amore non è necessario, se poi viene, tanto meglio.

    È pur vero che ella non ha il grazioso sorriso di sua madre, quel modo di sedurre la gente con uno sguardo. Ma non è meno gradevole di un’altra. Dopo tutto mia cugina Augusta di Sassonia-Gotha si è sposata con il principe di Galles, figlio di Giorgio II d’Inghilterra. Se quella diventa regina d’Inghilterra, anch’io posso ambire ad un trono… Si dice che sono un maschiaccio… È vero che avrei voluto essere Rodrigo… Sì, avrei amato la guerra per correre a cavallo e mettere paura a tutti quanti ma solo per divertimento perché non sono cattiva…. Ella è quasi felice. Finalmente qualcuno si prende cura di lei. Non è divertente ricevere tutti i giorni rimproveri senza mai essere considerata in quella casa.

    Al momento della partenza, dopo i saluti, il principe Cristiano Augusto mette nelle mani di sua figlia un grosso libro del quale le chiede di avere gran cura, aggiunge poi, con tono misterioso, che presto potrebbe avere bisogno di consultarlo. Subito dopo, affida a sua moglie un biglietto scritto di suo pugno che deve consegnare ugualmente a sua figlia, dopo averne assimilato e meditato il contenuto. Il libro è il trattato di Heineccius sulla religione greca. Il biglietto, frutto delle recenti veglie e riflessioni di Cristiano Augusto, ha per titolo: Pro memoria. La grande preoccupazione del padre è che Figchen deve, con qualche riguardo, diventare granduchessa senza cambiare religione. Lui, su questo capitolo, è intransigente mentre sua moglie è più possibilista per ammettere le necessità imposte dalla nuova sorte di sua figlia. Le discussioni coniugali che accompagnano i preparativi prima della partenza e che destano l’attenzione di Figchen riguardano proprio quest’argomento; il padre vuole mettere in guardia sua figlia contro le tentazioni capaci di sconvolgere la sua fede. Inoltre, la futura granduchessa deve mostrare rispetto e la più totale obbedienza verso quelli che condizioneranno il suo futuro. Deve anche mettere il piacere del principe, suo marito, in cima alle sue preoccupazioni, evitare relazioni troppo intime con chiunque del suo entourage e avere cura di non immischiarsi in nessun affare di governo. Due mesi più tardi, Figchen ringrazia suo padre con affetto per queste graziose istruzioni. Vedremo in che modo saprà metterle a profitto.

    Madre, padre e figlia partono il 10 gennaio 1744 e partono volentieri perché la generosa e benevola imperatrice paga tutte le spese del viaggio e quelle necessarie per adeguare il loro guardaroba al lusso della corte imperiale. Ma non vanno direttamente in Russia: passano prima per Berlino. Devono ringraziare il re di Prussia Federico II per le buone parole da lui spese per favorire le nozze tra la figlia del suo vassallo e l’erede al trono russo. Giovanna Elisabetta decide, durante la tappa a Berlino, di tenere Sofia un po’ nascosta per non attrarre l’attenzione dei diplomatici accreditati presso la corte di Prussia. Eppure è un segreto di Pulcinella malgrado le disposizioni di riservatezza impartite dalla sua imperiale cugina perché tutte le lettere e pacchi spediti dalla Russia e destinati alla principessa di Anhalt-Zerbst non sono passati inosservati. Così Federico II sconvolgendo l’arbitraria discrezione di Giovanna Elisabetta la prega di presentarle sua figlia. La principessa, in un primo momento, cerca di eludere con ogni mezzo una simile eventualità. Ella dice che le rincresce di non poter presentare sua figlia a Sua Maestà e che Sua Maestà deve capire. Sua Maestà non capisce. Federico II con la consueta cortese testardaggine di cui parlano i contemporanei non molla. Egli insiste energicamente. Il giorno seguente, a cena, Sofia con il volto rosso dal piacere siede a tavola alla destra del re. Tutti gli occhi dei cinque tavoli circostanti sono puntati sulla ragazza a cui Sua Maestà fa tanto onore. Il re di Prussia approfitta dell’occasione per studiare da vicino la giovane che un giorno gli terrà testa e per dare istruzioni a Giovanna Elisabetta di adoperarsi alla corte russa come agente segreto della Prussia. Deve anche attivarsi per scalzare l’influenza di Bestuzev-Rjumin perché conduce una politica ostile alla Prussia.

    Sofia e sua madre riprendono il viaggio alcuni giorni dopo la famosa cena. Il principe Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst, non invitato in Russia, le accompagna verso Nord fino a Schwedt sul fiume Oder, poi prosegue da solo in direzione di Stettin dove deve compiere il proprio dovere di governatore. L’addio con suo padre è straziante per Sofia. Il viaggio – in incognito sotto il nome di contessa di Reinbek e figlia – dalla Germania alla Russia è oltremodo scomodo: le pesanti vetture sobbalzano o affondano sulle carreggiate pietrose e fangose e gli alloggi per pernottare in sperduti paesi sono spesso una grande e lurida sala scaldata da un’enorme stufa in cui donne, uomini, contadini e signori si riuniscono in completa promiscuità.

    Nel freddo e desolato paesaggio di Curlandia prima di arrivare a Mitau (città lettone di Jelgava) Sofia e sua madre sono testimoni di uno dei più grandi fenomeni astronomici di quei tempi: la grande cometa del 1744 spettacolare per la complessità della coda e talmente luminosa da poter essere osservata anche di giorno. Niente neve ma un freddo pungente che obbliga le due donne a coprirsi il viso con una maschera. Federico II ha diramato i suoi ordini ma i responsabili delle stazioni di posta, i borgomastri prussiani ai quali le viaggiatrici sono segnalate per essere accolte con dignitosa ospitalità, non sono in grado di lottare contro le intemperie, i disagi nelle stazioni di sosta e le locande tutte chiuse in questa stagione. La principessa in una lettera a suo marito si lamenta del fatto che un giorno si devono rifugiare nella camera da letto del responsabile della stazione di posta, la quale non si distingue da un porcile: il marito, la moglie, i cani da guardia, le galline e i bambini dormono a casaccio nelle culle, nei letti, dietro la stufa, sui materassi.

    Sofia non si spaventa né per questi disagi né per l’inclemenza del clima. Non è così per sua madre che rischiando di sentirsi male in ogni momento chiede i sali, un piccolo bicchiere di alcol per riacquistare energia e piange con una piega amara ai lati della bocca:

    «Non possiamo proseguire più a Nord. Questa cometa è un cattivo presagio, ritorniamo a Berlino…».

    Perché Sofia sopporta meglio di sua madre queste intemperie e le dure privazioni? Ella pensa che ogni ora di sopportazione l’avvicina all’obiettivo: rivedere il figlio del cugino di primo grado di sua madre, quel Pietro Ulric di Holstein-Gottorp. Lo ha visto soltanto una volta, quando aveva undici anni. Era un ragazzo magro, piuttosto brutto e aveva uno sguardo ambiguo. Ma quattro anni sono passati. Nel frattempo, Pietro Ulric, convertito da sua zia l’imperatrice Elisabetta all’ortodossia e da lei adottato, è diventato l’erede al trono di tutte le Russie.

    Nelle sue Memorie Sofia racconta come, nei pressi di Riga, il loro convoglio incrocia un altro convoglio di carrozze, ma questo, con le tendine abbassate, scortato da soldati: è l’ex famiglia regnante di Brunswick-Mecklemburg trasferita, dagli arresti domiciliari, verso una destinazione sconosciuta e verso una prigionia più severa. Se il timore di un simile destino la sfiora in quel momento, non lo dice.

    Al confine russo, alla fine del gennaio 1744, le cose cambiano radicalmente per le due avventurose viaggiatrici. A Riga, la prima importante città russa sulla frontiera, le due donne arrivano in una carrozza sgangherata, coperte da modesti mantelli di lana e con non più di cinque o sei lacchè al seguito. Da qui ripartono per San Pietroburgo, dove, per volontà dell’imperatrice, si devono fermare alcuni giorni, prima di raggiungerla a Mosca. Le principesse mettono a profitto il loro soggiorno nella capitale per adeguare il loro guardaroba alla moda russa. Il viaggio riprende in direzione Mosca, avvolte in pellicce di zibellino, in una slitta ampia, lunga e confortevole come un letto: l’ideale per scivolare sulla neve battuta. Sei cavalli la tirano, le fanno da scorta uno squadrone di corazzieri e il reparto di un reggimento. Si viaggia di giorno e di notte per arrivare a destinazione prima possibile. All’ultimo cambio, sono attaccati sedici cavalli alla famosa slitta inventata da Pietro il Grande, la corsa è vertiginosa, circa ottanta chilometri in tre ore. Un grave incidente rischia tuttavia di ritardare la prontezza della slitta. Questa, nell’attraversare un villaggio, urta l’angolo di una capanna. Due grosse sbarre di ferro cadono dal tetto rischiando di schiacciare gli illustri occupanti. Giovanna Elisabetta è colpita al petto ma la sua pelliccia di zibellino attutisce l’urto. Sofia che legge non si accorge di niente. Però due granatieri del reggimento Preobrajenski seduti nella parte anteriore della slitta rotolano nella neve, schiacciati e con la testa insanguinata. I due sono lasciati alle cure della gente del posto. I cocchieri frustano i cavalli. Un’accelerazione d’inferno permette a madre e figlia di arrivare alle otto di sera davanti al palazzo di legno a Mosca il 9/20 febbraio giusto in tempo per il compleanno del granduca, il 10/21 del mese.

    Elisabetta, impaziente, si mette sul passaggio delle nuove arrivate, ma si sottrae agli sguardi dietro un doppio cordone di cortigiani. Suo nipote, ancora più impaziente, infrange l’etichetta e, senza dare alle viaggiatrici il tempo di ritirare le pellicce si affretta a far visita alla sposa promessa. Poco dopo, le due signore sono accompagnate agli appartamenti dell’imperatrice. L’incontro si svolge nel migliore dei modi. C’è anche una nota emotiva che sembra essere di buon augurio. Dopo aver guardato attentamente la madre di Sofia, l’imperatrice si gira ed esce precipitosamente. Con questa sua reazione cerca di nascondere le lacrime perché ritrova sul viso della principessa i lineamenti che le ricordano il suo lutto eterno, il principe di Holstein che doveva sposare.

    Il giorno seguente, Figchen e sua madre sono tutte e due elevate al rango di dame dell’ordine di Caterina su richiesta del granduca, come fa loro intendere Elisabetta. Viviamo come delle regine, mia figlia ed io scrive la principessa a suo marito. Quanto al potente Bestuzev-Rjumin sembra avere il destino segnato. La principessa non deve neanche preoccuparsi di organizzare il complotto per rovesciarlo. Ne trova uno bello e pronto: è l’azione della Francia e della Prussia, sostenuta dagli Holsteinesi, giunti in Russia dopo l’elevazione a granduca di Pietro Ulrico. Lestocq dirige o sembra dirigere questa compagine, sostenendo, per opporlo a Bestuzev-Rjumin, il conte Michele Vorontsov, che ha preso parte all’avvento di Elisabetta. Senza ripercorrere la carriera del ministro Bestuzev-Rjumin basta dire che è uno dei più capaci e sorprendenti condottieri diplomatici di quei tempi, perché è stato al servizio di molti regnanti prima di offrire definitivamente i suoi servizi alla Russia. La madre di Figchen si rende conto dell’importanza della partita che vuole affrontare e del valore dell’avversario che ha di fronte? Non è affatto probabile. Si ricorda che Federico II le ha promesso l’abbazia di Quedlinburg per sua sorella cadetta, in caso di successo nell’impresa che medita e intende avere la sua abbazia. La caduta di Bestuzev-Rjumin è d’altronde, nella mente di Federico II, vista come l’inizio di un grande sconvolgimento dello scacchiere politico favorevole a un riavvicinamento tra la Russia, la Prussia e la Svezia. Che gloria sarebbe per la principessa di Zerbst poter aggiungere il suo nome alla realizzazione di una simile impresa! Si sente in grado di affrontarla. È una donna e arriva da Zerbst: è la sua giustificazione. Crede di avere ancora a che fare con i piccoli intrighi e le fragili manovre politiche conosciute al suo paese: è il suo grande errore, fino al giorno in cui i suoi occhi, aperti alla realtà dei fatti, vedono l’immensità dell’abisso che incoscientemente ha affrontato. Quanto al matrimonio di sua figlia non se ne occupa più: È cosa fatta, scrive al marito. Figchen ha raccolto il consenso della sovrana: Elisabetta le vuole bene, l’erede la ama. E la futura sposa che dice? Nelle sue Memorie Sofia parla di Elisabetta perché profondamente impressionata per la sua bellezza e maestà, allora al massimo del suo splendore. Ma non dice nulla di Pietro. Il ricordo del primo incontro a Eutin con il gracile ragazzo si è forse mutato ora in impressioni più favorevoli? Di questo, la madre non ne ha cura. Pietro è il granduca e un giorno sarà imperatore. Il cuore di sua figlia non può che accogliere con favore una promessa di felicità così prestabilita. Vediamo allora com’è cresciuto il gracile ragazzo fino alla svolta del suo destino.

    Il bambino, nato a Kiel in Germania, il 10/21 febbraio 1728, non è robusto e non lo sarà mai. La madre muore quando lui ha tre mesi. La debole costituzione del bambino fa sì che la sua educazione sia trascurata. Fino all’età di sette anni è affidato a domestiche francesi: a Kiel come a Stettin. Ha anche un insegnante della lingua francese. È a quei tempi che diventa soldato prima di essere uomo. All’improvviso passa sotto la disciplina degli ufficiali della guardia holsteinese: vive la vita di caserma, delle camerate, dei posti di guardia e delle parate. In quest’ambiente prende gusto al mestiere in quello che ha di più abietto, nelle sue volgarità, sue asprezze e sua grettezza. Partecipa alle esercitazioni e monta la guardia. Nel 1737, a nove anni, è sergente e, in questa qualità, è, con l’arma in braccio, davanti alla porta di una sala, dove suo padre offre ai suoi ufficiali un sontuoso banchetto per festeggiare il suo compleanno. Il bambino piange mentre le succulente pietanze sfilano sotto i suoi occhi. Al secondo servizio, tuttavia, suo padre gli fa dare il cambio, lo nomina tenente e gli permette di sedersi a tavola. Salito al trono, Pietro ricorda ancora questo episodio come il più bel ricordo della sua vita.

    Nel 1739, dopo la morte di suo padre, il regime cambia: Pietro è affidato a un precettore che ne gestisce altri; questo precettore in capo è il conte Otto Brümmer. Alcuni lo descrivono come un uomo di raro merito il quale ha il difetto di crescere il giovane principe con l’esempio dei più grandi modelli, considerando più la sua fortuna che la sua intelligenza. Altre testimonianze gli sono meno favorevoli. Il francese Millet dice di lui è buono per allevare cavalli e non principi. Brümmer maltratta il suo allievo, gli infligge delle punizioni irragionevoli rispetto alla sua debole costituzione, come la fame o imporgli la tortura di ore in ginocchio sui piselli secchi stesi per terra e persino le botte se il ragazzo non studia abbastanza. Nel pari tempo, siccome il piccolo principe, il diavoletto, si ostina a vivere contro le attese dell’imperatrice Anna, è contemporaneamente pretendente al trono della Russia e a quello della Svezia, gli s’insegna alternativamente a volte il russo e a volte lo svedese, secondo le speranze del momento. Il risultato è che non impara nessuna delle due lingue. Quando giunge a San Pietroburgo, nel 1742, Elisabetta si stupisce di vederlo così poco preparato. Allora lo affida a Stählin. Costui, un sassone venuto in Russia nel 1735, è professore di eloquenza, di poesia, di filosofia e di tante altre cose. L’educazione di Pietro sottomessa alla brutalità di Brümmer, ora maresciallo di corte, a confronto dei modi cortesi di Stählin produce un pessimo risultato. Un giorno quest’ultimo, costretto ad intervenire per evitare una scena di violenza quando Brümmer si precipita sul giovane principe con il pugno alzato e con Pietro mezzo morto dalla paura, chiama la guardia in suo soccorso. La sua passione è la musica ed è felice quando può suonare il violino; ma mal guidato non impara mai a suonarlo come si deve.

    Sottoposto a questo regime, crescendo, il bambino maltrattato e spaventato diventa un giovanotto immaturo, persino infantile e prende delle abitudini viziose che diventano delle deformazioni definitive: violento e sornione, pauroso e fanfarone. È felice solo quando può giocare ai, o con i, soldati. Non privo di una certa acutezza non è però capace di applicarsi a nulla in modo costante e non conosce il significato della parola discrezione. Nelle sue Memorie Sofia annota che è discreto come un colpo di cannone. La conversione forzata e riluttante alla religione ortodossa è vissuta con frequenti e furibondi litigi con il precettore. Il giovane ha anche difficoltà a imparare il russo. Il giovane è ostile a tutto quello che è russo; non sarà mai in grado di esprimersi correttamente in russo; disprezza e ha disgusto per la religione ortodossa. In una lettera Pezold (diplomatico prussiano) scrive: Il giovane duca, ancora oggi, non conosce quasi per niente il russo né la religione greca, ma a quest’ultima come a tutte le usanze di questo paese esterna in ogni occasione tanto disprezzo che è sempre meno amato…. Triste inizio per un futuro sovrano.

    Con le sue fanfaronate tenta di stupire l’acuta Sofia. Un giorno, mentre si compiace a stupirla con il racconto di prodezze da lui compiute contro i Danesi, lei ingenuamente gli chiede quando sono avvenute queste bravate. Tre o quattro anni prima della morte di mio padre. E ché! Non avevate sette anni!. Allora diventa rosso dalla rabbia. Per di più è rimasto gracile, mal messo sia nel fisico sia nell’intelletto; trascina una personalità goffa, bizzarra e tormentata in un corpo smilzo e malaticcio. Figchen non deve certo sperare troppo nei sentimenti, tanto sinceri agli occhi di sua madre, per stabilirsi in Russia. La principessa di Anhalt-Zerbst, in attesa del fatidico annuncio, non perde occasione per presentare all’imperatrice l’inclinazione dei due giovani come una passione irreprimibile, per ricordarle l’amore provato per il principe di Holstein suo fratello e la supplica di fare la felicità della nipote del compianto principe. È almeno capace di amare questo giovane di così triste aspetto?

    Per sua fortuna, Sofia non ha, ora, bisogno di nessun appoggio e può provvedere con le sue risorse. Ha appena quindici anni e già ha quel colpo d’occhio giusto e perspicace, quella sicurezza di giudizio, quella capacità di valutare le situazioni e quell’invidiabile buon senso che più tardi faranno parte del suo genio, capacità queste che sono, forse, tutto il suo genio. Per cominciare, capisce che per rimanere in Russia e ben figurare nella posizione di granduchessa, deve diventare russa. Forse suo cugino Pietro non ci ha pensato. Invece ella si rende conto prontamente del malcontento e della stizza strisciante che provoca attorno a lui con il suo gergo holsteinese e le sue maniere tedesche. Si alza di notte per ripetere le lezioni dell’insegnante della lingua russa. Siccome non si copre a sufficienza e cammina a piedi nudi nella sua camera per tenersi sveglia, si prende una bella influenza. In poco tempo la sua vita è in pericolo.

    La giovane principessa di Zerbst scrive La Chétardie il 26 marzo 1744 soffre di una pleuropolmonite. Il partito dei sassoni spera. Si sbaglia, perché, a leggere quello che annota ancora il diplomatico francese, Elisabetta non intende, qualunque cosa succeda, lasciarlo approfittare della situazione. Non ci guadagneranno niente, diceva l’altro ieri ai signori Brümmer e Lestocq, perché se per disgrazia perdo questa cara figliola, voglio che il diavolo mi porti via se mai prendessi una principessa sassone. Del resto Brümmer confida a La Chétardie che nel caso funesto da prendere in considerazione e temere, ha predisposto le cose in modo che una principessa di Darmstadt, carina e proposta dal re di Prussia nel caso in cui la principessa di Zerbst non riuscisse, deve essere preferita su tutte le altre.

    Mentre le ambizioni e rivalità si animano attorno a lei, Sofia lotta contro la morte. I medici prescrivono un salasso. Sua madre si oppone. L’imperatrice ne è informata; ma l’imperatrice è al convento di Troïtza, assorta nelle devozioni alle quali si dedica con passione. Cinque giorni sono trascorsi così. L’ammalata attende; ma si conquista l’imperatrice chiedendo al suo capezzale un prete ortodosso invece di un pastore luterano. Finalmente Elisabetta arriva con Lestocq e ordina il salasso. La povera Figchen sviene. Quando riprende i sensi, si ritrova nelle braccia dell’imperatrice. Questa, per premiarla per essersi lasciata dare un colpo di lancetta, le regala una collana di diamanti e un paio di orecchini del valore di ventimila rubli. Anche Pietro è generoso, le regala un orologio coperto di diamanti e rubini. Purtroppo, i gioielli non hanno alcun potere sulla febbre. In ventisette giorni, l’ammalata subisce sedici salassi; alcune volte anche quattro nelle ventiquattro ore. Alla fine, la giovane età e la robusta costituzione della ragazza hanno ragione della malattia.

    Il ripudio del culto della sua infanzia, uscito dalle labbra morenti della futura granduchessa con il ricorso all’assistenza di Todorsky (prete ortodosso incaricato dell’educazione religiosa del granduca e poi della principessa tedesca) e questa confessione anticipata della fede ortodossa ricevono un facile credito. Da allora la posizione di Figchen in Russia è ben accetta. Qualunque cosa possa succedere, è ormai sicura di trovare, nel cuore di questo popolo ingenuo e profondamente religioso del quale condivide la fede, la testimonianza della sua riconoscenza per essersi integrata ai suoi valori. Il legame che deve unire questa piccola principessa tedesca alla grande nazione slava, della quale comincia solo a balbettare la lingua, il patto che per quasi mezzo secolo deve associare i loro destini nel bene e nel male della loro sorte e che solo la morte può sciogliere, quel legame e quel patto sono ora suggellati. Che fine hanno fatto il trattato di Heineccius e le invettive del Pro memoria di Cristiano Augusto, suo padre? Sembra che dopo quindici giorni Sofia sia già disposta ad accettare la religione greca; la convinzione verrà.

    Il 20 aprile 1744, Sofia appare in pubblico per la prima volta dopo la malattia. È così pallida che l’imperatrice le dona un vasetto di fondo tinta rosso. Nonostante ciò, la sua figura attira gli sguardi e sente che quegli sguardi sono benevoli. Piace e affascina. Splende e riscalda attorno a sé l’atmosfera gelida di una corte che un giorno renderà splendente. Anche Pietro è premuroso e più fiducioso. Ahimè, la sua galanteria e la sua fiducia sono di un genere particolare: racconta alla sua promessa la storia del suo amore per una delle ragazze d’onore dell’imperatrice, la principessa Lapukhin, la cui madre è stata esiliata in Siberia. Per questo fatto la figlia ha dovuto lasciare la corte. Pietro avrebbe voluto sposarla. Invece ha dovuto rassegnarsi e obbedire al volere dell’imperatrice. Figchen arrossisce e si sforza di ringraziare il granduca per l’onore che le riconosce facendola partecipe dei suoi segreti. S’intravede già come sarà fatto il futuro dei due giovani così poco compatibili tra loro.

    Nel pari tempo, la principessa Giovanna Elisabetta si dedica alle sue attività di alta politica. Prendendo sul serio le istruzioni di Federico II, Giovanna Elisabetta si lega, a corte, con il partito che complotta il rovesciamento del vicecancelliere Bestuzev-Rjumin. Ha un salone, dove s’incontrano tutti gli avversari del sistema politico attuale, tutti i nemici di Bestuzev-Rjumin: Lestocq, La Chétardie, Mardefeldt, Brümmer. Complotta, intriga e la sua supponenza irrita i favoriti, la sua curiosità stanca i ministri. Si muove con tutta la sua foga di donna nervosa e tutta la spensieratezza del suo cervello balzano. Crede di essere prossima al successo e all’abbazia di Quedlinburg. Si vede già ricevere i complimenti di Federico II e accettare l’incarico come suo ambasciatore presso la grande corte del Nord. La quale è diventata la sua migliore e più preziosa alleata. Non vede l’abisso davanti a sé. Allora Bestuzev-Rjumin passa al contrattacco.

    Il primo giugno 1744, Elisabetta si reca di nuovo all’abbazia di Troïtza. Questa volta con tutto lo sfarzo e tutta l’ostentazione di un pellegrinaggio solenne, porta con sé la metà dei suoi cortigiani e percorre la strada a piedi. Salita al trono fa il voto di ripetere questa cerimonia ogni volta che verrebbe a Mosca, in memoria dell’asilo, all’interno di questo monastero, accordato a Pietro il Grande messo in pericolo dalla rivolta del corpo militare di Streltsy. La giovane Sofia, ancora debole, non può accompagnare l’imperatrice e sua madre rimane con lei. Dopo tre giorni arriva una lettera di Elisabetta: le due principesse devono raggiungere il corteo imperiale per assistere al suo solenne ingresso all’interno dell’abbazia. Appena le due sono sistemate in una cella, dove il granduca viene a tenere loro compagnia, l’imperatrice appare seguita da Lestocq. Sembra essere in preda a una grande agitazione. Ordina alla principessa Giovanna Elisabetta di seguirla in una stanza accanto. Anche Lestocq ci va. L’incontro è lungo. Figchen non se ne preoccupa, occupata com’è ad ascoltare le chiacchiere stravaganti, come il solito, di suo cugino. Poco a poco, la giovinezza e la vivacità della sua mente hanno la meglio sul senso di malessere provocato di solito dalla presenza del granduca e finisce per prestarsi al suo infantilismo. I due ridono e scherzano allegramente. All’improvviso Lestocq torna: «Quest’allegria finirà presto», dice bruscamente; poi rivolgendosi alla principessa Sofia: «Dovete fare le valige». Figchen dallo stupore rimane senza fiato e quando il granduca chiede che cosa significa, Lestocq si limita a dire: «Lo vedrete presto».

    Ho capito subito scrive Sofia nelle sue Memorie che il granduca mi avrebbe lasciata senza rimpianti. Per me, visto il suo comportamento, mi era quasi indifferente, ma la corona della Russia non lo era. E ancora quando a quarant’anni di distanza evoca i ricordi di quell’epoca: Il cuore non mi prediceva niente di buono; solo l’ambizione mi sosteneva. Aveva nel suo profondo qualche cosa che non le faceva dubitare un solo istante che sarebbe riuscita a diventare, di testa propria, imperatrice della Russia. Qui l’esagerazione è evidente e l’annotazione a posteriori è chiara. Anche se, da sempre, i matrimoni sono portatori di speranze vantaggiose e una ragazza di quindici anni è in diritto di aspettarsele.

    Dietro Lestocq sopraggiunge poi l’imperatrice, rossa in viso, la segue la principessa Giovanna Elisabetta, molto turbata e con le lacrime agli occhi. Alla presenza della sovrana, i due giovani, seduti sul bordo di una finestra, le gambe pendenti, e che, paralizzati dalle parole di Lestocq, erano rimasti in quella posizione, saltano subito a terra. Il gentile quadro sembra placare la collera dell’imperatrice. Ella sorride, va verso di loro, li bacia ed esce senza pronunciare una parola. Ora il mistero si spiega. Da più di un mese, la principessa di Zerbst, con le sue iniziative s’intromette,

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