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Info su questo ebook

Narrativa - romanzo (217 pagine) - "Credi di sapere sempre tutto? Sì, forse ho sbagliato, ma almeno IO sto provando una cosa nuova e magari scopro che invece di medicina mi piace il marketing! E TU forse tra dieci anni scoprirai che sei nata per fare la pizza, invece di coltivare in vitro spore, muffe e funghi!"


Ti sei mai sentita soffocata dalle attenzioni e dalle aspettative della tua famiglia tanto da avere la tentazione di mollare tutto e andartene?

Margherita è così: è esausta e sente di non avere scampo. È nata in una famiglia bene di Milano, la sua vita è programmata fin nel minimo dettaglio. Poi accade qualcosa: un litigio di troppo e lei trova il modo (o il coraggio?) di vendicarsi. Farà il suo stage di 200 ore in un mobilificio di lusso, anziché nell'ospedale dove lavora sua madre. Titta viene così catapultata in un ambiente diverso da quello in cui è vissuta, dove arroganza e cinismo riescono a farla sentire inadeguata.

Per fortuna ci sono anche colleghi simpatici con cui chiacchierare e prendere un caffè, e poi c'è Francesco, corteggiato da tutte, che ha qualcosa che a lei manca: la libertà di decidere della propria vita.

Margherita all'inizio lo detesta: lui è strafottente, sicuro di sé e non fa che prenderla in giro chiamandola principessa viziata; i battibecchi sono all'ordine del giorno, ma fra loro scatta comunque la scintilla. Quando tutto sembra andare bene, Margherita scopre il segreto di Francesco e un evento imprevisto rischia di mandare a monte il suo stage al mobilificio.

In bilico fra due vite, Titta farà la scelta giusta?


Fiammetta Murino Rossi nasce a Roma nel 1972. Dopo avere trascorso l'infanzia in Sud Africa torna in Italia e si laurea in Economia e Commercio.

Attualmente vive a Vigevano, dove collabora con la radio locale; ha pubblicato diversi racconti d'appendice con il Giallo Mondadori, una raccolta di favole dal titolo Ancora nonna! (Kimerik 2014) e i romanzi per ragazzi: La strana bottega del signor Balaji (Leucotea 2018) e Breinen e il segreto della Fonte (Il seme bianco, 2019).

LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2021
ISBN9788825418569
200 ore

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    Anteprima del libro

    200 ore - Fiammetta Rossi

    Prologo

    Margherita Ghisolfi-Ghia, detta Titta, a diciotto compiuti ignorava ancora cosa significasse prendere decisioni in modo autonomo.

    Da sempre la sua esistenza subiva il rigido protocollo imposto dalla madre, la dottoressa Lidia Ghisolfi-Ghia, che dettava i ritmi della loro vita come un mastro nocchiere, e lo faceva con efficienza esemplare affinché ai suoi figli non mancasse nulla di quanto il denaro potesse offrire.

    La dottoressa non lasciava niente al caso, proprio per non essere colta in fallo. Odiava il caso, era qualcosa di incontrollabile, una sorta di imprevisto che compariva senza preavviso e poi spariva lasciandosi dietro solo cocci, e dato che con i cocci lei non voleva avere nulla a che fare, faceva di tutto per evitarli a se stessa e ai figli. L'ultima volta che aveva avuto a che fare con il caso aveva divorziato, e da quel momento l'ex signora Ghia era diventata – se possibile – ancora più protettiva. Margherita con i cocci non aveva mai avuto a che fare, ma si sa… il caso non è prevedibile. E non lo sarebbe stato nemmeno questa volta.

    L’alternanza scuola-lavoro, obbligatoria per tutti gli studenti delle scuole superiori, anche nei licei, è una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 (La Buona Scuola) in linea con il principio della scuola aperta.

    Anche il Liceo San Bartolomeo partecipa all'iniziativa con stage di 200 ore.

    1.

    Titta appallottolò la circolare, portò una mano all'altezza dello stomaco e boccheggiò. Ultimamente le capitava spesso: un senso di rabbia le saliva dritto dalle viscere fino alla gola, impedendole di respirare.

    Quella mattina del 7 gennaio il cielo di Basiglio era coperto da uno strato di nuvole scure e basse; Natale era passato in un lampo ed era ora di tornare a scuola, agli studi, ai compagni e alla monotonia delle sue giornate.

    Gettò un'occhiata ai poster attaccati sulla parete piena di roselline. Quei poster – regalo dello zio Ercole – erano un pugno in un occhio e forse le piacevano proprio per questo. Rappresentavano una popolazione subsahariana: gli Onwas. Fissò per un istante i loro volti arsi dal sole e la loro pelle nerissima con sfumature sabbiose che pareva esaltare gli enormi occhi dorati.

    A Titta sembrava che quegli sguardi racchiudessero l'infinito.

    Finì di preparare lo zaino. Dalla sua camera poteva sentire l'aroma del caffè assieme ai rumori di stoviglie che Ana, la domestica capoverdiana, stava riponendo e, al di sopra di tutto, la voce acuta di sua madre che continuava a lamentarsi di essere in ritardo.

    E difatti, pochi istanti dopo, suo fratello Tommaso si materializzò sulla soglia della camera. Titta lo osservò di sfuggita, il tempo sufficiente per farsi la stessa domanda di sempre: ma perché non era alta come lui?

    – Ehi, nana, guarda che se non scendi tipo tre secondi fa mamma scatena lo tsunami – disse lui prima di far vagare lo sguardo disgustato per tutta la stanza: pile di vestiti erano ammassate ovunque assieme a scarpe e borse e peluche colorati. Sulla scrivania c'erano tre o quattro macchine fotografiche soffocate da libri e quaderni.

    – A pensarci bene forse lo tsunami è già arrivato – mormorò Tommaso senza nemmeno entrare in camera.

    Titta sgattaiolò nella cabina armadio e lui incalzò spazientito: – Senti, vedi di muoverti, oggi ho un esame e mamma dev’essere in ospedale tra mezz'ora.

    Titta infilò con rabbia la prima maglietta che si trovò sotto mano e scelse un paio di jeans, poi raccolse i lunghi capelli castani nella consueta coda e si ispezionò nello specchio. Il riflesso le restituì un volto dall'ovale piccolo ma perfetto, gli occhi grandi da cerbiatto, come diceva spesso il nonno, con uno sguardo vellutato e leggermente sognante che la faceva apparire un po’ come una di quelle languide modelle ritratte dai maestri dell'ottocento. Fu tentata di attenuare il pallore del viso con del fard, magari un po’ di rossetto, ma accantonò l'idea e uscì dalla cabina, dimenticandosi che il fratello era ancora lì ad aspettarla.

    – Hai smontato l'armadio e ti metti jeans e maglietta? – l'accolse lui sfottendola.

    – Lascia stare. Oggi non gira bene.

    – Strano, al mattino sei sempre allegra.

    Titta recuperò lo zaino e se lo mise penzoloni sulla spalla. Scese di corsa le scale e in cucina bevve d'un fiato il caffè che Ana aveva preparato, poi la salutò con un ciao appena udibile.

    Senza una parola salì sul suv di sua madre mentre il fratello, che di solito prendeva il motorino, quel giorno usufruì del passaggio di una sua compagna di studi.

    Il Liceo San Bartolomeo non distava che pochi isolati. In macchina il paesaggio marrone e grigio scorreva veloce dal finestrino e si mescolava ai suoi pensieri, finché la madre la richiamò al presente.

    – Senti, so che sei arrabbiata per ieri. Dovevamo rivedere il programma di studi e anche quella cosa… come si chiama?

    – Alternanza scuola-lavoro.

    – Purtroppo abbiamo avuto un'emergenza in sala operatoria, il paziente ha avuto un blocco intestinale così…

    E giù la spiegazione di ciò che era avvenuto con annessi dettagli sanguinolenti. Titta ascoltava con un orecchio solo: le erano sempre piaciuti i resoconti della sala operatoria, ma ultimamente avevano perso sapore.

    – … alla fine però il battito è tornato normale e la pressione si è stabilizzata. Ma ormai erano le undici passate, possiamo parlarne oggi? Anzi no, facciamo domani pomeriggio?

    – Ho lezione di tennis – rispose lei con scarso interesse.

    – Ah già… io poi sono a Bergamo per quella conferenza sulle funzioni renali, però il week end sono a casa. Ci ritagliamo un momento tutto per noi e…

    – Dobbiamo andare dalla nonna. È il suo compleanno – l’interruppe Titta con lo stesso tono monocorde che, lo sapeva bene, dava sui nervi alla madre.

    Costeggiarono il laghetto, ancora due isolati e il San Bartolomeo sarebbe spuntato alla fine di un viale ombreggiato da olmi. Titta si sentì gli occhi di sua madre puntati come spilli dallo specchietto della macchina e tornò a guardare fuori aspettando il solito commento acido sul suo abbigliamento. Che non tardò ad arrivare.

    – Come ti sei conciata? Cos'è quella maglietta… c'è un teschio disegnato?

    Titta provò una leggera fitta di piacere. – Me l'ha data Lucrezia, è una protesta contro i venditori di armi.

    – Non starete pensando di fare un altro sit-in, vero? Quest'anno proprio non è il caso di fare sciocchezze.

    Per sciocchezze sua madre intendeva quella volta che Lucrezia aveva convinto tutte le compagne di classe a incatenarsi alla cancellata della scuola per protestare contro la vendita di elicotteri militari italiani al governo indiano, o quando insieme avevano distribuito volantini anti USA all'interno della mensa scolastica. In entrambi i casi lei se l'era cavata con una lavata di capo, ma l'amica era stata sospesa da scuola.

    – Rilassati, mamma, fila tutto liscio – rispose.

    – Lo spero proprio. A proposito, ho cambiato i turni in ospedale, oggi faccio la notte. Domani ci prendiamo qualcosa assieme? Su, scendi, non fare tardi.

    La macchina ripartì quasi subito lasciando Titta all'ingresso della scuola.

    Domani ho tennis

    Titta allacciò il giubbotto e respirò a fondo. Gruppetti di studenti chiacchieravano nello spiazzo antistante l'ingresso. Erano delle prime classi, non conosceva nessuno di loro. Si guardò attorno e per un momento fu tentata di andarsene in giro e saltare la scuola. Aveva appena formulato il pensiero che la voce di Maria Sole Trentin la raggiunse con lo stesso effetto di una lama rompighiaccio.

    – Ehi, Titta, ciao!

    Non le restò che indossare il suo miglior sorriso e rispondere al saluto.

    – Ciao, Mari.

    Maria Sole avanzò verso di lei col solito sguardo insolente. Indossava un normale paio di jeans sopra stivaletti scamosciati imbottiti e un parka della nuova collezione Alpha Industries, e tuttavia sembrava pronta per la passerella. C'era qualcosa in lei che disturbava Titta. Forse la sicurezza con cui camminava o il modo in cui la studiava, come se fosse ogni volta sotto esame.

    Maria Sole si accese una sigaretta, aspirò il fumo e lo buttò fuori.

    Con lei c'erano le onnipresenti Ginevra e Giusy. Ogni lunedì si davano appuntamento via Twitter per ritrovarsi in anticipo e spettegolare sul week end passato e programmare le prossime uscite. Si salutarono con un bacetto sulla guancia.

    – A fine mese festeggio al Living il compleanno, te l'ho detto? – esordì Maria Sole.

    – Sì, me l'hai scritto su Instagram e Twitter. A voce però mi mancava.

    – Credevo lo dimenticassi, ultimamente sei strana. Bella maglietta, te l'ha data Lucrezia, vero? Guarda che è su di giri. Ha portato un manifesto che vuole attaccare in palestra contro l'intervento ONU in non so quale parte nel mondo…

    – Siria – spiegò Titta.

    – Ah be’, allora, se ci pensa Lucrezia… – Le altre risero.

    La Siria era milioni di chilometri dai loro pensieri, tutti incentrati sugli esami, sui test d'ingresso alle università e sull'apprendistato che sarebbe partito di lì a poco.

    Giusy tirò fuori un nuovissimo smartphone, preso da suo padre in qualche angolo di mondo a Natale, e per un po’ ebbe tutta l'attenzione per lei, poi proruppe davanti a un'immagine: – Oh mio Dio, avete visto Justin Bieber oggi?

    Come parte di un unico corpo le altre tirarono fuori i rispettivi cellulari per poi allargare gli occhi e rompere il silenzio in un coro di oohhhhh! mentre su Instagram scorrevano le immagini.

    – Quanto è figo!

    Titta si rifiutò di canticchiare con loro il suo ultimo successo.

    – Secondo voi si sposerà con Selena Gomez?

    – Quant'è bella.

    – Guarda com'è magra… Oddio cosa darei per essere così, mi basterebbe avere il suo culo.

    – Sì, però io preferisco Kim Kardashian.

    – Allora visto che si parla di scegliere, vorrei essere Kendall Jenner e sfilare tutte le settimane per Victoria Secrets – aggiunse Giusy

    Anche Titta ridacchiò assieme alle altre. Immaginare il fisico robusto di Giusy in un abito taglia slim faceva ridere.

    – Cosa ti regalano i tuoi? – chiese Giusy, che non perdeva una festa o qualsiasi pretesto per rimanere incollata al gruppo più figo della scuola.

    Gli occhi di Maria Sole si illuminarono maliziosamente. – Le tette.

    Giusy spalancò la bocca.

    – Cosa?

    – Davvero?

    – Che c'è di male? È un regalo come un altro. Non ho bisogno di nulla, solo di una taglia in più. Lo avrei fatto lo stesso, e poi mamma conosce un medico bravo a Milano, quindi perché no?

    Una voce maschile interruppe il cicaleccio e Titta si sentì scuotere con decisione le spalle.

    – E piantala – disse liberandosi.

    Era Marco Canna. Insieme a lui c'erano Leonardo Canale e Tancredi Rossi. Marco si accese una sigaretta elettronica e salutò le altre.

    – Leo, ci vieni alla festa di Mari? – chiese Ginevra. Leo era il bello e tenebroso del gruppetto. Il bomber attillato non sembrava ripararlo dal freddo pungente di gennaio, ma lui era troppo cool per preoccuparsene.

    Leo si accese una sigaretta vera. – Dipende. Se gira roba buona sì, altrimenti… – rispose soffiando il fumo in faccia a Marco, che replicò infastidito: – Eddai, ancora con questa storia?

    – Direi. Il barista del Pentagram sta ancora pulendo i muri da quella merdaccia che ci hai fatto svapare per Halloween. Quindi vedi di fare le cose per bene, zietto bello.

    Titta sapeva benissimo che Marco Canna – di nome e di fatto – era quello che aveva gli agganci giusti per trovare il fumo, ma all'ultima festa gli era venuta l'idea di bollire su un fornelletto elettrico una roba verdastra che si usa per le sigarette elettroniche, col risultato di riempire di fumo il locale fino a far scattare l'impianto antincendio.

    – Tranqui, raga, vi porto una bomba. Non la solita erbetta da pecorelle.

    – Ma che palle! Mica verrete solo per la roba? Ehi, Canna, vedi di non fare cretinate che ci sarà pure mio padre.

    – Ti porti i tuoi? – esclamò sorpreso Tancredi. Lui si definiva il portatore ufficiale di birra. In classe però smerciava alcolici nascosti in bottigliette o termos che facevano il giro dei banchi.

    – Solo per una mezz'ora, poi sgombrano e … udite udite: abbiamo l'open bar!

    Leo, Marco, Tancredi e gli altri applaudirono e si diedero il cinque. Nelle feste giuste giravano sempre alcool e roba buona. Andavano soprattutto vino e birra, ma c'era sempre chi portava alcolici di straforo. Maria Sole pareva soddisfatta.

    Titta entrò in classe e gettò con malagrazia lo zaino a terra, prima di prendere posto al solito banco.

    – Nervosa?

    Alzò lo sguardo su Edoardo, il suo ex ragazzo. Così bello da sembrare finto. Era sicura che anche le sue amiche si fossero chieste come avesse fatto ad accalappiarlo. S'erano lasciati all'inizio dell'ultimo anno e nessuno dei due aveva pianto.

    – No.

    – Preoccupata per latino?

    – No.

    Titta vide che a Edoardo brillavano gli occhi dal divertimento. Stuzzicarla gli era sempre piaciuto. – Ma che ti prende, ultimamente? – le chiese. Posò anche lui lo zaino in terra e si sedette accanto a lei. – Lo sai che mi piace stuzzicarti… su, racconta a zietto tuo. Mica avrai cominciato a tirartela come le altre, vero?

    – Ma riesci a essere serio?

    – Perché dovrei? C'è una vita per essere seri, guarda mio padre! Non ride nemmeno se lo paghi.

    A dispetto della battuta, Titta piegò le labbra in un sorriso.

    – Oh, finalmente. Allora si può sapere che cos'hai?

    Titta strinse le labbra indecisa e poi si lasciò andare. – Sono arrabbiata, ma non so perché. Non so dare un senso alle giornate, mi sembra di vivere sempre lo stesso giorno: tutto uguale, già sentito, già visto… e poi mia madre sempre più pesante che mi rompe su tutto: devi fare questo, devi fare quello, come ti vesti, a che ora torni, dove vai? – Si agitò scimmiottando la voce della madre.

    Titta si pentì dello sfogo. Edoardo non era esattamente il tipo che ascoltava i casini degli altri e infatti lui si grattò la fronte in cerca di qualcosa di intelligente da dire.

    – Uhm… roba forte, eh?

    – Lascia stare.

    Vennero interrotti dall'arrivo rumoroso di Giovanna, sua compagna di banco da sempre, e lui colse al volo l'occasione per dileguarsi.

    – Gli è partito di nuovo l'ormone a quello là? – chiese Giovanna.

    – Non lo so e non mi frega.

    – Meglio. Oggi scoppierà la bomba – rivelò l'amica prendendo posto.

    – Sicura? Proprio oggi? – chiese Titta e Giovanna assentì con aria seria.

    – Mia madre ha parlato con una del comitato della scuola: passerà la preside a dirci tutto. Non sei emozionata?

    – Gio, tu ti emozioni pure a vedere le molecole che si riproducono. – Risero insieme, ma Titta continuò ad agitarsi per tutta la mattina. Era come una marea che saliva e scendeva a ogni suono di campanella, e lei osservava continuamente l'orologio con la sensazione che presto o tardi sarebbe stata travolta.

    Come pronosticato, a fine mattina entrò in classe la dirigente scolastica.

    Giuseppina Barettoni marciò verso la cattedra come un maresciallo stringendo in mano una cartellina con lo stemma del Ministero della Pubblica Istruzione. Il professore di italiano si alzò senza che ce ne fosse motivo e tutti fecero silenzio. La Barettoni sapeva intimidire senza bisogno di parlare.

    – Ragazzi, sapete tutti che il San Bartolomeo è uno dei migliori licei della Lombardia, con standard al di sopra la media. Sapete anche come io incoraggi tutte le attività all'avanguardia per essere sempre al passo coi tempi e stimolare voi studenti a dare il meglio.

    Titta si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo. Si chiese se anche gli altri provassero le sue stesse emozioni. Scrutò i volti dei suoi compagni: ovviamente avevano parlato tra loro dell'iniziativa, ma nessuno ci aveva creduto fino in fondo. Le successive parole della Barettoni spazzarono via ogni dubbio.

    – Abbiamo quindi pensato di aderire ufficialmente al progetto Alternanza Scuola-Lavoro. Siamo orgogliosi di essere tra le prime scuole italiane a intervenire anche con le quinte. Sissignori, anche voi studenti dell'ultimo anno parteciperete a questo apprendistato. Sarà un'eccellente opportunità per conoscere da vicino il mondo del lavoro.

    Si alzò un immediato brusio di disappunto. – Ma noi abbiamo gli esami – protestò qualcuno.

    – Lo sappiamo. Infatti, alla fine del percorso, e solo per quest'anno, vi verranno riconosciuti dei crediti extra. Questo per ripagarvi del tempo che dedicherete al progetto.

    – Chi ci seguirà? – chiese una voce dal fondo.

    – Io. Sarò il vostro tutor, una sorta di ponte tra voi e l'azienda o l'ufficio dove verrete collocati. Nella presidenza è stata allestita una zona di orientamento con la modulistica cartacea, inoltre vi è stata mandata una mail con il link per l'iscrizione. In entrambi i casi avrete una lista con i nominativi delle aziende pronte a ospitarvi. Ricordate di compilare il modulo con i vostri dati.

    – La circolare parla di 200 ore. Dovremo farle tutte? – chiese Giovanna.

    – Preferibilmente. Darete voi stessi la disponibilità di orario. È consigliabile, ma non obbligatorio, portare a termine il progetto prima degli esami di maturità, così da beneficiare di crediti extra. Avrete anche dei permessi speciali. È un impegno serio, perciò verrete monitorati costantemente e condividerete con la scuola il vostro percorso.

    Edoardo, Marco, Leo e Tancredi protestarono energicamente.

    – Non preoccupatevi, tempo per studiare ne avrete, se saprete metterlo a frutto. – Guardò severamente Leo e Marco, prima di uscire; a quel punto il brusio prese il sopravvento.

    – Come si può lavorare e studiare insieme? – protestò Edo.

    – Dai, se dividi duecento ore per sei mesi, viene fuori otto ore la settimana. Ce la puoi fare – ragionò Giovanna.

    – E gli allentamenti di scherma? E gli esami?

    – Quando mai t'è fregato di studiare?

    – … fare scena muta agli esami di quinta non sta bene…

    Finite le lezioni Titta si recò in presidenza. Un banco pieno di volantini e brochure era stato allestito in un angolo. Prese la lista delle aziende e gli occhi si fermarono subito sull'ospedale Humanitas: c'era la possibilità di far pratica in una delle unità operative oppure in qualche laboratorio d'appoggio.

    Sicuramente sua madre l'avrebbe dato per scontato. All'improvviso il suo volto le si materializzò davanti con la solita bocca storta. Le sembrò persino di sentirne la voce seccata: Allora? Cosa aspetti a firmare?

    Ecco di nuovo la marea che saliva. Titta la sentì premere sullo sterno e impedirle di respirare. Le dita si strinsero attorno al foglio, quasi strappandolo. Si impose di fare un lungo respiro e buttare fuori aria e tensione. Accartocciò il volantino e afferrò un modulo. Scarabocchiò qualcosa su tutti i fogli, infine li consegnò alla Preside.

    – Sei sicura della tua scelta? – chiese la Barettoni sorpresa.

    Titta era esaltata, come se si fosse appena ruzzolata nel fango con la stola di ermellino di sua madre indosso. – Sì, sicurissima.

    2.

    Appena rientrata a casa, Titta gettò lo zaino sulla sedia della cucina e fece tintinnare i piatti sul tavolo, incurante dello sguardo severo di Ana.

    – Come hai stato oggi a scuola? – le chiese Ana col suo italiano ancora imperfetto. Viveva in Italia da dieci anni ormai ed era al loro servizio da sei, ma parlava come se fosse sbarcata da poche settimane.

    – È pronto? Ho fame – rispose Titta aggirando la domanda. Aveva ancora in bocca il sapore del frutto proibito della disobbedienza e voleva gustarselo in santa pace.

    Ma gli occhi profondi di Ana la scrutarono con infinita saggezza. Per un momento Titta si trovò a paragonare il suo volto a quello degli Onwas appesi in camera sua.

    Fu un errore. Sentì di nuovo la marea salire e stavolta portarle alla memoria il giorno in cui Ana aveva varcato la soglia di casa sua: nel bel mezzo del divorzio dei genitori. Aveva undici anni mentre suo fratello Tommaso era già un adolescente irrequieto. Titta aveva odiato ogni cosa di quel periodo caotico e confuso, fatto di lunghi silenzi alternati a poche parole. Nessuna carezza, nessuna coccola. Il volto della madre veniva fuori dall'oscurità dei ricordi, pallido e cerchiato, con la linea della bocca obliqua e gli occhi che la passavano da parte a parte, senza metterla a fuoco.

    Ecco, se fosse stato possibile dare un colore a quei giorni, avrebbe scelto il grigio, fumoso e scuro. Il colore della tristezza.

    Rammentava solo che la notte si svegliava piangendo, sgattaiolava in camera di Tommy e si stringeva forte a lui. Avrebbe voluto andare dalla mamma, anche solo per dirle che le voleva bene, che rimanevano loro due con lei. Ma in quel periodo lavorava tutti i giorni in ospedale. Anche di notte.

    Riusciva a non vederla per settimane intere e quando lei era a casa, non tollerava alcun rumore molesto. Allora Titta aveva imparato a diventare un'ombra. Invisibile, silenziosa e leggera. Come un fantasma, come qualcosa che c'è ma che non si rompe, né si fa male. Aveva messo tanta distanza fra se stessa e il resto del mondo che anche quando sentiva urlare i suoi genitori a lei non arrivavano che echi lontani.

    Ana aveva provato a cavarle fuori qualche parola, le aveva anche preparato innumerevoli torte e dolci del suo paese, ma Titta aveva imparato a

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