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Un cattivo esempio
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E-book163 pagine2 ore

Un cattivo esempio

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Info su questo ebook

C'è una vecchietta, c'è un fantasma. C'è una casa di sole donne (anche la gatta Palmira è femmina). Ci sono delitti e segreti come in un thriller, storie d'amore come in un romance, inverosimili stregonerie come in un fantasy, disoccupati ospedali e ospizi come se piovesse. Ci sono dialoghi comici in lingua simil-partenopea, una badante teledipendente di nome Irina (nata a Campobasso), un sacco di problemi seri: perché l'amore ci rende stupidi? Perché dobbiamo morire se non ne abbiamo nessuna voglia? Perché non ci accorgiamo del male che facciamo?
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2021
ISBN9791220316484
Un cattivo esempio

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    Anteprima del libro

    Un cattivo esempio - Tina Caramanico

    I

    In un dolce pomeriggio di aprile, Margherita Russo vedova Loiodice, di anni settantaquattro ma ancora in forma discreta, dopo essersi svegliata di ottimo umore dal sonnellino post-prandiale (pieno di ingannevoli sogni giovanili), aveva finito di riordinare la cucina e, mentre si faceva il tè, aveva sentito il profumo della primavera entrare dalla porta aperta sul giardino. Con la tazza in mano e con un mezzo sorriso sulle labbra, se ne era uscita fuori e si era accorta dei ciliegi tutti fioriti, all’improvviso. «Ma guarda che belli!» aveva detto tra sé e si era avvicinata al minuscolo frutteto a piccoli passi, mentre pian piano l’entusiasmo cambiava colore, si mischiava con i ricordi di quando era più giovane e la casa non era vuota, e diventava un’altra cosa, grigia e pesante, che le si annidava a tradimento sotto lo stomaco e spegneva tutti i sorrisi. È così, quando uno è vecchio e solo: il tarlo della malinconia si insinua non invitato anche nella felicità ingenua di un giorno di sole, e lo raggela.

    Margherita aveva fatto una carezza incerta a un ramo basso, pieno di fiori rosa pallido, poi se ne era tornata in casa e aveva chiuso la porta, con la scusa che tra poco il sole sarebbe calato e avrebbe fatto freddo. Ma erano solo le cinque, diceva l’orologio appeso al muro sopra la credenza. La gatta Palmira, nera e amorosa, le si strusciava sulle gambe e la rincuorava un po’.

    Margherita si mise a cercare tra la cucina e il salottino annesso gli occhiali che perdeva sempre, e che ritrovava sempre nello stesso posto, sul tavolino a lato del divano a fiori rosa antico, vicino al telefono. Si sedette sulla poltrona e cominciò a risolvere le parole crociate, in attesa che ci fosse qualcosa di meglio da fare o che perlomeno cominciasse un programma decente alla TV.

    Mentre si scervellava inutilmente sul 15 orizzontale, Unità di misura delle radiazioni, quattro lettere, la prima una g, vide con la coda dell’occhio un movimento rapido, qualcosa di scuro che si collocava sul divano di fianco. Pensò fosse la gatta e non alzò lo sguardo dal cruciverba. Ma questa maledetta unità di misura non le veniva in mente, così, dopo cinque lunghissimi minuti di prove e ripensamenti, le scappò una mezza imprecazione, buttò giornale, gomma e matita sul divano e fece per alzarsi appoggiandosi ai braccioli della poltrona.

    Come fu in piedi e sollevò lo sguardo, vide, seduta sul divano, una donna più giovane di lei, vestita di scuro, con un’acconciatura d’altri tempi che le teneva rigorosamente in ordine i capelli nerissimi, screziati da qualche filo bianco sulla tempia destra. Poteva avere una cinquantina d’anni e lavorava a maglia con le mani magre una specie di lunga sciarpa rosso fuoco, che già toccava terra ai suoi piedi.

    La donna smise di lavorare e alzò gli occhi scuri in faccia a Margherita, che era rimasta impietrita e senza parole a guardarla, incapace di immaginare una spiegazione qualsiasi. Talmente stupita che non aveva neppure paura. In quel momento arrivò pure Palmira, fece un giro sinuoso intorno alla gonna della sconosciuta e si sedette sul divano accanto a lei. La gatta con i suoi occhi gialli e la donna fissavano insieme e in silenzio Margherita.

    Margherita capì che non sarebbe arrivato nessun chiarimento spontaneo da quell’ospite inaspettata. Quando si fu ripresa a sufficienza per parlare, riuscì a chiedere, con una voce roca e tremante che non sembrava nemmeno la sua: «Ma tu, chi sei?».

    Quella domanda, abbastanza stupida, riempì all’improvviso il silenzio della casa e il terrore di Margherita si risvegliò, tutto di colpo, come un animale mostruoso che sembrava morto e invece si rialza, e ti viene incontro mostrandoti i denti, e le fauci. La donna sul divano, senza smettere di fissarla, infine rispose: «Io sono Donna Concetta». Detto questo, distolse gli occhi da Margherita e posò il lavoro a maglia sul tavolino del telefono. Palmira non si mosse, eppure fili e gomitoli erano la sua passione. Donna Concetta si mise poi a frugare nelle tasche della sua gonna nera, ampia, e tirò fuori un pacchetto di sigarette, di cui Margherita non riuscì a riconoscere la marca, e dei fiammiferi. Si accese una sigaretta e aspirò, con un piacere da fumatrice accanita. Poi soffiò fuori il fumo e si rimise a fissare Margherita.

    La cosa strana era che il fumo non aveva nessun odore, e Margherita di sigarette inodori non ne aveva mai incontrate in settantaquattro anni di vita non del tutto morigerata. Quando si rese conto di questa nuova, sinistra stranezza, scattò in piedi terrorizzata e gridò: «Ohhh, ma tu chi si’?».

    Arretrava, preparandosi a scappare, verso la porta d’ingresso, senza però riuscire a staccare lo sguardo dalla sconosciuta, che continuava a fumare senza scomporsi e che infine parlò: «Margherita, tu non conosci me, ma io a te ti conosco bene. Sei la seconda moglie, vedova, di Luigi Loiodice buonanima e vivi in questa casa dal 1967».

    «Quando Luigi rimase vedovo, sì…» concordò sussurrando Margherita, sempre più stupita.

    «Vedovo, sì» ripeté Donna Concetta facendo una specie di sorriso, o di smorfia, mentre buttava fuori, insieme alle parole, un’altra copiosa boccata di fumo. Inodore, sempre, e Margherita sudava freddo, ma la curiosità di capire chi era questa Concetta era più forte della paura e non la faceva muovere.

    «Hai due figliastre gemelle: Silvia la zitella disoccupata ed Elisa, malmaritata e sterile, che si è presa in casa una creatura cinese tanto bellina. Peccato che non te la porta mai qua...»

    Margherita finse di non sentire la parte più dolorosa del discorso, quella sulla nipotina adottiva che non le facevano mai vedere; fece una smorfia involontaria e dignitosamente confermò: «Silvia ed Elisa, sì, figlie di Luigi e della sua prima moglie. Io le ho cresciute, avevano nemmeno cinque anni quando ci siamo sposati».

    «Eh, tu le hai cresciute, ma loro non ti sopportano. Non vedono l’ora di seppellirti e, magari, darebbero pure una mano a sveltire la dipartita.»

    Margherita rimase a bocca aperta perché, sì, le figliastre davvero la odiavano con tutte le loro forze, anche adesso che il padre non c’era più e lei era rimasta l’unica parente che avevano sulla Terra.

    «Forse perché ti sei sposata con Luigi che la mamma loro era ancora calda. Sono cose che possono dare fastidio alle creature, che dici?» aggiunse Donna Concetta quasi ridendo, e gli occhi neri brillavano di cattiva ironia dietro il fumo.

    Margherita, questa volta quasi balbettando e con un filo di voce, ripeté, passando al voi per il rispetto che quella donna, per quanto odiosa, cominciava a ispirarle: «Ne’, ma voi... voi chi siete? Come le sapete ’ste cose? E perché io a voi non vi conosco? E come mai state dentro casa mia?».

    Donna Concetta si fece proprio una risata, a questo punto della conversazione. Poi allungò il pacchetto marroncino e fece sporgere una sigaretta verso Margherita: «Non te la prendere. Fumati una sigaretta con me, su.»

    Margherita fece un passo indietro e, scuotendo la testa, rispose, a voce troppo alta per essere sincera: «No no, io non fumo». Poi arrossì, ricordandosi che la donna sapeva di lei cose ben più intime di quel vizietto segreto che era sempre riuscita a tenere nascosto alle figliastre. Perciò provò a stemperare la menzogna: «Fumavo un tempo, ma adesso non fumo più, che mi fa male».

    Concetta rise di nuovo: «Fumi quattro sigarette al giorno, tutti i giorni. Dopo il caffè la mattina, dopo pranzo, dopo la pennichella e dopo cena, mentre guardi il telegiornale. Fumi in giardino o con la finestra aperta, così le tue figliastre non se ne accorgono. Che se se ne accorgessero, farebbero il finimondo, e tu hai paura.»

    «Vedete che in fondo ci tengono a me?» venne da dire a Margherita, seccata da questa che sapeva tutto, la svergognava e se la rideva pure.

    «Vedi che le sigarette costano e la pensione è poca?» le fece il verso Concetta.

    Margherita, innervosita come non mai, aprì il cassetto del tavolino e prese le sue sigarette, l’accendino e un piccolo portacenere coperto. «Fumo le mie, grazie» borbottò rivolta a Donna Concetta. «Ma adesso per favore mi spiegate come ci siete venuta a finire qui, a casa mia?»

    Non fece in tempo a soffiare fuori la prima boccata di fumo, che suonò il campanello.

    «Oddio, oggi è sabato! Eccola qua!» Margherita rimise rapidamente le sigarette e il portacenere nel cassetto, spalancò la finestra della saletta per fare uscire l’odore cattivo e mentre diceva: «Eccomi, mo’ vengo!», si spostava verso la porta camminando all’indietro e facendo dei larghi segni con le mani a Concetta, come dire: «Iatevenne, iatevenne!». Alla fine, Margherita aprì la porta ed entrò Silvia, la figliastra zitella, con le tre buste della spesa settimanale: dadi, verdura rinsecchita, mele, pastina, pane, petti di pollo, patate e poco altro, sempre le stesse cose, che la costringevano a mangiare come se fosse una malata terminale e per cui doveva pure ringraziare.

    «Grazie, ma non dovevi. La spesa me la posso far portare a casa dal negozio di Adele. E comunque uscire ogni tanto mi fa bene.»

    «Lo sai che lo faccio volentieri, il sabato faccio la spesa per me, che mi costa?»

    Girandosi un poco, Margherita vide che sul divano Donna Concetta continuava a fumare e se la rideva, come se non avesse nessuna intenzione di spostarsi da lì. Cominciò terrorizzata a fare gesti, smorfie, cercando di convincerla a tornare in quel posto qualsiasi da cui si era materializzata in casa sua. Ma Donna Concetta le faceva segno di calmarsi, indicando Silvia, e non si muoveva.

    Silvia finì di sistemare le bietole nel frigo, si rialzò e vide Margherita fare strani movimenti verso il divano vuoto.

    «Mammà, che c’è?» chiese.

    Margherita ebbe così la conferma delle sue paure: Donna Concetta non era una cristiana in carne e ossa. Era un fantasma, uno spirito forse maligno che solo lei poteva vedere. E che se ne stava lì a ridere sul suo divano. Però ancora quattro chiacchiere con l’ectoplasma Margherita voleva farsele, quindi decise di far finta di niente con la figliastra. Anche per non passare per pazza o, peggio, per una befana arteriosclerotica. Che sarebbe stato un attimo per le figlie farla interdire e addio libertà, unico e ultimo bene della vecchiaia.

    «No, niente, era entrata una mosca, l’ho fatta uscire» disse Margherita affrettandosi a richiudere la finestra.

    Seguì un silenzio imbarazzato, con le buste sul tavolo e due donne che non avevano niente da dirsi.

    Tanto per fare qualcosa, si misero tutte e due ad armeggiare nervosamente fra tavolino, pensili e frigorifero, parlando a monosillabi e frasi di circostanza mentre sistemavano la spesa.

    «Come stai, tutto bene?» chiedeva Silvia, dandosi già la risposta.

    «Sì, il solito dolore alla gamba, ma niente… Tu come va? Ti ha chiamato qualcuno?»

    Silvia si fermò e guardò Margherita con un sorriso sardonico: «Mammà, e secondo te? Non ho mai trovato uno straccio di lavoro fisso e lo trovo adesso, a cinquant’anni? Faccio le solite cose: mi ha richiamato Adele per guardargli il bambino il pomeriggio e la mattina per un po’ aiuto Franca al negozio, finché non torna sua cognata che ha partorito».

    Margherita sospirò, senza fermarsi e senza guardarla in faccia: «Vedi che comunque te la cavi, stai tranquilla».

    «Sì, come no, a patire la fame me la cavo bene. Tengo ’sta gonna da dieci anni, e non mi avanzano mai cinquanta euro per comprarmene una nuova» disse Silvia a metà tra la rabbia e il lamento.

    Margherita lasciò le patate sul tavolo e andò a prendere la borsa in camera: tirò fuori il portafogli e porse tre fogli da cinquanta a Silvia. «Te’, per la spesa. E magari ci esce pure una gonna nuova, se non spendi troppo.» Silvia prese i soldi senza dire una parola e se li ficcò nella borsetta. Poi finì di posare le mele nella fruttiera, ripiegò l’ultima busta vuota e si rimise frettolosamente il cappotto: «Io vado mammà, che è tardi e devo ancora mettere a posto casa».

    «Ma dai, che devi fare? Stai sola! Fermati a cena con me qualche volta, mi fai compagnia» disse Margherita con la cantilena di chi dice sempre la stessa cosa e ottiene sempre la stessa risposta.

    «Sì, magari la prossima settimana» rispose Silvia poco convinta, mentre le dava un bacio

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