L’altra anima della città
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Il ragazzo cerca di ignorare le strane presenze sovrannaturali, concentrandosi sull’imminente esame di maturità, sugli amici e sulla sua sgangherata rock band, ma “l’altro mondo” continua a presentarsi con prepotenza, finché il Raduno dei Magici Fiorentini non lo mette al corrente del suo ruolo: egli è una Memoria, custode delle storie e dei ricordi di Firenze e delle vite che vi sono vissute, e come tale ha il potere di viaggiare tra tutti i mondi possibili.
Proprio quei mondi adesso sono in pericolo, minacciati da qualcuno che sta uccidendo tutte le Memorie, cancellando le storie e i ricordi dell’umanità. Davanti a Elia si apre una strada splendida e rischiosa, e percorrerla è l’unico modo per impedire il crollo dei mondi.
«Quindi io posso viaggiare liberamente tra le città?»
«Sì. Città che sembrano perse in epoche antichissime, ma che in realtà hanno avuto semplicemente una storia diversa da questa. Città magiche, città tecnologiche, città rumorose e città silenziose. Città guidate da uomini saggi e città nelle mani di tiranni. Città strabilianti, mediocri, all’avanguardia, degradate, invitanti, pericolose, piene di segreti, spaventose. Tante quante sono gli universi. E gli universi non finiscono mai».
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Anteprima del libro
L’altra anima della città - Francesca Cappelli
VITA
1
BUON COMPLEANNO
25 marzo 2012
Tu il cervello lo usi solo per le idiozie.
Parole simili gli erano state dette spesso e lui le aveva sempre prese come un complimento e come una sfida. Per questo motivo aveva trascorso l’intero pomeriggio del suo compleanno dentro la Biblioteca Nazionale, a consultare libri su libri, allo scopo di scrivere un poema sulla storia fiorentina dell’Ottocento. Perché voleva fare onore alla sua fama di persona che usa il cervello solo per le idiozie.
Elia scese di corsa gli scalini della biblioteca, quasi uccidendosi sull’ultimo: si riprese con un balzo acrobatico. Continuò a correre, lasciandosi la mole imponente dell’edificio alle spalle, virò a destra e si incamminò verso piazza Santa Croce.
La borsa con la tracolla troppo lunga, gravata dal libro preso in prestito, gli ballonzolava fastidiosamente contro l’anca magra, ma la presenza solida del volume gli ricordava la soddisfazione che gli si preparava davanti, quando l’indomani all’interrogazione di storia avrebbe ripetuto l’argomento della lezione in rima.
Tutto perché aveva discusso con il professor Giordani. E perché aveva fatto una scommessa con Ettore e Giulio. E non si poteva certo tirare indietro. Non davanti a una scommessa del genere. Non dopo che Giulio aveva proferito la frase fatidica.
«Tu il cervello lo usi solo per le idiozie».
Non era forse quello il fatto, ampiamente attestato, per il quale Elia Chiari era famoso, e fiero di esserlo?
Quindi lui, sommo difensore delle idiozie, si era diretto al tempio del sapere e ne era uscito con un bagaglio di conoscenze che gli aveva permesso di scrivere il poema che gli avrebbe guadagnato un buon voto a storia, ma anche le ire del professor Giordani. Entrambe erano prospettive allettanti.
Il suo preparatissimo insegnante di storia aveva una cultura mostruosa e un’apertura mentale inesistente. Sfidarlo era una delle gioie della vita un po’ anarchica di Elia.
In Santa Croce c’era la solita folla confusionaria di ogni primavera fiorentina, diluita tra il centro della piazza, le ambite panchine disseminate lungo il suo perimetro e la scalinata della chiesa. Qualcuno fotografava Dante e i leoni dall’aria perplessa che ornavano la statua del poeta. Una guida spiegava in inglese che la chiesa era stata voluta dai francescani alla fine del tredicesimo secolo; un’altra, portoghese?, enumerava quelle che sembravano date. Lui si fece largo tra la gente, travolgendo un paio di turisti con la sua tracolla svolazzante, e quando sentì che il brusio di fondo si stava trasformando in qualcosa di più forte, pensò che fossero solo risate e confusione di studenti in gita. Niente di strano, niente di brutto.
Poi arrivarono le grida, che in un attimo sovrastarono i suoni leggeri e solari della piazza.
«Vi prego, qualcuno, qualcuno...»
Qualcuno. Chi aveva pronunciato quella parola l’aveva fatto con la disperazione con cui si implora pietà o si chiama un nome perduto. Elia si fermò, turbato, e cercò la fonte di quella voce spezzata che continuava a ripetere il suo tragico qualcuno.
Poi se la trovò davanti.
«Ti prego!»
La donna era anziana, con il viso segnato da due solchi profondi ai lati della bocca, un intreccio di rughe lievi sulla fronte, e gli occhi azzurri.
«Signora, sta bene?» le chiese, arretrando di due o tre passi.
«Ti prego, ascoltami».
Ora che lui ricambiava lo sguardo, la donna parve calmarsi. Gli occhi erano meno sconvolti, sgranati, il viso si era addolcito.
«Mi ascolti?» ripeté, tendendo le mani verso Elia. Intorno a loro la folla si era aperta e ora li circondava, muta, in attesa di comprendere gli sviluppi di quella situazione anomala.
«Cosa c’è? Ha bisogno d’aiuto?»
«Non io. Io sono alla fine. Ma non ho trovato nessuno, nessuno che potesse farlo. Se vuoi bene a questa città, allora mi devi ascoltare». Colmò la distanza che la separava da Elia con due passi rapidi e lo afferrò: le sue mani erano freddissime e tremavano. Lui avrebbe voluto ritrarle, ma non ci riuscì: gli occhi azzurri lo incantarono quanto bastava per farlo restare fermo.
«Cosa vuole dirmi, signora?»
«Non ho tempo di spiegarti tutto. Sono stata sciocca e presuntuosa. Pensavo di durare per sempre. Non fare mai questo errore: trovati qualcuno a cui donare l’eredità, appena potrai. Ascolta la città. All’inizio sarà difficile, ma loro ti spiegheranno cosa fare. E… perdonami».
Quanto ci mise a tirare fuori il pezzo di vetro? Un attimo prima teneva le mani di Elia tra le sue, subito dopo tra le dita della sinistra era comparso il frammento azzurro, mentre la destra si era trasformata in una stretta attorno ai polsi del ragazzo. Lui dette uno strattone, tentando di liberarsi, ma la donna fu rapida: un gesto preciso, un lampo, e sulla camicia di Elia comparve una striscia rossa. Il dolore fu poco. La mente di Elia era tutta occupata dallo stupore.
La donna doveva averlo lasciato andare, o forse l’avevano trascinata via. Il mondo gli stava vorticando attorno, il turbine di voci e grida lo ingoiò, il cielo esplose nel bianco.
Riaprì gli occhi che era disteso e in movimento.
«Come ti senti?»
Un uomo lo guardava dall’alto. Dal soffitto e dal rumore capì di trovarsi su un’ambulanza; gli avevano tolto la camicia e messo qualcosa sul petto.
«Bene» borbottò. «Quella donna...»
«Non ci pensare» rispose il medico. «Non ti ha fatto niente di serio. Probabilmente sei svenuto per la paura».
«Non ho paura».
«Dobbiamo chiamare i tuoi genitori» lo informò l’uomo.
«Sono maggiorenne».
«Sì, come no».
«Cerca la carta di identità, in borsa. Ho diciannove anni. Dove mi portate?»
«A Santa Maria Nuova. Rilassati».
«Un’ambulanza per portarmi a Santa Maria Nuova? È dietro l’angolo» brontolò il ragazzo, tentando di sollevarsi. L’uomo gli posò una mano sulla spalla destra e lo bloccò.
«Sì, certo, ci volevi andare a piedi? O ti ci dovevamo portare in braccio?»
«Dov’è la mia borsa?» chiese. «C’è un libro della Biblioteca Nazionale: se lo perdo, come minimo mi arrestano!»
Il medico la sollevò e la ributtò a terra. Elia chiuse gli occhi, cercando di scivolare nei suoi pensieri abituali, di ritrovare un posto tra le cose a cui gli piaceva pensare. Tutte gli scorsero via davanti, come libri pescati in una biblioteca e poi rimessi sul loro scaffale senza aprirli. E alla fine apparvero gli occhi azzurri della sua assalitrice, prima colmi di terrore, poi di una luce quasi dolce, infine dispiaciuti, malinconici...
Era una povera signora squilibrata. Fine della cosa. Non è spaventoso.
Non riuscì a convincersene. Passò il resto del breve viaggio scosso da brividi di freddo, leggeri e costanti, e quando lo fecero alzare per portarlo al pronto soccorso dovettero reggerlo in due, perché vacillava a ogni passo e gli girava la testa. Gli ispezionarono la ferita, un filo rosso orizzontale, sottile, dai margini precisi, che andava dal centro del petto fino all’ascella sinistra.
«Non è niente, per fortuna» disse la dottoressa, sorridente. Sorrise anche mentre gli metteva tredici punti. Elia l’ascoltava appena: a parte il dolore, che aveva deciso di farsi sentire, alla fine, c’erano sempre gli occhi della donna. Lo infestavano, si intromettevano tra i pensieri piacevoli in cui cercava rifugio. Diventavano assordanti e lo separavano da tutte le parole gentili e le rassicurazioni di coloro che lo curavano e lo tranquillizzavano.
Dopo la trafila medica arrivarono due poliziotti, lo portarono in una camera vuota dell’ospedale e gli chiesero di raccontare tutto l’episodio. Erano tranquilli, lenti, tra il rilassato e il seccato, e non gli proposero di sporgere denuncia.
«La signora che ti ha aggredito è morta d’infarto poco fa» lo informò uno dei due. Un fantasma in più che si aggiungeva al vortice di eventi in continua ripetizione nella sua testa.
Sognò di ali meccaniche e un’alba a mezzanotte, oltre le sagome conosciute della cupola e del campanile del Duomo. Sognò facce mai viste, che nel sogno conosceva benissimo, e di tutte le parole che sentì, durante la notte, al risveglio ne ritrovò solo una.
Eredità.
*
Quattro giorni dopo l’aggressione, quella che aveva gli incubi era sua madre.
«Ho sognato un’altra volta quella pazza».
Elia alzò gli occhi dalla sua tazza e incontrò un viso stanco, con occhiaie profondissime.
«Dai, mamma. Non ci pensare».
Non gli andava di rivangare quello che era successo, ma sua madre ce lo riportava continuamente, aggiornandolo sui suoi brutti sogni, o magari abbracciandolo all’improvviso: gli compariva in camera mentre studiava e lo stringeva, mormorandogli tra i capelli che era tanto felice che stesse bene.
«Non puoi chiedermelo» protestò lei, come sempre. «Al pensiero di quello che poteva succedere...»
«Non esagerare. Non ho mica rischiato la vita».
«Ma cosa dici?»
Elia cercò un frammento di razionalità nel caffelatte. Aveva effettivamente rischiato la vita? La signora era così disperata… Forse non pensava nemmeno di fargli male.
«Non so perché, ma sono sicuro che non avesse davvero cattive intenzioni».
Sua madre uscì dalla cucina, borbottando qualcosa.
«Sopportala» sospirò suo padre, comparendo alle sue spalle, dalla terrazza, dopo la sigaretta mattutina.
«Non ha senso angosciarsi così per una cosa che è passata!»
«I genitori lo fanno. È nella natura stessa del genitore. Non puoi impedirlo» disse l’uomo, con un sorriso, posando le mani sulle spalle di Elia. Mani grandi che sembravano contenere completamente il corpo esile del ragazzo. Raccolse una manciata di ciuffi castani e lisci tra le dita e li tirò senza troppa forza. «Quando te li tagli, questi capelli?»
«Mai, se insisti ancora».
«Muoviti, o farai tardi. Ricordati che ci sono tutti quanti a pranzo, oggi. Vedi di arrivare a un’ora decente».
Elia finì in fretta il caffellatte gelido e corse fuori dalla cucina. Aveva fretta di tornare a scuola: tre giorni di confino gli erano bastati. Voleva dimenticare il fantasma dagli occhi azzurri una volta per tutte.
Non incrociò facce note sul tram, così si infilò in un angolo e guardò fuori per tutto il tragitto fino al Liceo classico Michelangelo, senza vedere nulla, perso in una strana fantasia in cui la città era illuminata da una tecnologia sconosciuta, qualcosa di naturale, un polline miracoloso: una sola goccia e tutta la città era irradiata di calore e vita...
Riaprì gli occhi alla realtà quando fu davanti alla sua scuola.
«Bei tempi quelli, eh?» sospirò qualcuno alle sue spalle. Si voltò per capire da dove venisse la voce, ma non c’erano altro che studenti con le cuffie alle orecchie oppure intenti a parlottare tra sé. Si passò le mani sugli occhi. Non si era reso conto di essersi addormentato. Però quella strana versione della città non gli era sembrata un sogno.
Che il suo rientro a scuola sarebbe stato segnato da un’alluvione di domande, quello se l’era immaginato. Fu strano, invece, scoprire che la cosa lo disturbava. Di solito non gli dispiaceva ritrovarsi al centro dell’attenzione. Certo, non andava a cercarselo, e preferiva ricevere gloria e onore in seguito a qualche scherzo ben riuscito, o magari dopo una performance teatrale o un concerto con la sua sgangherata band. In ogni caso, di solito avere il mondo che si faceva i fatti tuoi aveva degli aspetti interessanti. Non dopo aver rischiato la vita per colpa di una strana signora, però.
«Oh, Elia! Ma che ti è successo?»
«Chiari, ma è vero che una vecchietta per poco ti ammazza?»
In quel momento Elia si trovò a desiderare che il dottore gli avesse assegnato un mese di convalescenza, in modo da tornare a scuola quando la faccenda della sua assalitrice fosse già passata di mente a tutti.
«Ti sei fatto pugnalare per non venire all’interrogazione di storia?»
Batté una mano sulla spalla di Giulio e mandò cordialmente Ettore a quel paese.
«Forza, andiamo in classe, che ho una scommessa da vincere. Non mi sono certo scordato dell’interrogazione in rima» disse, prendendo la guida del gruppetto. Lo seguirono come facevano sempre: per curiosità, più che altro. Non lo riconoscevano certo come un’autorità, ma li faceva ridere. Era il re dei buffoni, ma tutto sommato non era un brutto ruolo. Ci si trovava bene.
Salendo la scalinata che conduceva alle aule, circondato dai suoi compagni, gli sembrò di aver messo in un posto abbastanza protetto e ben serrato i pensieri inquieti che gli erano rimasti addosso dopo l’incontro con la donna.
Non aveva ancora finito di rallegrarsene che notò qualcosa a terra: non stava salendo i soliti gradini, ma una scalinata di cristallo azzurrino traslucido, che lasciava intravedere al suo interno un movimento liquido.
«E questo, cos’è?» chiese, ma un attimo dopo si accorse che i suoi piedi stavano calpestando le scale di sempre.
«Questo cosa?» domandò Giulio.
«Niente».
Si diventa pazzi per una ferita? Magari il pezzo di vetro era avvelenato. Magari quella era una strega e ora sono sotto la sua maledizione per sempre.
Quando tornò a casa, erano già tutti a tavola. Suo fratello Alessandro fu il primo a incontrare lo sguardo di Elia: il suo classico sguardo da sono una persona seria, qualunque cosa io stia facendo. La moglie seduta accanto a lui era straordinariamente bella e gioviale, ed Elia a volte si domandava come mai una cantante d’opera dall’animo ipersensibile fosse finita insieme al suo monolitico, pragmatico e noiosissimo fratello.
Poi ecco Leonida Chiari, stempiato, seccato e saccente più che mai.
«Salve, ragazzino» lo salutò, calcando l’ultima parola come faceva sempre, da che Elia ricordava. Sposato ai libri e alla polvere, Leonida si vedeva pochissimo, in casa, salvo che nei momenti in cui sarebbe stato preferibile non avere tra i piedi un rompiscatole enciclopedico come lui.
I signori Chiari, ancora molto belli e giovanili nonostante i capelli bianchissimi di entrambi, gli fecero un cenno un po’ stizzito, all’unisono, indicando l’orologio.
Si fermò a osservarli sulla soglia della sala da pranzo, con un mezzo sorriso. Proprio non ci riusciva, a non sentirsi un alieno, in mezzo a tutti loro. Ci aveva sempre provato, perché voleva bene alla sua famiglia, ma la sensazione di essere salito a bordo in ritardo, per caso, non riusciva a togliersela.
Era nato dopo un periodo di rottura tra i suoi genitori. Inatteso regalo per la rinascita dell’amore, Elia aveva sedici anni meno di Alessandro e venti in meno rispetto a Leonida.
Era nato quando sua madre aveva quarantatré anni. All’epoca della sua nascita il nomenclatore ufficiale della famiglia, il nonno Chiari, era morto: il suo nome l’aveva scelto la nonna e, se i suoi fratelli avevano ricevuto in dono i nomi di due condottieri, a lui era toccato quello di un profeta.
Sedette accanto alla nipote Diletta, dodici anni, una ragazzina robusta con una massa di riccioli scuri e un amore per gli abiti neri che disturbava il resto della famiglia. Di nascosto, Elia la incoraggiava a ribellarsi alle scelte di abbigliamento che la madre faceva per lei, più adatte a una lattante o a una bambola.
Il pranzo corse via uguale a tanti altri. Elia era abituato alle chiacchiere con la sua famiglia. Erano tutti affettuosi, ma nei loro discorsi gli sembrava sempre di cogliere, come un rumore di fondo, un’accusa al suo essere sempre in ritardo sulla vita. Lo punzecchiavano perché non aveva voti perfetti, perché mischiava l’amore per la cultura alta
a quello per la cultura pop, o perché i suoi troppi interessi lo distraevano dalle cose davvero importanti.
La verità era che non le aveva ancora individuate, le cose davvero importanti per lui. Però era sicuro che le avrebbe riconosciute subito, quando le avesse incontrate.
«Il Capodanno Fiorentino è stato macchiato nel sangue. È aprile e nessuno ha ancora scoperto cos’è accaduto! Non crede che questo sia cagione di disonore per lei, che ha la mansione di custode?»
La donna seduta accanto a lui sembrava davvero indignata e terribilmente seria, mentre gli diceva quelle cose. E lui avrebbe voluto risponderle che aveva fatto del suo meglio, ma…
La sveglia lo riportò alla realtà, lasciandolo solo con la sensazione di un odore pungente di gelsomino e di uno scontro folle che si stava combattendo nella sua testa.
2
IL CORTEO
Una settimana dopo quell’episodio, Elia non aveva ancora incontrato Amalia. Non che si aspettasse di vedersela tornare da lui in lacrime, angosciata dal rischio che Elia aveva corso, pronta a rimangiarsi un mese di scontri e a rimettersi insieme senza troppi problemi.
In realtà forse sì, un po’ ci aveva sperato.
Gli dicevano tutti che era fin troppo attivo, che non stava mai fermo, che aveva bisogno di ammucchiare gli impegni e gli interessi, che agiva sempre per primo, che si buttava a capofitto in ogni cosa, ma non era del tutto vero: c’era un campo in cui finiva sempre per non fare nulla, o per fare qualcosa al momento sbagliato. Non gli faceva molto onore, ma quel campo era il mondo sentimentale. Per esempio, gli era più congeniale stare alla finestra della sua aula e sbirciare Amalia con le sue amiche fuori, durante la ricreazione, piuttosto che andare a cercarla e parlarle.
«A meno che non sia telepatica, dubito che senta i tuoi sospiri d’amore, Elia».
La sincerità brutale di Ginevra lo convinse a smettere di fissare la sua ex ragazza. L’amica gli rivolse un’occhiata di compatimento, prima di rubargli un pezzo del panino che stava sbocconcellando.
«Bisogna che tu affronti questa cosa. È finita e, per quanto tu avessi un discreto 64% di ragione, dovresti smettere di pensarci».
«Avevo un discreto 64% di ragione? Mi prendi per il culo? Mi ha dato dell’imbecille in più occasioni davanti ai suoi amici, e ha demolito sistematicamente qualsiasi mio interesse per mesi, lamentandosi perché la chiamavo una sola volta al giorno quando io e gli altri del gruppo avevamo un concerto imminente e dovevamo provare e…»
«Lo vedi? Quando pensi di essere nel giusto, diventi una valanga e non si riesce a parlare con te in maniera sensata. Per questo ti sei giocato il 31% della ragione».
«E il restante... uh... 6% di colpa?» Ginevra gli rifilò un’occhiata gelida e lui ricalcolò rapidamente. «Scusa. Volevo dire 5%».
«Quello è perché anch’io troverei estenuante stare con uno che suona nella band più sfigata d’Italia e ne parla come se fosse un impegno serissimo».
La campanella interruppe la conversazione. Ginevra risistemò il cerchietto azzurro tra i suoi spaghettini castani, spazzolò via una colonia di briciole dalla sua camicia larga e lo prese per una manica, spingendolo verso il suo banco e la lezione di scienze.
«Mi interroga! Non posso nascondermi?» brontolò lui.
«No. Ti denuncerei, verresti scoperto e ricondotto in classe, saresti interrogato comunque e tuo padre si infurierebbe al punto di proibirti di partecipare alle prove della tua inascoltabile band per un mese, sventurata circostanza che comunque non farebbe tornare Amalia da te».
«Incoraggiante come sempre. Gine, senti. Da quando la tizia mi ha ferito, faccio dei sogni strani».
«Non mi stupisco» ribatté Ginevra, incrociando le braccia sul petto. «Fai il gradasso, millantando un falso benessere e ripetendo fino alla nausea che l’episodio della vecchia signora non ti ha lasciato turbato. Ma non è vero niente, e il tuo subconscio protesta nel sonno».
«Sì, forse hai ragione. Magari ho solo bisogno di riposarmi un po’».
«Se è un patetico tentativo di saltare il gruppo di studio di matematica a casa mia, oggi, sei proprio fuori strada».
Per andare dallo stadio, davanti al quale era ironicamente situata la casa di Ginevra, fiera avversatrice del calcio, a viale Mazzini, bastava raggiungere la vicina stazione di Campo Marte, attraversare la sopraelevata e imboccare il viale, percorrendolo tutto fino alla casona straripante di benessere, storia e snobismo della famiglia Chiari. Elia la faceva volentieri quella strada, a qualsiasi ora del giorno. Gli piaceva camminare in generale e non vedeva tutta l’urgenza di prendere la patente che i suoi erano sempre pronti a ricordargli.
Costeggiò lo stadio, raggiunse la stazione e oltrepassò la sopraelevata quando mancavano pochi minuti alle otto di sera. Emerso dall’altra parte, si fermò.
La prima cosa a colpirlo fu il vuoto silenzioso.
Viale Mazzini sembrava un’autostrada fantasma che andava a perdersi nel buio. Poi Elia si accorse che mancavano i parcheggi sui lati della strada, e inoltre i marciapiedi erano più ampi di ciò che ricordava. Le insegne dei negozi erano di legno, le vetrine esponevano merce mai vista prima: lenti, abiti dalla foggia antiquata, misteriosi oggetti meccanici.
Quella non era la via dove abitava.
Sollevò lo sguardo, lungo i fianchi dei palazzi percorsi da fregi e decorazioni in rilievo, verdi, azzurre e argentee, e costellati di grandi finestre con cornici elaborate o tende ricamate. In alto, sui tetti, c’era un proliferare di terrazze, e su alcune si intravedevano giardini fioriti. Poi un rumore lo strappò a quella contemplazione. Proveniva da un punto distante, davanti a lui, e si avvicinava. Elia fissò la fuga della strada di fronte a sé e vide comparire qualcosa dal buio. Gli ci vollero cinque secondi per capire cos’era, e poi urlò, vedendoselo arrivare contro.
Viaggiava spedito, sollevato da terra, come se galleggiasse nell’aria, tutto acceso di un chiarore fortissimo. Era un treno. Un treno di altri tempi, con la locomotiva che sputava nuvole di vapore verdastro e correva verso di lui, sferragliando e lanciando di tanto in tanto una sorta di grido metallico, l’urlo di un’incomprensibile tecnologia.
Poi la visione svanì e il viale tornò quello che Elia conosceva. Con la gente, le auto, la vita dietro le finestre e una donna che si sporgeva da una terrazza e gli chiedeva che cavolo avesse da urlare.
Elia cominciò a correre. Corse fino al portone di casa, contro il quale appoggiò la schiena, ascoltando il suo respiro ansimante, le rimostranze del ginocchio destro e il dolore al petto, che poteva essere lo sforzo oppure la ferita.
«Serata inquieta, signore?»
Ci mise qualche istante per mettere a fuoco la figura che gli si era fermata dinanzi. Un ragazzino biondo sui tredici anni, vestito di tutto punto in completo bordeaux, con una mantella nera sulle spalle e un cilindro nero in testa.
«Tu chi sei?»
«Io? Rodolfo, signore».
«E che ci fai conciato così?»
«Mi perdoni, signore, ma da quel poco che so degli incroci e dei passaggi, suppongo che sia lei, quello fuori posto, adesso».
Come a sottolineare che il ragazzino aveva ragione, le case alle sue spalle cambiarono colore, persero strati di tempo e sembrarono regredire a più di un secolo prima. Una luce crepuscolare dorata riempì la strada e l’aria si fece calda e gonfia di un profumo intenso e dolciastro di nettari ed estate.
Elia serrò gli occhi e mise le mani sulla ferita che aveva preso a pulsare e bruciare come quando era ancora fresca.
«Elia, ti senti male?»
La voce preoccupata di suo fratello Leonida.
Riaprì gli occhi e se lo trovò davanti: giacca aperta e borsa di pelle a tracolla, gli occhialetti rotondi storti e i pochi capelli scuri spettinati in una ridicola nuvola sospesa sulla testa.
«Sì».
«È la ferita? Hai bisogno di un dottore?»
Leonida non sarebbe riuscito a essere consolante o affettuoso nemmeno se ci avesse provato per un secolo, però in quel momento Elia fu grato di avere lì suo fratello.
«È stato solo un momento. Insomma, ho corso. Pensavo di essere già guarito. Non è nulla. Andiamo in casa. Ma tu che ci fai, qui, a quest’ora?»
«Non posso cenare con la mia famiglia?» sospirò Leonida, posandogli una titubante mano sulla spalla, mentre suonava il campanello per farsi aprire. «E poi devo prendere alcuni libri dalla biblioteca del babbo».
«Non dirlo a mamma».
«Cosa, che ti sei sentito male? Scordatelo. Suggerisco di farti vedere da un medico al più presto».
In casa c’era il telegiornale delle otto quasi alla fine, intento a blaterare notizie di calcio che Giacomo e Donatella non stavano ascoltando: discutevano di politica, trovandosi in disaccordo su ogni cosa. Elia salutò i suoi e sedette alla tavola apparecchiata, ascoltando le loro voci, senza cogliere il senso del discorso. In quel momento ciò che gli interessava era distinguere il suono e la forma di parole che lo ancoravano alla realtà.
«Elia si è sentito male per colpa della ferita».
Leonida infranse quel momento di quasi-pace, interrompendo la discussione e portando gli occhi dei genitori sul fratello minore.
«Dobbiamo andare al pronto soccorso!» esclamò Donatella, scattando in piedi.
«Ma no. È Leo che esagera» disse Elia. «Possiamo mangiare?»
Leonida si sedette