La voce del branco. Gli eredi
Di Gaia Guasti e Rossana Bossù
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Info su questo ebook
Niente sarà più come prima e la necessità di un’esistenza selvaggia diventerà sempre più forte. Una voce potente
esplode nelle loro teste, mentre una lupa rossa li bracca senza tregua e nel bosco si susseguono macabri ritrovamenti.
Una Gaia Guasti inedita in un romanzo teso e serrato, che mescola il thriller psicologico e il fantastico.
“La libertà di un’esistenza selvaggia, che l’autrice evoca con singolare potenza” (Télérama)
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Anteprima del libro
La voce del branco. Gli eredi - Gaia Guasti
1
La nebbia non accennava a diradarsi. Calava la sera e la coltre di foschia che nascondeva l’orizzonte si colorava di sfumature rosso fuoco.
Come ogni venerdì, Mila scese da sola alla fermata dell’autobus dei Trois Chemins.
Rosalie le fece un cenno di saluto dal finestrino e Mila poté leggere sulle sue labbra: «A domani, testa dura». Mila sorrise. L’autobus richiuse le porte e si allontanò lungo la strada provinciale, subito risucchiato dal muro della nebbia.
Mila sentì il rumore del motore che scemava e cedeva il posto a un silenzio profondo, ovattato. Poi, una raffica di latrati riecheggiò in lontananza.
Cacciatori, pensò Mila.
Forse anche il padre di Ludovic partecipava alla battuta. La ragazza guardò i due sentieri che nascevano dalla strada provinciale e si allontanavano in direzioni opposte, tagliando attraverso i campi.
In fondo al primo c’era casa sua, sulle pendici di una collina boscosa.
Eppure Mila si diresse verso l’altra strada, quella che conduceva alla sorgente, ai piedi della montagna che chiamavano il Picco delle Anime.
Rabbrividì all’idea di immergersi nel banco di nebbia che nascondeva il sentiero. Considerò per un attimo l’ipotesi di non andare all’appuntamento. Dopotutto, in autobus, Rosalie glielo aveva sconsigliato.
«Ancora con quei due?» aveva esclamato con la sua vocina nasale. «Per me sei pazza ad andarci, non avete niente in comune!»
Mila aveva alzato le spalle, senza rispondere. Non avrebbe saputo spiegarle. Sapeva perfettamente che non condivideva più niente con quei due. A lungo aveva temuto il momento in cui ne sarebbe stata consapevole. Era doloroso, sapere.
Ma non poteva mancare.
Non oggi.
Era il 15 di novembre.
Il giorno del suo compleanno.
La caccia era aperta da due mesi e da qualche parte, nel folto della macchia, una muta di segugi inseguiva una preda.
Leggermente curva sotto il peso dello zaino, Mila s’incamminò verso la sorgente chiedendosi se si trattasse di un cinghiale o di un altro animale selvatico. Lentamente cominciò a immaginare la battuta di caccia. L’inseguimento, il sudore degli uomini, la bava dei cani furibondi, la selvaggina in fuga. Sentì il panico della preda e l’eccitazione dei predatori. Con una punta di disgusto, visualizzò le ferite che sarebbero state inferte, la pallottola che perforava la pelle, i denti che laceravano la carne. Uno schizzo rosso sangue sulla pelliccia.
Dopo qualche passo, la nebbia inghiottì la sua sagoma e l’incrocio dei Trois Chemins tornò a essere deserto.
La lupa rossa trascinava la zampa, seminando una scia di sangue dietro di sé. Guaiva e sembrava supplicare i suoi compagni di aspettarla.
I due lupi grigi non rallentarono il passo, le pupille dilatate dal panico. La loro fuga attraverso la campagna era caotica, disordinata. Alle loro spalle, i latrati dei segugi che li braccavano si stavano avvicinando.
Invece il quarto animale del branco, una femmina dal pelo più lungo e scuro, si fermò. Indecisa, annusò l’aria. L’odore della ferita della lupa rossa era pungente come quello di un cadavere. Se si fossero nascosti, i cacciatori li avrebbero scovati immediatamente.
Eppure la lupa nera ululò per fermare il branco.
I due maschi risposero al richiamo e rallentarono la cadenza. Presero a girare su se stessi, ringhiando sommessamente, come se condividessero commenti e pensieri nel loro linguaggio misterioso, senza parole.
I quattro animali non sembravano appartenere ad alcuna razza conosciuta. Ibridi, a metà strada tra lupi e cani, avevano il muso e gli occhi obliqui del predatore, ma la voce e la pelliccia, colorata di sfumature inedite, ricordavano piuttosto il pastore tedesco.
Bastò una salva di latrati alle loro spalle per rilanciare la corsa.
Non potevano aspettare. Il tempo stringeva. Con i cacciatori alle calcagna, la traccia di sangue che la lupa rossa seminava dietro di sé non offriva loro nessuna alternativa.
Quando i suoi due compagni ripresero a trottare, a malincuore la lupa nera li seguì.
La bestia ferita li vide allontanarsi correndo lungo un fosso che separava due campi coltivati. Abbaiò, tentò di accelerare la cadenza per raggiungerli, ma la piaga le strappò un guaito, la zampa cedette e l’animale rotolò a terra, nel fango. Vide il branco sparire in una folta macchia di cespugli.
Da sola, non aveva scampo.
Sentiva già le voci dei cacciatori che si avvicinavano e l’ansimare dei segugi, ancora nascosti dalla nebbia.
La luce del giorno declinava.
Con un ringhio sommesso, la lupa rossa si rialzò e tentò di raggiungere la macchia.
Lo sguardo appannato, non vide la buca che si apriva nel terreno e, prima che i cani da caccia emergessero dalla coltre di nebbia, cadde in una fossa piena di letame. Lanciò allora un ululato profondo, un urlo di rabbia e di disperazione, che lacerò il velo della foschia.
Poi, il fetore del letame occultò l’odore del sangue.
Sentendo l’ululato, la lupa nera inciampò e rallentò la cadenza fluida della corsa. Ma un sentore preciso e nitido le accarezzava ormai le narici, un profumo di carne fresca stranamente familiare, che sembrava aspettare solo lei, da molto tempo. Era arrivato il giorno. L’ultima occasione. Non poteva farsela sfuggire.
Agitata da istinti che appartenevano alla notte dei tempi, la lupa nera raggiunse i suoi compagni, arricciando la bocca per mostrare una fila di denti appuntiti.
Mila si fermò.
Aveva costeggiato una serie di campi arati di recente, dove le enormi zolle di terra rivoltata evocavano un paesaggio devastato. Solo qualche mese prima, aveva ammirato quegli stessi campi ricoperti da un oceano di grano, dapprima verde brillante, poi giallo oro. Tutto cambia così velocemente, pensò la ragazza, e d’un tratto il suo appuntamento con quei due le apparve in tutta la sua assurdità, un rito infantile che sarebbe stato necessario, prima o poi, saper interrompere.
L’ultima volta, si disse. Questa è l’ultima volta. L’anno prossimo, non verrò.
L’ululato interruppe il flusso dei suoi pensieri.
A pochi metri da lei, un falco si alzò in volo, spaventato.
Mila tese l’orecchio. Sapeva riconoscere i latrati dei segugi che inseguivano una preda. La voce che aveva sentito non era quella di un cane da caccia.
Osservò il sentiero roccioso che correva lungo la collina. La sorgente non era lontana. Tra due lingue di nebbia, poteva ormai scorgere il profilo della rupe che sovrastava lo specchio d’acqua. Più in alto, le pendici boscose dei contrafforti della montagna si perdevano in un vago alone di luce lattiginosa.
Tutto intorno, la vegetazione era immobile. Non un alito di vento accarezzava i rami, dove le foglie umide aspettavano pazientemente il filo di brezza che le avrebbe fatte cadere.
Un ringhio alle sue spalle le tolse il fiato. La paura le paralizzò la mente, ma non le gambe. Senza voltarsi, Mila si mise a correre.
Poi, il ringhio si trasformò in risata.
La paura di Mila, invece, si trasformò in rabbia.
«Ma quanto sei scemo!»
Mila guardò il ragazzo che si era nascosto dietro un albero e che adesso le veniva incontro lungo il sentiero. Quasi un uomo. Diciassette anni, spalle larghe, capelli corti, mani grandi. Gli occhi di un incredibile colore verde acqua, che spiccavano come stelle sul viso angoloso e pallido, segnato da piccole cicatrici.
«Sempre il solito scherzo idiota! Ludo, non abbiamo più sei anni!»
Ludovic le rivolse il suo miglior sorriso da ragazzaccio pentito.
«Ti ho fatto paura, Mimì?»
Mimì.
Come quando erano bambini e si ritrovavano per dividere equamente gli ovetti di Pasqua. Uno per Ludo, uno per Tristan, uno per Mimì.
Da quanto tempo non si vedevano? Due, tre mesi forse. Probabilmente l’ultima volta era stata un incontro casuale, un po’ imbarazzante, di fronte al bar della Scalogna in paese.
Eppure lui la chiamava Mimì. E alle sue orecchie suonava assolutamente normale.
Mila sentì che il suo malumore si scioglieva come neve al sole.
Forse c’erano cose che non cambiavamo mai.
«Tristan non è venuto con te?» gli chiese mentre camminavano insieme verso la sorgente.
«Figurati, sono sicuro che ci sta aspettando da un pezzo. E scommetto che ha pure portato le caramelle».
«Potremmo anche farla finita con questa storia delle caramelle, no? È roba da bambini!»
«E perché, scusa? Sono buone le caramelle».
«Anche a me piacciono le caramelle!» esclamò una vocina infantile dentro la coltre di nebbia che ristagnava attorno alla sorgente.
Mila e Ludovic videro un ragazzino emergere tutto allegro dalla foschia e correre verso di loro.
«E lui che ci fa qui?» mormorò Ludo, scocciato.
Un’altra voce, più profonda, emerse a sua volta dalla nebbia, portandosi dietro la sagoma di un ragazzo posato, lo sguardo nascosto da una cascata di riccioli in disordine.
«Cominciavo a temere che non sareste venuti».
«Ciao, Tristan» lo salutò Mila. «Non è mica colpa nostra se arrivi sempre in anticipo. Ciao ciao, Felix» aggiunse rivolgendosi al bambino che non la smetteva di correrle intorno.
«Perché hai portato anche tuo fratello?» chiese Ludovic, insofferente.
«Mia madre mi ha detto che me ne dovevo occupare io. Non potevo lasciarlo da solo. O portavo anche lui, o non venivo proprio».
«Non puoi lasciarlo da solo… a dieci anni?» disse Ludovic. «Noi, a dieci anni, eravamo liberi di andare in giro dappertutto!»
«Noi, a dieci anni, non facevamo tutti i danni che fa questa bestiolina qui. È un pericolo pubblico, te lo assicuro» rispose Tristan con un sorriso.
Per un istante, Mila seguì con lo sguardo la corsa senza meta del fratellino di Tristan, che appariva e scompariva nella nebbia. Felix sembrava più piccolo della sua età. Poteva piangere sconsolato per la minima contrarietà, oppure meravigliarsi di fronte a un banalissimo insetto. Non aveva fretta di crescere.
Si godeva gli ultimi anni della sua infanzia con incoscienza ed entusiasmo.
Ha ragione, pensò Mila, e un’ombra di nostalgia le velò lo sguardo.
«Tutto bene, Milù?»
Come al solito, Tristan sembrava leggerle nel pensiero. Mila non si sarebbe meravigliata se avesse aggiunto:
«Sì, mio fratello fa bene a godersi l’infanzia».
Quante volte Tristan aveva detto a voce alta quello che lei pensava tra sé e sé?
Da sempre Mila era Mimì per Ludo e Milù per Tristan. Forse era il loro modo di coltivare un’illusione, quella di avere ognuno un’amica diversa, speciale.
Mila, lei, era stata felice di averli tutti e due, solo per sé. Tristan indovinava i suoi pensieri, Ludovic la proteggeva. Assieme a loro non le sarebbe mai successo niente di male. Avrebbe potuto ignorare gli scherzi, le prese in giro, le offese. Nessuno sguardo sarebbe riuscito a ferirla.
Erano cresciuti insieme, gli unici tre bambini della frazione delle Brujas, comune di Malazuc, poche case disseminate lungo il corso del torrente Vrille. Così diversi, eppure sempre insieme, dal giorno in cui Mila, all’inizio della prima elementare, si era ritrovata ad aspettare lo scuolabus che raccoglieva pigramente la manciata di bambini che abitavano fuori paese. Quell’anno, il primo giorno di scuola, tre allievi aspettavano alla fermata dei Trois Chemins. Mila, la più piccola, perfetta nel suo vestitino ben stirato, accompagnata dalla madre, in vestaglia bianca, elegantissima. Tristan, di un anno più grande, in compagnia della nonna sorda come una campana che ripeteva gridando: «Ma ce l’hai la merenda? Dico, ce l’hai la merenda?» E Ludovic, in terza elementare, solo, senza cartella, e con un occhio pesto.
A bordo dello scuolabus, spontaneamente, i due maschietti si erano seduti accanto alla bambina, come due guardie del corpo grandi e forti, che le incutevano soggezione.
Durante il tragitto non avevano scambiato una parola. Ma quando era arrivato il momento di scendere, di fronte alla scuola, Mila aveva avuto paura.
Nugoli di bambini correvano e si strattonavano in cortile, in una mischia scomposta, fatta di risate sguaiate e di cartelle rovesciate, che le sembrava violenta e pericolosa.
Tristan l’aveva guardata e aveva capito, già allora, a sette anni. Si era chinato su di lei e le aveva sussurrato:
«Non avere paura».
Poi aveva richiamato Ludovic.
«Bisogna aiutarla» aveva detto.
«È piccola».
Ludovic aveva annuito, con lo sguardo malconcio e la mascella contratta. E per attraversare il cortile l’aveva presa per mano.
Era cresciuta così. La mano stretta in quella di Ludovic. Lo sguardo fisso in quello di Tristan. Un anno dopo l’altro.
Grazie a loro, non si era mai sentita diversa. Si era sentita speciale. L’unica bambina nera di tutta la scuola e di tutta la pianura di Malazuc.
Milù, Mimì, Mila Koré.
Quando avevano scoperto di essere nati tutti e tre a novembre, Mila, Ludo e Tristan avevano deciso di festeggiare il compleanno insieme. Di nascosto. Senza chiedere niente agli adulti. Né feste, né torte, né candeline. Per settimane mettevano da parte la paghetta, i dolci, le caramelle, e poi si ritrovavano per un piccolo ricevimento privato. Ovviamente, tra le date, era sempre quella della nascita di Mila, il 15 novembre, che veniva scelta per festeggiare. Non appena avevano ottenuto il permesso di uscire di casa da soli, la sorgente era diventata il loro nascondiglio preferito.
A volte decoravano le rocce che circondavano lo stagno con foglie e bacche. Poi si sedevano, mangiavano il loro tesoro in religioso silenzio e all’improvviso, come per magia, avevano l’impressione di crescere. Un anno in più per ciascuno. Tutto a un tratto. Era giusto così.
Il Picco delle Anime, di cui a malapena intravedevano la vetta, ben oltre la rupe che li sovrastava, sembrava osservarli con indulgenza.
Una volta, Ludovic aveva fatto il bagno. Una follia.
La pelle gli era diventata blu dal freddo. Che risate si erano fatti.
Poco a poco, la loro amicizia era diventata così stretta che i loro pensieri, a volte, sembravano capaci di fondersi. I loro passatempi infantili li spingevano a inventare un mondo fantastico, animato da una logica propria, dove nessun altro era autorizzato a entrare.
La natura era un parco giochi infinito, dove Mila aveva rapidamente assunto il ruolo di guida incontrastata.
La fantasia della ragazzina era senza limiti. La sua autorità nella costruzione del loro universo magico, indiscutibile. Ludo e Tristan seguivano i suoi passi, premurosi e affascinati. Un ramo storto era una bacchetta magica, una pietra piatta era un altare sacro. Una coccinella? Una fata smarrita.