Le cronache di Adelen
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Fantasy - romanzo breve (63 pagine) - Un solo destino, un amore complicato
Adelen è la città che domina la grande isola di cui porta il nome. Su Adelen vi sono molti clan, ma il potere è da sempre nelle mani di due soli di questi. Un tempo, l’Aquila e la Falena regnavano insieme in armonia, ma nulla dura per sempre. Lo sanno bene gli eredi delle due fazioni, Algor della Falena e Shin dell’Aquila. I due ragazzi, un tempo amici inseparabili, si troveranno ad affrontare le conseguenze delle divisioni scaturite dall’odio reciproco dei loro padri. Potrà l’antica amicizia placare i venti di guerra? E cosa ne sarà dell’amore che entrambi nutrono per Maja, l’amica fedele destinata a diventare sacerdotessa del tempio di Adelen? Algor e Shin, e la stessa Maja, sanno che un futuro oscuro li attende e che forse il potere dei talismani da loro posseduti non basterà a restituire la luce alla terra che li ha visti nascere e crescere…
Andrew Luke Lewis nasce, letterariamente parlando, una decina di anni fa. Ma questo romanzo breve rappresenta la sua prima pubblicazione. Ha in mente altre storie ambientate sull'isola di Adelen. Forse, fra altri dieci anni, vedranno la luce…
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Anteprima del libro
Le cronache di Adelen - Andrew Luke Lewis
Parte prima
1
Maja fissava il piccolo isolotto che si ergeva come una torre a picco sul mare, unico baluardo a difesa della bassa scogliera che delimitava la riva della spiaggia. Le onde dell’oceano si schiantavano inutilmente contro quella solitaria sentinella nera, ultimo rigurgito della rabbia di un vulcano morto tanto tempo prima, quando sull’isola di Adelen a regnare erano solo i gabbiani e le bestie selvatiche.
Maja chiuse gli occhi, inspirando a fondo l’aria, mentre le goccioline sospinte dal vento le regalavano piccole scosse di piacere sul viso e lungo le braccia nude.
Restò in attesa, le mani giunte intorno alle gambe raccolte, ascoltando il richiamo dell’oceano, fondendosi con esso e con la voce del vento. Lasciò che il canto degli elementi la circondasse del tutto, trasportandola lontano, nelle profondità del mare o sopra la torre scura; sorvolò le acque, oltre l’orizzonte fin dove l’oceano veniva inghiottito dal nulla; e poi indietro, sulle ali dei gabbiani, scrutando con i loro occhi l’intera isola, sorvolando i villaggi dei contadini, i campi arati e le candide barche dei pescatori, ormeggiate al riparo dei numerosi porticcioli affacciati sul mare come piccole lingue di terra umida. Superò la grande foresta di conifere, sfiorando le cime degli alberi secolari, accarezzandole quasi, inebriandosi del loro antico profumo. Infine, come sempre, fin dal giorno in cui suo padre aveva iniziato a insegnarle il controllo del Dono, si lasciò cadere sulla torre più alta della città, forse l’unico luogo dell’isola in cui non era mai stata veramente. Quella posizione, per quanto irreale, le dava sempre una sensazione di leggerezza, e una straordinaria intensità, quasi che, dominando la città dall’alto, potesse infondere sugli abitanti il suo amore per la vita, seminandolo ovunque giungesse lo sguardo. Ma quel giorno sentiva il cuore pesante.
Osservò le minuscole figure che si muovevano tra le vie cittadine, un immenso formicaio in movimento all’interno delle possenti mura; oltre la porta principale i carri andavano e venivano lungo la strada maestra; si concentrò su un gruppo di nobili raccolti nella piazza antistante il palazzo reale, ascoltando le parole che già conosceva, la speranza annientata dalla sorte inevitabile, una vita in bilico in attesa dell’imminente rottura dell’ultimo filo sottile, ancorato al porto dell’esistenza.
Una lacrima le rigò il volto, al pensiero che tra poco il re sarebbe morto, che la sua isola, dopo, non sarebbe più stata la stessa. Restò a guardare la lacrima scendere lungo la torre; la goccia cadendo s’ingrossava fino a trasformarsi in pioggia, e poi in tempesta, allagando le vie, tracimando oltre le mura, divorando la foresta, le campagne e i porti, finché ogni cosa venne ricoperta dall’acqua, e solo la muta sentinella di roccia nera restava a fare compagnia all’azzurro sconfinato.
Infine, le voci, lontane ma familiari, la scossero dall’estasi e il suo corpo astrale venne strappato dal limbo precipitando di nuovo nell’unione con il suo corpo mortale. Maja si asciugò gli occhi arrossati e salutò con voce allegra i suoi due amici senza voltarsi a guardarli raggiungere la spiaggia. I passi corti e veloci di Algor si alternavano a quelli più ampi e regolari di Shin. Le camicie indossate dai due ragazzi si accarezzavano ogni volta che le braccia si sfioravano nel loro incedere fianco a fianco, quasi come una cosa sola.
Maja si alzò e trasse un lungo sospiro, costringendosi a sorridere. Poi lentamente si voltò per andare loro incontro, il viso sgombro dalla cupezza che l’aveva sconvolto fino a poco prima. Il suo sorriso illuminò di gioia i volti dei due ragazzi. Come sempre.
Maja tese le braccia verso i due amici che presero ciascuno una delle sue mani tra le proprie, stringendole con delicatezza.
– Perdonaci per il ritardo, Maja – disse Shin. – Ho dovuto faticare non poco per convincere gli assistenti di mio padre a lasciarmi uscire; come se la mia presenza al castello avesse importanza…
– Già – intervenne Algor, grattandosi la testa. – Anche a me hanno fatto storie, continuavano a dirmi che non era il momento per andarsene in giro… beata te, Maja, tuo padre è molto più accomodante.
– La verità è che lui è molto più saggio di mio padre e del tuo – riprese Shin. – Peccato che appartenga a uno dei clan minori, altrimenti sarebbe stato un ottimo re, ne sono certo…
Maja annuì abbozzando un sorriso mesto. – Forse è così – disse, incamminandosi fino al bagnasciuga che delimitava la scogliera, – ma non ha senso parlarne. Speriamo solo che i vostri genitori riescano a trovare un accordo per la successione, e che la Falena, o l’Aquila, o quello che sarà designato, regni nell’interesse di tutti.
I due ragazzi non replicarono, limitandosi a raggiungerla sulla riva.
Maja prese da una tasca una manciata di grosse bacche e le lanciò in aria. Il vento le sospinse verso la spiaggia, ma un gruppo di gabbiani si lanciò in picchiata e le afferrò prima che toccassero la sabbia.
Algor e Shin la imitarono e in breve una nuvola di piume torreggiava intorno ai tre ragazzi, le cui risate si mescolarono con il richiamo degli uccelli e il mormorio delle onde.
Quando le loro tasche furono del tutto svuotate e i gabbiani iniziarono ad allontanarsi, Maja si sedette sulla sabbia, invitando i suoi amici a sedersi accanto a lei. Restò in silenzio, lo sguardo fisso sull’acqua. Algor e Shin attesero tranquilli accanto a lei, non nuovi ai silenzi improvvisi della loro amica.
– Temo che con la morte del re saremo costretti a separarci – disse infine lei, interrompendo il silenzio.
– Perché dici così? – la incalzò Algor.
Maja sospirò: – Sono diverse notti che ho la stessa visione…
– Cosa vedi? – intervenne ansioso Shin.
– Ne ho parlato con mio padre, non è un’immagine chiara, ma l’atmosfera che pervade quelle visioni odora di sangue, e di morte… e ci siete voi due, perduti tra le ombre, che mi chiamate. Ma io non vi vedo…
Shin le passò un braccio sulle spalle, cercando di confortarla. – Be’, non sempre le visioni hanno un senso, tu ci hai sempre detto che a volte non