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Il Bargello
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E-book294 pagine4 ore

Il Bargello

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Info su questo ebook

Una storia di odio e compassione ambientato tra i più umili nella Spagna medievale.

Aragona, inverno del 1134.

Estranei al succedersi di re e corone, gli abitanti dei villaggi vivono le loro semplici vite. L’inverno non porta solo il freddo e la fame, ma anche la morte. Un gruppo di infami briganti, conosciuti come “gli albari”, si è accampato nei pressi di Lacorvilla e progetta di attaccare il villaggio.

Sancho il Nero è un povero carbonaio che cerca di sopravvivere meglio che può. Non condivide l’entusiasmo dei suoi compaesani all’idea di seguire il bargello nella lotta contro gli albari; non crede nella vittoria né nell’uomo che ha giustiziato suo padre. L’odio è reciproco, sono anni ormai che il bargello cerca un modo di scacciare il carbonaio dal paese. A qualunque prezzo.

Nel bel mezzo di questa lotta per la sopravvivenza, un misterioso cavaliere arriverà al villaggio proclamandosi eroe e salvatore delle sorti del villaggio, ma in realtà vuole appropriarsi di quello a cui alcuni tengono di più. Cosa succederà quando scopriranno le sue intenzioni? Come andrà con i briganti? E quale sarà il ruolo delle donne, decise a non restare nell’ombra?
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita16 mar 2020
ISBN9788835403555

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    Anteprima del libro

    Il Bargello - Carlos Pérez Casas

    Il Bargello

    Carlos P. Casas

    Tradotto da Alice Croce Marta

    ISBN-13: 9788835403555

    Copyright © 2016  Tutti i diritti riservati all’Autore.

    Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore.

    Seconda edizione: maggio 2020

    Traduzione di Alice Croce Marta

    Copertina di Brissinge Shadowmoon

    Alle donne di Lacorvilla

    Senza di loro, nulla può riuscire.

    sommario

    Note dell’Autore

    Prologo

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Note dell’Autore

    Durante il periodo noto come La Reconquista, che va dall’occupazione musulmana della Penisola Iberica (711) fino alla presa di Granada (1492), la coesistenza di regni cristiani e islamici fu contraddistinta da periodi di pace inquieta e conflitti militari. Questi ultimi offrirono numerose opportunità ai soldati di fortuna, a cui il mestiere delle armi promise ricchezze, terre e titoli nobiliari.

    Anche il più umile dei soldati poteva ricevere la proprietà di un piccolo castello (spesso una semplice torre con quattro mura intorno) e le terre coltivabili limitrofe, che i contadini avrebbero coltivato per lui. Un bel modo di vivere, seppur modesto. Ma non tutti i valorosi ricevettero il premio che meritavano.

    Con il passare del tempo, queste ricompense sotto forma di nuovi domini vennero destinate ai nobili di alto lignaggio, terratenenti provvisti di esercito privato, che in seguito ricompensavano i loro soldati con un pagamento una tantum, ma non con le terre. Così la nobiltà di maggiore livello accumulava territori sempre più vasti mentre la piccola nobiltà poteva aspirare solo a cariche minori, come ad esempio il bargello, il garante della legge nei domini feudali.

    La conquista di Saragozza (1118), futura capitale del Regno di Aragona, rappresenta l’inizio di queste ripartizioni diseguali di terre e bottini. Agli sfortunati che durante la campagna trovarono solo la morte si unirono quelli per cui la ricompensa promessa non divenne mai realtà; e ad essi rimasero solo tre scelte possibili: accontentarsi della fortuna di aver avuto salva la vita, aspettare una nuova opportunità in guerre future o darsi al brigantaggio.

    Spesso i briganti nel Medievo non erano altro che povera gente affamata ma con un passato da soldato, abituata quindi a prendersi il bottino dai nemici con la forza delle armi. Disperati, attaccavano e saccheggiavano chi non poteva difendersi, incuranti se le loro vittime fossero cristiane o musulmane.

    Questo romanzo è una storia che parla di loro: briganti in cerca di bottino, vittime costrette a difendere ciò che è loro, il bargello, responsabile di far rispettare la legge nel villaggio, il nobile in miseria che aspira a prendere possesso dei propri domini… e le donne, che si rifiutano di essere ignorate dalle pagine della Storia.

    Prologo

    00001

    Nel cuore del bivacco si svolgeva una lotta all'ultimo sangue: le timide fiamme del falò contro il vento gelido proveniente dai Pirenei. Il fuoco opponeva resistenza e si rifiutava di soccombere a quella notte d'inverno, ma non aveva la forza sufficiente a far bollire il contenuto del paiolo che vi era posto sopra. Era il mese di dicembre del 1134. Come negli anni precedenti, era un mese secco e freddo. Molto di più, trattandosi di una notte ventosa come quella; le tende improvvisate sembravano sul punto di volare via. Alfonso si strinse contro una quercia tanto da sentire che la corteccia gli lacerava le maniche della giubba, mentre cercava di proteggersi sia dal vento che dallo sguardo dei banditi.

    «Sono solo tre» sussurrò a suo padre mostrandogli lo stesso numero di dita. Alfonso non sapeva contare oltre il dieci.

    Il figlio di Jimeno, il bargello, si stava innervosendo per l'attesa. Jimeno era nascosto dietro una roccia, accucciato in modo che la sua sagoma corpulenta fosse meno visibile. Non apriva bocca. Teneva d'occhio il bivacco e ogni tanto grugniva. Alfonso ipotizzò che stesse pensando al modo migliore di far fuori quello più vicino.

    Il bandito aveva appoggiato la sua scure ad un albero vicino, ma abbastanza lontano da non poterla afferrare con rapidità. Alfonso non dava troppo peso a quell'arma, era piccola e non sembrava abbastanza solida da potersi opporre a una spada. Lo preoccupavano di più la cotta di maglia e i bracciali che l'uomo indossava; probabilmente sotto quegli anelli di ferro c'era un'altra protezione di cuoio. Una buona armatura.

    Si trovavano a pochissimi passi di distanza; se si fossero mossi in silenzio, mettendosi a correre all'ultimo momento, il bandito non avrebbe fatto in tempo ad alzarsi che si sarebbe già ritrovato la spada di suo padre conficcata nel collo. Uno di meno.

    «Non vedo i cavalli» osservò Jimeno, interrompendo i pensieri di suo figlio.

    È vero, rifletté Alfonso dopo aver dato un'occhiata all'intorno. Li abbiamo sentiti mentre ci avvicinavamo ma qui non ci sono. Devono esserci in giro altri banditi. In tal caso la faccenda si faceva più complicata, adesso erano in inferiorità numerica.

    «Dovremmo tornare indietro» suggerì Sancho il Nero con voce tremante. «Chiedere aiuto a don Yéquera e alle sue guardie».

    «Abbassa la voce» gli ingiunse Jimeno. Sancho tacque all'istante e si coprì con il suo vecchio mantello.

    Sancho, il carbonaio, non aveva bisogno di nascondersi dietro a niente. Era così magro che se si metteva di taglio lo si vedeva a stento alla luce piena del giorno. Indossava abiti del tutto inadatti all'inverno, una camicia leggera che era stata rammendata almeno dieci volte. Il suo mantello doveva essere più sottile di un'unghia, ed era l'unica cosa che lo proteggeva dal freddo. Se non fosse stato per le macchie di fuliggine che gli ricoprivano la faccia, si sarebbe visto che aveva la pelle più bianca del ghiaccio a causa del tormento che il vento gli infliggeva.

    «Quel fuoco ha preso o no?!» esclamò uno dei banditi. Alfonso trasalì per lo spavento. «Ho fame!».

    Stavano preparando uno stufato, tra i cui ingredienti facevano capolino alcuni pezzi di carne di pecora. Una delle bestie di suo zio Guillén.

    Già da un paio di giorni da Lacorvilla stavano sparendo delle pecore. Una. Due. Altre due. Presto fu chiaro che nella zona dovevano esserci dei ladri di bestiame. Era compito del bargello occuparsi di quelle faccende, e in effetti Jimeno se ne era occupato. Malgrado avesse ormai compiuto i quarant'anni non aveva perso il vigore della gioventù, quindi non gli pesò fare il giro dei pascoli e delle montagne del circondario. Quello che invece gli diede fastidio fu, dopo un paio di giorni di ricerche, non aver ancora scovato alcuna traccia da seguire.

    «Alfonso, prendi la tua roba. Andiamo a parlare con il Nero» gli aveva detto suo padre, esasperato da tutti quegli sforzi infruttuosi, «vediamo se ne sa qualcosa».

    Le parole scelte da suo padre fecero pensare ad Alfonso che Sancho potesse essere il responsabile di quei furti. L'idea non era del tutto peregrina, il carbonaio moriva di fame fin da quando era piccolo. Senza riuscirci.

    Avevano scovato il Nero lungo la strada per la Carbonera. Man mano che l'inverno si avvicinava trascorreva molti giorni e molte notti in montagna, a controllare che la legna ardesse correttamente per la produzione del suo prezioso carbone. Alfonso non fu tanto sorpreso di averlo incontrato quanto del fatto che venisse verso di loro di gran carriera, o almeno così sembrava.

    Sancho odiava Jimeno. E non per una cosa di poco conto. Il padre del Nero era stato accusato di essere un ladro e un assassino. Il tipo d'uomo che prima o poi fa la conoscenza del bargello in circostanze poco piacevoli. Con l'aiuto di un complice aveva teso un'imboscata all'esattore delle tasse sulla strada per Luna; il pover'uomo era finito con la testa schiacciata sotto un grosso masso. Malgrado non fossero stati trovati altri testimoni oltre ai colpevoli, quel tipo di cose si finisce per saperle, nei paesini: il padre di Sancho era in possesso di denaro che non avrebbe dovuto avere e Jimeno fece il suo dovere.

    Durante il processo si era sempre difeso affermando che fosse stato l'altro, uno che diceva di venire da Arbués, ad uccidere il gabelliere, non lui. Ammetteva di aver rubato, ma non di aver ucciso. Jimeno non si era lasciato incantare da quelle scuse e il padre del carbonaio alla fine fu impiccato al ramo di un albero. Come ladro e assassino.

    La vicenda fece nascere cattivo sangue tra le due famiglie. Era quello il motivo per cui Alfonso si stupì di vedere il sollievo dipinto sul volto del carbonaio, quando giunse vicino a loro. Il Nero era molto eccitato, gli mancava il fiato. Balbettava e diceva cose senza senso, ma una parola si capiva perfettamente:

    «Briganti».

    Il carbonaio si era imbattuto senza volerlo nei ladri di bestiame e intendeva affidare al bargello la responsabilità sul da farsi. Ad Alfonso faceva rabbia che molti nel villaggio non volessero avere nulla a che fare con suo padre, gabelliere per conto di don Yéquera, ma che non esitassero mai a pretendere il suo aiuto quando avevano qualche problema.

    Jimeno riuscì, a forza di minacce e di botte e scossoni, a farsi dire dal Nero qualcosa sul bivacco che aveva scoperto. Riuscirono a farsi portare fin lì, anche se dovettero quasi trascinarlo con la forza.

    Adesso erano acquattati tra gli alberi ad osservare i tre banditi: uno vicino all'albero, uno che preparava la cena e il terzo che cercava di evitare che una delle tende venisse spazzata via dal vento. Alfonso continuava a cercare i cavalli e gli altri banditi, quelli che non si vedevano.

    «Aggiungi altra legna!» gridò al cuoco uno dei malviventi, avvicinandosi al pentolone. Le fiamme gli illuminarono il volto.

    Sancho si trascinò fino a raggiungere Jimeno.

    «Hanno le facce bianche» sussurrò al bargello. I suoi occhi riflettevano il panico più assoluto. Con il dito indicò quello che era in piedi accanto al fuoco. «Sono gli albari».

    Ad Alfonso mancò il respiro.

    Aveva sentito le voci, certo. Mostri dalla pelle bianca assetati di sangue. Villaggi in fiamme. Contadini squartati. Non erano che voci, storie che venivano raccontate nelle osterie negli ultimi anni. Suo padre gli aveva sempre detto che quelle storie erano esagerazioni. Erano solo dei banditi che si erano fatti una certa fama. Tutto il resto erano storie assurde, che avevano l'unico scopo di terrorizzare gli sciocchi.

    Tuttavia, che fossero vere o no tutte quelle storie, gli albari erano lì. Vicino a Lacorvilla. Alfonso li aveva appena visti con i suoi stessi occhi.

    La piccola scure che Alfonso aveva considerato quasi inoffensiva si era appena trasformata in un'arma maneggevole e difficile da schivare, capace di fare molto male a chi non indossava un'armatura formidabile come quella del bandito. Non aveva niente a che vedere con il freddo, il fatto che la mano di Alfonso cominciasse a tremare.

    «Non possiamo farlo da soli» decise Jimeno dopo aver soppesato le varie possibilità.

    Il Nero annuì.

    «Se fossimo di più…».

    «Di te non avevo certo tenuto conto» ribatté il bargello. Sancho chinò la testa e, arretrando, tornò a nascondersi dietro la sua roccia. Jimeno si rivolse a suo figlio. «Torniamo al villaggio».

    Nessuno si oppose. Con molta cautela cominciarono ad allontanarsi dal bivacco fino a perdere di vista la luce del fuoco e si immersero in un'oscurità che la luna calante riusciva appena a violare. Attraversarono la montagna tra sterpi e arbusti irrequieti a causa del vento. Non si azzardarono a tornare sul sentiero fino a quando non ebbero messo una distanza considerevole tra loro e i banditi. Il ritorno a Lacorvilla avvenne in gran fretta e in un continuo girarsi indietro a guardare.

    «Dobbiamo dirlo agli altri al villaggio» osservò Sancho quando furono sufficientemente lontani. Il carbonaio si stringeva addosso il suo miserabile mantello. «Dovremmo organizzare una riunione».

    Jimeno lo sentì e rallentò il passo. Alfonso se ne rallegrò, non aveva le gambe lunghe come suo padre. Sua madre sosteneva che un giorno sarebbe diventato alto come lui, ma a diciassette anni compiuti era ancora più basso del bargello di un'intera testa. Continuarono a camminare e dopo un po' Jimeno rispose:

    «Qualcosa bisogna dire ai compaesani» riconobbe a disagio «ma bisogna scegliere molto attentamente che cosa. Se diciamo loro così all'improvviso che abbiamo visto gli albari potrebbero farsi prendere dal panico. No, dobbiamo essere cauti. Fintanto che avranno pecore da mangiare non ci daranno problemi». Alfonso guardò suo padre aggrottando la fronte. Quelle pecore appartenevano allo zio Guillén, che non sarebbe stato zitto sapendo che la sua fonte di sostentamento veniva divorata da quei mostri. «Abbiamo alcuni giorni di tempo per decidere come agire. La cosa migliore sarebbe prendere accordi con don Yéquera» disse, mentre cominciava ad intravedere il castello che si trovava sull'altro versante della montagna, imponente sul promontorio.

    «State parlando di rifugiarci tutti dentro le mura?» chiese Alfonso, dando voce alle sue perplessità. «Ci sono due torri male in arnese e un cortile. Non è abbastanza grande per tutti i compaesani e le loro bestie».

    «Allora il bestiame dovrà rimanere all'esterno» intervenne Sancho. «Le persone hanno la precedenza».

    Alfonso replicò con veemenza al Nero. Certo, per lui era facile separarsi dagli animali, perché non ne aveva. Lo accusò di essere un uomo vile ed egoista. Se a lui stava bene di non avere nulla e di vivere della carità della gente niente da dire, ma molti dei loro compaesani vivevano delle loro bestie e contavano proprio su quegli animali per dar da mangiare alle loro famiglie. Avrebbero cercato di fare in modo che sia il bestiame che le persone trovassero posto all'interno delle mura del castello. E alla fine minacciò il carbonaio di lasciarlo in balìa dei banditi.

    «Se il bestiame non potrà ricoverarsi dentro il castello, neanche tu potrai entrare».

    Maledetto codardo, si preoccupa solo per sé stesso. Alfonso sputò per terra, non lontano dai piedi del Nero.

    «Non stavo pensando di rifugiarci nel castello» si spiegò Jimeno. Gli altri si girarono a guardarlo, sorpresi. «Pensavo di prendere le armi dall’arsenale. E distribuirle alla gente».

    Sancho tornò alla carica.

    «Non crederete che possiamo combattere contro di loro?!» inorridì. «Ci ammazzeranno tutti!».

    «Gli albari hanno sempre attaccato i villaggi sfruttando l'effetto sorpresa» spiegò Jimeno «e a quanto ne so, nessuno ha mai cercato di ostacolarli. Ma noi sappiamo che sono qui, hanno perso il loro vantaggio». Jimeno richiamò la loro attenzione. «Dobbiamo sfruttare il tempo che abbiamo a disposizione per addestrare i nostri compaesani all'uso delle armi».

    Alfonso sbuffò. Non sapeva cosa mai avesse potuto vedere suo padre negli abitanti del villaggio da riporre tanta fiducia in loro. Un borgo molto piccolo, governato dai cristiani fin dai tempi di re Sancho Ramírez e protetto da una buona stella che l'aveva tenuto fuori dalle guerre, era un luogo dove la gente non era abituata a veder scorrere il sangue.

    «Sono contadini, pastori, carbonai» aggiunse guardando Sancho, «non sono soldati».

    «Neanche quei banditi lo sono» replicò Jimeno. «Ascoltatemi bene: domani mattina presto convocheremo gli uomini alla taverna di Bermudo. Quando ci saranno tutti proporrò loro di andare al castello di Yéquera e di impossessarci delle armi ivi custodite. Istruirò gli abitanti del villaggio, tu mi aiuterai» disse indicando suo figlio. «Così saranno pronti, con il corpo e lo spirito, quando i banditi faranno la loro comparsa». Fece una pausa per riflettere. «Diremo loro che si tratta degli albari» disse «ma solo dopo aver proposto una soluzione al problema».

    I dubbi del Nero non erano qualcosa che le parole del bargello o il vento potessero spazzare via.

    «Continuo a pensare che sarebbe più opportuno cercare rifugio al castello e chiedere delle truppe che si occupassero dei banditi. Non siamo soldati» ripeté, riprendendo le parole di Alfonso.

    Il figlio vide suo padre perdere le staffe. Diede un calcio ad un sasso sul sentiero che finì a perdersi tra la sterpaglia. Il bargello non era abituato ad essere contraddetto.

    «Siamo agli inizi dell'inverno» disse stringendo i denti a causa del freddo. «Se ci rifugiassimo nel castello a noi non succederebbe niente ma mio figlio non ha tutti i torti a preoccuparsi per il bestiame. Se la gente fosse a Yéquera i banditi potrebbero saccheggiare senza alcun impedimento l'intero villaggio, e state certo che brucerebbero tutto: case, granai, campi e persino la chiesa, se troveranno il coraggio. Una volta che il pericolo fosse passato e ritornassimo alle nostre case, ci ritroveremmo senza più niente da mangiare né nulla di nostro, a parte l'anima marcia per la vergogna di non aver fatto nulla per impedirlo. No, combattere è la nostra unica scelta» aggiunse guardando il Nero.

    «Ci penserò» accettò Sancho.

    Ci penserò? Come se dipendesse da te prendere la decisione… considerò Alfonso. Tuttavia, quelle due parole posero fine alla discussione e continuarono il cammino in silenzio fino a quando poterono scorgere il villaggio in lontananza.

    Le sagome degli edifici apparvero loro come un rifugio sicuro. Non solo dai banditi, ma anche dal vento gelido che non dava tregua né ai tre uomini né agli alberi, che ancoravano saldamente le loro radici alla profondità della terra. Le poche foglie, al contrario, venivano strappate senza pietà.

    Stavano camminando già da lungo tempo e ad Alfonso dolevano i piedi, mentre gli brontolava la pancia e il freddo lo pugnalava. Immaginava sé stesso seduto accanto al fuoco a contemplare una minestra che sobbolliva, con cipolle e porri che vi galleggiavano dentro. Gli veniva l'acquolina in bocca al solo pensiero.

    Invece camminava nel bel mezzo della notte lungo un sentiero pietroso, in preda ai capricci del clima e timoroso che alle sue spalle comparisse all'improvviso un gruppo di mostri sanguinari dai volti bianchi. Quella rischiava di essere la notte peggiore della sua vita e la visione delle colonne di fumo che uscivano dai camini non faceva che peggiorare la situazione. Inoltre…

    «Devo pisciare» annunciò mentre si avvicinava ad un leccio solitario.

    La sorte aveva scelto un luogo davvero particolare perché Alfonso liberasse la vescica. L'albero svettava tra il limitare del sentiero e un appezzamento di terra in attesa della semina. Quel campo adesso era di proprietà di suo padre ma, non molti anni prima, era stato di proprietà del padre del Nero. Perdette la terra, oltre alla vita, nel momento in cui fu costretto ad affrontare la forca. Adesso quelle terre appartenevano al bargello; gli erano state assegnate da don Yéquera. Di solito non era Jimeno a lavorarle personalmente, preferiva prendere dei braccianti affinché lo facessero al suo posto. Ma in realtà pensava che non rendessero abbastanza, ragione per la quale negli ultimi tempi le aveva trascurate completamente, e si erano trasformate in una giungla di erba alta che sembrava non avere fine.

    Diede uno sguardo a Sancho chiedendosi quali potessero essere i pensieri del carbonaio, trovandosi in quel luogo, ma il Nero rivolgeva lo sguardo verso l'oscurità dei monti, in silenzio.

    «Allora, ti decidi o cosa?» si spazientì suo padre, e Alfonso si accinse alla bisogna.

    Calarsi le brache con quel freddo non era stata una buona idea. Alfonso si affrettò ad innaffiare della sua urina fumante quell'albero robusto. Si distrasse ad osservare le ghiande sui rami e subito notò una tiepida umidità sui calzari.

    «Merda…» Si era quasi ricomposto quando sentì un cavallo sbuffare.

    Avevano finalmente trovato i cavalli dei briganti.

    Due cavalieri al trotto stavano arrivando lungo il sentiero. Alfonso, Jimeno e Sancho si affrettarono a nascondersi dietro l'albero per evitare di essere visti.

    «Esploratori. Probabilmente sono stati ad esaminare il villaggio» ipotizzò il bargello, ignorando la puzza di urina.

    Il rumore dei cavalli divenne sempre più forte man mano che si avvicinavano. I tre uomini trattennero il fiato. Quando i cavalieri furono all'altezza dell'albero uno di loro si girò, il volto dipinto di bianco, e il figlio del bargello abbassò la testa. Udì come i cavalli rallentavano il passo fino a fermarsi.

    «Credo che ci abbiano visto» mormorò Alfonso.

    Ebbe il coraggio di sporgere di nuovo il capo e vide che uno dei due uomini a cavallo impugnava la lancia mentre incitava il cavallo a saltare il bordo del sentiero. L'altro sguainò la spada. Li avevano scoperti.

    «Rimanete vicino all'albero!» ordinò Jimeno estraendo la lama. Fece qualche passo per allontanarsi da suo figlio.

    Anche Alfonso impugnava la sua arma mentre il Nero, svelto, raccoglieva da terra alcuni sassi. Il figlio del bargello dubitava che potessero servire a qualcosa, tuttavia non poté evitare di apprezzare il gesto.

    Il primo cercò di colpire Jimeno con la lancia, ma il bargello deviò l'asta con un colpo di spada. Tuttavia, così facendo si espose all'attacco dell'altro bandito e venne violentemente travolto dal cavallo. Jimeno accusò il colpo e cadde rotolando più volte su sé stesso, tra rocce e sassi. Il cavallo passò vicino ad Alfonso ma questi non ebbe il tempo di contrattaccare, e la sua spada fendette l'aria. Sentì una risata metallica provenire dall'uomo a cavallo.

    «Padre!» esclamò Alfonso mentre si avvicinava a lui per vedere come stava. Jimeno grugniva dal dolore pur impugnando ancora la spada. «Vi sentite bene?».

    «Rimani vicino all'albero» biascicò il bargello, puntando un ginocchio a terra per cercare di rialzarsi.

    I due cavalieri si stavano girando, pronti a caricare di nuovo.

    «Perché?» chiese Alfonso.

    Il primo sasso lanciato dal Nero andò perso nell'oscurità, ma il secondo cozzò contro qualcosa di metallico e uno dei banditi gemette. Forse il carbonaio non era molto forte ma poteva fare dei danni, con un po' di fortuna. Anche il terzo sasso colpì il bersaglio. Mancò l'occasione di lanciare il quarto perché il bandito caricò il Nero, che arretrò fin dietro l'albero.

    Sancho aveva capito bene il consiglio di Jimeno. Appena il cavallo si fu avvicinato, il carbonaio girò intorno al tronco del leccio per rendere i movimenti del bandito più difficoltosi. Questi fu costretto a fermarsi per cercare di colpire con la lancia il magro corpo del carbonaio. Alfonso vide in quella manovra un'opportunità di attaccare e si fece avanti con la spada spianata.

    Non ebbe modo di usarla.

    L'albare descrisse un arco con il braccio e colpì Alfonso in faccia con l'asta della sua lancia. Questi sentì bruciare il lato destro del viso come carboni ardenti e un fischio penetrante gli entrò nella testa. Alzò goffamente la spada in cerca della gamba del cavaliere ma la testa gli girava e finì per cadere a terra senza capire cosa stesse succedendo. L'altro cercò di colpirlo mentre era a terra ma Alfonso rotolò per evitare l'attacco. Sentì un dolore intenso alla natica quando il bandito

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