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La Dama Eloquente - Vita E Destino Di Federico II: Regnum
La Dama Eloquente - Vita E Destino Di Federico II: Regnum
La Dama Eloquente - Vita E Destino Di Federico II: Regnum
E-book449 pagine6 ore

La Dama Eloquente - Vita E Destino Di Federico II: Regnum

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Info su questo ebook

Nell’aprile del 1249 un uomo si trova prigioniero nella torre del castello di San Miniato, presso Pisa. Non si tratta di un condannato qualunque, ma di Pier della Vigna, l’uomo più vicino a Federico II. L’illustre arresto ha generato lo sgomento di molti, ma nessuno è in grado di dire perché l’Imperatore si sia scagliato contro colui che era ritenuto il suo suddito più fedele. I sostenitori del potere papale, nemici di Federico, intendono strumentalizzare l’episodio per tacciare l’Imperatore di spietatezza. Ed è proprio uno di questi, un giovane francescano, ad incontrare Pier della Vigna per raccogliere le sue confessioni.
Inizia così un racconto lungo venticinque anni... un quarto di secolo in cui la scena europea è dominata da un unico protagonista: Federico II, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero... un sovrano colto e dinamico, protettore delle arti, fautore di riforme e amico di ebrei e musulmani. Un uomo che però ha un sogno: dominare l’intera cristianità avvalendosi di ogni mezzo. Un sogno uguale e contrario affascina tuttavia anche il papa, ed è chiaro che Federico non avrà vita semplice.
Il Regnum, a cento anni dalla sua creazione, si trova così ad un bivio: da un lato vi è la possibilità che i suoi princìpi di tolleranza e di governo si diffondano in tutta Europa sotto l’egida dell’illuminato Imperatore... dall’altro rischia di scomparire, risucchiato nella vorticosa guerra tra guelfi e ghibellini... tra Federico, i comuni della Lega lombarda e il papa.
La narrazione di Pier della Vigna va avanti e il mistero della sua condanna si infittisce sempre di più. Emerge allora la figura di una donna, una poetessa ascesa alla corte di Federico e desiderosa di far parte di quel circolo di rimatori che sarà conosciuto come La Scuola Siciliana. Il suo viso è angelico, ma il suo cuore è ambizioso! Selvaggia dovrà guadagnarsi il posto che le spetta convincendo i poeti di Federico che una donna è perfettamente in grado di scrivere rime d’amore. Tuttavia, di fronte al pregiudizio di quegli uomini, la sua emancipazione sarà un compito arduo!
Anche Pier della Vigna è un poeta e presto Selvaggia cattura il suo cuore, mentre al contempo dona a Federico notti d’amore, intendendo garantirsi la sua permanenza a corte. Questo dovrebbe bastarle, ma dal suo scandaloso passato vengono fuori delitti e sogni... immensi e incontenibili, proprio come quelli del suo Imperatore!

Il romanzo segue l’intera vicenda di Federico II di Svevia, dalla sua ascesa alla sua morte, non tralasciando di soffermarsi sulle sue passioni: la caccia, la poesia, le donne... metafore della sua stessa natura. Eppure è una narrazione fatta di “se” e di “ma”, a sottolineare come quel periodo particolare della storia d’Italia costituì davvero un bivio: da un lato l’Impero, dall’altro il papato. Un’epoca fatta di battaglie, di intrighi, di scontri ideologici, di sporca propaganda e soprattutto di scelte... ovvero di ciò che più di tutto plasma il destino di un uomo, così come di un re e della sua gente.
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita31 lug 2021
ISBN9788835426905
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    Anteprima del libro

    La Dama Eloquente - Vita E Destino Di Federico II - Giovanni Mongiovì

    PARTE I - L’ULTIMO CANTO DEL MUEZZIN

    Capitolo 1

    Primavera 1225, rocca di Entella

    Per Nadira il canto dei muezzin aveva perso il bel tono dei tempi passati. Le sembrava quasi un lamento, un’angosciosa richiesta d’aiuto al Cielo, e in luogo dell’invito alla preghiera le pareva di sentire echeggiare la seguente frase: Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

    Queste parole facevano parte di una delle poesie di ibn Ḥamdīs, il più illustre dei poeti saraceni di Sicilia. Costui era vissuto un secolo prima e nella sua giovinezza aveva conosciuto la guerra e l’esilio; da qui scaturivano parole così ricche di tristezza.

    Seppur abitasse ancora nella sua terra, Nadira provava gli stessi sentimenti di quel nostalgico poeta. Li avvertiva in petto perché sapeva che la sua fine, la fine di tutti i saraceni di Sicilia, era prossima. Per certo Allah, Dio loro, doveva avere disegni diversi per questi figlioli suoi, disegni imperscrutabili... o forse stavano per pagare la colpa del loro peccato, quell’essere stati sempre troppo poco osservanti dell’ortodossia coranica.

    Nadira aveva passato da qualche tempo i trenta, ma conservava lo stesso sguardo fiero e sprezzante della vita tipico della gioventù più bella. Era vedova da poco meno di due anni e suo figlio era ancora troppo giovane per prendere le redini della famiglia. Nadira osservava il tramonto sporgendosi dalla rocca di Entella, pensando alla resa... meditando la sua vendetta.

    Forse avrebbe dovuto sottomettersi e giurare fedeltà a Federico... in fondo lui era il Re di Sicilia e l’Imperatore dei cristiani, nominato direttamente da Dio al più alto incarico riservato ad un uomo. Ma c’era un problema, Nadira non era cristiana e il Dio che aveva nominato Federico non era il suo. Per di più nei suoi occhi neri era possibile vedere bruciare il fuoco della vendetta, un indomabile rancore che cuoceva la sua anima da due anni.

    Nadira era la figlia di Mohammed ibn ‘Abbād, chiamato da tutti Morabit⁷, e detto Benavert da chi desiderava sottolineare la sua provenienza. Egli era proprio il discendente di quel Benavert, signore di Siracusa e ultimo degli emiri di Sicilia, che a suo tempo aveva saputo tener testa al primo Ruggero. I suoi antenati si erano rifugiati in Africa dopo la caduta di Noto nel 1091, ma erano ritornati sull’Isola dopo qualche decennio. Uno di questi, un certo Kamal, si era stabilito a Giato⁸, e qui i suoi figli, e i figli dei suoi figli, avevano vissuto in pace per molti anni, godendo della tolleranza e della protezione dei re normanni. Quando però il Regno era rimasto sprovvisto di governo a causa della fanciullezza di Federico, Morabit aveva compreso che il momento fosse propizio per riprendersi quello che più di centotrent’anni prima era stato tolto ai suoi avi. La sua ribellione non era tuttavia solo frutto dell’ambizione che spinge gli uomini a voler svettare sugli altri... Morabit vedeva il suo mondo scomparire e la posizione della sua gente diventare sempre più precaria. Le terre dei saraceni, numerosissime nella Sicilia occidentale, venivano da anni concesse alle grandi abbazie. E così i villani mori che lavoravano tali feudi finivano per essere asserviti dai nuovi padroni. Per i re di Sicilia quei feudi erano parte del demanio, destinati ad uso loro e di chi altri volessero concederlo, mentre i saraceni che vi abitavano erano semplicemente una risorsa. Gli abati, d’altro canto, facevano di tutto per accelerare la conversione dei loro villani, colpendoli direttamente nella fede, in ciò che era l’emblema della loro identità in quanto popolo distinto. In un clima del genere neppure i finti cristiani avevano più vita facile: chi tornava all’Islam poteva essere giudicato eretico, andando incontro alla scomunica e alla confisca. L’ipocrisia dei saraceni nascosti non pagava più come ai tempi dei re normanni.

    Morabit tutto questo lo aveva vissuto in prima persona, lì in quelle terre che appartenevano all’immensa abbazia benedettina di Monreale. Aveva visto anche il succedersi dei vari tutori del giovane Re, prelati inviati dal papa, cavalieri tedeschi e baroni nostrani, tutti alla ricerca di gloria in nome del sovrano bambino. In particolare aveva vissuto l’epopea di Marcovaldo di Annweiler, uno di quei tedeschi che l’Imperatrice Costanza aveva pensato bene di far espellere. Questi, volendo conquistare Palermo e prendere in ostaggio Federico, aveva chiesto aiuto proprio ai saraceni. In tale maniera villani e briganti si erano riscoperti un popolo unito, un’armata capace di tener testa a chiunque, un esercito al quale però mancava una testa della loro stirpe che sapesse convogliarli verso obiettivi a loro convenienti... un esercito che aveva bisogno proprio di Morabit. Molti si erano radunati allora attorno al nuovo emiro e, chi non l’aveva ancora fatto, aveva sciolto i legami che l’assoggettavano al proprio signore cristiano, andando ad ingrossare le fila dei ribelli. Gli uomini armati dei saraceni avevano superato presto le trentamila unità. Così si erano spinti fino a Palermo, saccheggiando l’ospedale di San Giovanni dei Lebbrosi, e si erano spinti fino a Girgenti⁹, dove avevano catturato il vescovo. Per quattordici mesi tale città non aveva avuto un porporato, fino a quando il vescovo non era stato liberato mediante riscatto. Divenuto famoso, Morabit aveva allora cominciato a battere moneta. Aveva perfino ricevuto lettere da papa Innocenzo III, il quale lo incoraggiava a non farsi abbindolare dell’amicizia dei baroni tedeschi, costola di Enrico VI e decisamente avversi al potere pontificio. Il vasto territorio di Morabit era stato presto conosciuto come la Marca Saracena. L’emirato era perciò stato ristabilito!

    Intanto cresceva Federico... Vista la necessità di un re con facoltà decisionali e le sue straordinarie capacità, a quattordici anni il giovane sovrano era stato emancipato all’età adulta ed aveva potuto liberarsi del peso dei tutori. Tuttavia, insieme all’età, erano aumentati anche gli impegni. Nel 1212 aveva dovuto lasciare il Regno per andare a prendersi la corona di re di Germania, o come si usa definirla, la corona di re dei Romani, propedeutica all’incoronazione ad Imperatore. Nel giro di qualche anno Federico aveva vinto i nemici ed aveva ottenuto tutto quello che poteva ottenere. Nel 1220 ritornava perciò a casa da Imperatore dei Romani, ovvero del Sacro Romano Impero, controllando un territorio che si estendeva dalla Toscana al Baltico e dalla Borgogna all’Austria, dominio che andava a sommarsi a quello del Regno di Sicilia.

    Ricordo bene quegli anni trionfali in cui Federico marciò sul Regno con in testa la nuova corona di Imperatore... allora muovevo i primi passi nella curia imperiale; erano gli anni dei miei entusiasmi come notaio.

    Forte dei suoi successi e possessore di un potere senza eguali, adesso Federico non aveva alcuna intenzione di tollerare quanti si erano approfittati della sua minore età e della sua assenza per allargare i propri feudi a danno della corona, fossero essi membri del baronato o i saraceni dell’autoproclamato emirato di Morabit.

    Nondimeno Federico sapeva bene quanto la stirpe degli islamici avesse fatto ricca e prospera la Sicilia dei tempi passati. Credeva inoltre di aver bisogno della loro sapienza nell’artigianato e nell’agricoltura per far grande ancora quella terra, e che la Sicilia dei suoi immensi disegni non potesse fare a meno dei saraceni. Oltre ad intrattenere intensi carteggi con i sultani d’oltremare, aveva concesso le armi per difendersi a quelli nostrani, stabilendo che nei suoi domini pure un islamico o un giudeo avesse il diritto di portare in tribunale un cristiano. Un’emancipazione senza precedenti che però non aveva dato i risultati sperati. Quelli, i saraceni, continuavano a ribellarsi e a fuggir via dai loro padroni per unirsi a Morabit... e alla fine l’Imperatore dovette far loro la guerra.

    Riscosse i denari necessari, chiamò alle armi le forze dei baroni e intraprese una lotta senza tregua contro i saraceni ribelli. Bruciò i loro raccolti e ne costrinse molti alla resa per fame. Nell’estate del 1223 cinse d’assedio Giato, prese quindi Morabit, due figli suoi, suo genero e pochi altri ancora e li fece impiccare nella pubblica piazza di Palermo. Poi deportò gran parte dei saraceni arresi in terra di Puglia, in quella città di Lucera rimasta priva di vescovo a causa di un terremoto che aveva raso al suolo la cattedrale.

    Ben presto Lucera divenne un centro saraceno nel bel mezzo d’Italia, e i suoi abitanti divennero i principali sostenitori di Federico. L’Imperatore, sempre affascinato dal loro mondo, li aveva perdonati, aveva dato loro una casa e delle terre, e ne aveva inquadrato gli uomini nella sua guardia personale.

    Chi non poteva gioire era Nadira, unica figlia di Morabit, così fiera e desiderosa di vendetta da considerare un’offesa quel trattamento di favore. Per di più sosteneva la tesi che suo padre fosse stato preso con l’inganno, in quanto imprigionato ed impiccato dopo la promessa di un salvacondotto per l’Africa. Nadira, che portava lo stesso nome di una sua ava, la favorita di quel Benavert Signore di Siracusa che aveva combattuto per la sopravvivenza dell’emirato, da due anni capeggiava la resistenza reggendo la rocca di Entella.

    Nadira era una madre ed era stata una moglie. Al suo compagno e proprietario aveva sempre mostrato la sottomissione richiesta alle donne devote, e ancora adesso si copriva il capo e il volto in presenza di altri uomini. Nadira tuttavia si faceva forte del proprio sangue, lo stesso di Morabit, e non avrebbe permesso mai a nessuno di usurpare il suo ruolo; un’eccezione ai costumi delle donne saracene capace di suscitare meraviglia.

    La roccia bianca della rocca era completamente un fuoco sotto i raggi dell’intenso tramonto, e adesso un viaggiatore solitario si inerpicava per la salita che conduceva alle fortificazioni. Vedendo la cavalcatura avanzare, Nadira riconobbe l’inconfondibile dondolio delle sue spalle, quindi rientrò e lo attese nei suoi ambienti.

    «Ismail!» esclamò quando fu a tu per tu con lui.

    Quell’altro affrettò il passo e si apprestò ad abbracciarla.

    «Forse dovrei nascondere il mio volto dai tuoi occhi, sorella.»

    «Che mi importa del resto quando posso riabbracciarti?»

    Ismail era il fratello minore di Nadira, figlio della stessa madre, ed aveva capeggiato i ribelli congiuntamente alla sorella per quasi un anno dopo la morte di Morabit. Prima dell’ultimo inverno era poi partito per Tunis¹⁰, sperando di poter unire alla loro causa disperata Abū Muḥammad, governatore dell’Ifrīqiya¹¹ per conto degli almohadi¹².

    Al contrario di Morabit, che aveva fatto causa comune con alcuni manigoldi genovesi, Nadira e Ismail avevano rivolto le loro richieste d’aiuto a chi avrebbe dovuto avere a cuore le sorti dei loro correligionari.

    Ismail si srotolò il tubante, si lisciò la nera barba e spiegò:

    «Non hanno nessun interesse ad entrare in conflitto con Federico. La cancelleria imperiale invia messaggi d’amicizia a Tunis e all’intero mondo dei fedeli. Federico gode più stima tra gli islamici che tra gli stessi cristiani!»

    «Forse le motivazioni del Cielo non valgono più dell’oro?»

    «Mi è stato risposto che Federico non ci ha ingiuriato in alcun modo, che sarebbe saggio comportarci da buoni sudditi... oppure emigrare. La guerra che l’Imperatore ci ha mosso non costituisce una minaccia per la fede, ma è solo un legittimo modo per placare la nostra ribellione.»

    Nadira si lasciò cadere di peso sul divano.

    «Ce l’aspettavamo, sorella.» commentò Ismail.

    «Dovevamo provarci.»

    «Forse... se fosse andato qualcun altro...»

    «Qualcun altro sarebbe stato meno del figlio di Mohammed ibn ‘Abbād! Non crucciarti, fratello... hai solo ventitré anni, eppure hai portato a compimento più cose di quante ne avesse portate a compimento nostro padre alla tua età.»

    «Che faremo adesso?» domandò lui, avvicinandosi al divano e accarezzandole una guancia dall’alto.

    «Esistono molte vie per l’uomo che vive in pace, eppure esiste una sola via per chi ha scelto di difendere il suo onore.»

    «La percorrerò con te, sorella!» concluse Ismail, baciandola sulla fronte.

    «La percorreremo insieme... Adesso riposati, poi domani parti, va’ da tua moglie e da tuo figlio; meritano di rivederti tanto quanto lo meritassi io. Sta’ con loro almeno una settimana e dunque, quando sarai tornato, decideremo insieme.»

    Dopo molte altre parole d’affetto, Ismail si ritirò per riposare.

    Nadira invece rimase sveglia e pensierosa per molte ore. L’unica via a cui si riferiva, quella che avrebbe dovuto difendere il suo onore, era il martirio. Lo meritava suo padre, lo meritavano i suoi fratelli e lo meritava il padre dei suoi figli. Ma chi o cosa avrebbe sacrificato nella sua vendetta personale? Pensò agli abitanti di Entella¹³... Molti se n’erano già andati, tutti coloro che non avevano risposto al suo invito a sacrificarsi per vendicare Morabit. Chi vi rimaneva erano quindi coloro che avevano giurato per la sua causa, oltre ad un numero cospicuo di famiglie del luogo che, tra ingenuità e testardaggine, avevano deciso di restare.

    Nelle prime ore della mattina Nadira giunse alla sua decisione. Chiamò il suo scrivano e dettò le parole da rivolgere a Federico. Nadira si arrendeva!

    Proponeva all’Imperatore un piano: ella nottetempo avrebbe permesso l’ingresso segreto di trecento soldati, e questi avrebbero preso la città dall’interno, col minimo dispendio di sangue e di vite. Così facendo Nadira avrebbe inoltre salvato la sua faccia dalla pubblica vergogna, in quanto tradiva nel silenzio.

    Ignaro di tutto, Ismail lasciava Entella a metà mattinata. Un’ora prima aveva fatto lo stesso il messaggero recante l’offerta di resa dell’ultimo baluardo dell’emirato redivivo dei saraceni siciliani.

    Capitolo 2

    Primavera 1225, dintorni di Alcamo

    Ismail giunse presso la città che gli arabi chiamano al-Qamah¹⁴ a sera inoltrata. Sua moglie e suo figlio si trovavano proprio lì, in una delle case satelliti di una grande villa immersa nelle fertili terre del contado alcamese. Si trattava della proprietà di un tale Vincenzo, stimato balivo¹⁵ di Federico, amministratore dei possedimenti reali della zona e giudice delle controversie legate agli interessi dell’Imperatore.

    Vincenzo, detto appunto d’Alcamo, aveva raggiunto da poco i settantacinque anni, ma solo negli ultimi tredici si era ritirato in quella contrada del Val di Mazara¹⁶, ritenendo il peso degli spostamenti e la vitalità del giovane Re troppo gravosi per la sua ragguardevole età. Quando perciò Federico era partito per la Germania, lui aveva lasciato la corte e si era stabilito nella sua città, proprio sulla quale gli era stata concessa la giurisdizione. Dopo qualche tempo, avvertendo forte il senso della solitudine, si era fatto poi un regalo: aveva preso in moglie una giovanissima donna dai nobili natali. Questa si chiamava Selvaggia e al momento della sua unione col vecchio Vincenzo aveva solo dodici anni.

    Ismail giunse sull’uscio di casa e Maryam, sua moglie, quasi stentò a credere che quello davanti a lei fosse il giovane marito. Erano tempi di guerra e lei aveva immaginato il peggio.

    Si fecero poi strada tra le sue gambe i tre figli di Nadira, due femmine e un maschio, e l’unico di Ismail. Il bimbo aveva appena un anno e non poteva ricordarsi dell’uomo che a pochi mesi di vita era partito per quel lungo viaggio. Ovviamente l’accoglienza fu gioiosa; Maryam era una donna asservita e ospitale, che amava genuinamente il suo compagno. Ma come se non bastasse l’aver riabbracciato la donna che aveva sposato e che tanto si prodigava per lui, Ismail volle dare retta ai suoi ciechi sentimenti.

    Ismail e Selvaggia si amavano sin da ragazzini, sin dall’arrivo di lei alla villa, quando lui di anni ne aveva quattordici. Le terre del Val di Mazara erano già allora infestate dai saraceni di Morabit, ma il balivo Vincenzo riusciva a tenere a bada soldati e banditi esentando i villani mori dalle gabelle e chiudendo un occhio sulle loro attività predatorie. Morabit d’altro canto stimava il balivo e aveva proibito a chiunque dei suoi sudditi di toccare qualunque cosa gli appartenesse.

    Disattese però l’ordine il suo figlio minore, Ismail, quando, incuriosito dalle voci sulla bellezza della giovane moglie del balivo, si intrufolò nella villa per sbirciare. La curiosità quel giorno lo ripagò abbondantemente... E d’altronde, come si può tenere a freno il cuore di un ragazzino sospinto dal desiderio di afferrare qualcosa? Ismail riuscì ad incontrarla appena il giorno dopo, e passata una settimana, all’ombra di un fitto palmeto, le aveva già rubato il primo bacio. Passati due anni la passione aveva consumato completamente entrambi. Tuttavia il destino di Selvaggia era già segnato e così Ismail aveva acconsentito al volere di suo padre sposando la coetanea Maryam. Da quel momento le vite dei due amanti si erano separate e rincontrate molte volte, fino a quando, infuriando la guerra di Federico, Selvaggia non aveva fatto in modo di ospitare la moglie gravida del suo uomo. C’entrava poco la pietà, che pur c’era... in tale maniera Selvaggia creava un legame tra lei e Ismail, un pretesto per il quale lui sarebbe dovuto ritornare spesso da quelle parti. Morto Morabit si erano inoltre aggiunti anche i figli di Nadira, ma alla padrona di quelle terre poco importava di chi altri si rifugiasse presso di lei, purché potesse avere il suo Ismail.

    La mano di Maryam trattenne il braccio del marito un attimo prima che lui si alzasse definitivamente dal letto.

    «Almeno questa notte...» lo pregò, consapevole delle sue intenzioni.

    Ma lui, completamente perso per la donna del balivo, lasciò la casa e si diresse verso l’edificio padronale.

    Cento candele illuminavano la casa e Selvaggia, vestita di una lunga vestaglia, ricevette di persona Ismail sulla porta.

    «Me lo hanno detto i giardinieri.» esordì lei, informandolo su come facesse a sapere del suo ritorno.

    E Ismail, avanzando nella sala d’ingresso con aria circospetta, chiese:

    «Lui dov’è?»

    «Di là... dove se ne stava l’ultima volta. Non curartene!»

    Conseguentemente i muscoli di Ismail si sciolsero dalla tensione.

    «Ho congedato anche la servitù.» rincarò Selvaggia, provocando nell’altro un fuoco che non seppe più trattenere.

    Consumatosi l’incendio, restava solo la brace... I due, immersi nel profumo dei petali di rose, coperti solo da lenzuola di seta, si scambiarono per lunghi minuti gesti d’affetto. Poi, ad un certo punto, Ismail interruppe la sua opera e disse:

    «Odio quell’uomo! Non posso immaginare quali sorta di capricci ha preteso da una donna così giovane e bella.»

    «Invero le sue richieste sono state poca cosa se paragonati a tutto quello che ha fatto per me. Il balivo non ha figli e il suo unico erede, suo nipote Cheli, non è stato mai interessato alle scienze notarili. Ha perciò istruito me... e non solo su come annotare nomi e numeri, ma anche nell’arte della scrittura illustre e della poesia.»

    «A cosa ti servirà sapere tutte queste cose quando lui morirà?»

    «La poesia non serve a vivere, ma a sognare. Non mi servirà a nulla, ma forse renderà la mia vita più dolce ed illusa.»

    «Non basto io per tutto questo?» fece lui, sorridendo e avvicinandosi per baciarla.

    Lei allora si divincolò e, mettendosi in piedi, mentre stringeva il lenzuolo al seno, cominciò a recitare:

    «Sunnu dui miliara li patimenti

    chi eu haju ‘n cori a tutti l’uri,

    timuri, scanti, morti e spaventi;

    eccu lu meu suspiratu amuri!

    Non trova in Iddiu pirdunanza,

    ma sì fort’è di disïu e vita

    tantu chi poti dari sicuranza

    a la paura ch’eu sentu ‘nfinita.

    Torna l’omu meu, grandi cavaleri,

    veni cu vistimenti di suldanu,

    dunca ‘n lu meu cori fa di paceri,

    di lu meu distinu è capitanu.¹⁷»

    Ismail, ancora con la testa sul cuscino, la guardò perplessa.

    «Devo ancora completarla...» si giustificò Selvaggia, credendo di non essere stata apprezzata.

    «Chi ha visitato questa casa mentre ero lontano? Le rime non sono mai rivolte alla propria donna...» scherzò Ismail.

    «Ma io le ho rivolte ad un uomo!»

    «Non vale forse la stessa regola?»

    «Tra uomini e donne... temo di no, Ismail! Tu sposasti tua moglie quando già facevi l’amore con me.»

    «Sei ingiusta!»

    «È la vita ad essere ingiusta... io ti dico solo la verità.»

    «La verità... chi l’ha mai saputa la verità?» concluse lui, prima di alzarsi e di recarsi alla finestra.

    Ismail era sufficientemente muscoloso e più alto della media. Vestiva sempre elegantemente e curava con dovizia i ricci scuri e la folta barba. Ora mostrava le sue larghe spalle a Selvaggia, che intanto nuda si rimetteva la vestaglia.

    Se l’aspetto di Ismail era quello degli uomini che hanno forgiato il proprio corpo tra le sabbie del deserto, la fisionomia di Selvaggia rispecchiava l’origine dei suoi antenati nordici. Aveva pelle chiara e tratti morbidi, rotondi... occhi verdi e capelli di un castano tendente al rossiccio. Inoltre come donna era molto alta. Selvaggia era chiaramente discendente di quei normanni che per un secolo avevano dominato l’Isola. Ma al di là delle considerazioni di sangue, Selvaggia era l’essere più sublime che natura potesse concepire... tanto splendida che un uomo di lettere come me, avvezzo alla descrizione di ciò che umanamente non si può spiegare, potrebbe renderle onore solo tacendo.

    «Riconsidera allora le tue scelte, Ismail... in virtù di una verità che non puoi conoscere.»

    «Abbiamo giurato di morire...» spiegò lui, voltandosi per guardarla in viso.

    «Per cosa, Ismail? Per la gloria dello stesso Dio che a Tunis si sono rifiutati di onorare?»

    «Per mio padre! E per l’inganno con cui mi è stato tolto.»

    «Ma lui non lo vorrebbe. Così come non lo desidero io...»

    «Cosa resta di buono nelle nostre esistenze se togliamo l’onore?»

    «Resta l’amore...» rispose lei, elargendogli una carezza mentre due lacrime le scorrevano in viso.

    «Tu e il tuo cuore, Selvaggia!» esclamò lui, infastidito da quelle parole capaci di indebolirlo.

    «Le scelte di tua sorella non devono essere per forza le tue. Tu hai me... lei non ha nessuno!»

    «Durante la mia assenza Nadira è ascesa alla guida degli uomini irriducibili di mio padre... mentre tu scrivevi poesie.»

    «Lo facevo pensandoti, Ismail, ed essendo in pena per te. Non voglio piangerti!»

    «Piangerei io il mio onore, uccidendo due volte mio padre!»

    Selvaggia si sedette sul letto, guardò il pavimento e concluse:

    «Donami allora dieci giorni, Ismail, i migliori e più intensi che tu possa darmi.»

    «Ho detto a Nadira che sarei ritornato ad Entella tra una settimana, ma io conto di partire già dopodomani.»

    «Dieci giorni, Ismail... Che cosa sono per te dieci giorni quando mi si prospetta tutta una vita di assenza?»

    Selvaggia glielo chiedeva con gli occhi pieni di lacrime.

    «Una settimana.» sentenziò lui.

    «E sia.» cedette lei, certa che nell’affare avesse avuto la meglio.

    Capitolo 3

    Primavera 1225, dintorni di Alcamo

    Di suo padre Selvaggia ricordava solo una mano molto anziana scorrerle sulla guancia. E d’altronde non avrebbe potuto ricordare molto altro, dal momento che questi era morto quando lei aveva appena tre anni. Rammentava quella mano, ma non il suo viso. Conosceva il suo nome, Barnaba, ma non i suoi ascendenti.

    Forse era per questo motivo che Selvaggia era riuscita a sopportare il suo matrimonio, perché, come Vincenzo, anche suo padre era stato un uomo straordinariamente anziano. Quel ricordo, quella mano, l’aveva ritrovata quindi nel vecchio balivo. L’amore era un’altra cosa, ma provava affetto per Vincenzo... qualcosa di simile all’affetto per un padre.

    Selvaggia era figlia di un uomo che al momento della sua nascita aveva settantasette anni. A quell’età è già difficile arrivarci, figuriamoci concepire una nuova vita. Nella piccola isola di Marìtima¹⁸ l’evento era stato accolto perciò come un miracolo.

    La modesta popolazione dell’isola più occidentale del Regno era composta perlopiù da saraceni, da pochi convertiti, da una piccola guarnigione di soldati e dalla famiglia del signore del luogo, un uomo di origine normanna dal modesto lignaggio. Barnaba, che sull’isola già ci viveva, aveva sposato proprio la figlia del signore di Marìtima alcuni anni dopo la morte della sua prima moglie.

    Ecco tutto ciò che c’era da dire su Selvaggia... Quel pomeriggio, tuttavia, quello del terzo giorno dall’arrivo di Ismail, la giovane moglie del balivo dell’Imperatore avrebbe imparato qualcos’altro sul suo conto.

    Si presentarono due tizi a cavallo, il primo ventenne, l’altro sulla cinquantina. Il più giovane anticipava il più vecchio, mentre la bestia sulla quale quest’ultimo se ne stava veniva condotta dal primo per mezzo di una fune.

    Selvaggia era stava avvisata e attendeva già innanzi all’ingresso della casa patronale.

    Ismail, inseparabile da tre giorni, in barba alla vergogna e al buon senso, se ne stava poco più in là.

    Non appena i due fermarono le proprie cavalcature, la padrona di casa rientrò e diede ordine alla servitù di farli accomodare.

    Selvaggia, seduta già su una poltrona, adesso li vide oltrepassare la porta. Erano entrambi alti e il più giovane era di bell’aspetto. Si comprendeva la parentela, anche se non era possibile rassomigliare lo sguardo di uno a quello dell’altro. Il più vecchio, infatti, portava una benda nera su entrambi gli occhi. Reggeva anche un bastone, cosa che esplicava palesemente la sua cecità. Dagli occhi verdi del più giovane si poteva comunque immaginare l’aspetto dell’altro, per certo piacevole e rassicurante. Si somigliavano molto e i capelli neri del ragazzo lascivano supporre che un tempo quelli grigi dell’altro erano stati parimenti corvini. Inoltre vestivano abiti eleganti, ma di gusto passato ed in parte consumati, segno di una nobiltà decaduta.

    «Padre, credo sia lei...» suggerì il figlio a bassa voce, prima di sorridere per il disagio.

    Tra la padrona e gli ospiti non si era ancora detto niente, eppure l’uomo bendato chiese al suo accompagnatore:

    «Com’è? Descrivimela, figliolo!»

    Selvaggia si mise in piedi, confusa e perplessa. Credeva si trattasse di clienti desiderosi di interloquire con suo marito, ed invece quelli erano lì proprio per lei.

    «La pelle è chiara, luminosa, e i tratti del viso sono morbidi. È ben proporzionata e di statura sufficientemente alta.»

    «Gli occhi... dimmi degli occhi!» spronò l’uomo con la benda.

    «Da qui sembrano verdi, padre.»

    «Di che colore sono i suoi capelli?»

    «Porta un velo azzurro sul capo.»

    «È bella, figliolo?»

    Quello fissò gli occhi di Selvaggia e provò imbarazzo nel pronunciare la prossima risposta.

    «È molto bella...» concluse poi col nodo in gola.

    «Perché non dice nulla? Portami vicino a lei!»

    Selvaggia rimase immobile, impassibile di fronte allo strano atteggiamento dei due sconosciuti. Il tono della voce dell’uomo più anziano era tuttavia sincero, quasi commosso, per cui non fece nulla per respingere i loro gesti e le loro intenzioni.

    L’uomo con la benda fu ora a mezzo passo da Selvaggia, tanto vicino da poter sentire il respiro concitato della giovane donna. Allungò quindi le mani e prese a passarle sul viso di lei.

    Ismail fece un passo avanti, ma Selvaggia, alzando una mano, gli fece capire di starsene buono.

    «Ho sempre dubitato che un uomo prossimo agli ottant’anni potesse aver concepito un figlio, ma ora che le mie mani vi vedono...»

    Dunque il forestiero ammutolì e cominciò a tremare.

    Selvaggia, preoccupata, fece un passo indietro.

    «Roberto... aiutami, figliolo!»

    Il figlio si catapultò sul padre e lo aiutò a sedersi.

    «Acqua!» richiese ancora l’uomo con la benda.

    Selvaggia fece segno alla serva e questa si adoperò per dissetare lo sconosciuto.

    «Chi siete?» chiese ora la moglie del balivo, rivolgendosi al figlio.

    «La domanda, mia cara, non è chi siamo noi... ma chi siete voi! Il vostro volto mi ridesta alla mente la mia amata sorella. Si chiamava Adelicia... ne avete sentito parlare?» rispose invece il padre.

    Selvaggia scosse la testa, ma poi, rendendosi conto che quello non potesse vederlo, disse:

    «No... mai sentito nulla.»

    «Quindi non sapete davvero chi siamo?»

    «Mia madre mi accennò poche cose riguardo alla prima vita di mio padre. Forse voi...»

    Selvaggia non seppe più continuare e si portò le mani sulla bocca.

    «Continua, figliola!»

    «Siete l’uomo a cui mio padre affidò la mia persona, colui che ha contrattato il mio matrimonio col balivo. Rodolfo... siete voi?»

    «Sì, sono vostro fratello!»

    A ciò lei lasciò immediatamente la stanza, turbata e confusa.

    Era per il bene o per il male che la vita di suo padre si presentava così improvvisamente? Aveva sempre creduto che per Rodolfo lei fosse solo una scocciatura, ed ora invece questi le rivolgeva parole d’amicizia.

    Datasi un contegno, Selvaggia ritornò nella stanza e si accomodò di fronte ai due.

    «Iniziate col dirmi il vero nome di mio padre. Era un ricercato, non è vero?» chiese tutto d’un fiato, intendendo approfittarne per fugare i dubbi che da sempre l’accompagnavano.

    «Era uno di quegli uomini che finiscono per essere odiati per aver fatto il bene. Si chiamava Roberto, come mio figlio, e si era rifugiato a Marìtima perché il mondo l’aveva deluso. Qui intendeva ritrovare sé stesso in pace e in serenità. Mia madre gli fu accanto per alcuni anni, ma abbandonò questa vita perché il suo cuore non poté sopportare le cattive notizie. Lui la pianse per molto tempo, ma poi, invecchiato, desiderò il sostegno di una nuova moglie... ed è così che veniste al mondo voi.»

    «A cosa vi riferite quando dite che vostra madre non poté sopportare le cattive notizie?»

    A ciò Rodolfo si tolse la benda e mostrò le sue palpebre corrugate.

    Dovete infatti sapere, frate, che dalle nostre parti l’accecamento è un’arte in voga da ormai sessant’anni, la quale non è stata ancora scalzata da altra forma di tortura, come potete ben vedere dalle fresche bende che porto sul viso...

    «Prima gli occhi me li cavarono... e poi li bruciarono con un ferro rovente. Ma altra sorte capitò ai miei fratelli... Giordano, il primogenito di mio padre, morì in battaglia durante la ribellione contro Enrico. Adelicia, mia sorella, venne resa prima vedova, e poi fu deportata in Germania per essere data in moglie ad uno dei baroni tedeschi amici dell’Imperatore. Morì due anni più tardi, dando alla luce un bambino. Della sua prima figlia, portata con lei oltre le Alpi, non ne seppi più nulla. La mia famiglia è stata completamente sterminata!» spiegò Rodolfo.

    Selvaggia non riuscì a dire più nulla. Tuttavia Roberto, comprendendo l’imbarazzo della loro interlocutrice, intervenne:

    «Padre, forse è meglio andare al dunque.»

    E questi, reggendogli un braccio, rispose:

    «Sì, è meglio... è meglio.»

    «Vostro marito... dov’è vostro marito?» chiese ora Rodolfo.

    «Fuori, da un paio di giorni.» rispose di getto Selvaggia.

    Roberto gettò automaticamente un’occhiata a Ismail. Quel tizio, che così poco aveva l’aspetto di un servo, non lo convinceva per nulla.

    «Quando tornerà?»

    «Il balivo non rispetta mai la data del rientro. Aveva detto una settimana... però, chissà!»

    «Bene, aspetteremo! Abbiamo fatto un viaggio troppo lungo e faticoso, e non ho nessuna intenzione di ripeterlo. Ho ancora molto da dirvi, sorella, e sono sicuro che voi saprete mostrarci la buona ospitalità di cui si parla riguardo agli abitanti di Marìtima.»

    Selvaggia guardò Ismail. La sua mano fece quindi un gesto involontario, nervoso.

    «Questa casa vi accoglierà per tutto il tempo che lo desidererete, ma da parte mia non sarebbe giusto trattenervi per un tempo così incerto. Se avete qualche richiesta da fargli, parlatene pure con me, ed io gli riferirò ogni cosa quando rientrerà.»

    «No, davvero... aspetteremo.»

    Selvaggia si mise in piedi, fissò la serva che reggeva la brocca con l’acqua e le disse:

    «Hai sentito? Le migliori stanze per i nostri ospiti!»

    Quella chinò il capo e lasciò i presenti.

    Rodolfo allora si spinse in avanti e prese le mani della giovane sorella.

    «Ve ne sono grato.» le disse.

    «Sono io ad esservi grata... per la vostra presenza.»

    «Il balivo mi deve un favore.» cambiò discorso Rodolfo dopo pochi secondi.

    «Per cosa?» domandò Selvaggia, ma il sorriso di suo fratello era già la risposta.

    «Mio padre mi aveva vincolato alla responsabilità di darvi un avvenire. Così, quando per pura casualità seppi che il balivo di Alcamo cercava una fanciulla

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