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La pergamena di bronzo
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E-book597 pagine8 ore

La pergamena di bronzo

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Info su questo ebook

Nel 1098 nella città di Mira viene trafugata da un cavaliere ospitaliero " la pergamena di bronzo", che la leggenda vuole scolpita dal diavolo in persona e per questo intrisa di poteri malefici. Centocinquanta anni dopo la sua storia viene riscoperta da un bambino: Gualtiero Varaldi. Assieme a 2 compagni, con cui consoliderà una profonda amicizia, vivrà per sette anni in un convento sotto la dura disciplina di abate Giovanni e i validi insegnamenti di frate Tommaso. Riscattato in gioventù, sarà nominato siniscalco di corte. Nel 1253 gli verrà affidato il controllo dei lavori di una chiesa in costruzione, all'interno della quale poco dopo verrà commesso un sacrilegio. A Genova, a far luce sulla vicenda, verrà inviato un inquisitore. Tra colpi di scena, incontri inaspettati e situazioni avventurose, Gualtiero, nella sua personale ricerca della verità, vivrà alterni momenti tra fede, ragione e blasfemia, e le vicissitudini che dovrà affrontare lo porteranno nuovamente sulle tracce de " la pergamena di bronzo".
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2022
ISBN9791221417371
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    Anteprima del libro

    La pergamena di bronzo - Giancarlo Rattotti

    Cenni storici

    Dopo i fasti e i successi mercantili ottenuti con la partecipazione alla prima crociata indetta da papa Urbano II nel 1095, e le successive due del XII secolo, per la repubblica di Genova, costituitasi ufficialmente nel 1097 come Compagnia Communitis, fu il XIII secolo uno dei periodi di maggior splendore economico e commerciale, durante il quale venne affermandosi come grande forza navale del mediterraneo, assieme a Pisa e alla repubblica di Venezia.

    Con queste due grandi repubbliche marinare Genova fu sempre in contesa, e questo portò nel 1206 allo scontro con Pisa per il predominio sulla Sicilia e nel 1210 con Venezia, protesa nel tentativo di cacciare dall'isola di Creta l'ammiraglio Enrico conte di Malta che l'aveva occupata e che, non resistendo con le sue forze, aveva chiesto l'aiuto di una flotta genovese.

    Grazie anche all'intervento del pontefice Innocenzo III, le contese tra le repubbliche si conclusero con un accordo di pace e tutte si ritrovarono, nel 1219, a partecipare alla quinta crociata d'Egitto, che iniziò con la conquista di Damietta e finì con la disfatta del Nilo, e che le vide costrette al ritiro e alla restituzione della città.

    L'anno successivo, con la discesa in Italia di Federico II per l'incoronazione a imperatore, Genova perse i suoi diritti in Sicilia e a Malta, pur mantenendone i commerci marittimi. Nel suo passaggio in Italia, Federico II invitò i rappresentanti della repubblica genovese ad assistere alla sua incoronazione, ma questa, amante della propria autonomia ottenuta con audacia nei confronti del Barbarossa, rifiutò, al contrario di Pisa che si legò alla sovranità imperiale.

    L'affronto all'imperatore provocò l'inizio, da parte di quest'ultimo, di una politica sempre più a favore della repubblica pisana e il tentativo di sollecitare, inoltre, alla rivolta i feudatari delle riviere. L'atteggiamento ostile verso Federico aleggiava, ormai, in buona parte d'Italia, già divisa dalle contese locali tra guelfi (sostenitori dell'autonomia e del potere papale, che a Genova si chiamavano Rampini) e ghibellini (sostenitori della ricostituzione dell'impero, a Genova chiamati Mascherati) ed ebbe la sua più alta espressione nella costituzione della seconda lega lombarda, alla quale tra l'altro Genova non aderì per puri interessi economici. Nel 1233, tre anni dopo il ritorno dall'ultima crociata in Terra Santa, una crociata sacrilega in quanto fu scomunicato dal Papa, Federico chiese agli ambasciatori genovesi di rinunciare al podestà milanese, che era alla guida della città. Genova si rifiutò e ne scaturì una rappresaglia del monarca con la confisca di molti beni della repubblica in tutto l'impero.

    Fu l'inizio della guerra che vide Genova affiancarsi addirittura a Venezia, sollecitata da papa Gregorio IX, e alla lega lombarda costituitasi nel tentativo di arrivare alla definitiva sconfitta dell'imperatore.

    Nel 1241 papa Gregorio IX, in occasione del concilio generale pasquale romano, chiese a Genova di trasportare per mare le più alte cariche ecclesiastiche europee. La presenza dei Mascherati in città provocò una fuga di notizie che portò a una pesante sconfitta della flotta genovese, la quale venne sorpresa all'isola del Giglio dalla flotta pisana e da quella imperiale. Molte galee vennero distrutte e innumerevoli furono i prigionieri.

    Il concilio papale fallì e l'obiettivo di Federico fu raggiunto.

    La guerra si protrasse fino al 1247 quando la ribellione di Parma, alla quale si affiancarono milizie della lega lombarda e Genova stessa con seicento balestrieri in prima linea, mise fine al sogno imperiale. Federico fu sconfitto, ma ci ritentò un anno dopo a Fossalta di Modena, luogo che segnò, però, la sua definitiva disfatta. Non fu lo stesso per Pisa, con cui Genova tornò a scontrarsi con alterne vicende per il possesso di Lerici, tra il 1250 e il 1256.

    Fu questo uno dei periodi più floridi della storia di Genova in campo economico e commerciale, suggellato nel 1252 con la coniazione della prima moneta aurea dell'occidente dopo molti secoli: il genovino d'oro, che anticipò, seppur di tre mesi, il più conosciuto fiorino di Firenze.

    Gli scambi mercantili con le terre d'oriente e del nord Africa furono intensissimi e si rafforzarono dopo la deludente crociata in Terra Santa, la settima, fermamente voluta dal re di Francia Luigi IX e dal pontefice Innocenzo IV, per la quale Genova fornì molte navi. Oltre a essere risultato l'ago della bilancia contro l'imperatore, il Papa, eletto nel 1243, contribuì a rendere il nome di Genova famoso in Europa; egli, infatti, apparteneva alla nobile famiglia dei Fieschi, da anni insediati nella vita politica e giuridica della repubblica.

    Se da molti genovesi fu considerato un illustre concittadino, da altri, invece, il nome di Innocenzo IV fu accostato alla reintroduzione della tortura nei processi dell'inquisizione, che vennero istituiti per combattere gli eretici.

    […] Non giudicate per non essere giudicati; perché con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati […]

    Nuovo Testamento: Matteo 7, 1-2

    I

    Maggio 1098

    Siria. Città di Antiochia

    I crociati avevano ormai posto sotto assedio la potente città che da mesi resisteva grazie al valore militare dei Turchi.

    Lontane dalla terribile battaglia per la conquista di Gerusalemme, alla quale avrebbero partecipato solo un anno dopo, poco prima della resa della città una flotta genovese e una pisana erano approdate nel porto di San Simeone, e il loro arrivo aveva donato fiducia al disordinato esercito crociato, già provato da sanguinose battaglie nel Bosforo e in Armenia.

    L'ostilità islamica rimaneva comunque indomabile.

    Dalle mura, innalzate per proteggere la città, piovevano dardi infuocati.

    Il fragore delle urla e il sibilo delle frecce degli archi e delle balestre era quasi assordante.

    Nessuna pietà era la parola d'ordine dei crociati, che nell'ultimo giorno di maggio penetrarono all'interno delle mura, dove non esitarono a compiere atti di una spietatezza fuori dal comune. Le case degli abitanti furono prese d'assedio, le donne stuprate e i musulmani calpestati da orde di monaci guerrieri: i terribili Ospitalieri dell'ordine di San Giovanni, che sfoggiavano la loro abilità e la loro potenza con la spada nel nome del Signore.

    ‒ Diavoli Neri! ‒ urlavano i guerrieri islamici, consapevoli della terribile fine a cui sarebbero andati incontro se si fossero trovati faccia a faccia con i temuti cavalieri.

    Come comparsi dal nulla, costoro indossavano una mantella completamente nera con impressa una croce a otto punte bianca sulla spalla e sul petto. Sul capo portavano un elmo cilindrico con le sole feritoie per gli occhi e per il naso. Nati come un ordine per la carità dei deboli e degli ammalati in nome della riconquista dei territori santi, ormai in mano agli islamici, avevano armato le loro mani convinti di ripristinare il giusto e il volere di Dio, anche a discapito delle vite altrui.

    La loro violenza stupì persino alcuni balestrieri genovesi, tra i quali il ventenne Terenzio De Ghisi che, quasi spaventato dall'improvvisa apparizione di quella specie di spettri, chiese al proprio comandante, dal quale distava solo pochi passi:

    ‒ Mio Dio, ma chi sono?

    ‒ I monaci guerrieri dell'ordine di San Giovanni, ‒ rispose il comandante, annuendo con il capo in segno di approvazione per quello che tali cavalieri stavano compiendo, ‒ meglio averli con noi che contro.

    L'avanzata dei crociati era inarrestabile: ovunque venivano saccheggiate botteghe e abitazioni, e ovunque fosse possibile veniva fatta incetta di reliquie religiose, molte delle quali erano custodite in qualche chiesa trasformata in moschea dagli islamici.

    La città cadde ai piedi dei crociati.

    Artefici della vittoria, ai genovesi venne fatto dono di una chiesa, di un fondaco per la mercanzia e di alcune abitazioni. Forti della gloria di tale conquista, i crociati genovesi intrapresero, così, la via del ritorno. Durante il loro lungo viaggio si fermarono in Licia, dove appresero della presenza, nella vicina città di Mira, delle reliquie di San Nicola.

    Dopo un giorno di cammino i cavalieri genovesi, penetrati nel convento, dovettero, però, arrendersi alla realtà: le reliquie erano già state portate via, in parte dai cavalieri naviganti provenienti da Bari e in parte dai crociati veneziani. La loro delusione fu breve, infatti trovarono in un'ampolla argentata qualcosa di molto più prezioso: le ceneri di San Giovanni Battista.

    Il sacro ritrovamento fu subito messo al sicuro, ma due di loro vollero continuare l'opera d'indagine nel convento; al suo interno c'era ancora una cripta. Per raggiungerla vi era una lunga scalinata, ne discesero le strette rampe e, illuminati solo dalle loro torce imbevute di resina, si trovarono di fronte a una grata a semicerchio, grande come un uomo, saldata al muro senza alcuna serratura.

    I due balestrieri rimasero stupiti. Avrebbero voluto tornare alla luce per avvisare gli altri, ma la curiosità e l'interesse presero il sopravvento. Oltre quella grata si scorgeva una specie di tomba, non più lunga di tre braccia, con un coperchio di pietra a protezione.

    ‒ Che cosa ci potrà essere mai là dentro? ‒ chiese uno dei due facendosi il segno della croce.

    ‒ Forse qualcosa di talmente prezioso che hanno voluto renderlo irraggiungibile, ‒ rispose l'altro.

    Posseduti ormai dal demone della curiosità e forse da quello del desiderio di gloria per un eventuale ritrovamento eccezionale, iniziarono a disarcionare gli angoli della grata con una serie di colpi ben assestati dell'ascia che portavano con loro, finché riuscirono a smurarla.

    Il ferro intrecciato era molto spesso, ma facendo leva dal punto smurato lo piegarono in modo da creare un passaggio. Entrarono pensando di poter arrivare a scoprire una reliquia di ben più grande valore che non le ceneri del Battista: il calice dell'ultima cena o le tavole dei comandamenti, o magari la lancia di Longino.

    Quando furono vicino a quella specie di sepolcro, videro che sul coperchio c'erano scolpite delle frasi in latino. Il più giovane dei due spolverò la superficie e lesse a voce alta:

    ‒ Nell'anno 340, dopo la nascita di nostro Signore, quivi vescovo Nicola II ordinava la costruzione di codesta lapide per la sepoltura della pergamena di bronzo, trovata da un legionario romano, unico sopravvissuto di una numerosa spedizione, tra le rovine desertiche di una città non nota, e donata ai monaci del convento. Frutto degli inganni del maligno, dopo la sua cacciata nel deserto a opera di nostro Signore Gesù Cristo che lo vinse, non dovrà mai essere violata da uomo peccatore, ma che essa sia rinchiusa per l'eternità, come per secoli è stata, nella sabbia. Soltanto Iddio può decidere le sorti del bene e del male. Essa reca in sé il potere del demonio. Chiunque non seguirà questo comandamento porterà con sé i malefici per il peccato di volersi sostituire a nostro Signore. ‒ Si fecero il segno della croce e riconobbero che il vescovo descritto sulla lapide era proprio San Nicola, dopodiché si guardarono in volto per trovare, nei loro occhi, il coraggio.

    La paura di essere raggiunti da una maledizione era forte, ma altrettanta era la curiosità, così, senza chiedersi niente l'un l'altro, iniziarono a spostare il coperchio. Ciò che vi era all'interno era ricoperto completamente di sabbia, come una sorta di protezione, ma subito dopo che questa fu tolta, all'iniziale euforia si sostituì una grande delusione: si trattava solo di una tavola di bronzo.

    Quando la alzarono si accorsero del suo notevole peso, tanto che fecero fatica, in due, ad appoggiarla ai piedi del sepolcro. Diedero a quel punto una sommaria spolverata per poterla vedere meglio.

    ‒ Che cosa sarà? ‒ chiese il più anziano dei due balestrieri.

    ‒ È una tavola di bronzo che sembra scolpita proprio come una pergamena, ‒ rispose il giovane.

    ‒ Sì, e c'è raffigurato qualcosa...

    La loro scomoda posizione li convinse a trasportare la tavola nella stanza da cui erano entrati.

    Con fatica la portarono oltre la grata divelta, la posarono a terra e iniziarono a osservarla: vi era rappresentato una specie di demone dalla testa di felino che teneva tra le mani una pergamena a sua volta incisa in bassorilievo. Nella prima incisione, partendo dall'alto, vi erano raffigurati sette uomini con lunghe vesti riuniti di fronte a una specie di altare con sopra un bambino e accanto l'immagine di un essere orripilante. Nella seconda incisione appariva una specie di vaso e altri sette individui con la testa di cane; nella terza, invece, uomini e donne prostrati a un altro essere immondo dal corpo femminile, accompagnato da un cane e un maiale, anch'esso vicino a un altare con sopra una donna e un bambino. Infine, erano presenti delle scritte in aramaico, lingua che i due genovesi non conoscevano.

    ‒ Che significato avranno? ‒ mormorò il più anziano.

    Mentre i due le osservavano, dietro di loro una voce echeggiò inaspettata tra le strette volte della cripta:

    ‒ Coloro che non avranno sepoltura. Coloro che non avranno sembianze. Coloro che giacciono nel deserto. Coloro su cui non veglia nessuno. Coloro che non possono essere soggiogati. Coloro che non hanno riposo negli inferi. Coloro il cui spirito è malvagio. Coloro che nemmeno Asenappar¹ e il suo potente esercito potranno mai fermare. Coloro che rapiranno anime giovani. Coloro il cui primo seguace donerà il sangue al suo primo sangue, e di seguace in seguace il suo primo sangue sarà sangue del senza dio e verrà versato nell'ampolla del falso dio. Coloro che domineranno su tutti gli imperi e sugli uomini vivi e morti. Coloro che doneranno ai seguaci prediletti tutti i poteri sulla terra e sul mare.

    Chi parlava era un cavaliere Ospitaliero dalla tunica nera, molto alto di statura e con ancora l'elmo sul capo, entrato nella cripta all'improvviso accompagnato da un altro subito dietro.

    I due balestrieri furono stupiti da tanto sapere e il più anziano, quasi spaventato, domandò:

    ‒ Come la conoscete, cavaliere?

    ‒ La conosco perché è ciò che cercavo da sempre, ‒ rispose facendo un passo indietro e, sguainando la spada che aveva alla cinta, senza aggiungere altro, sferrò un violento fendente che decapitò all'istante il balestriere più anziano.

    ‒ No, vi prego, non dirò nulla, in nome di Dio! Prendetela, è vostra! ‒ urlò il giovane balestriere spaventato, cercando di indietreggiare.

    Il cavaliere Ospitaliero accennò un ghigno e poi, senza alcuna pietà, penetrò da parte a parte il povero malcapitato. A quel punto si chinò sulla pergamena di bronzo appoggiata al muro, la prese tra le mani senza sollevarla e, distendendo le braccia, declamò a voce alta:

    ‒ Dalle viscere dell'inferno fino a me.

    Grazie all'aiuto del suo compagno la sollevarono a forza, dopodiché uscirono in fretta dal tempio.

    Raggiunti i cavalli e legata la pergamena di bronzo su uno di essi, il cavaliere che uccise i due genovesi estrasse nuovamente la spada, trafiggendo alle spalle anche il suo compagno, che cadde agonizzante sulla sabbia.

    ‒ Mi dispiace, Sigfrid, ma il prescelto sono io, ‒ disse costui.

    A distanza un balestriere li notò, questi, però, fece solo in tempo a vedere l'Ospitaliero salire sul cavallo e iniziare a galoppare trascinandosi l'altro dietro. A quel punto corse verso il cavaliere a terra, ma poté soltanto constatarne la morte.

    Il balestriere era il giovane Terenzio De Ghisi che stava cercando i suoi due compagni, di cui uno era il fratello Arnoldo, assenti ormai da parecchio. Non riuscendo a capire cosa fosse successo, ritornò verso il tempio, dove pensò fossero rimasti. Giunto alla cripta si trovò davanti agli occhi lo scempio perpetrato sui due corpi. L'uomo già morto, il più anziano, era proprio suo fratello.

    ‒ No, Arnoldo, mio Dio! ‒ gridò vedendolo con la testa staccata dal corpo. Si voltò inorridito, poi si fece forza e, accortosi che l'altro respirava ancora, vi andò subito vicino, si inginocchiò e urlò:

    ‒ In nome del cielo, che cosa è accaduto! Pietro!

    Costui, quasi senza respiro e sempre interrompendo il suo discorso, riuscì solo a dire, indicando con l'indice della mano destra un'ipotetica strada da seguire:

    ‒ Ospitalieri... La pergamena di... Bronzo.

    ‒ Ospitalieri? La pergamena? Che cosa volete dirmi... Pietro... Pietro ‒. Lo chiamò ancora, ma il giovane balestriere spirò fra le sue braccia.

    Terenzio De Ghisi, a quel punto, si alzò senza però riuscire a guardare ancora l'orrido spettacolo della decapitazione del fratello. La rabbia e il dolore lo avvolsero. Si ricordò, allora, del cavaliere che vide partire con tanta fretta lasciando l'altro morto sulla sabbia. Si fece il segno della croce e uscì dal tempio, ma di costui non trovò più traccia.

    Davanti a Terenzio De Ghisi vi erano soltanto mura e un interminabile deserto.

    La sabbia si alzò per il vento impetuoso ed egli fu costretto a strizzare gli occhi.

    ‒ Ti troverò, ovunque sarai, ‒ mormorò.

    ___________________

    ¹ Nome con cui viene chiamato re Assurbanipal nella Bibbia e nei testi antichi.

    II

    Genova, 23 luglio 1219

    Due cavalli bianchi solcavano l'erba alta di quella collina verdeggiante, come la prua di un'imbarcazione fa con l'acqua del mare, e i loro zoccoli alzavano grossi lembi di terra umida dovuta al tempo di quei giorni precedenti, che avevano visto due pomeriggi di autentica bufera.

    Sopra di essi, due cavalieri della repubblica, con indosso un'armatura di cotta di maglia e una sopravveste di lino bianca su cui era impressa una croce di color rosso, simbolo preso a eredità dallo stemma crociato, cavalcavano di gran lena nell'intento di raggiungere gli altri venti compagni posti sul ciglio di un'altura che permetteva un'ampia visione sul golfo della città. Portavano un messaggio per il loro comandante, fedele servitore del podestà. Giunti a lui vicino, con i cavalli ancora in movimento, uno di loro disse a voce alta:

    ‒ Tutto è a posto, signore, le galee partiranno nei tempi previsti; il mare lo permette.

    ‒ Bene, molto bene, ‒ rispose costui senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte marino.

    Controllavano dall'alto che nessun nemico, o altra strana sorpresa, fosse in agguato quel giorno tanto importante, in cui un'immensa folla di gente era assiepata tra il colonnato della Ripa Maris, che sosteneva l'ultima parte dell'acquedotto, e l'Ospitale della Commenda, ultimo rifugio dei crociati prima della partenza in Terra Santa.

    Il brusio che saliva al cielo era quasi assordante.

    Proprio oltre quei moli, difesi da grandi massi di pietra per contenere le mareggiate, erano ormeggiate ben quattordici galee pronte a salpare per l'Egitto, il luogo designato per la quinta crociata, dove la flotta genovese era attesa con ansia nella speranza di risollevare le sorti dei crociati in grave difficoltà.

    Tra quel labirinto di persone, soprattutto mercanti, notai in cerca di eredità da concludere all'ultimo momento e molte semplici famiglie contadine, cercava di farsi largo Ermelina Varaldi, che con la mano destra teneva stretto il suo bambino, il piccolo Gualtiero di soli sette anni. Il bambino, complice la tenera età, non si rendeva ancora conto del motivo per cui fosse lì, la confusione del luogo gli impediva di porsi delle domande. Sapeva solo che suo padre stava partendo per un misterioso luogo lontano. Non conosceva, però, l'esatta destinazione e neanche l'avrebbe potuta capire, nonostante la sera prima egli lo avesse preso sulle ginocchia, nella loro casa, e gli avesse spiegato il viaggio che avrebbe dovuto intraprendere.

    Tra le fessure che le persone lasciavano ogni tanto fra di loro si vedevano lanciare corde e fiori, sacchi e ceste. Dopo molta fatica e spinte, al limite della forza fisica per una donna gracile, Ermelina riuscì ad arrivare in prima fila sotto un arco del porticato della Ripa Maris e, finalmente, da lì poté vedere le galee che stavano per salpare.

    Quasi sul ciglio del molo, l'arcivescovo della città, affiancato dall'autorità laica che aveva le vesti nel podestà, diede l'ultima benedizione alla flotta in partenza. Il segno della croce fu eseguito da chi era a terra e da chi stava sopra le galee.

    Gualtiero, dopo aver copiato quel gesto che tutti avevano compiuto, vide sua madre e molte altre persone alzare le mani e salutare agitando con vigore le braccia, mentre i vessilli della croce di San Giorgio venivano innalzati al cielo.

    Una donna cadde in acqua; fu presa e portata sotto i portici; era in lacrime e Gualtiero iniziò anch'egli a farsi prendere dalla malinconia, pur non sapendo dell'effettiva gravità del viaggio imminente del padre.

    ‒ È lassù. Saluta tuo padre, ‒ disse Ermelina rivolgendosi al figlio distratto.

    Gualtiero guardò spaurito cercando tra quelle sagome, che iniziavano a essere indistinguibili, quella di suo padre Goffredo, un grande balestriere, ma il luccichio del mare quasi accecava la vista, finché credette di scorgere quella folta barba nera che tanto amava; alzò così la mano per imitare gli altri, sperando che quella figura lo vedesse. Seguì ancora le galee allontanarsi lentamente e passare tra il molo dei Greci e la torre del Capo di Faro, per prendere il largo là dove lo specchio di mare si confondeva ormai col disco del sole riflesso.

    Ciò che gli mise i brividi furono le urla continue delle persone che chiamavano i propri cari nonostante la già evidente lontananza delle imbarcazioni.

    Non aveva ancora la prontezza mentale per capire dove il padre stesse andando e perché, ma quando vide sul volto di sua madre scendere delle lacrime si destò in lui quel senso di disagio destinato a non esaurirsi mai più.

    ‒ Tornerà mio padre? ‒ chiese, aspettando la conferma sul fatto che quel viaggio prevedesse non solo l'andata, ma anche un ritorno.

    ‒ Sì, Gualtiero mio... tornerà, ‒ rispose Ermelina, confondendo le lacrime con un leggero sorriso per non spezzare il cuore del piccolo fanciullo lontano dalla verità.

    Ora bisognava ricominciare a vivere, e tutto era sulle spalle di Ermelina che, per mantenerlo, avrebbe dovuto continuare a lavorare dall'alba al tramonto, sotto sole o pioggia, nei campi del feudo appartenente al nobile visconte Bernardo Landolfi, gastaldo del vescovo suffraganeo della pieve di Mollicciana. Ma anche il piccolo Gualtiero non si sarebbe sottratto ai lavori nei campi e all'allevamento del bestiame.

    Il viaggio in groppa a un mulo da oltre la porta di Sant'Andrea, detta anche Soprana, che assieme a quella di Santa Fede² e Aurea completava l'elenco delle tre grandi che collegavano la città a ciò che era fuori la cinta di mura del Barbarossa, sarebbe durato un intero giorno. Il percorso impervio, poco più che un sentiero, era segnato dalle sponde del torrente Fertor³. Era una lunga carovana concessa per l'occasione dal vescovo della curia in accordo con il nobile Landolfi, al quale appartenevano i muli.

    Raramente Ermelina si spostava dalla pieve per arrivare in città, mentre per il piccolo era la prima volta in assoluto, e così, visto che nel viaggio di andata aveva dormito tra le braccia della madre scorgendo solo all'ultimo il portello di Sant'Egidio da cui era entrato, rimase stupito da ciò che vide uscendo dalla grande porta di Sant'Andrea, formata da due grandi torrioni. Ammirò la grande distesa di mura intervallate da piccole torri incoronate da più di mille merli a coda di rondine, e la bellezza della chiesa di Santo Stefano poco fuori da queste; rimase impressionato dalle ventotto arcate del ponte del torrente Fertor, detto anche di Sant'Agata, perché su una delle sponde sorgeva, appunto, il convento dedicato alla santa, mentre sull'altra vi era il monastero dei Crociferi. Osservò anche la lunga fila di archi dell'acquedotto, che raggiungeva il torrente Veilino, ricostruito da un secolo sulle tracce di quello romano. Il resto erano immensi boschi di castagni che si estendevano dalle colline della pieve d'Albaro verso il mare e oltre la pieve di Mollicciana verso i monti, dove dalle ripide del monte Montanasco si formava un lago, chiamato Dragonarius per ispirazione a una leggenda pagana.

    Quei posti gli fecero subito ricordare il volto del padre e guardando in alto, verso la prima collina che si affacciava sulla sponda destra del lago, scorse le torri del castello con la cinta che ne rimarcava il bordo, dove i cavalieri di ronda, per lo più valvassori, meglio conosciuti come second milites, controllavano la valle verso Genova e la strada per Piacenza.

    ‒ La Bastita, ‒ sussurrò, scendendo dal mulo assieme alla madre che, forse straziata dal dolore, non gli aveva rivolto parola durante tutto il viaggio di ritorno. Quello era il nome con cui il castello era conosciuto fin dal X secolo.

    La leggenda raccontava che fosse stato costruito in soli tre giorni per difendere gli abitanti della pieve di Mollicciana dai Saraceni. Al castello, suo padre non faceva in fin dei conti una brutta vita. Aveva un ottimo rifugio quando era di guardia e viveri in abbondanza che portava poi in famiglia.

    Ermelina era quella che faceva senz'altro una vita più dura, continuamente a lavorare per poi rifugiarsi in una casa di pietra col tetto di paglia e fango, umida all'inverosimile.

    In quell'istante, Gualtiero si ricordò del giorno in cui con la madre andò a trovare suo padre di guardia al castello. Era passato forse un anno, e il cuore gli batteva ancora al solo pensiero di quando il padre lo prese in braccio per mostrargli la vallata dall'alto di una delle torri. Nella sua piccola mente fantasiosa quel giorno egli si sentì un re, si sentì di poter dominare tutto; un breve attimo che avrebbe segnato il suo cuore per sempre, come quelle parole, dal suono quasi poetico, che il padre usava ripetergli le poche volte che si trovava a tavola con lui, forse con qualche bicchiere di vino di troppo in corpo, dopo i racconti delle sue avventure. L'ultima volta gliele aveva dette prendendolo sulle ginocchia qualche giorno prima, già forse consapevole del destino a cui sarebbe andato incontro:

    ‒ Gualtiero mio, sei ancora un fanciullo, ma gli anni passeranno in fretta. Un giorno non ci saremo né io né tua madre vicino a te, e dovrai affrontare la vita, che è molto dura, da solo, ma ciò a cui ti dovrai sempre appellare è la fede in nostro Signore, che ti darà la forza per continuare e affrontare le avversità. Non ascoltare le voci che ti arriveranno alle orecchie da gente cattiva, perché è solo a quello a cui tu crederai che avrà valore ‒. In quel frangente prese una balestra da lui costruita e continuò: ‒ Questa la imparerai a usare nel tempo in cui io sarò via, così mi penserai e io saprò che al mio ritorno troverò un uomo, ma ricordati di non farne una ragione di vita. Usala solo per un estremo bisogno e non di più, e quando capirai che anch'essa è inutile, allora pensa tanto prima di fare qualcosa... dieci, cento volte anche. Fidati di ciò che ti suggerirà l'anima, e vedrai che troverai sempre una soluzione; per il resto cerca solo di dare gioie al tuo cuore ‒. L'ultima frase la pronunciò battendosi il pugno sul petto.

    Quelle parole a Gualtiero echeggiavano continuamente nella testa, e ancor di più ora che aveva visto suo padre partire. Fortunatamente, quando non aiutava sua madre, poteva distrarsi giocando con gli altri bambini del manso vescovile.

    C'era qualcosa che senz'altro Gualtiero si sarebbe ricordato della sua infanzia oltre a quelle frasi: il fango, presente continuamente sulle strade e sui campi, anche d'estate, dopo i temporali che colpivano il borgo. Quel fango, così frequente, aveva dato il nome a tutta la zona: Mollicciana, ossia terra molle.

    Sua madre gli affidava il bestiame: le galline, i conigli, tre mucche e qualche pecora da pascolare sulle sponde del Fertor. Il tutto era fatto in collettività con altri contadini del villaggio, che lavoravano per il gastaldo vescovile, il visconte Bernardo Landolfi; un signore di banno che, in cambio di dazi naturali e prestazioni lavorative, dava protezione e cure agli abitanti della pieve. Era un vero e proprio feudo, un vescovado indipendente da Genova e dalla sua diocesi, i cui confini di appartenenza erano tracciati sulla base dei corsi d'acqua: il lago Dragonarius, il torrente Fertor e il torrente Geirato, per cui quel territorio era conosciuto anche come l'Isola del vescovo, sebbene la figura che incarna il vescovo non risiedesse più nelle vicinanze da oltre duecento anni. La sua dimora era, adesso, presso l'abbazia di San Siro.

    Dalle sponde del lago, Gualtiero poteva ben scorgere l'ingresso alla vallata, e ciò iniziò a essere la sua ossessione ricorrente.

    Ogni giorno sperava di veder arrivare qualche cavaliere errante con le sembianze di suo padre, ma di questi non si sapeva più nulla, nemmeno il nobile Landolfi aveva notizie sicure. Voci di viandanti e mercanti, provenienti dall'appennino, raccontavano di un'imminente disfatta dell'esercito crociato, ma Gualtiero non perdeva la speranza, nutrita dalla forza della fede che la madre Ermelina gli trasmetteva ogni giorno.

    ___________________

    ² Ora conosciuta come Porta dei Vacca.

    ³ Ora conosciuto come torrente Bisagno.

    III

    Novembre 1219

    L'autunno regalava qualche giornata di sole e di calore in mezzo all'umido che penetrava nelle ossa, come quella mattina in cui i raggi filtravano nel bosco di castagni nella collina che si ergeva di fronte al borgo, sulla sponda sinistra del lago.

    Era il periodo della raccolta delle castagne e quel frutto secco, di cui Gualtiero andava ghiotto, era, assieme alle olive e i vigneti dei monaci, una delle prime fonti di scambio e ricchezza per la pieve.

    Molti abitanti del feudo erano chiamati a partecipare a quelle giornate di raccolta, sudditi del visconte Landolfi e del vescovo, accomunati da una profonda fierezza per essere nati in quel luogo che aveva dato i natali al santo dell'omonima abbazia: San Siro, che fu vescovo nel IV secolo d.C.

    Quell'impegno occupò l'intera giornata di Gualtiero che, prima che il sole tramontasse, ridiscese insieme a molti la collina per riattraversare il fiume a valle del lago, passando su un ponticello di legno dall’aspetto poco affidabile.

    Aveva sette anni e il suo cuore si riempiva di gioia ogni qualvolta tornava alla propria dimora dopo la fatica di quelle giornate, sapendo che avrebbe riabbracciato sua madre. Di solito anche lei partecipava alla raccolta, ma questa volta non se l'era sentita, e questo aveva preoccupato Gualtiero, nonostante le rassicurazioni che lei stessa gli avesse dato. Da alcune settimane, infatti, Ermelina non stava bene: una tosse stizzosa le rendeva le giornate pesanti e insopportabili. La grande umidità del luogo faceva il resto quando si mischiava al sudore per la vanga e la raccolta dei frutti, a cui neanche le donne si sottraevano, producendo un terribile veleno per i polmoni.

    Gualtiero entrò, come al solito, con veemenza dalla malridotta porta in legno, per poter godere del piacevole tepore regalato dal braciere sul lato destro della casa, ma i forti colpi di tosse attirarono subito la sua attenzione.

    La casa aveva due sole stanze, e in quella a fianco dell'ingresso c'era sua madre, per cause di forza maggiore sdraiata su quello che era il letto: un sacco riempito di paglia posto all'interno di una nicchia ricavata nel muro, con tre o quattro coperte sopra sempre della stessa fattezza. Di lana o piume d'oca non era possibile averne, dato l'alto costo che ne permetteva l'utilizzo soltanto ai nobili e agli alti prelati del vescovado.

    Gualtiero accorse al lato del letto.

    ‒ Madre, state male! ‒ esclamò preoccupato, quasi con le lacrime agli occhi.

    Ermelina non riuscì a rispondere; doveva sicuramente avere una febbre molto alta, infatti iniziò a tremare nonostante il caldo del braciere e le coperte che avesse addosso.

    Lei gli regalò solo un sorriso e una carezza sulla guancia, ma ancora un improvviso colpo di tosse interruppe quel sublime momento. Questa volta durò molto più che in precedenza, così Gualtiero si alzò per andare a chiamare il vicino: il lanaiolo Giuseppe Saffi. Lasciò malvolentieri le mani di sua madre; uscì di corsa e, arrivato, bussò forte alla sua porta gridando:

    ‒ Signor Giuseppe, signor Giuseppe!

    ‒ Che c'è? ‒ chiese costui quasi seccato, uscendo con una candela in mano.

    ‒ Signor Giuseppe, venite vi prego, mia madre sta molto male, aiutatemi vi prego, aiutatemi.

    Il lanaiolo titubò; andare da solo in casa di una donna senza marito era pericoloso, così avvisò la moglie:

    ‒ Clorinda, Ermelina Varaldi sta male, il figlio ci chiede di andare da lei.

    La moglie si presentò subito alla porta. Era una donna sui cinquant'anni di età e, forse più per curiosità che per spirito di sacrificio, assecondò la richiesta, ma appena i due consorti giunsero in casa di Gualtiero fecero un passo indietro.

    ‒ Mio Dio, mio Dio, bisogna chiamare subito il vescovo! ‒ esclamò l'uomo vedendo Ermelina in quello stato di delirio.

    ‒ Perché il vescovo? ‒ chiese Gualtiero, temendo la risposta.

    La moglie del lanaiolo strattonò il marito borbottando:

    ‒ Vieni via da questa casa, il demonio è entrato prima di noi.

    I due scapparono, lasciando il povero Gualtiero basito, con la madre che, in un momento di lucidità, lo chiamò con un filo di voce:

    ‒ Gualtiero vieni qui, presto ‒. Il bambino si avvicinò e lei, con le poche forze rimastele, gli sussurrò:

    ‒ Corri alla casa dei Landolfi, chiedi a loro di un medico.

    Gualtiero annuì, e subito uscì correndo verso la casaforte del visconte; scivolò poco fuori la porta, cadendo per la fretta e procurandosi un taglio al ginocchio, ma non se ne curò e corse ancora lungo il sentiero illuminato solo dal cielo rosso del tramonto e da una candela di resina di pino che non sarebbe durata a lungo.

    Il visconte Landolfi, il feudatario, era tenuto alla protezione dei suoi sudditi e non si sarebbe certamente sottratto ad accorrere in soccorso della povera Ermelina.

    La casaforte, molto grande, con due torri con bertesche frontali, e alta almeno venti piedi, era situata leggermente in salita rispetto a dove abitava Gualtiero, ma i suoi giovani polmoni non risentirono della fatica e così, arrivato nelle vicinanze del grande portale sormontato da un arco ogivale, si mise a urlare:

    ‒ Apritemi, visconte Landolfi, aiuto!

    Le due grandi ante di metallo, con piccoli punzoni piramidali che ne ricoprivano tutta la superficie, si aprirono e apparve davanti a lui un cavaliere vestito di cotta di maglia ad anelli fino alle ginocchia, e sulla sopravveste verde, che ne ricopriva il busto fino a sotto la cinta, spiccava lo stemma che il Landolfi aveva voluto per i cavalieri della Bastita: su campo giallo vi erano due torri con al centro due spade incrociate e un drago. Il tutto era sormontato da una croce rossa, che ricordava il simbolo di Genova e di San Giorgio.

    Gualtiero rimase per un attimo ammutolito, perché quello era lo stesso tipo di vestiario indossato dal padre quando era di guardia; così lo aveva visto vestito l'ultima volta, prima che partisse per la crociata.

    ‒ Che cos'hai da strillare? ‒ domandò il cavaliere con voce tonante.

    ‒ Mia madre sta molto male, ‒ rispose Gualtiero affannato, ‒ chiamate subito il visconte e ditegli di venire con un medico. Ha bisogno di aiuto.

    ‒ Il visconte non può muoversi ora. Che cos'ha tua madre?

    ‒ Non respira più, tossisce sempre, ‒ disse Gualtiero, iniziando a piangere.

    La reazione del bambino piegò il cuore del cavaliere che, preso dal rimorso, lo rassicurò:

    ‒ Va bene, verremo noi.

    Un altro cavaliere, arrivando alla porta, lo riconobbe:

    ‒ Ma tu sei il figlio di Goffredo Varaldi, vero?

    ‒ Sì, ‒ rispose singhiozzando Gualtiero.

    ‒ Vado io, ‒ disse quel cavaliere, ‒ tu avverti il visconte Landolfi del cambio della guardia, ‒ suggerì al suo compagno, iniziando così a seguire il piccolo Gualtiero fino alla casa.

    Quando entrarono, subito il cavaliere si rese conto della gravità dello stato in cui versava la donna.

    ‒ Mio Dio, deve avere una febbre altissima, ‒ mormorò. Egli aveva timore di qualche malattia contagiosa, come la peste o la lebbra, anche se non vi erano manifestazioni cutanee. ‒ Non ti avvicinare, io torno subito, ‒ intimò di seguito il cavaliere, ma quello era un ordine che un qualsiasi bambino, di fronte alla propria madre sofferente, non avrebbe mai eseguito.

    Gualtiero andò subito ad abbracciare Ermelina, che quasi rantolava, ma nella grande e misteriosa sofferenza riuscì ancora a regalare una carezza al piccolo, che mai come in quel momento avrebbe voluto il padre al suo fianco.

    Poco dopo si sentirono dei passi arrestarsi proprio davanti all'uscio: erano quelli dei cavalieri che accompagnavano il visconte Landolfi, anch'egli in tenuta cavalleresca, e quelli del medico, che indossava, invece, un mantello rosso bordato di pelliccia. Inoltre, cosa molto strana agli occhi di Gualtiero, assieme a loro vi era il vicario della curia Anselmo Degoli.

    I cavalieri portarono via Gualtiero dalla stanza, che a quel punto, spaventato, urlò:

    ‒ No, voglio restare con mia madre.

    Il cavaliere insistette e lo portò fuori dalla casa lasciando, però, la porta aperta.

    Sopra il letto di Ermelina, che continuava a tossire, si tenne una sorta di consulto.

    ‒ Cosa ne pensate? ‒ chiese il visconte Landolfi al medico.

    Questi le tastò il polso e le mise una mano sulla fronte, constatando l'elevata temperatura.

    ‒ Mio Signore, ha una febbre altissima, ‒ affermò, estraendo da uno dei due sacchetti che aveva alla cinta una tela di ragno. ‒ Bisogna tentare subito di porre rimedio; questa gliela ridurrà di sicuro, ‒ disse ponendogliela direttamente sulla fronte. Notando anche la tosse stizzosa, il medico tirò fuori un'ampolla con dentro un miscuglio a base di frutta e olio di mandorla; le prese la nuca, la alzò un poco e la fece bere. ‒ Ce la farà, ‒ ribadì, ancora convinto dei suoi medicinali.

    Il visconte Landolfi la guardò e scuotendo la testa mormorò:

    ‒ Il freddo e la pioggia di questi giorni sono stati terribili.

    ‒ Sono gli stessi sintomi di Federico da Millesimo, il maniscalco, che dopo tre giorni è guarito, ‒ gli rammentò il medico.

    Il visconte la guardò ancora, ricordando, in realtà, che la malattia che aveva assillato il maniscalco era stata di ben altra natura.

    Ermelina, però, continuava a tossire sempre più forte e aveva gli occhi sbarrati, come fuori dalle orbite, ma il medico non sembrava preoccupato. Le sue parole le aveva udite anche Gualtiero, che si era così rasserenato, incosciente dell'assurda diagnosi.

    ‒ Il bambino ha un padre in vita? ‒ chiese il medico.

    ‒ Sì, ma è partito per la crociata d'Egitto, ‒ rispose il visconte Landolfi affranto, il quale, successivamente, guardò anche il vicario che, non curante della situazione e con un velo di arroganza, disse a voce alta:

    ‒ Forse sarebbe meglio portare via la donna e bruciare tutto per eliminare qualsiasi presenza maligna... voci del borgo dicono che sia stata vista in compagnia di altri uomini.

    ‒ È la moglie di Varaldi, a me non risulta, ‒ ribatté aspramente il nobile Landolfi.

    ‒ A voi, forse... ‒ insinuò il vicario, piegando leggermente il collo in direzione della casa della moglie del lanaiolo, dalla quale aveva carpito poco più che un pettegolezzo. ‒ Penso, a questo punto, che sia il caso di avvisare Sua Eminenza il vescovo, ‒ consigliò.

    ‒ Non ce ne sarà bisogno, perché questa donna è realmente malata, ‒ intervenne il medico.

    ‒ Mi assumerò io le responsabilità... ‒ affermò il visconte Landolfi, che però non finì la frase, perché Ermelina, in un attimo di lucidità e con la poca voce rimasta, sempre interrotta dalla tosse, si rivolse a loro implorando:

    ‒ Il bambino, vi prego, il bambino!

    Il Landolfi annuì e ordinò:

    ‒ Fate venire il bambino qui, presto.

    Gualtiero, di corsa, passò in mezzo alla tonaca del vicario e, sbattendo contro la spada infoderata del cavaliere, in un attimo fu vicino alla madre. Lei, sentendo dentro di sé ben altro responso che non quello predetto dal medico, gli parlò con voce sottile:

    ‒ Gualtiero, devo partire anche io per un lungo viaggio, ma non temere, un giorno ci rivedremo, devi solo avere tanta pazienza.

    ‒ Ma perché, madre, state male, non potete muovervi. Il medico dice che guarirete.

    ‒ No, amore mio, non qui. Dove andrò starò bene, ma tu devi essere un uomo adesso, ‒ gli disse accarezzandolo con un debole sorriso in volto, ma ancora tossì, sospirò per pochi attimi, poi, sentendo la fine avvicinarsi, strinse la mano del figlio e gli sussurrò: ‒ Bambino mio, ricordati sempre delle parole di tuo padre. Fatti guidare dal cuore, sempre dal cuore bello che hai dalla nascita.

    Infine, quasi soffocata, rivolse lo sguardo languido al visconte Landolfi:

    ‒ Mi affido alla vostra bontà.

    ‒ Non temete, ‒ promise con il magone il visconte, che aveva ormai capito l'epilogo a cui avrebbe assistito, stringendo, così, la mano della donna.

    Ci fu un ultimo colpo di tosse e poi il nulla, solo le grida del bambino.

    ‒ Madre, madre, vi prego non andate!

    ‒ Ma perché questo? ‒ domandò il visconte rivolgendosi al medico.

    ‒ Non sempre a tutti viene regalato il dono della guarigione, ‒ rispose questi, allargando le braccia con disarmante naturalezza.

    Il visconte Landolfi rimase sconcertato, mentre il cavaliere portava via il bambino che ancora urlava scuotendosi:

    ‒ Lasciatemi con mia madre, con mia madre.

    Ermelina morì ad appena venticinque anni. Una grave polmonite fu la causa; qualcosa che il medico non avrebbe mai potuto accertare né curare.

    Il silenzio si impadronì della casa, spezzato solo dalle parole del vicario Degoli:

    ‒ Le cure non potevano funzionare per altri motivi. La mia intenzione di avvisare il vescovo, appena tornerà dal concilio provinciale, non cambia, signor visconte.

    Il visconte Landolfi lo guardò senza parlare e uscì.

    Gualtiero era seduto per terra con la testa in mezzo alle ginocchia, singhiozzante e con la mente che non riusciva completamente a calarsi nella realtà del momento, quando un'ombra, formata dalle torce, si allungò davanti a lui: era proprio il visconte, un uomo molto alto, di ventisette anni e dalla corporatura asciutta.

    ‒ Quale è il tuo nome? ‒ gli chiese chinandosi su di lui con dolcezza, pur sapendolo già.

    ‒ Gualtiero, ‒ rispose il bambino, alzando e poi abbassando subito la testa.

    ‒ Un nobile nome, ‒ chiosò il visconte Landolfi, che in seguito si rivolse al cavaliere: ‒ Questo fanciullo non ha più nessuno al momento. Il nobile balestriere Goffredo non farà ritorno a breve, per stanotte portatelo alla mia dimora, domani si vedrà ‒. Si avvicinò ancora di più al cavaliere e a un orecchio gli sussurrò: ‒ Chiudete la casa, domattina seppelliremo la donna.

    ‒ Sì, signor visconte.

    Il visconte Landolfi accarezzò il bambino sui capelli e gli disse:

    ‒ Non devi piangere. Tua madre ora sta bene. Era molto malata, ma non temere più, ora è in Cielo con nostro Signore Gesù ‒. Si alzò e con passo sofferente andò via.

    ‒ Stanotte verrai con noi, ‒ comunicò il cavaliere a Gualtiero, il quale, con lo sguardo perso nel vuoto, rispose:

    ‒ Io voglio raggiungere mia madre ovunque sia andata.

    ‒ Certo, ‒ affermò il cavaliere, ‒ un giorno accadrà di sicuro, ma non ora, perché tua madre non vorrebbe, hai sentito quello che ha detto.

    ‒ Ma io voglio andarci adesso.

    ‒ E lei si arrabbierebbe molto e anche tuo padre, che è un mio grande amico, non vuole che tu vada. Al suo ritorno vuole trovarti qui ad attenderlo a braccia aperte, e questo me lo ha detto più volte.

    Quelle ultime parole, dette dalla voce fiera di quel cavaliere, così grande alla sua vista, con l'alabarda sempre in posizione verticale, e che faceva di nome Giovanni Del Bue, colpirono l'animo di Gualtiero, che accettò di seguirlo senza fare più storie. Mentre camminava guardava, voltandosi ancora, la casa nella quale non avrebbe senz'altro mai più vissuto.

    La casaforte del nobile Landolfi appariva ai suoi occhi come una reggia leggendaria. Il grande portone d'entrata si apriva su un cortile, al centro del quale vi era un grande pozzo attorniato da vasi di fiori. Il palazzo era disposto su due piani: al piano terra si trovavano le cucine, la stalla e una grande sala per le riunioni. C'era sull'angolo, alla sinistra, anche una piccola cappelletta nella quale il visconte Landolfi e la famiglia solevano rifugiarsi in preghiera ogni qualvolta sentissero il bisogno di parlare con Dio.

    Gualtiero percorse il cortile e fu portato al piano superiore dove vi erano le stanze, e qui fu lasciato in compagnia di una dama della moglie del visconte.

    Dalla piccola bifora riusciva ancora a scorgere la sua casa illuminata da alcune torce all'esterno.

    ‒ Forse non è ancora partita mia madre, ‒ mormorò innocentemente, dopodiché, voltandosi, notò un crocifisso al muro, si inginocchiò e pregò il Signore di poterla rivedere al più presto e di far sì che la chiamata per lui non arrivasse così tardi, come gli aveva predetto il cavalier Del Bue.

    La badante fu presa dal magone nell'ammirare la toccante fede del bambino. Fortunatamente, dopo poco, egli si addormentò, in tempo per non assistere a uno scempio.

    Quando l'alba di un altro giorno freddo fece la sua comparsa, affiancato da due cavalieri, il nobile Landolfi uscì di gran lena dal grande porticato. Era a dir poco adirato, perché la casa di Ermelina era stata incendiata. Le lingue di fuoco che ne scaturivano provocavano un denso fumo nero che chiunque, anche a grande distanza, avrebbe notato.

    ‒ Chi ha dato l'ordine di

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