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Le sette dinastie. La lotta per il potere nel grande romanzo dell'Italia rinascimentale
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E-book621 pagine8 ore

Le sette dinastie. La lotta per il potere nel grande romanzo dell'Italia rinascimentale

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Info su questo ebook

Il romanzo più atteso dell’anno

L’autore della saga bestseller I Medici

Tradotto in tutto il mondo

Sette famiglie, sette sovrani, sei città: questa è l’Italia del XV secolo, dilaniata da guerre, intrighi e tradimenti, governata da signori talvolta lungimiranti, ma molto spesso assetati di potere e dall’indole sanguinaria. A Milano, Filippo Maria, l’ultimo dei Visconti, in assenza di figli maschi cerca di garantire la propria discendenza dando in sposa la giovanissima figlia a Francesco Sforza, promettente uomo d’arme. Intanto trama contro il nemico giurato, Venezia, tentando di corromperne il capitano generale, il conte di Carmagnola. Ma i Condulmer non temono gli attacchi: smascherano il complotto e riescono a imporre sul soglio di Pietro proprio un veneziano, che diverrà papa con il nome di Eugenio IV. Tuttavia il duca milanese troverà alleati anche a Roma: sono i rappresentanti della famiglia Colonna, ostili al papa che viene da Venezia e decisi a cacciarlo dalla città. Solo l’aiuto dei Medici riesce a scongiurare la morte del pontefice, costretto però a un esilio forzato a Firenze. E mentre nel sud dell’Italia si fa sempre più cruenta la guerra tra angioini e aragonesi, il destino della penisola italica è sempre più avvolto nell’incertezza…

Sette famiglie. 
Sette sovrani.
Sei città. 
Il gioco dei troni nell’Italia del Rinascimento.

Dall’autore vincitore del Premio Bancarella

Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Guerre, passioni, congiure, tradimenti e intrighi: la ricetta di Strukul, tra storia e invenzione, piace e diventa bestseller.»
Il Venerdì di Repubblica

«Matteo Strukul ripercorre, tra attenzione ai fatti e reinvenzione romanzesca, la saga della dinastia più potente del Rinascimento.»
Il Corriere della Sera

«Strukul è un autore eclettico e accattivante, che sa raccontare la grande Storia con la leggerezza e la velocità dei nostri tempi. Un Dumas 2.0.»
La Stampa

«Matteo Strukul è una delle voci più importanti della nuova narrativa italiana: dovete assolutamente leggerlo.» 
Joe R. Lansdale

Matteo Strukul
è nato a Padova nel 1973. È laureato in giurisprudenza e dottore di ricerca in diritto europeo. Le sue opere sono in corso di pubblicazione in sedici lingue, pubblicate in trenta Paesi e opzionate per il cinema. Il primo romanzo della saga sui Medici, Una dinastia al potere, ha vinto il Premio Bancarella 2017. La serie (che comprende anche Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia) è in corso di pubblicazione in 12 lingue e in più di 25 Paesi. La Newton Compton ha pubblicato anche Inquisizione Michelangelo.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2019
ISBN9788822737199
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    Anteprima del libro

    Le sette dinastie. La lotta per il potere nel grande romanzo dell'Italia rinascimentale - Matteo Strukul

    1427

    1. Un nido di calabroni

    Ducato di Milano, Maclodio

    «Non sono d’accordo», osservò con un lampo degli occhi Angelo della Pergola, «non credo che il Carmagnola attaccherà immediatamente».

    «Che cosa ve lo fa pensare?», domandò Francesco Sforza. Il suo sguardo non tradiva la minima emozione. Nella sua domanda, però, si avvertiva una certa curiosità, quasi egli provasse un interesse sincero per la posizione del vecchio capitano di ventura.

    «Il fatto che, dopo aver vinto a Sommo, si sia premurato di retrocedere al di qua dell’Oglio invece di avanzare», sottolineò Angelo della Pergola con soddisfazione.

    Sforza, molto più giovane di lui, scosse la testa come se tutta la sua attesa fosse stata delusa.

    Angelo della Pergola odiava Francesco Sforza. Fece appello a tutta la propria calma per non dare in escandescenze. Quel giovane capitano si comportava in modo insopportabile. Aveva in sé l’arroganza della gioventù, temperata da un’invidiabile capacità di controllo che sapeva tramutare in freddezza. Usava quella sua dote per sobillare a ogni piè sospinto quell’autentica testa calda di Carlo Malatesta, capitano supremo delle truppe milanesi di fresca nomina, che in quel momento li stava ascoltando divertito.

    Ma lui non aveva certo combattuto nella neve e nel fango durante tutti quegli anni per essere lo zimbello di due ragazzini che non vedevano l’ora di guadagnarsi preda e bottino.

    «Ma non vedete», disse, rivolto a entrambi, «che le condizioni sono le peggiori possibili? Siamo in una piana coperta di paludi, fra canali di acqua gelata, e dovremmo affrontare, nel peggiore dei terreni possibili, un uomo come il Carmagnola che, anche per il suo passato, ha tutti i motivi per non voler combattere!».

    «Proprio per questo, invece, io credo che avremo buon gioco nell’annientarlo. Il nostro avversario tentenna. Tanto meglio! Sterminiamo i suoi uomini e conquistiamo una facile vittoria per Filippo Maria Visconti!», tuonò Malatesta. «Che altro dovremmo aspettare secondo voi?», domandò sdegnosamente.

    Angelo della Pergola stentava a credere alle sue orecchie. Eccoli lì: due mocciosi incapaci di ragionare. E lui invece, pieno d’acciacchi e cicatrici, di ferite mal ricucite e di botte ancora pulsanti, ne aveva viste di cose in quei suoi cinquantadue anni! In quel momento si trovavano nella classica situazione d’attesa in cui nessuna delle parti muoveva contro l’altra. Tuttavia, la prima che avesse attaccato, si sarebbe rovinata con le proprie mani. Avrebbe potuto riempire due tomi interi di precedenti illuminanti. Se solo avesse saputo scrivere. Anche se si ostinava nel farli ragionare, avvertiva in modo evidente una diffidenza e un’opposizione talmente ferme da rendere inutile ogni suo tentativo di persuasione.

    «Avete paura, capitano?», lo incalzò Carlo Malatesta, «poiché se il punto è questo potrei anche capirlo. Siete stanco, alla vostra età di certo non sognate l’ennesimo scontro frontale…».

    Gli occhi di Angelo della Pergola lampeggiarono e un istante dopo estrasse un pugnale dalla cintura, piantandolo con un unico, fluido movimento sulla tavola al centro della stanza. Era stato talmente veloce che Malatesta era a malapena riuscito ad agguantare l’elsa della sua spada.

    Francesco Sforza, invece, pareva mantenere un invidiabile sangue freddo. Carlo Malatesta odiava anche lui. Sempre così sicuro di sé. Algido, distaccato, capace di dire la cosa giusta al momento giusto. Elegante, con quei capelli morbidi, meravigliosamente curati. Un figurino! Gli avrebbe messo le mani addosso più che volentieri, pur di togliergli quel suo sorriso dalla faccia.

    Ma almeno, in quella situazione, condivideva il suo punto di vista.

    «Non ho paura di niente e di nessuno», urlò il vecchio. «Solo, mi piacerebbe che, una volta ogni tanto, provaste a ragionare!».

    «Osate alzare la voce?»

    «Non crediate d’impressionarmi, Malatesta. Il fatto che il duca abbia deciso di nominarvi comandante supremo del suo esercito non vi dà certo il diritto di insultarmi!», brontolò il vecchio capitano. «Voi credete davvero che io abbia paura? No, non l’ho affatto! Credo però che prima di fare il gioco del Carmagnola, ebbene dovremmo pensarci con attenzione. Ha avuto la possibilità di sconfiggerci definitivamente dopo Sommo, eppure non l’ha fatto. È arrabbiato per essere stato abbandonato dal signore cui aveva sacrificato la propria vita. Ma forse è anche deluso. E stanco. Provate a pensare, una buona volta: ha lottato per dieci anni sotto le insegne del Biscione, ha riconquistato terre e città per Filippo Maria Visconti, è stato nominato dal duca signore di Genova… E poi tutt’a un tratto è stato messo alla porta. Dev’essere stata una sorpresa fin troppo amara. Ma malgrado la delusione, egli non riesce a odiare Milano. E, nonostante l’oro che i veneziani gli hanno riversato nelle tasche, il Carmagnola esita. Forse c’è la possibilità di accordarsi con lui e, così facendo, evitare un inutile spargimento di sangue».

    «Io invece dico che avete paura, capitano. Ho ascoltato tutte le vostre attente osservazioni e niente mi toglie dalla testa che il vero motivo che vi porta a ribadire, fino allo sfinimento, di prestare cautela, sia il timore di affrontare sul campo il Carmagnola! Ebbene, per me non è affatto un problema! Non ho paura di lui, siamo più forti, meglio equipaggiati, abbiamo con noi otto bombarde. Se non volete battervi, restate qui, nessuno vi chiede di rischiare la vostra vecchia e preziosa pellaccia!», esplose Malatesta, puntando l’indice contro Angelo della Pergola.

    «Comandante, suvvia», intervenne Sforza, «cerchiamo di mantenere…».

    «Non ditemi di mantenere la calma!», lo interruppe Malatesta. «Abbiamo davvero intenzione di lasciar vincere questa battaglia a quattro uomini di laguna?».

    Mentre Malatesta si lasciava andare a quell’ultima domanda, esibendo la propria insofferenza fino all’ultima goccia, qualcuno sollevò l’apertura della tenda.

    «Comandante», disse Guido Torelli, rivolto a Carlo Malatesta, «l’esercito del Carmagnola avanza!».

    «Dove? In quale punto del campo?».

    Torelli parve titubante. «È questo che non capisco. Sta mandando la cavalleria dritta verso la strada per Urago. Niccolò da Tolentino è a capo dei veneziani. Il Piccinino li attende ed è pronto ad aggredirli. Aspetta solo i vostri ordini».

    «Signori», concluse Carlo Malatesta, «il dado è tratto. Raggiungete i vostri uomini. Presidiate la strada per Orci Novi. Per parte mia corro a dar manforte al Piccinino. E a chiudere questa ridicola contesa».

    2. Maclodio

    Ducato di Milano, Maclodio

    La strada spezzava in due la palude. Era un nastro lucido di pioggia e liquido di fango che procedeva dritto al centro di canali e acquitrini da ambo i lati. Gocce grandi come monete d’argento cadevano dal cielo. Niccolò Piccinino occupava l’intera sede della strada insieme alla sua colonna di cavalieri e fanti. La pioggia tintinnava sulle celate d’acciaio, sulle insegne viscontee, inzuppava le gualdrappe dei cavalli, allagava la strada, rendendola ancor più scivolosa e infida.

    Con i suoi occhi Piccinino vide avanzare un pugno di cavalieri veneziani. Il leone marciano sventolava contro il cielo plumbeo e pareva voler ruggire da un momento all’altro.

    In quell’istante, sentì un rimbombo di zoccoli alle sue spalle. Vide un cavaliere muovere ardito e spavaldo fra le file dei suoi. Montava un grande destriero, nero come il carbone. La gualdrappa era a bande di scacchi rossi e oro, alternate a fasce d’argento: i colori dei Malatesta. Il capitano generale dell’esercito visconteo aveva la celata alzata, il volto ben rasato dalla mascella forte, punteggiato di gocce di pioggia.

    Alzò la mano guantata di ferro. «E dunque, Niccolò, è arrivato il momento. Non vorremo lasciare a quello sparuto gruppo di veneziani, l’onore del primo assalto?»

    «Capitano», disse Piccinino, «è proprio questo a rendermi sospettoso e cauto. Com’è possibile che Venezia e Firenze abbiano mandato così pochi uomini ad affrontarci? Le mie spie dicono che cavalieri e fanti non mancano ai nostri nemici».

    «Aspettare, Niccolò? E perché? Sarebbe da vili! Ora: io dico di tenere il nucleo della cavalleria sulla strada e di allargare i fanti in due ali. Avanzeranno attraverso la palude. Per aggredire il nemico sui lati. Con questa manovra a tenaglia avremo ragione di quello sciocco del Carmagnola, di Niccolò da Tolentino e dei loro uomini».

    «Ma…».

    «Nessun ma», tagliò corto Carlo II Malatesta e, senza aggiungere altro, fece passare l’ordine affinché fanti e saccomanni si sparpagliassero ai lati della strada e avanzassero attraverso i canali e il terreno paludoso.

    «E ora», riprese, «è venuto il momento di attaccare». Senza ulteriore indugio, abbassò la celata e, facendo roteare il mazzafrusto nell’aria, gettò il proprio cavallo al galoppo.

    Galvanizzati dalla vista del loro capitano, pronto a sfidare la morte senza timore alcuno, gli altri cavalieri si lanciarono come un sol uomo contro il nemico, che ora cominciava a muovere a sua volta verso Malatesta e i suoi.

    Fanti e saccomanni presero a scendere lungo l’argine, avanzando a fatica ai lati della colonna di cavalieri, destreggiandosi come meglio potevano fra canali e acquitrini.

    Il Carmagnola sorrise. Dall’altura sulla quale si trovava vide che Carlo II Malatesta aveva abboccato all’esca. Il piano dunque stava funzionando. Ghignò, pregustando l’inizio promettente di quel pomeriggio uggioso.

    «Com’è amara la sorpresa quando la si sperimenta in battaglia, non è vero, Giovanni?».

    Il ragazzo, aiutante di campo del Carmagnola e suo scudiero personale, annuì. I suoi occhi chiari ebbero un guizzo divertito.

    «Malatesta si avventerà sui pochi cavalieri che gli ho messo davanti ma non sa ancora cosa gli sta per piovere addosso. Ah, Giovanni, quanto mi dispiace giocare questo brutto tiro alla mia Milano! Ma Filippo Maria Visconti se l’è cercata! Quel giovane storpio non è altro che un ingrato. Invidioso dei successi che mietevo per lui, ha voluto isolarmi e poi rinnegarmi, capisci? Rinnegare me! Che sono il più grande condottiero di sempre!».

    Giovanni annuì di nuovo. Lo sguardo fisso su Francesco Bussone, conte di Castelnuovo Scrivia, gli occhi lucenti di ammirazione.

    «Per lui avevo riconquistato Brescia, Orci Novi, Cremona, Palazzolo e poi perfino Bellinzona e Altdorf, respingendo i temutissimi svizzeri! E lui come mi ha ripagato? Allontanandomi. Ah, sciocco!», tuonò ancora una volta il Carmagnola.

    «Capitano!», disse una voce, spezzando quel soliloquio che pareva più che altro servire a Francesco Bussone per superare la delusione e l’amarezza che gli aveva dato il gran rifiuto di Filippo Maria Visconti.

    «Che c’è?», rispose il Carmagnola infastidito. «Stavo raccontando a Giovanni le mie peripezie e lui dimostrava di apprezzarle. Come sempre, del resto».

    L’uomo, giunto in quel momento alla sommità del colle, da dove il capitano osservava la battaglia, era un cavaliere dall’aria ardimentosa. La sua armatura, finemente cesellata, pareva immune al fango e alla pioggia tanto era lustra. «E in quale modo lo capite», domandò il nuovo arrivato, «dal momento che è muto?». E, quasi a voler sottolineare quel paradosso, l’uomo non riuscì a trattenere un ghigno.

    Quell’impertinenza fece esplodere il Carmagnola in un accesso di tosse. «Voi, Gonzaga», ringhiò subito dopo, «badate a fare la vostra parte! Quanto a Giovanni, egli dice con gli occhi molto più di altri che della bocca non sanno certo fare buon uso! Dunque, gli uomini sono disposti? Sapete cosa dovete fare, fra poco?»

    «Naturalmente. I balestrieri sono in posizione, mimetizzati fra fango e acquitrini e sono pronti a falciare il nemico, prendendolo alle ali».

    «Molto bene allora! Non indugiate in sciocche battute. Ridiscendente verso la strada e date il segnale. Una volta che i balestrieri avranno decimato i fanti e indebolito la colonna di cavalleria di Malatesta, caricate con il grosso dei nostri e sfondate la linea. Se saremo in grado di disperdere i milanesi, incalzandoli e obbligandoli a fuggire sulla destra dello schieramento, allora riusciremo ad allontanarli dall’altra ala, schierata sulla strada per Orci Novi, comandata da Sforza. Così facendo, spezzeremo il loro esercito in due tronconi, rendendolo carne da macello! Mi sono spiegato?»

    «Perfettamente».

    «E allora non perdete tempo. Fate quanto vi ho ordinato».

    «Naturalmente, mio capitano». E senza aggiungere altro, Gianfrancesco Gonzaga girò il cavallo, ridiscendendo il colle.

    Il Carmagnola scosse la testa. «Puah», disse, «devo sempre fare tutto da solo! Meno male che ci sei tu, Giovanni».

    Non appena giunse in vista dello schieramento avversario, Carlo II Malatesta alzò il mazzafrusto e, un istante dopo, lo abbatté sullo scudo di un nemico veneziano. Il clangore fu assordante. L’impatto si rivelò talmente devastante da sbilanciare l’uomo di lato e Carlo, con una rapidità notevole, menò immediatamente un secondo titanico colpo che colse l’altro impreparato. La sfera chiodata spiattellò lo spallaccio che penetrò il cuoio fino a conficcarsi nella carne dell’uomo. Il veneziano lanciò un grido disumano, mentre scie rosse di sangue gli rigavano quel che restava della piastra di ferro.

    Strattonando il mazzafrusto, Malatesta portò via quel che restava dello spallaccio e delle giunture in cuoio, mettendo a nudo l’omero del nemico. Vide schegge di ferro conficcate nella carne. Capì che era il momento perfetto per il colpo di grazia. Così, facendo roteare il mazzafrusto sopra la testa, colpì una terza volta l’avversario al fianco.

    L’uomo cadde da cavallo mentre i chiodi di ferro gli divoravano ancora una volta l’armatura.

    Carlo lasciò andare il mazzafrusto insieme con la sua vittima. I chiodi si erano conficcati talmente a fondo nel ferro che recuperare l’arma sarebbe stato pericoloso. Era un attrezzo micidiale ma non facile da usare. Più di una volta gli aveva dato qualche problema e tuttavia non riusciva a rinunciarvi perché, specie al primo assalto, gli permetteva una velocità d’esecuzione nei colpi che terrorizzava i nemici.

    Sfoderò la spada mentre il veneziano finiva nella mota, in una pozza di pioggia e sangue. Tirò la briglia. Il cavallo s’impennò. Voleva incutere timore, sperando che la paura si diffondesse come lebbra fra le file dei nemici.

    Ma mentre il suo destriero tornava a battere il fango della strada con tutte e quattro le zampe, vide qualcosa che lo terrorizzò.

    3. Le ossessioni di un duca

    Ducato di Milano, Castello di Porta Giovia

    «E dunque io dovrei accettare questa vostra decisione, di buon grado, senza nemmeno emettere un fiato? Non ho tremato per voi ogni giorno? Non mi sono battuta come una furia per proteggervi? Non sono stata al vostro fianco nel concepire e perfino attuare il piano che vi ha permesso di liberarvi di Beatrice? Non vi ho dato la figlia più bella di sempre? E non ne ho perduta un’altra, giusto l’anno scorso? E tutto questo l’ho fatto e sopportato per voi, altezza, perché vi amo più della mia stessa vita!», e nel dire così, gli occhi di Agnese parvero lampeggiare.

    Dio, quant’era bella! Dolce e altera a un tempo, e dunque irresistibile. Agnese del Maino si era strappata la candida cuffia di pizzo e aveva liberato i lunghi capelli biondi che erano ricaduti in luminose ciocche d’oro. Le perle erano finite sul pavimento, rotolando via, andando a perdersi sotto le gambe delle poltrone, foderate di velluto e del tavolo di legno, finemente intagliato.

    L’avrebbe presa in quel momento, se avesse potuto, ma Filippo Maria Visconti sapeva che, se solo si fosse azzardato a toccarla, Agnese sarebbe stata capace di compiere una follia. Dunque doveva blandirla e spiegarle con calma il disegno che aveva immaginato.

    «Amore mio, non siate dura nei miei confronti», disse con misurata dolcezza, «vi riconosco tutti i meriti che avete enumerato e molti altri ancora e tuttavia dovete ben comprendere quanto questo matrimonio sia necessario al ducato. L’alleanza con Amedeo VIII di Savoia mi è tanto più necessaria ora, quando un uomo come il Carmagnola mi si è rivoltato contro, e dunque sposerò Maria. Ma non abbiate a temere, nulla mi allontanerà da voi, poiché siete voi e solo voi quella che amo».

    Il duca aveva pronunciato quelle parole con tutta la sincerità di cui era capace. Pure, Agnese non parve soddisfatta.

    «Certo, ora dite così! Ma fra qualche mese, quando la sposa novella vi finirà fra le braccia, temo possiate perdere il lume della ragione. E poi che cosa ne sarà di Bianca? Cosa penserà di come ci avete abbandonate?».

    Filippo Maria scosse la testa. Seduto sulla sua poltrona preferita, sospirò. Doveva avere pazienza, si ripeté. Si issò in piedi, facendo forza sui bastoni con le braccia. Si trascinò penosamente lungo il salone e si rifugiò presso le fiamme del camino. Maledette gambe, pensò. Se solo avesse potuto contare su un corpo normale. Trattenne un grido di esasperazione. Abbrancando con la mano destra la cornice del grande camino, allungò l’altra verso il focolare, in attesa che il tepore gli suggerisse le parole giuste. I bastoni caddero a terra.

    Se non altro, aveva avvertito un mutamento di tono: la voce di Agnese che prima era stata sferzante, ora si era in parte addolcita. Il suo sguardo, da ardente e battagliero, pareva essersi illanguidito, le ciglia morbide a sottolineare quel cambiamento repentino.

    Approfittando del suo silenzio, Agnese continuò. «Non sono così sprovveduta da non capire le ragioni che vi portano a un simile passo. Ma potrete ben comprendere le mie perplessità. Bianca vi venera come un Dio, e io con lei, e tuttavia, amore mio, i nostri nemici non attendono null’altro che il momento giusto per poterci vedere divisi. E malgrado oggi Amedeo di Savoia si proclami vostro alleato e amico, egli sembra già porre le premesse per esservi avversario domani. Anche il fatto che non dia a questa vostra sposa un solo ducato di dote, ebbene è un fatto a dir poco bizzarro». Agnese ebbe l’astuzia di pronunciare quelle ultime parole con un sospiro dondolante, quasi sensuale.

    Filippo Maria se ne avvide. Rifletté sul fatto che, tacendo, otteneva molto di più che parlando, magari tentando di opporsi. Conosceva bene il temperamento di Agnese e sapeva che in momenti come quelli aveva bisogno di sfogare le proprie preoccupazioni, quasi che, dando loro voce, potesse superarle. D’altra parte non poteva rimanere in silenzio in eterno. Altrimenti, alla lunga, avrebbe ottenuto l’effetto opposto che sperava di conseguire. «Agnese», disse voltandosi verso di lei, «capisco perfettamente tutto quello che dite, anzi lo approvo. Tuttavia, abbiate fiducia in me. Vi ho mai tradita da quando siete al mio fianco? Vi ho dato motivo di dubitare di me?», e in quell’ultima domanda scoccò verso di lei uno sguardo fermo, deciso.

    «No, amore mio».

    «E allora calmatevi!», continuò lui ad alta voce ma senza aggressività alcuna. «Se faccio quello che faccio lo scopo è uno e uno solo: garantirci un alleato potente. Con questo matrimonio, Amedeo VIII di Savoia presta uomini, soldati e mezzi per contribuire alla difesa di Milano. Quarantanovemila fiorini al mese mi costa questa guerra! Se calcolate che le entrate mensili, pur tassando a sangue la popolazione, non superano i cinquantaquattromila fiorini, capite bene di quali modeste risorse possiamo disporre per tutto il resto! Dunque, Agnese, vi prego! Cercate di capire. Questo matrimonio è il pegno che pago ad Amedeo VIII per vedere garantiti i nostri possedimenti. Venezia, Firenze, tutti mi sono contro!».

    «Filippo, vi capisco», disse Agnese, avvicinandosi e facendolo girare verso di lei, prendendogli le mani nelle sue, «come potrei non farlo? Credete che non veda con quale occhiuta avidità la Serenissima vi ha strappato il vostro uomo migliore, riempiendogli le tasche di denaro? E tuttavia, e vi prego di non fraintendermi, non foste proprio voi a cacciare da corte il Carmagnola? Prima convocandolo al vostro cospetto, poi lasciandolo attendere nel cortile, infine senza incontrarlo? So perché lo avete fatto. Ma dovete anche comprendere che, gettando nella polvere coloro che vi sono stati fedeli, alimentate un risentimento nei vostri confronti che prima o poi matura in una rabbia e un desiderio di rivincita ancor più pericolosi dell’avidità che temevate all’inizio». Nel dire così, Agnese strinse ancor di più le mani del duca.

    «Lo so e d’altra parte cos’altro avrei potuto fare?», le rispose, quasi interrogandola, Filippo Maria. «Lo avevo nominato governatore di Genova», continuò, «nel tentativo di garantirgli ricchezza e onori ma al contempo di tenerlo lontano. E guardate come mi ha ripagato! Al contrario, io temo di essere troppo generoso con i miei capitani. Voi ricorderete che furono proprio costoro, non nobili, semplici uomini d’arme dediti allo stupro e alla violenza, a mettere le mani su Milano, provando fino all’ultimo a sottrarmela! Fu solo la morte a fiaccare la resistenza di Facino Cane! Ora abbiamo Francesco Sforza che, pur giovane, sembra l’astro nascente fra i guerrieri di maggior spicco. Pure, anche lui sta faticando e mentre noi parliamo è probabile che, sull’Oglio, i nostri si stiano battendo alla morte contro quei bastardi del Carmagnola! E chissà cos’accadrà».

    «Non dovete perdere la speranza, Filippo!».

    «Speranza?», esclamò il duca. «Non è con la speranza che vincerò questa guerra senza fine ma con il calcolo e il tradimento. Riuscendo a essere più spietato dei miei avversari. Per questo mi serve l’alleanza di Amedeo VIII. Non ho più niente da spendere. Ogni giorno chiedo a Decembrio e Riccio quanto ci è rimasto nelle casse. Il Consiglio di Provvisione ha convocato il Consiglio Generale. Siamo a un passo dalla caduta, Agnese. Perciò, vi prego, non chiedetemi l’impossibile. Se sposo questa Savoia è al solo scopo di garantirci la salvezza».

    Quell’ultimo appello sortì l’effetto desiderato. Lo sguardo di Agnese si fece languido, le mani bianche e bellissime accarezzarono il volto stanco del duca. Poi la bella dama lo aiutò a sedersi di fronte al camino. Quindi continuò. «D’accordo, amore mio. Non vi angustierò ancora. Permettetemi solo di dirvi che uno solo è il punto debole dei vostri nemici in tutta questa storia».

    «E sarebbe?», domandò Filippo Maria, improvvisamente incuriosito.

    «Converrete con me che finora il Carmagnola non ha affondato il coltello quando invece avrebbe potuto. Dopo la vittoria di Sommo si è quasi fermato, come se, dopotutto, egli nutrisse ancora affetto per voi e Milano. Non tutto può essere comprato con il denaro, non è vero? Ed è certo che, dal momento che egli è un grande condottiero, gli risultino tanto più grate le gesta compiute sotto il vostro vessillo. Furono quelle a consegnargli fama imperitura. E nulla conta più della fama per un condottiero. In fin dei conti, se Venezia lo ha accolto fra le proprie braccia, il motivo va ricercato nella gloria che si era guadagnato sotto i vostri colori».

    «Senza dubbio, ma non vedo dove tutto questo possa condurre…».

    «Perdonatemi se insisto, amore mio», disse Agnese, ponendo il proprio indice sulle belle labbra, chiedendo al duca, nel modo più sensuale possibile, di rimanere in silenzio, «ma quello che intendo è che se voi poteste inviargli dei messaggeri che, recando la vostra volontà, gli suggerissero una linea di condotta più prudente e meno apertamente ostile a Milano, pur senza compromettersi in modo esplicito agli occhi di Venezia, ebbene forse potreste ottenere, con l’inganno, proprio come piace a voi, quello che con le armi i vostri uomini non riescono a conseguire».

    Il duca sorrise. D’improvviso gli parve di vedere una luce. «Ma certo!», esclamò. «Se non potrò dargli denaro, gli prometterò terre e possedimenti, tentando di riportarlo dalla nostra parte».

    «Così, se da un lato potrete contare sull’alleanza dei Savoia, dall’altra riuscirete a contenere Venezia e, con un po’ di fortuna, a sottrarre alla Serenissima l’uomo migliore».

    «Già», concluse il duca, «non ho nient’altro».

    «Oh, sì», disse Agnese, la voce roca e passionale, «avete ben altro», sussurrò complice all’orecchio del suo signore, «e potete credermi quando vi dico che bramo il momento di vedervi questa notte nel mio letto».

    A quelle parole, Filippo Maria sentì un brivido di piacere percorrergli la schiena. Rimaneva sempre colpito dal modo in cui Agnese si lasciava andare ad allusioni talmente esplicite da risultare sfacciate. Ma era proprio quel suo essere spregiudicata e aggressiva a renderla tanto più eccitante e irresistibile.

    Affondò le sue mani nelle ciocche d’oro, poi fissò quel volto così bello, naufragando nello sguardo azzurro che aveva davanti a sé. Agnese premette le sue labbra rosse e piene sulle sue. Poi la sua lingua guizzò, cercando quella del duca. Filippo Maria sentì che il desiderio gli cresceva nel petto, nei lombi e poi più giù.

    Era sul punto di liberarsi dei vestiti, quando qualcuno bussò con insistenza alla porta.

    «Perdonate, vostra altezza», gracchiò una voce dal timbro aspro e pedante, «ma reco notizie dal campo di battaglia».

    «Maledetta sfortuna», ringhiò sottovoce Filippo Maria che già pregustava le dolci lusinghe di quella donna per la quale, ogni volta, perdeva la testa.

    Si schiarì la voce, inspirò a fondo e, non appena Agnese si fu ricomposta, ordinò di entrare.

    Un istante dopo, faceva il suo ingresso Pier Candido Decembrio, funzionario ducale e consigliere di fiducia di Filippo Maria Visconti.

    Dopo essersi prodotto in un inchino infinito, salutando con reverenza il duca e la sua favorita, non senza una punta di dispetto per quest’ultima, Decembrio sollevò lo sguardo.

    «Vostra grazia, mi corre l’obbligo di informarvi che l’esercito visconteo e quello veneziano si sono trovati faccia a faccia nei pressi di Maclodio. E che, mentre parliamo, probabilmente si sta consumando una sanguinosa e violentissima battaglia».

    4. Pioggia di ferro

    Ducato di Milano, Maclodio

    Una pioggia di ferro scendeva dal cielo.

    Dardi nereggiavano l’aria, tagliavano la volta con fischi mortali e andavano a falciare le file dei fanti milanesi. Gli uomini camminavano a fatica, cercando di rimanere in piedi, trascinandosi nella mota che rendeva vieppiù precario il loro equilibrio. La prima scarica di quadrelli li prese di fianco, in un’infilata di morte.

    Fu l’inferno.

    Mentre i veneziani si ritiravano sulla strada principale, Carlo II Malatesta rimase per un istante piantato sulle staffe, in un silenzio irreale, senza che nessuno osasse rompere quella sospensione di tempo e spazio.

    Un istante dopo, il capitano ripiombò sulla sua sella e, in un baleno, comprese quel che stava accadendo. E nell’istante esatto in cui capì, si rese conto che era già troppo tardi.

    Lungi dal lanciare un attacco, gli uomini del Carmagnola lo avevano attirato nella trappola più semplice e letale che si sarebbe potuto immaginare. Lui e i suoi si erano infilati in una manovra a tenaglia dalla quale ben difficilmente sarebbero usciti. E a conferma di ciò, scorse infine i balestrieri che, ben oltre la linea dei fanti milanesi, avevano circondato gli uomini appiedati e, emergendo dal fango degli acquitrini e dalle ombre dei canneti, avevano preso a bersagliarli, abbattendoli uno dopo l’altro.

    Tutt’intorno si levarono grida mostruose. Vide un uomo portare le mani al collo, mentre un dardo gli passava la gola da parte a parte. Un altro, raggiunto da un’infilata di quadrelli, rovinò nell’acqua lurida di un canale. Un terzo allargò le braccia mentre il petto gli si riempiva di dardi somiglianti a tanti spilli infernali.

    Ma mentre i suoi soldati cadevano uno dopo l’altro, anche i cavalieri cominciarono a rovinare a terra. I corsieri nitrivano feriti e finivano nella mota, in un fracasso di gualdrappe strappate e corazze risonanti delle punte di ferro che vi si piantavano.

    Un cavaliere tentò di calmare il destriero imbizzarrito, la criniera umida di pioggia, gli zoccoli a mulinare rampanti nell’aria. Infine, non riuscendo nel suo intento, provò a fermarlo, strappando le redini ma si ritrovò sbalzato di sella e, catapultato nel fango, venne calpestato da un sauro senza cavaliere che tentava di fuggire da quel massacro.

    I suoi uomini erano allo sbando. Sorpresi da quell’attacco improvviso, sbilanciati dal fango, decimati dai quadrelli delle balestre, erano sul punto di aprire pericolosamente i ranghi per poi abbandonarsi a una fuga disordinata e ingovernabile che preannunciava una disfatta totale.

    Incalzare il nemico a quel punto sarebbe stata pura follia. Come se non bastasse, Carlo si ritrovò a indietreggiare fino a quando non si vide il passo bloccato dai cavalli stramazzati, dagli uomini feriti e urlanti, dai cadaveri e poi dagli stendardi perduti e le gualdrappe lacere che in un’unica, confusa congerie, impedivano di rientrare verso la linea di difesa. Ma esisteva ancora? Carlo ne dubitava, mentre i dardi gli fischiavano attorno. Poi, un paio di quadrelli dovettero raggiungere il suo destriero perché lo sentì afflosciarsi sulle gambe e lui finì scaraventato giù, lungo il lato destro dell’argine.

    Si ritrovò coperto di fango e terra in fondo all’avvallamento. Con una fatica immensa riuscì a mettersi carponi mentre vedeva davanti a sé gli uomini cadere nei canali a faccia in giù. I balestrieri ora avevano lasciato posto ai fanti e ai saccomanni nemici che caricavano i suoi, spaccando loro le schiene con mazze e asce.

    Il suo esercito era stato annientato. Mani guantate lo afferrarono e fu allora che si riebbe. Estrasse la spada e mozzò qualcosa. Sentì un urlo bestiale sovrastare il cozzare sordo e indistinto di spade e corazze. Vide un fante veneziano con un moncherino rosso che eruttava sangue a fontana. Doveva essere stato lui. Ma non ebbe tempo di pensare. Lo superò, spingendolo nella mota. Non era semplice raccapezzarsi in quella confusione ma ci provò. Sentì un altro urlo. Si voltò. Un cavaliere, colpito a morte, precipitò insieme al cavallo giù per il fianco dell’argine. L’aria si riempì ancor di più di ferro e sangue, le urla gli percossero come martelli pulsanti le orecchie, gli uomini strisciavano a terra: parevano vermi nel disperato tentativo di sottrarsi a quell’inferno.

    Qualcosa gli arrivò da un fianco, scaraventandolo di nuovo a terra.

    Sentì il fiato mozzarsi nella gola. Provò a rialzarsi ma gli parve impossibile. Era come se gli avessero inchiodato le gambe al suolo. Con uno sforzo infinito ritentò ma qualcosa o qualcuno lo spinse di nuovo nel fango. Sentì che gli strappavano la celata. Il sudore e il sangue gli impiastravano i capelli. La pioggia gelida gli diede per un attimo un assurdo senso di sollievo.

    Francesco Sforza era preoccupato. Se ne stava con i suoi uomini a presidiare la strada per Orci Novi ma niente e nessuno pareva manifestarsi. Aveva le bombarde pronte, caricate a pietra e chiodi, gli uomini impazienti di far vomitare quei micidiali proiettili contro i nemici ma non v’era alcun avversario da colpire. C’era giusto la pioggia a rompere il silenzio irreale di quel pomeriggio. Le gocce che tintinnavano sulle celate in una litania che non preannunciava niente di buono.

    Poi dal fianco destro, coperto di fango e sangue vide spuntare un soldato. Stava per dare l’ordine di aprire il fuoco quando s’avvide che l’uomo in armi era uno di loro.

    Un visconteo.

    Alzò la mano affinché nessuno osasse muovere un dito. «Aiutatelo!», tuonò, piantando i piedi nelle staffe e alzandosi in tutta la sua altezza. «Non vedete che è uno dei nostri?».

    Non appena udirono l’ordine, un paio di balestrieri uscirono dai ranghi e si precipitarono verso il soldato che avanzava a fatica. Gli si fecero incontro e, affiancandolo, quasi lo sollevarono di peso per aiutarlo a camminare più in fretta. Infine, giunsero al cospetto di Francesco Sforza che ancora se ne stava ritto in arcione, svettando sopra il suo gigantesco baio.

    L’uomo cadde in ginocchio davanti al suo capitano. Si tolse l’elmo che pareva volerlo soffocare. Lo gettò lontano, in un moto di rabbia.

    «Parla», lo incalzò Francesco Sforza, «che cos’è accaduto?».

    Con un filo di voce, l’uomo riuscì a raccontare quanto era successo. «È tutto perduto», disse. «Piccinino e i suoi sono stati annientati…».

    «Che cosa?», domandò ancora lo Sforza che non credeva alle proprie orecchie.

    Mentre diceva così, il suo cavallo prese a girare in tondo, quasi avvertisse la rabbia che cresceva gelida e silenziosa nel petto del suo padrone.

    Il soldato non sapeva dove guardare. Le sue parole però suonarono come una condanna. «Il Carmagnola ha teso la peggiore trappola possibile», disse, «io sono vivo per miracolo».

    Senza attendere oltre, Francesco Sforza, voltò il cavallo verso le sue schiere, dando le spalle al disgraziato che, stremato, si lasciò cadere nel fango.

    «Uomini!», urlò il capitano. «Seguitemi! Andiamo ad aiutare i capitani Malatesta e Piccinino!».

    Le grida di guerra dei suoi esplosero in un boato assordante.

    Senza attendere oltre, Sforza gettò il suo cavallo al galoppo, sperando di non arrivare troppo tardi per recare soccorso ai viscontei.

    5. Le acque della laguna

    Repubblica di Venezia, Ca’ Barbo

    Guardò quel fratello che amava come la sua stessa vita. Si sedette sulla poltroncina in velluto color aragosta mentre Gabriele si avvicinava a lei, allungando le mani in cerca del suo affetto. Era da poco rientrato da Roma. Vestiva il talare cardinalizio dall’intenso color porpora.

    Insieme a loro, nella biblioteca, c’erano Niccolò, suo marito, e suo cugino Antonio Correr, anch’egli cardinale.

    Polissena percepiva perfettamente il nervosismo di suo fratello. Era arrivato per farle visita e si ritrovava al centro di una complessa questione politica.

    «I Dieci appoggiano il nostro disegno, Gabriele», confermò Niccolò. «Proprio oggi ne discutevo con Venier e Morosini. Il Doge auspica una vostra ascesa al soglio di Pietro. I Colonna hanno i giorni contati».

    «Certo, certo! Avete stabilito già tutto, non è vero?», rispose Gabriele ma nella sua voce non c’era risentimento. Piuttosto, un misto di fatalismo e divertita rassegnazione. «Continuo a chiedermi perché ritenete che io abbia davvero questa possibilità. Perché non Antonio, allora!».

    «Ne abbiamo già parlato, cugino», intervenne quest’ultimo. «Perché mio zio Angelo è già stato pontefice. Prima che diciate che era anche vostro zio vi precedo, osservando che il cognome che portava era identico al mio. E non al vostro. E dunque le mie possibilità si riducono. Sapete che non è bene dare la sensazione di voler riproporre una dinastia, e un nome, al pontificato».

    «Non si poteva dire meglio di così», osservò Niccolò, lisciandosi con il palmo la barba rada. «Voi invece, Gabriele, siete perfetto. Avete il prestigio necessario e, fatto di non poco conto, provenite da una famiglia che, pur benestante, non è nota nei salotti romani per avidità o sete di potere. Siete il candidato ideale. E malgrado l’attuale pontefice sia ancora vivo e vegeto, dobbiamo prepararci».

    «Già», parve fargli eco Antonio Correr, «Venezia è al culmine del proprio prestigio. Se come sembra il Carmagnola trionferà contro Filippo Maria Visconti, sarà lecito attendersi un ampliamento della nostra sfera d’influenza. Ma, per consolidare il potere nella terraferma, la Serenissima ha bisogno di un papa amico e, a giudicare da quel che accade in questi giorni, attualmente non è affatto così».

    «Alludete alla recente visita di Martino V al duca di Milano?», domandò Gabriele.

    «Precisamente», rispose Antonio, sedendosi di fronte a Polissena. Si lisciò i capelli neri, lucidi come seta. «D’altra parte, con il passare degli anni, la fondazione della Congregazione dei Canonici di San Giorgio in Alga sta dando i propri frutti. Sul nostro esempio stanno sorgendo tanti altri centri religiosi: San Giacomo a Monselice, San Giovanni Decollato a Padova, Sant’Agostino a Vicenza, San Giorgio in Braida a Verona. È un successo, è sorprendente ma innegabile».

    «Gli uomini di buona volontà hanno bisogno di ritrovarsi in queste congregazioni e, in tal modo, riscoprire i veri valori religiosi», disse Gabriele con semplicità.

    «Certo, fratello mio», soggiunse Polissena, «ma è evidente che una simile diffusione comporta anche un maggior peso politico della nostra area di appartenenza».

    «Anche voi dunque, sorellina?», soggiunse Gabriele, sollevando il sopracciglio e lasciando che un sorriso gli increspasse le labbra.

    Polissena fece per rispondere ma Antonio la precedette. «Cugino, ho la sensazione che qualcosa di questa discussione vi turbi. Aprite il vostro cuore e diteci cosa vi angustia».

    Gabriele andò dritto al punto. Era un uomo sincero e diceva esattamente quel che pensava. Questo poteva essere un limite ma, secondo Polissena e anche a giudizio di Antonio, un simile fatto lo avrebbe reso, al contempo, il perfetto uomo nuovo della Chiesa di Roma. «A dirvela tutta mi sento come una pedina in un gioco più grande di me. Potrebbe anche andarmi bene, dal momento che, molto probabilmente, ciascuno di noi lo è, ma vorrei almeno essere avvertito».

    Niccolò Barbo trattenne a stento la propria reazione. «Insomma, abbiamo capito, Gabriele. D’altra parte vi stiamo anticipando ora, apertis verbis, che Venezia appoggerà in ogni modo la vostra ascesa al soglio di Pietro. Posso capire che non sia una vostra scelta ma tutti noi confidiamo che non vogliate venire meno al vostro compito, tradendo proprio la Repubblica per la quale ciascuno di noi è chiamato a fare quanto gli viene richiesto».

    Polissena fulminò suo marito con lo sguardo. Capiva il suo punto di vista, ma aggredendo Gabriele in quel modo avrebbe solo ottenuto un rifiuto. Suo fratello aveva la testa dura e, se si fosse sentito messo alle strette, sarebbe anche stato capace di mandare all’aria tutti i loro piani. «Perdonate l’irruenza di mio marito, fratello mio», si affrettò a dire, «e tuttavia Niccolò, nell’asprezza dei suoi modi, ha colto nel segno».

    «Ne sono talmente consapevole, Polissena, che approvo il suo discorso e, dal momento che è molto chiaro quello che mi chiedete, allora lasciate che vi dica che non ho alcuna intenzione di sottrarmi ai miei obblighi nei confronti della Repubblica. Capisco perfettamente quanto Roma possa essere strategica per Venezia».

    «Pensate anche solo a Bologna, Gabriele», lo incalzò Antonio. «Ferrara e gli Estensi verranno ridotti a ben più miti consigli non appena si vedranno stretti fra il nostro esercito di Terraferma da una parte e quello pontificio dall’altra. E questo non è che uno dei molti vantaggi che potrebbero derivare da una vostra elezione».

    «Senza contare che siete proprio voi il cardinale di Bologna», celiò Polissena.

    «Già! Insomma, tutto è deciso. Non appena Martino V dovesse passare a miglior vita, basterà solo farsi eleggere, non è vero? Ma non sarà facile per niente», continuò Gabriele. Tuttavia, ora il suo atteggiamento era impercettibilmente cambiato. Se fino a qualche istante prima la sua parziale avversione suonava genuina, ora quella sorta di ritrosia pareva celare una certa qual scaramanzia.

    «Può essere. Ma sappiamo per certo che gli Orsini faranno muro contro i Colonna. Non sono abbastanza forti per poter esprimere un proprio candidato ed è dunque certo che Giordano Orsini appoggerà il vostro nome. Lo stesso posso dire per Antonio Panciera. Poi ci sono io… insomma sono già tre voti, non vi pare?»

    «Ce ne serviranno molti di più».

    «Non preoccupatevi per questo, a procurarvi le preferenze necessarie ci penserò io. Sarete papa, Gabriele, che ci crediate o meno», concluse trionfante Antonio Correr.

    Niccolò li guardò negli occhi.

    Polissena fece altrettanto. Poi, quasi a voler suggellare quel patto tra loro, si lasciò sfuggire tre parole. «Non possiamo fallire».

    Nell’udire una tale determinazione a Gabriele si gelò il sangue.

    6. Disfatta

    Ducato di Milano, Maclodio

    Senza pensarci, aveva girato il cavallo e si era lanciato sulla strada per Urago. I suoi uomini l’avevano seguito come se fossero stati incalzati da una schiera di diavoli urlanti. Non c’era tempo per usare le bombarde e aveva lasciato un contingente dei suoi sul posto affinché smontassero i pezzi e li trainassero al di qua dell’Adda, verso Milano.

    Lo seguivano, dunque, i suoi migliori cavalieri, nel numero di seicento. Non sapeva cos’avrebbe trovato ma era certo di dover fare presto. Sperava di riuscire ad arrivare ancora in tempo.

    Il Carmagnola aveva combattuto con intelligenza. Aveva concentrato gran parte del suo esercito contro le forze di Malatesta e Piccinino, nei punti in cui era disposta la maggioranza dei viscontei e, aggredendo il corpo centrale, aveva spezzato lo schieramento in due, tagliando fuori i suoi uomini dalla battaglia.

    Quando giunse a metà strada fra Maclodio e Urago, s’avvide di quel che lo attendeva. La strada diventava una scia di fango, delimitata da due argini che collassavano in una vasta depressione di acquitrini e paludi dall’uno e dall’altro lato. Da lontano gli pareva di scorgere un brulicar d’insetti.

    Non appena si avvicinò, vide quel che era rimasto: corpi straziati e fatti a pezzi, volti trasfigurati dal dolore, bocche urlanti che chiedevano il colpo di grazia. Nel frattempo, lungo la strada, Francesco faceva fatica ad avanzare. Cumuli di cadaveri riempivano la via. Gli stendardi dei Visconti erano finiti nel fango. Ovunque armature spezzate, elmi pestati e rotti, scudi ammaccati e spade abbandonate.

    Francesco Sforza si fece il segno della croce. Dopo aver visto quell’apocalisse, udì finalmente qualcosa. In lontananza, verso Urago, udiva netto un clangore di spade, come se, dopotutto, qualcuno si ostinasse ancora a combattere.

    Spronò il proprio destriero e, superando quel massacro, si diresse senza indugio verso il punto in cui udiva il cozzar di lame. I suoi gli tennero dietro. Ma se fino a quel momento non erano mancati gridi di guerra e di incitamento, ora la schiera di cavalieri fendeva l’aria fredda della sera in silenzio.

    Il cielo si era fatto di piombo. Saliva una nebbia umida che pareva avvolgere in un sudario la piana allagata di stagni. Gli zoccoli dei cavalli battevano sinistri con un rimbombo di morte. Francesco Sforza sentiva il canto violento delle spade farsi sempre più vicino.

    Di lì a qualche istante vide un pugno di viscontei resistere agli assalti di un ben più numeroso gruppo di cavalieri veneziani. Sguainò la spada e, voltandosi verso i suoi, alzò la lama per poi abbassarla repentinamente, indicando il nemico e dando l’ordine di caricare. I nemici furono travolti.

    Sforza colpì il primo uomo che gli si parò dinnanzi con tutto l’impeto possibile. Il cavaliere veneziano vide girare il proprio braccio verso il basso, piegato in modo innaturale dall’incredibile furia di Sforza. Il guerriero urlò, ma non riuscì a raddrizzarsi in sella. Il capitano, galvanizzato dalla vista dell’avversario in difficoltà, doppiò immediatamente il colpo, con un secondo fendente che l’altro non riuscì a parare, finendo in un mare di fango. Non appena l’uomo rovinò fra acqua e mota, uno dei fanti viscontei lo cercò e gli piantò la picca nel petto. Sforza proseguì nella sua corsa e, menando altri due fendenti, fece rovinare un altro nemico. Ben presto, i suoi uomini riuscirono ad aver ragione dei veneziani, facendoli a pezzi e mettendoli in fuga.

    «Più avanti, capitano!», urlò un soldato visconteo. Agitava il braccio sinistro in direzione di Urago. Con il destro si teneva allo stendardo come se fosse la sua ultima ancora di salvezza. Le insegne del biscione azzurro e dell’aquila nera imperiale erano chiazzate di sangue e fango. «Niccolò Piccinino è proprio oltre quella curva!».

    Francesco Sforza si limitò ad annuire, spronando ancor di più il suo destriero. Se non altro non se ne sarebbe andato a mani vuote. Piccinino era un ottimo condottiero e, malgrado avesse sottovalutato il Carmagnola, meritava di salvare la pelle. Con la spada sguainata, Sforza procedette in quella bolgia di porpora e nebbia, fino ad arrivare alla curva. Sentiva il cavallo

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