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Memorie di Ankamarka
Memorie di Ankamarka
Memorie di Ankamarka
E-book489 pagine6 ore

Memorie di Ankamarka

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Info su questo ebook

"Il titolo di questa pubblicazione, Memorie di Ankamarka, nasce da un'idea dell'ispettore S. Rojas C., che poi è la persona che mi ha fatto pervenire il quaderno manoscritto oggetto della presente edizione, quaderno che era stato rinvenuto nella capanna ove abitava un pastore morto ammazzato. […] Il manoscritto era contenuto in uno zaino assai rovinato assieme ad altri oggetti d'incerta provenienza, e aveva fatto parte dei reperti utilizzati nel corso dell'investigazione per un altro caso presunto di omicidio".

Così inizia il libro che, pur non essendo un thriller, si dipana mantenendo in secondo piano l'indagine dei fatti criminosi e consente al lettore di gettare uno sguardo sui modelli di vita delle genti andine del periodo precolombiano. Un mondo passato, certo, tuttavia un mondo possibile quantunque ormai morto. In effetti, si tratta di una narrazione, ai nostri occhi senz'altro utopica, su qualcosa che avrebbe potuto essere ma che, alla luce della Storia, non fu.

Un naufrago dell'odierna società consumista si ritrova catapultato nel territorio abitato da un gruppo andino non contattato e ne descrive usi, costumi e impressioni.

Riuscirà la semplicità di un'esistenza priva di denaro, di condizionamenti e di tabù, a conquistarlo? Ce la farà a vivere libero in armonia con con uomini e natura? Oppure il suo patetico retroterra culturale lo spingerà a tornare nel proprio mondo?

Un libro sull'amicizia, l'amore, la passione, l'umiltà e sul dono epifanico della diversità. Un libro che indica nella filosofia della rinuncia l'unica forma di dottrina ideale per superare il moderno malessere esistenziale.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2022
ISBN9791220394246
Memorie di Ankamarka

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    Anteprima del libro

    Memorie di Ankamarka - Sergio Rossa

    NOTA DEL CURATORE

    Il titolo della pubblicazione, Memorie di Ankamarka, nasce da un’idea dell’ispettore S. Rojas C., che è poi la persona che mi ha fatto avere il quaderno manoscritto oggetto della presente edizione, quaderno che è stato rin enuto nella capanna di un pastore morto ammazzato. Il ritro amento ha a uto luogo durante la perquisizione di routine fatta dalla polizia in seguito al fatto criminoso. La capanna si trova in prossimità del Nevado San Juan, poco oltre il villaggio omonimo, un piccolo borgo montano della provincia di Urubamba, regione Cusco, Perù. Il quaderno era contenuto in uno zaino assai deteriorato assieme ad altri oggetti d’incerta provenienza, e aveva fatto parte del repertorio di materiali rilevanti emerso nel corso dell’indagine su un precedente caso di omicidio...

    Mi rendo conto che un tale incipit a tinte gialle sia inadatto a spiegare lo spirito del racconto. In effetti le pagine che seguono, sebbene non manchino di suspence, non hanno nulla del romanzo poliziesco. Descri ono, piuttosto, il lento s elamento della dimensione catartica della rinuncia. I giusti termini per presentare l’opera sarebbero dunque: come i ere senza denaro, senza tabù o condizionamenti di sorta. Come i ere da ero liberi, insomma.

    Nondimeno, per soddisfare la legittima curiosità del lettore, vedrò qui di riassumere l’intricato viluppo dell’inchiesta che ha consentito di risolvere, in buona parte, l’arcano relativo alle succitate morti.

    L’ispettore Rojas, anziano funzionario della Divisione di In estigazione Criminale di Cusco, era stato dunque assegnato al gruppo di ricerca che do e a far luce sulla misteriosa scomparsa di un archeologo statunitense sui monti della Cordigliera dell’Urubamba. Nonostante la puntigliosa indagine, la polizia aveva do uto arrendersi all’evidenza che dello scienziato e delle sue appartenenze s’era persa ogni traccia.

    Qualche anno dopo l’ispettore Rojas era stato inviato a Urubamba per riaprire l’inchiesta. Nella capanna di un pastore di camelidi ucciso in circostanze poco chiare, era stato infatti rinvenuto lo zaino dello studioso scomparso. Gli accertamenti avevano permesso di appurare che il nordamericano era morto per mano dello stesso pastore assassinato e di due suoi complici. Ciononostante, la polizia non era giunta a determinare i moti i del delitto.

    Degli oggetti presenti nel sacco da montagna, di appartenuti con sicurezza all’archeologo furono rinvenuti solo due penne a sfera del tutto prive d’inchiostro, una giacca militare e il quaderno di cui parlerò tra poco. Tuttavia il quaderno, riempito di una calligrafia minuta in ogni sua pagina, non era scritto in inglese, bensì in italiano.

    La polizia riuscì a catturare uno dei due complici del pastore assassinato (l’altro scappò subito dopo il fatto di sangue) il quale scaricò sui suoi sodali ogni responsabilità per l’uccisione dello scienziato. L’arrestato confermò che tale omicidio era avvenuto nei pressi del Ne ado San Juan, lungo il canale scolmatore che delimita un’enorme e scoscesa pietraia di arduo accesso, ma ribadì che lui era un semplice testimone oculare. Dopo aver ammazzato l’archeologo, i pastori gli avevano sottratto quanto di utile o commerciabile c’era nello zaino, quindi avevano gettato nella scarpata il corpo e quant’altro considerato potenzialmente riconoscibile, in particolare il sacco da montagna e la giacca militare. Perché costoro si trovassero sul sentiero, non ci fu verso di chiarirlo. Neppure fu possibile sapere in che modo lo zaino riapparve nella capanna del pastore ucciso.

    In base alle evidenze emerse, l’ispettore Rojas giunse quindi alle seguenti conclusioni.

    L’archeologo era stato ucciso da alcuni pastori per ignote ragioni e derubato di parte dei suoi averi. Lo zaino, la giacca militare e alcuni materiali di studio dello scienziato, erano stati buttati nella pietraia e recuperati, non si sa come, da un italiano non meglio identificato. Costui se n’era servito per redigere l’incredibile racconto che di seguito verrà proposto ai lettori. In qualche modo la giacca militare e lo stesso zaino, completo di altri oggetti appartenuti possibilmente all’italiano, erano arrivati di nuovo nelle mani dei guardiani di camelidi. Ci si trovava di fronte a un omicidio ulteriore? Chissà. Comunque, una lite fra pastori aveva causato l’uccisione di uno di essi e la fuga di un secondo. Era plausibile che il terzo uomo coinvolto nella icenda, il pastore arrestato, fosse, quantunque complice per non aver ri elato a suo tempo quanto sape a, un semplice testimone dei fatti.

    I dubbi che l’ispettore Rojas aveva evidenziato nel suo rapporto, gli avevano permesso di fotocopiare il quaderno - l’originale, ovviamente, è rimasto agli atti - e proporlo per la sua diffusione. Sperava così di scovare l’autore del manoscritto e di far piena luce sull’intricata icenda.

    Venendo a parlare dell’opera, a me la lettura del quaderno ha consentito di gettare uno sguardo sui modelli di vita delle genti andine del periodo precolombiano. Un mondo passato, certo, tuttavia un mondo possibile benché ormai morto. In effetti, si tratta della narrazione, ai nostri occhi senz’altro utopica, di qualcosa che avrebbe potuto essere ma che, alla luce della Storia, non fu. L’invasione spagnola del continente sudamericano aveva distrutto ogni sorta di civiltà superiore lasciando solo forme culturali più primitive, seppur straordinarie e interessanti, nell’area amazzonica e in certe zone andine dal clima estremo. Tale dimenticanza, per così dire, si dovette soltanto alla difficoltà dei conquistadores di raggiungere quelle enclave e di incivilirle. Nondimeno dovremmo chiederci se i fatti narrati non siano realmente accaduti, magari in altri tempi e con altri attori; se gli avvenimenti esposti dall’anonimo autore - rifacendosi, chissà, al principio di verosimiglianza - non siano, cioè, Storia. Come saperlo? Qualche dubbio rimane di fronte a passi talmente ben costruiti e dettagliati che sarebbe difficile definire come del tutto inventati. E d’altronde, ben lo evidenziava nel libro Non ci sono solo le arance la scrittrice britannica Jeanette Winterson: Alle persone piace distinguere tra narrazione, che non è oggettiva, e storia che invece lo è. Lo fanno per sapere a cosa credere e a cosa non credere. Questo è molto curioso. Come mai nessuno crede che la balena abbia ingoiato Giona quando ogni giorno Giona ingoia la balena? Mi pare di vederle, mentre si bevono tutte contente il più inverosimile dei racconti da marinaio. E perché poi? Semplicemente perché è storia. Sapere cosa credere ha i suoi vantaggi. Ha permesso di costruire un impero e di tenere la gente al suo posto, nel luminoso reame del portafogli...

    Concluderò questa dissertazione accennando agli interventi fatti sul corpo del racconto.

    Senza modificare la progressione temporale definita dall’anonimo scrittore, ho cercato di accorpare i capitoli in unità narrative a cui ho dato un titolo il più consono possibile ai contenuti rappresentati. D’altro canto, l’autore stesso aveva sezionato in qualche modo il suo scritto inserendo parti di analisi e specificazione dirette a un fantomatico quanto indesiderato lettore, e ciò forse solo per a ere una figura retorica di riferimento del tipo di quelle che ci s’inventa quando si scrive un diario. Sicché, in realtà, il mio intervento si è rivelato davvero poco evidente.

    Nel testo ci sono diversi vocaboli in lingua quechua; ho pensato che sarebbe stato apprezzato un glossario di quei termini in fondo al libro.

    Il lavoro che mi ha creato più grattacapi è stato l’inserimento delle note di chiusura. In alcuni casi si è trattato di puntualizzazioni o ie, in altri ho dovuto fare delle ricerche approfondite su passi che l’anonimo scrittore aveva evidenziato (circoscrivendoli tra apici), e che pertanto si riferivano a frasi non sue. Scoprire chi ne fosse l’autore è stato piuttosto arduo.

    Per meglio cogliere la straordinaria originalità dell’antico, ancorché ipotetico, mondo andino e la sua diversa visione delle cose, avevo pensato d'integrare il testo con spiegazioni e valutazioni in forma di saggio, talvolta riprese dal web, altre volte mie, ma più spesso citazioni di studiosi e cronisti di quella civiltà. Ho desistito dal proposito perché le informazioni (che senza dubbio a rebbero dato al racconto un certo grado di storicità) a rebbero rotto il ritmo narrati o; inoltre possono benissimo essere reperite dal lettore interessato su internet o nelle biblioteche.

    Bene. Mi auguro che, con tutto ciò, ne sia uscito un libro interessante e coinvolgente a sufficienza.

    LA CADUTA

    I

    Mi sono svegliato con un dolore allo stomaco, sopportabile ma fastidioso. Odo colpi di pietra e avverto un buon odore di foglie bruciate. Aspiro appieno e un messaggio di malessere mi giunge da tutto il corpo. Provo ad aprire gli occhi, ma il solo movimento delle palpebre ha l’effetto di creare un corto circuito tra iridi e scatola cranica. Nondimeno mi sforzo di socchiuderli per sapere dove sono.

    Mi ritrovo avvolto in una pesante penombra stracciata qua e là da sottili filamenti luminosi che penetrano da un tetto di paglia. Il posto ha un che di nuovo e di curioso per me. Vorrei esaminare con maggior cura ciò che mi circonda, ma non riesco a ruotare la testa e men che meno i bulbi oculari; farlo, mi provoca un dolore eccessivo. Arrivo a scorgere solo quanto mi sta dinanzi.

    Intra edo la sagoma appena incur ata di una signora che indossa abiti scuri, molto semplici e di foggia sconosciuta. È intenta ad accendere il fuoco sotto una cucina d’argilla fatta a scalini. Su ogni scalino c’è una pentola di coccio. Ho già visto quel tipo di cucina, non ricordo dove né quando.

    Osser o le scintille prodotte dal rude sfregamento di due pietre tenute in mano dalla donna. Al momento i suoi tentati i non generano che blande olute di fumo che s’inanellano tenaci lungo i lucenti filamenti fino a raggiungere il tetto. La fiamma prende infine corpo sotto il recipiente posto più in basso. Lei lo toglie, sparge delle palline scure sul fuocherello, quindi ripone la pentola sul quel primo gradino della cucina. Piccole lingue giallognole rischiarano la donna di sbieco. Nel breve chiarore distinguo il volto di un’anziana signora dai vaghi tratti asiatici. Intanto, un lie e sentore di escrementi si propaga piano nell’aria ferma.

    Indo ino la forma del mio corpo disteso supino sotto mante tessute in modo grossolano e di differenti tonalità di marrone. A occhio, do rei essere alto di statura. Sebbene noti che le gambe non sono più lunghe di un metro, sento i miei piedi assai distanti dal bacino. È una sensazione strana, non direi spiacevole, però sì inconsueta.

    Mi concentro per ricordare come sono arrivato in questo luogo e mi stupisco all’accorgermi di non avere memoria. M’incuriosisce questo mio stato amnesico; la mente è bianca, vuota. Vuota non è il termine corretto; di fatto, riconosco molte delle cose che vedo, non mi costa sforzo alcuno nominarle. Al contrario, non rammento il mio nome, le mie fattezze e niente dei miei trascorsi. È la testimonianza autobiografica che s’è persa. Non so come spiegarlo, ma l’assenza del passato, in questo particolare momento, non mi angoscia. Pare quasi che il mio cervello abbia voluto cancellarlo di proposito. D’un tratto realizzo, divertito, che mi toccherà chiamarmi in altro modo, che dovrò iniziare una nuo a ita senza il peso delle esperienze trascorse e con differenti compagni di viaggio. La proposta mi appare stimolante e mi domando perché.

    Mi è difficile analizzare lo scarno flusso di singolari sensazioni che percorrono irri erenti il quasi immoto oceano della mia mente. Si direbbe che il mio animo sia aperto a nuove avventure. Significa che mi sono lasciato alle spalle un’esistenza disastrosa?

    Comunque, se devo rinascere, sarà bene controllare che il mio fisico ne abbia tutti i requisiti. Con un certo travaglio riesco a muovere le dita delle mani e dei piedi. Bene. Ora mi proverò a spostare le braccia per esplorare altre parti del corpo. Non sento forti dolori, ma un malessere fastidioso e generalizzato. Vediamo ora di flettere gli arti inferiori. Ahi! il solo muovere la gamba destra mi cagiona un intenso patimento. Non credo che sia rotta, altrimenti la sofferenza sarebbe costante. La gamba sinistra mi duole in più punti ma arrivo a piegarla. Porto una mano al viso. Sento una fasciatura e delle croste sul naso e sulle labbra. Mi tocco la nuca. Questa sì che fa male! Devo essere caduto, non trovo altre spiegazioni.

    L’anziana donna si è voltata. Deve essersi accorta che sono desto perché s’avvicina cauta al mio giaciglio. Indossa una tunica di spessa lana bruna che le arri a fino ai piedi. Una manta nera dai bordi chiari annodata sulla spalla destra le attraversa il petto. Mi sorride. Il suo è un sorriso sdentato, ma lo sguardo manifesta bontà e simpatia. Non è proprio piccola e direi che non sia neppure magra. I capelli, neri con qualche filo grigio, sono raccolti in due lunghe trecce che le cadono sulle spalle. La pelle del viso è 6 piuttosto scura, levigata e segnata da poche ma marcate rughe. Le gote prominenti, lisce e ancor più scure delle altre parti del volto, danno maggior profondità all’incavo degli occhi. Il naso è appena schiacciato e le labbra sono sottili e poco carnose.

    Potrebbe avere sui settant’anni, forse più, forse meno. Alla donna andina, dopo i trenta non si sa più che età darle.

    La donna andina... non so come siano emerse, improvvise, queste parole dall’abbagliante vuoto mentale. È dunque possibile che in passato io abbia avuto a che fare con genti delle Ande?

    Mi tocca il braccio incerta e porta la mano alla bocca perché intenda che mi devo nutrire. Non ho fame e l’idea di mangiare mi procura una leggera nausea. Cerco di muovere la testa per passarle un segnale negativo, ma non ci riesco, il dolore è davvero lancinante. Sollevo allora la mano destra e, muo endo il dito indice come un metronomo, pro o a comunicarle di non a ere appetito.

    Mi prende la mano nelle sue, di enta seria e fa un deciso gesto affermati o con il capo. Mormora qualcosa che non capisco, non ho idea se ciò sia dovuto alla totale mancanza di denti oppure a quel suo esprimersi in una lingua sconosciuta. Sembra insistere affinché io mandi giù qualcosa. Chiudo e riapro le palpebre per darle il mio assenso. Sul suo viso riappare il solco vuoto di un sorriso. Libera la mia mano accarezzandola lieve, con uno scivolamento lento, quasi sensuale, delle palme callose. Poi si gira e s’affretta verso la cucina dove la vedo armeggiare attorno alle pentole d’argilla.

    Torna verso il letto rimestando con un legnetto il contenuto di una ciotola. Si dirige a me con parole che non mi significano alcunché. Alzo la mano e con le dita tento di manifestarle la mia difficoltà di comprensione. Sorride e mi tira fuori la lingua. Rimango sconcertato, ma poi realizzo che mi sta suggerendo il sistema per alimentarmi. Infatti, a poco a poco, il cibo, piuttosto denso, raccolto sul bastoncino appiattito, mi viene spalmato sulla lingua così che possa inghiottirlo.

    Ogni volta che mando giù un boccone sento delle dolorose stilettate alle tempie che si diffondono come impulsi elettrici alla nuca. Vorrei dire alla ecchia di smettere, ma il suo sorriso fiducioso mi obbliga a continuare a tirarle fuori la lingua fino a vuotare la ciotola. Solo all’ultima leccata faccio caso al sapore del pastone. È un composto di farine di fa e, mais e patate, ma sento anche un che di amarognolo, qualche erba aromatica, forse. Non è buono, ma è mangiabile.

    La conoscenza dei componenti del cibo è una conferma che io avevo una certa dimestichezza con le Ande e gli andini. Mi chiedo in che modo possa essere entrato in contatto con quel mondo alto-montano, ma la mia memoria non rilascia alcun dato. Neppure riesco a supporre alcunché.

    Ora la signora sta lavando la ciotola e il bastoncino in un catino di terracotta pieno d’acqua posto su una specie di ripiano di mattoni crudi accostato alla parete. Non usa detergenti. Scuote le stoviglie pulite nell’aria per eliminarne le gocce residue, quindi le appoggia sul ripiano accanto al recipiente di terracotta.

    Si copre il dorso con uno scialle. Se lo stringe ben bene sul petto fissandolo con uno spillone metallico. Si volta verso di me e mi sorride. Da una rientranza della parete prende un cappello adorno di fiori giallastri, lo indossa e si allontana svelta. Un’improvviso squarcio di luce invade per un attimo la cucina e mi ferisce gli occhi. L’anziana donna è uscita e, da come s’è vestita, non tornerà tanto presto. Non ho udito sbattere la porta, segno che l’ingresso non può che esser chiuso da un telo.

    Con il ritorno della penombra mi prende un certo torpore, le palpebre si fanno pesanti, non riesco a tenerle socchiuse... chiuse... bianco...

    II

    Ritorno alla realtà percependo un peluche che percorre una e un’altra olta l’intero mio corpo.

    Sono affamato. Apro gli occhi con cautela per evitarmi le dolorose fitte di poc’anzi. Meraviglioso, non avverto che una lieve tensione all’altezza dell’osso occipitale della scatola cranica.

    Il peluche è, invero, un porcellino d’india. Un uomo lo ha squartato e ora, alla luce di uno stoppino che arde in una piccola ciotola, ne sta osservando le viscere. Sembra soddisfatto.

    L’uomo è piuttosto magro e non molto alto, la pelle olivastra, le guance sca ate, gli occhi piccoli e infossati, il grande naso dalle nari prominenti, i capelli lisci, nerissimi, lunghi quanto basta per coprirgli le orecchie. Non saprei dargli un’età precisa, suppergiù direi che sia sulla quarantina.

    Veste un abito di foggia non comune. Sembra un camicione di lana color bianco a orio che lo a olge fino alle ginocchia ed è chiuso da una cintura marrone all’altezza delle reni. Le maniche, piuttosto larghe, non giungono a coprirgli i gomiti. In realtà il vestito, osser andolo meglio, pare piuttosto un grande sacco con tre orifizi per le braccia e la testa.

    L’uomo si rivolge a voce alta all’anziana signora che mi aveva imboccato e che ora è intenta a filare presso la cucina, in piedi, illuminata da un frammento di giorno che penetra dalla porta. Non so in che lingua si esprima, sebbene mi paia di riconoscere alcune parole.

    La ecchia sembra contenta, alza il olto e le braccia al cielo e schiocca le labbra come per in inviare un bacio verso l’etere.

    L’uomo si accorge che lo sto osservando. Sorride mostrando una dentatura scura e irregolare. Mi si rivolge con brevi frasi. Credo di capire che non mi sia successo niente di grave. Poiché quei suoni non appartengono al mio normale modo di pensare, mi riesce logico dedurre che devo aver studiato quell’idioma. Se queste persone sono andine, non possono che discorrere in quechua.

    Gli sorrido a mia volta e cerco di muovere la testa nella sua direzione. Mi duole ancora, ma non tanto come prima di addormentarmi. Mi piacerebbe chiedergli do e ci tro iamo, orrei proferirlo nella sua lingua, ma la memoria non mi aiuta. Forse la mia conoscenza della parlata delle Ande è troppo acerba e non mi consente di esprimermi adeguatamente.

    Cerco allora di sollevarmi. L’alzare il capo mi produce un leggero mancamento e una fitta alla zona occipitale destra. Nondimeno riesco a issarmi fino ad appoggiare la schiena alla parete di terra che funge da spalliera del letto.

    Per porre la domanda desiderata, punto il dito indice della mano destra al mio petto, poi ruoto il braccio per segnalare l’ambiente tutt’attorno e infine piego le due braccia aprendo nel contempo le mani e serrando le labbra in un’espressione interrogativa. L’uomo sembra comprendere e mi risponde nel suo idioma. Scandisce bene le parole e le accompagna con una gestualità opportuna.

    «Sei a casa di Pinchiq Ch’aska ad Ankamarka. Sei apparso presso l’erta pietraia che sta alla base dell’Apu Illawaman, la nostra montagna sacra. Ti ha incontrato Atawchi quando pascolava gli allpaqa della comunità. Atawchi è il figlio di Pinchiq Ch’aska e ha avuto l’indicazione dal nostro sciamano. Suskhuq, lo sciamano, ti ha visto nel suo specchio magico. Dice che sei caduto dal cielo.»

    Certe parole non le comprendo, ma grossomodo intuisco quanto mi comunica l’uomo. Lo spingo a proseguire con un cenno della mano.

    «Io mi chiamo Llamoqa e sono un hanpiq. La caduta non ti ha pro ocato rotture, solo molte contusioni, qualche escoriazione e una ferita piuttosto profonda al polpaccio della gamba destra. Il colpo più grave è quello che ha determinato l’incrinatura della scatola cranica.

    Ho già eliminato il sangue raggrumato sotto il cuoio capelluto con una semplice incisione.»

    Mi tocco la nuca. Duole. Di nuovo segnalo il mio petto con l'indice della mano destra, quindi addito più volte il suolo. Poi faccio girare lo stesso dito in senso antiorario come per dire prima, chiudo la mano a pugno e prendo ad aprire le dita abbozzando la numerazione da uno a cinque. Mi rendo conto di aver fatto un mo imento in olontario, tutta ia la capacità di mostrare i numeri indica che le mie facoltà logiche non hanno subito particolari danni.

    Llamoqa sorride e fa cenni affermativi con la testa, credo proprio che abbia capito.

    «Inti, la nostra deità principale, si è svegliato cinque volte da quando sei qui e tre dall’ultima volta che hai mangiato. È necessario che tu ti nutra, puoi farlo da solo?»

    Accenno di sì con il capo. Dunque, sono passati tre giorni e non solo poche ore da quando mi sono riaddormentato, ecco perché ho fame! È probabile che il sapore amarognolo presente nel cibo appartenesse a un’erba narcotica che mi era stata somministrata per rilassarmi e non provare dolore.

    Pinchiq Ch’aska accorre al mio capezzale con un grossa ciotola. Nella brodaglia giallastra che odora di wakatay, navigano pezzi di carne, patate, fave e palline di ch’unu. Mi porge il tazzone senza alcuna posata. «T’inpu» dice.

    Non so cosa intenda suggerirmi, ma ho l’impressione che dovrò mangiare con le mani e bere il brodo. La carne è un po’ dura ma saporita; le patate reidratate, invece, non mi piacciono. Non è il caso d’essere schizzinosi, però.

    L’atto di masticare mi pro oca delle fitte alla testa. Ad ogni modo finisco il cibo in fretta e cerco di far capire a Pinchiq Ch’aska che ne orrei ancora. Llamoqa fa un cenno negati o col capo.

    «Non è bene mangiare troppo dopo tanto digiuno» afferma risoluto.

    Mi prende la ciotola dalle mani e la porge alla donna.

    «Quando il sole va a riposare gliene darai ancora» le ordina.

    Pinchiq Ch’aska ritorna verso la cucina. Si china per prendere da terra il catino d’argilla pieno d’acqua e lo appoggia sul ripiano di mattoni crudi dove ci sono i resti vegetali, bucce e quant’altro, del desinare. Prima di posizionare il secchio, la donna passa la mano sul ripiano e getta gli avanzi al suolo. Subito accorrono alcuni porcellini d’india che s’azzuffano per accaparrarsi il cibo lanciando i loro caratteristici, curiosi fischiettii: cuy, cuy, cuy...

    Pinchiq Ch’aska non ci fa caso e prende a lavare la ciotola.

    Lo sciacquio prodotto mi stimola le vie urinarie. Sento necessità di andare in bagno. Mi domando come abbia fatto i bisogni in tutti quei giorni di forzata assenza. Magari ho orinato e defecato nel letto; se così fosse, è possibile che, alzandomi, si espanda un tremendo lezzo.

    Metto il dito indice della mano destra presso l’inguine come se fosse il pene ed emetto il suono dell’acqua che scorre. L’hanpiq ride di gusto e mi sprona ad alzarmi. Scosto le mante che mi coprono e tiro fuori le gambe dal letto con circospezione, attento ai dolori, e agli odori, che potrebbero presentarsi. La gamba destra mi fa ancora piuttosto male, mi auguro che possa sostenere il peso del corpo. Non percepisco effluvi particolari, tuttalpiù del puzzo di sudore. Sospetto che lo stress della caduta abbia bloccato le normali attività corporee.

    Mi accorgo di a ere indosso dei calzoni piuttosto malandati ma puliti; sono di cotone nero con tasche laterali. Il pantalone destro è strappato e lascia intravvedere una lunga crosta scura dai bordi verdognoli. Presumo che la colorazione sia dovuta a qualche impiastro di erbe medicinali. Ai piedi ho delle calze grige di cotone, queste da ero sporche, con qualche buco qua e là.

    Noto che il suolo è coperto di paglia. La donna è scalza, mentre il curandero porta dei sandali di pelle.

    «Quando sei arrivato qui, eri sporco e puzzavi di feci e di orina» dice Llamoqa che sembra capire i miei stati d’animo. «Pinchiq Ch’aska ti ha spogliato e ha lavato i vestiti. Sono molto strani i tuoi vestiti e non è stato semplice tirarteli ia e rimetterli.»

    Dunque, lo spavento della caduta mi aveva ripulito l’intestino! Poi, la quasi completa inattività dello stomaco ha e itato il formarsi del liquido fisiologico.

    Facendo pressione sugli arti superiori tento di mettermi in piedi. Vengo preso da forti capogiri che mi consigliano di tornare a sedermi sul letto. Llamoqa si accomoda icino di me, pone il mio braccio sulle sue spalle e mi aiuta ad alzarmi. Subito Pinchiq Ch’aska mi butta sul dorso una manta per proteggermi dal freddo. Di nuo o ho l’impressione che gli arti inferiori siano molto distanti dal bacino, però quando tento di fare un passo, la gamba destra di enta piccolissima sicché senza volerlo sposto tutto il mio peso sull’uomo che per poco non cade. Striscio allora in avanti la gamba sinistra, poi appoggiandomi fermamente sul quel piede, ne fletto il ginocchio con cautela muo endo nel contempo la gamba destra fino ad a ertire l’estremità toccare terra. Mi rizzo di nuo o e riprendo a fare lo stesso esercizio finché, curvandomi per passare la pesante tenda che copre la piccola entrata, mi ritrovo all’aria aperta. La luce del giorno mi abbaglia. Sbatto più volte le palpebre per abituarmi a tanto chiarore.

    Il cielo è un compatto sistema nuvoloso grigio chiaro da cui emergono sfumate, poco evidenti e distanti, scure macchie nembose. All’orizzonte, lontano, s’intravedono tuttavia brillanti, cerulee schiarite. Le vicine cime dei monti sono avvolte in brandelli opalini, sfilacciate nuvole basse. Il paesaggio tutt’ attorno è piuttosto brullo. La vegetazione è composta perlopiù di piante basse, licheni e ciuffi d’erba giallastri. Qui e là, rigagnoli tracciano segni scuri sul terreno.

    La casa dove sono ospitato non è isolata. Nello spazio circostante vi sono altre costruzioni di pietra o color terra, non moltissime in erità, e tutte con il tetto di paglia. L’abitato è delimitato da un muro a secco che consente di tenere rinserrati dei camelidi che osser o pascolare. Laggiù, oltre il muro, nel distante fondo alle scorgo un filo scintillante, un fiume, che separa strisce di terra erdissime.

    Poco discosto dalla dimora di Pinchiq Ch’aska, un bimbo dagli zigomi bruciati dal sole gioca con alcuni sassi. Li impila e li raggruppa come per comporre qualcosa di cui non sembra mai soddisfatto. È assai compreso in quella sua attività perché non mi lancia neppure un’occhiata s ogliata.

    Fa freddo. Fuori di casa il camminare mi è ancor più penoso poiché non riesco a e itare i sassi e le asperità del terreno che acuiscono il dolore alle piante dei piedi. Llamoqa mi guida con difficoltà vicino a un cespuglio striminzito. Con la mano sinistra apro la chiusura lampo e constato che l’uomo osserva stupito i miei movimenti. Comprendo che non ha mai visto un paio di pantaloni con tasche e zip. Non ho tempo di spiegargli certe cose, e comunque non saprei come dirgliele. Abbasso rapido le mutandine e libero la escica.

    III

    Mi ritrovo a letto con le spalle addossate al muro. Llamoqa se n’è andato e, se non ho capito male, ritornerà domani. Pinchiq Ch’aska ha scostato una manta dalla parete opposta a quella di accesso per dare un po’ di luce alla stanza. Non l’avevo notata prima. Copre una finestra trapezoidale, direi di un settanta centimetri d’altezza per quaranta di base, tagliata nel muro di mattoni crudi.

    Ho l’impressione di aver già visto quel tipo di apertura senza peraltro indo inare quando né do e.

    La donna mi si avvicina timorosa per porgermi uno zaino piuttosto malandato con una sola, residua cinghia di sostegno. Subito si scosta colta da un immotivato senso di pudore. Lo zaino non pesa molto. Se è mio, nella caduta deve aver perso parecchio del suo contenuto. Ci frugo dentro e tiro fuori due paia di mutande, una maglietta, un k-way giallo e un piccolo dizionario spagnolo-quechua e quechua-spagnolo. In uno scomparto interno chiuso da una lampo, trovo una torcia a led di quelle che si caricano a mano ella, un cellulare ecchiotto, poco manegge ole e scrostato, con il relati o alimentatore, un coltello svizzero multiuso e una penna biro. Nelle tasche esterne, strappate in più punti, non c’è niente. Giro lo zaino gambe all’aria e lo scuoto, non c’è proprio più nulla.

    No, sbaglio. Un foglio piegato in quattro è rimasto incastrato semiaperto nella chiusura lampo. Lo estraggo e lo apro del tutto. Provo a leggere. Buongiorno Sole, la scorsa notte, nel dormiveglia, avevo concepito una bella lettera d’addio, ma ora che devo metterla per iscritto, già non mi rammento quanto volevo dirti. La verità è che non capisco quasi nulla dei tuoi atteggiamenti verso la mia persona. Davvero, non mi ci raccapezzo! In principio credevo che il tuo modo di essere avesse a che fare con una forma di riservatezza atavica, ma poi ho notato che certi tuoi comportamenti erano riservati solo a me. Con altri eri aperta, ciarliera, disponibile; con me chiusa, poco incline a parlare, non molto disposta verso le mie proposte, e anzi, affatto propensa quando si trattava di restare soli, tu e io. Ma, comunque, sempre civettuola e forse pure furba. E tutto questo per farmi credere che eri interessata a me? Ricordo che mi dicesti di essere una ragazza libera, e che tale volevi sembrare ad occhi altrui. È questa la chiave della tua condotta? Beh, devo dirti che mi sono stancato, stancato e anche un po’ annoiato, se proprio devo essere sincero. E in realtà, volendo approfondire questo aspetto, la noia, tuo malgrado, da qualche tempo è il leitmotiv della mia vita. Non riesco a scorgere nulla che valga davvero la pena d’essere vissuto, ma questa cecità emozionale non è determinata da stati depressivi latenti o dall’eccessivo stress lavorativo, quanto dalla quasi impossibilità di poter incidere in maniera arbitraria, cosciente, sugli avvenimenti che accompagnano il corso dell’esistenza. Mi sento come un guscio sballottato dai flutti a cui manca la possibilità, e forse pure l’opportunità, di decidere dove andare e cosa fare. Ma poi, perché ti dico tutte queste cose? Le capiresti? I nostri discorsi non hanno mai trasceso la barriera della banalità, potrebbero farlo ora? La notte scorsa, comunque, mi sono fatto la domanda che avrei dovuto pormi da tempo: davvero sono innamorato di te? No, mi sono risposto. Mi piaci, però non cambierei la mia vita per starti vicino. Al punto in cui mi trovo, preferisco cogliere le occasioni, se mai se ne presentassero, che mi propone l’avvenire. E se un domani mi capitasse d’andarmene, ebbene me ne andrei, magari, e perché no? con altre donne. Ieri notte, quindi, ho preso la decisione di diventare per te solo un conoscente come i tanti che hai. È curioso: una volta deciso, un soffio soave mi ha rinfrescato il viso. Ho intuito che mia figlia era d’accordo. Anche la mia anima è diventata più leggera e mi sono sorpreso a sorridere. Ora penso di prendermi un lungo periodo di vacanza e di andare da qualche parte, lontano dal soffocante mondo di tutti i giorni. Non ho una meta, però desidero fare qualcosa che permetta di superarmi, di prendere per mano la mia vita. Una sorta di percorso di sopravvivenza, di questo in fondo si tratta. Non so se e quando tornerò, ma se ritornassi e dovessimo continuare a lavorare assieme, non preoccuparti, non sarò che un collega in più per te, un collega sordo, cieco e muto nei tuoi riguardi. Senza rancore, buona fortuna.

    Rileggo la lettera una seconda e una terza volta. Non mi dice niente, se non che comunica un addio definitivo. Sembra scritta di getto nella lingua che mi è di più immediata comprensione, e non è firmata. È fuor di dubbio che l’autore si stava allontanando da una situazione sentimentale insostenibile. Beh, forse dire insostenibile è eccessivo; tribolata, ecco, così va meglio. Tra l’altro, costui doveva essere rincitrullito: appare chiaro che la relazione era perlopiù platonica, perché prendersela tanto? Il considerare la ragazza d’intelletto poco brillante, inoltre, denota un certo risentimento.

    Comunque, alla fin fine, mi sembra che il tutto si riduca a un annuncio di fuga esistenziale. Si accenna pure a una figlia, una presenza eterea, con ogni probabilità una morta, che tristezza.

    Ma perché lo scritto è rimasto nello zaino? Perché non è stato consegnato alla destinataria? Ripiego la lettera e la inserisco nel dizionario come curioso reperto.

    Noto che la ecchia mi sta guardando con gli occhi spalancati dallo stupore. Le sorrido e butto lo zaino per terra con disinteresse affinché intenda che non è più utilizzabile.

    Pro o ad atti are il cellulare. Chissà che la lettura dei dati memorizzati non mi permetta di rammentare qualcosa. Il suono prodotto all’accensione spaventa Pinchiq Ch’aska che porta la mano alla bocca, dilata gli occhi e accenna a scappare. Nondimeno la curiosità è più forte della paura; si ferma e riprende a osservare smarrita i miei movimenti. Passo i contatti a uno a uno. I nomi non mi suggeriscono alcunché. C’è registrata anche una certa Sole, forse la destinataria della lettera. Accedo quindi al menu del gestore della SIM nella speranza di trovare i dati personali del proprietario del telefonino. Niente, il numero d’utenza è identificato dal solo possessivo mio.

    Di buono, in tutto questo, c’è che la mia capacità di comprendere la parola scritta è intatta. Con un certo sforzo cerebrale, arri o tutta ia a realizzare che la mia lingua è l’italiano e che questo idioma non ha nulla a che vedere con le Ande. Ciò può solo significare, a parte il fatto ovvio di essere io stesso di nazionalità italiana, che innanzitutto lo zaino con buone probabilità mi appartiene e poi, e di conseguenza, che de o conoscere almeno uno degli idiomi, se non entrambi, presenti nel vocabolario che vi era contenuto. In considerazione della relativa difficoltà di comprensione delle parole di Llamoqa, propendo a credere di a ere migliori basi di spagnolo. Ciò nonostante, non riesco a ricordare nulla di quella lingua. Il problema è che orrei far capire alla donna che ho fame. Potrei portare la mano alla bocca e dire ammmm come si fa coi bambini... La riproduzione mentale di quel suono mi permette di rammentare la parola hambre. Prendo allora il dizionario e vi cerco il vocabolo nella sezione spagnolo-quechua. Esiste infatti, e riconosco nel corrispondente termine qheswa la voce italiana fame. Per la prima volta, allora, emetto dei suoni.

    «Yarqay» dico a Pinchiq Ch’ask.

    Lei si a icina di nuo o al letto, raccoglie lo zaino e me lo porge. Scuoto il capo in segno di diniego e cerco il modo di farle intendere che il sacco non serve, che si può distruggere. Ho ancora il dito puntato sulla parola hambre e senza rendermene conto ne leggo il sinonimo: deseo de comer. Il verbo comer mi rimanda per similitudine a quemar, bruciare, sicché cerco anche questo ocabolo nel dizionario e comunico alla donna la rispettiva voce qheswa.

    «Mana, mana» esclama lei con aria corrucciata. Afferra lo zaino e si dirige erso la cucina scrollando il capo.

    Appoggia il sacco da montagna per terra

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