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L'enigma del libro dei morti
L'enigma del libro dei morti
L'enigma del libro dei morti
E-book383 pagine5 ore

L'enigma del libro dei morti

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Info su questo ebook

Martin Rua è il Dan Brown italiano

Un grande thriller

Prophetiae Saga

LINGUADOCA, 1548. 
Nei dintorni di Montségur si è diffusa una terribile epidemia. I rimedi del dottor Étienne Domergue non sembrano funzionare. In un ultimo, disperato tentativo di fermare l’ecatombe e porre un freno ai deliri apocalittici di un gruppo religioso, il dottore invia il suo allievo Gaston Arrau in Provenza per chiedere aiuto al più grande esperto di peste in circolazione: Michel Nostradamus. 
FRANCIA, PRIMAVERA DEL 2004. 
A Rennes-le-Château una spedizione guidata dall’archeologo Yves Charpentier porta alla luce una parte del tesoro perduto dei catari, ma i finanziatori dello scavo sequestrano i reperti occultando la scoperta al mondo. 
PARIGI, OGGI.
La Francia è costretta a fronteggiare una drammatica emergenza sanitaria: una malattia simile alla peste, creduta ormai debellata da secoli, sta mettendo in ginocchio il Paese. Il governo sospetta un attacco batteriologico di matrice terroristica e affida il caso all’unità speciale Horus. Eppure, nonostante gli sforzi, la squadra del capitano Khadija Moreau brancola nel buio. Se solo potessero ancora contare sull’aiuto di Luc Ravel, alias Gabriel Nostradamus…

Un fenomeno del passaparola 
Oltre 200.000 lettori in Italia

Solo un uomo del XVI secolo può risolvere l’enigma del libro dei morti

Hanno scritto dei suoi libri:

«Martin Rua sa dare il giusto ritmo alle sue narrazioni e sa trasformare l’esoterismo in elettrizzante materia narrativa.»
la Repubblica

«Tra antichi culti e cattedrali gotiche, Martin Rua strizza l’occhio all’alchimia e all’esoterismo.»
Panorama
Martin RuaÈ nato a Napoli dove si è laureato in Scienze Politiche con una tesi in Storia delle religioni. I suoi studi si sono concentrati su massoneria e alchimia. Con la Newton Compton ha pubblicato con grande successo la Parthenope Trilogy (Le nove chiavi dell’antiquario, La cattedrale dei nove specchi, I nove custodi del sepolcro), La profezia del libro perduto e L'enigma del libro dei morti (primi capitoli della Prophetiae Saga), l’ebook La fratellanza del Graal, la guida insolita Napoli esoterica e misteriosa. È anche uno degli autori della raccolta di racconti Sette delitti sotto la neve.
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2017
ISBN9788822709837
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    Anteprima del libro

    L'enigma del libro dei morti - Martin Rua

    1

    Dintorni di Alamut, inverno 1242

    I nove cavalieri giunsero ai piedi del crinale e si fermarono.

    La notte era fredda e tranquilla: una piccola falce di luna, nel mezzo dell’immenso cielo stellato sopra di loro, rivelava i contorni delle grandi montagne che li circondavano. Dopo essersi assicurati che non ci fossero pericoli, smontarono da cavallo e attesero. A tratti un vento gelido calava dai picchi innevati, insinuandosi tra le pieghe delle loro ampie vesti.

    I cavalieri non avevano insegne e indossavano gli abiti tipici dei Nizariti di Alamut: un travestimento che serviva a celare la loro vera identità di guerrieri cristiani il cui nome, in patria e nelle città d’Outremer ancora in mano ai crociati, incuteva timore e rispetto.

    Cavalieri del Tempio.

    «Il posto è questo», mormorò Gautier Regnard, liberando la bocca dalla sciarpa di lana.

    «Non ci resta che aspettare», aggiunse Marius de Charbonnier, il comandante della spedizione, dalla ribelle chioma rossa. «Mano all’elsa della spada, ma non estraetela. Ogni più piccolo riflesso può rivelare la nostra posizione».

    Tutti gli uomini obbedirono tranne uno, l’unico del gruppo che non fosse membro dell’Ordine, ma la cui partecipazione a quella spedizione era importante. Una missione pericolosa e segreta: se solo i vertici della Chiesa avessero scoperto che quel manipolo di Templari si accompagnava a un medico e alchimista eretico di Montségur, infatti, per gli otto monaci guerrieri ci sarebbero state gravi conseguenze.

    «Tutti in cerchio attorno a Limos», riprese Marius. «È sempre cosa ottima non fidarsi degli infedeli».

    «Dici bene, infedele!».

    La voce, che aveva parlato in francese con un tono mellifluo e cantilenante, era giunta da un grande cespuglio di arbusti alla loro sinistra. I Templari, le spade sguainate per metà, si voltarono di scatto, ma furono subito bloccati da un numero doppio di corte lame già puntate nella loro direzione e sbucate all’improvviso dall’oscurità nella quale erano immersi.

    «Che cosa significa questo, Nasir?», proruppe Marius, che aveva riconosciuto la voce. «Abbiamo fatto un viaggio lungo e difficoltoso solo per subire i tuoi agguati?». Spostò nervosamente lo sguardo dall’uno all’altro degli uomini che li circondavano. Erano vestiti di nero e la luce della luna era velata, quindi il comandante dei Templari riusciva appena a intravedere le loro corte spade ricurve e il bianco dei loro occhi.

    «Comandante de Charbonnier, siamo all’interno del territorio degli Assassini, credi che sarei venuto da solo e inerme, con indosso nient’altro che la mia scienza? Ritirate le mani dalle vostre armi, non avete nulla da temere dai miei fedeli Fedayyìn».

    Marius esitò per un istante, poi si rivolse ai suoi. «Mettete via le spade».

    A loro volta i Fedayyìn – il braccio armato della setta dei Naziriti o Assassini – abbassarono le loro lame e, rapidi e silenziosi, si disposero a destra e a sinistra di Nasir.

    «Molto meglio. Ora seguitemi: a pochi passi da qui c’è una grotta in cui saremo al sicuro».

    Il piccolo corteo s’incamminò tra le rocce e gli arbusti spruzzati di brina e dopo circa dieci minuti si ritrovò là dove diceva Nasir. Due Fedayyìn e due Templari furono collocati come guardia presso l’ingresso, mentre gli altri si radunarono all’interno, accendendo un fuoco attorno al quale si sedettero.

    «Questo incontro non è stato autorizzato dallo Sheikh-el-Jebel, Aladdin, signore di Alamut. Se egli ne venisse a conoscenza, di noi non resterebbe neanche il ricordo», esordì Nasir, dopo che tutti si furono accomodati. La lunga e lucida barba, nera come i suoi occhi intensi, sembrava quasi catturare i riflessi del fuoco.

    «Anche il Gran Maestro del nostro Ordine, Armand de Périgord, non è a conoscenza di nulla e sarebbe nei nostri confronti assai poco indulgente», replicò Marius. «Abbiamo tutti il marchio di traditori».

    «No, io direi quello di difensori della vera fede, comandante», osservò il persiano. «Se abbiamo deciso di incontrarvi e stringere un patto con voi, è per essere pronti in caso di necessità ad aiutarci reciprocamente. Come del resto è già accaduto in passato».

    «Mi impegno a mettere in campo tutta la mia influenza per sollecitare il nostro Gran Maestro ad aiutarvi nel fronteggiare la minaccia mongola», ribatté sicuro Marius de Charbonnier.

    «E io la mia perché Aladdin vi fornisca i migliori Fedayyìn di Alamut: gli egiziani che premono per conquistare Gerusalemme sono anche nostri avversari».

    Tutti i presenti annuirono soddisfatti, poi Marius fece un cenno a Limos, che fino a quel momento era rimasto nell’ombra. Il rappresentante dei Catari di Montségur si alzò in piedi e si avvicinò al fuoco. Più basso e più anziano di Nasir, aveva la barba candida e gli occhi azzurri.

    «Nasir, so che tu e i tuoi fedelissimi avete simpatie per le antiche dottrine del fuoco di Ahura Mazdā, secondo cui il cosmo è diviso in due schieramenti, con un dio della luce che fronteggia un dio del buio e della materia», disse Marius.

    Nasir annuì. «Alcuni di noi qui presenti sono segretamente seguaci del potente dio Mitra, alleato di Ahura Mazdā nella battaglia contro il buio».

    «In Francia e in altri regni d’Europa tali dottrine sono custodite dai bonshommes, come i buoni cristiani di Montségur, ai quali i miei uomini sono devoti. Limos qui presente è uno dei più importanti sacerdoti di quella comunità, uno dei perfetti».

    «Noi riconosciamo l’esistenza di un dio supremo di carità e quella di un dio del male e della materialità – il Demiurgo – che ci costringe a una vita di dolore e sofferenza», intervenne Limos. «Cristo è colui attraverso il quale noi possiamo riavvicinarci al vero dio della luce».

    «I nostri pensieri sono fratelli, saggio Limos», disse Nasir. «Sono al corrente del pericolo che incombe sulla vostra comunità e in segno di fratellanza e per suggellare il nostro patto con voi e con i Templari, eccoti un dono che, un giorno, potrà forse esserti utile». Uno dei Fedayyìn appoggiò uno scrigno di legno rinforzato da borchie di metallo ai piedi del francese. «In questo forziere è custodita un’arma potente e distruttiva, giunta a noi attraverso la via della seta dalle grandi montagne dell’India. Potrai usarla, con parsimonia e prudenza, se la tua comunità nella lontana Francia dovesse trovarsi in mortale difficoltà. Ricorda: essa non è né spada, né dardo, né veleno, ma è capace di causare vittime innumerevoli».

    Limos prese lo scrigno con circospezione e rimase a fissarlo come ipnotizzato. Immaginava cosa potesse contenere, le sue approfondite conoscenze alchemiche, mediche e farmacologiche lo rendevano custode ideale di quel segreto tanto pericoloso. Nondimeno tremò al pensiero di avere tra le mani uno strumento di morte così letale e si domandò se mai avrebbe avuto il coraggio di usarlo per salvare i suoi confratelli.

    Condannando altri a sofferenze atroci.

    Quando riportò il suo sguardo sugli altri vide che si erano alzati e disposti in cerchio attorno al fuoco, in attesa. Inspirò profondamente, appoggiò a terra il cofanetto di legno e fece un passo avanti.

    Un passo che avrebbe proiettato quel momento intenso in un lontano futuro.

    2

    Montségur, febbraio 1244

    Pierre-Roger de Mirepoix osservò ancora una volta il fumo dei bivacchi che si alzavano dalla valle e la luce che emanavano e che, nel buio della notte, li rendeva simili a lucciole. Un’altra giornata volgeva al termine e gli assedianti stavano preparando la cena con gran rumore. Nell’aria aleggiava l’odore delle zuppe.

    Carogne.

    Si comportavano in modo da farsi sentire da tutti gli abitanti della fortezza. Interrompevano per un’ora il tiro incessante di proiettili – grosse pietre che partivano dal dannato trabucco assemblato all’inizio di gennaio di quell’anno – e mangiavano. Poi riprendevano a bersagliarli.

    Per tutta la notte.

    Gli assediati, invece, ormai dovevano razionare drasticamente le provviste. Nonostante tutti gli sforzi fatti da Pierre-Roger e da suo cugino Raymond de Pereille, castellano di Montségur, perché nessuno morisse di fame durante quei lunghi mesi di assedio, la piccola comunità era allo stremo. Inoltre, da quando alcuni mercenari baschi dell’esercito regio avevano conquistato la scarpata a sud, sotto Roc de la Tour, e installato quel diabolico trabucco, tutto era diventato chiaro a Pierre-Roger: sapeva che non avrebbero resistito a lungo.

    L’ultimo baluardo.

    Continuava a ripetere a se stesso che l’eventuale caduta di Montségur avrebbe significato la fine dei Catari di Francia. Sebbene ci fossero gruppi più o meno numerosi sparsi un po’ in tutto il sud del Paese, con la distruzione del simbolo stesso della resistenza catara tutti gli altri centri dei bonshommes avrebbero seguito la stessa sorte.

    «Banchettano di nuovo, i bastardi».

    Il commento di Bernard de Saint-Martin lo strappò ai suoi pensieri. Bernard – un uomo dalla corporatura massiccia e la folta barba scura – era stato insieme a Pierre-Roger de Mirepoix uno degli ideatori del massacro di Avignonet del 1242, durante il quale erano stati trucidati gli inquisitori Guillaume Arnaud ed Étienne de Saint-Thibéry, più altre nove persone del loro seguito.

    Molte di esse fatte a pezzi proprio da Bernard a colpi di ascia.

    Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e innescato la sanguinosa crociata contro i Catari.

    «Al loro posto agiremmo allo stesso modo, forse», disse Pierre-Roger, distogliendo lo sguardo dalla valle. Al contrario dell’altro, era di fisico più asciutto, con i capelli chiari e una rada barbetta a ricoprire il bel volto. «Qualche volta abbiamo fatto anche di peggio».

    «Ti riferisci ad Avignonet? Abbiamo solo liberato il mondo da un paio di schifosi inquisitori».

    Pierre-Roger sospirò. «Uomini di Chiesa».

    «Non la nostra Chiesa. Cos’è, sei pentito?».

    Lo sguardo di Pierre-Roger s’indurì. «Lo rifarei altre cento volte, bevendo il sangue di quelle belve dai loro stessi crani».

    Bernard sorrise. «E allora appena saremo liberi di lasciare la fortezza, ne andremo a cacciare altre».

    Pierre-Roger annuì, ma non fece in tempo a riportare lo sguardo sulla valle che notò con la coda dell’occhio qualcosa di luminoso solcare a gran velocità il cielo oscuro.

    Un proiettile infuocato.

    «Giù!».

    Si gettò a terra, riparandosi dietro al parapetto delle mura, ma Bernard non fu altrettanto rapido: l’oggetto – una sorta di pignatta di terracotta ripiena di olio in fiamme e pietre – s’infranse sulla fortificazione a un palmo dalla sua testa. L’impatto fece esplodere il proiettile, causando poco danno alle mura, ma spargendo una miriade di schegge e fuoco tutt’intorno.

    Bernard ne fu investito in pieno.

    Rimessosi subito in piedi, Pierre-Roger si precipitò ad aiutare il suo compagno d’armi che, tramortito, barcollò per un secondo prima di crollare a terra con le vesti in fiamme. Pierre-Roger spense col mantello l’incendio che aveva iniziato a divorare il corpo di Bernard e gli sollevò la testa per aiutarlo a respirare.

    L’altro sbatté le palpebre un paio di volte, mise a fuoco il suo comandante e, accompagnando il movimento con un’evidente smorfia di dolore, lo tirò a sé perché lo sentisse bene. «Non temporeggiare più… usala! Usa l’arma degli Assassini!».

    Lo fissò per un paio di secondi ancora, quindi perse i sensi.

    Alcune guardie giunsero in soccorso e Pierre-Roger ordinò loro di portare in fretta Bernard nella piccola infermeria della fortezza, perché Limos, il medico della comunità, si prendesse cura di lui. Avevano appena iniziato la discesa dagli spalti, quando, quasi come un segno di morte, una nevicata iniziò a stendere il suo freddo sudario sull’intera rocca di Montségur: Pierre-Roger e le guardie videro così altri proiettili incendiari raggiungere l’interno della fortezza, illuminando i fiocchi di neve sempre più fitti.

    Il panico si diffuse tra i pochi ancora all’aperto.

    Che fosse l’inizio della fine?

    Pierre-Roger seguì con lo sguardo gli uomini che trasportavano Bernard e ripensò alle ultime parole che il suo roccioso compagno aveva pronunciato prima di svenire: usa l’arma degli Assassini. Istintivamente rivolse la sua attenzione agli alloggi dei soldati che difendevano la rocca: in quell’istante, come se avesse percepito i suoi pensieri, Marius de Charbonnier uscì nel cortile, avvolto in un pesante mantello. Il Templare dalla fulva capigliatura alzò la testa e i suoi occhi incrociarono quelli del comandante. Pierre-Roger gli fece un cenno e riprese a scendere lungo la scala di pietra. Al tempo stesso, Marius raggiunse la base del barbacane a grandi falcate e si ritrovò faccia a faccia con l’altro.

    «Forse è arrivato il momento di utilizzare il dono dei vostri amici infedeli», disse Pierre-Roger senza tanti preamboli.

    Marius sospirò e annuì.

    Solo alcuni, fidatissimi confratelli sapevano della presenza di quel manipolo di Templari lì a Montségur: sebbene molti cavalieri avessero abbracciato clandestinamente la fede catara, solo quei pochi temerari avevano deciso di aiutare col ferro delle loro spade i coraggiosi difensori di quella rocca.

    Portando con sé da Alamut l’arma micidiale donata da Nasir.

    «Dobbiamo parlare con Limos», disse laconicamente Marius.

    Sotto una pioggia di proiettili di pietra e pignatte incendiarie, i due si recarono nell’infermeria, dove trovarono il medico della comunità alle prese con le gravi ferite di Bernard. Non appena li vide entrare, Limos capì subito quali fossero le loro intenzioni.

    «La situazione è grave», esordì anticipando i due.

    «Lo sappiamo, per questo siamo qui», disse Pierre-Roger.

    «Mi riferivo a de Saint-Martin. Le ferite e le ustioni sono serie, non ne avrà per molto».

    Il comandante fissò il volto sfigurato e sofferente del suo commilitone, adagiato su un pagliericcio già tutto sporco di sangue. La sua collera non fece che aumentare. «Dobbiamo parlare».

    Limos si guardò intorno. «Non qui». Indicò una porta presente su un lato della sala, in cui in quel momento erano in cura dieci persone, e fece loro strada.

    Quando furono soli, fu Marius a parlare. Farlo gli costò molto. «Limos, forse il momento atteso è giunto. Il comandante de Mirepoix vorrebbe utilizzare l’arma degli Assassini».

    Limos sostenne il suo sguardo con fermezza. «Cosa ne pensa Raymond de Pereille? Mi risulta che il castellano sia ancora lui».

    Il tono di sfida non sfuggì a Pierre-Roger. «Se non fosse stato per me, mio cugino avrebbe consegnato la roccaforte a quel bastardo di Raymond vii di Tolosa mesi fa. Il suo parere non ha valore. Abbiamo il dovere di difendere gli abitanti di Montségur».

    «Lo stiamo facendo, Pierre-Roger, ma usare quell’arma significherebbe causare migliaia di morti anche tra la popolazione. Morirebbero vecchi, donne e bambini e non solo i soldati giù a valle».

    «Se è questo il prezzo perché la vera fede sopravviva, io sono pronto a pagarlo», rispose risoluto Pierre-Roger.

    Marius rimase in silenzio. Sapeva che Limos aveva ragione. La successiva risposta del perfetto gli trasmise una profonda inquietudine.

    «Come vuoi, ma io non sarò complice di questo eccidio. Portare in Francia quella creazione demoniaca degli infedeli è stato un grave errore».

    Nel pronunciare quelle parole, Limos aveva lanciato uno sguardo di biasimo al Templare. Si era impegnato a non rivelare tutti i retroscena del loro incontro con gli Assassini di Alamut e a non tradire la fiducia di Marius. Aveva tenuto la bocca chiusa, sì, ma aveva anche giurato a se stesso che mai avrebbe usato quell’arma diabolica.

    Tirò fuori una grossa chiave dalla sua ampia veste bianca e la consegnò al co-reggente della fortezza. «Ecco», riprese, «che ti aiutino i Templari e i tuoi uomini. Io preferisco testimoniare la mia fede bruciando sul rogo, piuttosto che causare altri morti».

    Pierre-Roger sostenne lo sguardo dell’anziano, quindi scambiò rapidamente un’occhiata con Marius, ma non trovò nell’espressione dell’altro la stessa determinazione. Dopo un istante carico di tensione, il suo voltò s’indurì e strappò la chiave dalle mani di Limos.

    «Alla gloria dell’unico Dio di luce», affermò prima di voltarsi, rivolto più che altro a se stesso, come se avesse bisogno di fornire alla sua coscienza una giustificazione. «Vieni con me, Marius, non abbiamo molto tempo».

    I due uscirono dall’infermeria seguiti dallo sguardo affranto di Limos e si diressero verso i sotterranei del maschio, dove era custodito il tesoro della comunità. Giunti presso la massiccia porta di legno e ferro, Pierre-Roger fece un gesto autoritario ai due soldati di guardia.

    «Lasciateci soli».

    Dopo aver chiuso la pesante porta alle loro spalle, il comandante e il Templare accesero due candelabri e un braciere. Davanti ai loro occhi si parò una raccolta di preziosi manufatti d’oro e d’argento, pergamene contenenti testi di ispirazione gnostica e forzieri.

    Il tesoro dei Catari.

    Si avvicinarono a una delle casse e Pierre-Roger introdusse nel lucchetto la chiave ricevuta da Limos. Sollevò il coperchio e si assicurò che il contenuto fosse ancora lì, intatto. Il comandante fece per prenderlo, ma Marius de Charbonnier, inginocchiato insieme a lui accanto al forziere, ebbe un fremito.

    «Pierre-Roger, non possiamo farlo».

    L’altro si voltò di scatto, stupito. «Quest’arma porrà fine all’assedio in pochi giorni!».

    Marius scosse la testa. «Limos ha ragione, i suoi effetti non si limiteranno a questo e non possiamo prevedere cosa accadrà. Moriranno degli innocenti, moriranno anche tanti bonshommes e tu lo sai. Una volta liberato il suo potere, non riusciremo più a fermarlo».

    Pierre-Roger spostò più volte lo sguardo dal Templare al forziere, esasperato. «Nel nome di Cristo, Marius, è la nostra ultima possibilità! Quel trabucco non smetterà di scagliarci addosso fuoco e pietre. Se i nostri avversari avessero a disposizione quest’arma, non esiterebbero a usarla».

    «Ecco perché non dobbiamo farlo», rispose Marius, lasciando che l’espressione sul suo volto si addolcisse. «Noi non siamo come loro. Anche noi ci siamo macchiati di tanti delitti, è vero, ma non avremmo mai dato vita a qualcosa di simile all’Inquisizione. È questa la forza della vera fede. La purezza».

    Pierre-Roger tentennò ancora per qualche secondo.

    Appoggiò una mano sul contenuto del forziere e la lasciò lì per alcuni, interminabili istanti.

    Quindi chiuse gli occhi e con essi il coperchio.

    Quando tornò a guardare Marius, anche l’espressione sul suo viso era meno truce, come se la pace si fosse insinuata nel suo animo. «Cosa proponi di fare?»

    «Non riusciremo a resistere oltre, questo è certo, quindi dobbiamo negoziare la resa».

    Mentre fissava con sguardo vacuo il prezioso tesoro dei Catari attorno a loro, sul volto di Pierre-Roger si dipinsero la tristezza e la disperazione. «Non possiamo lasciare che i testi più importanti della nostra tradizione e tutti i nostri segreti cadano nelle loro mani», mormorò con la voce che tradiva la sua frustrazione.

    «Non lo faremo. Questa notte stessa organizzerò la partenza mia e dei miei uomini. Porteremo il tesoro con noi. Uno dei perfetti di Montségur si unirà alla spedizione e ne sarà il custode. Avevo già pensato a Nicolas Saunière, se sei d’accordo. Con l’aiuto di Dio troveremo un nascondiglio sicuro».

    Pierre-Roger esitò ancora un istante, quindi annuì. «E sia, fratello Marius, ma porterai con te anche questo». Il comandante batté con la mano sul forziere contenente l’arma degli Assassini, poi si alzò e si diresse verso un angolo del sotterraneo. Quando ritornò da Marius, stringeva in una mano un ferro simile a quelli per marchiare il bestiame. «Ecco uno dei simboli che useremo per riconoscere i luoghi dove il tesoro sarà nascosto».

    «Luoghi?»

    «Non voglio che sia custodito in un unico posto. Separatelo in varie parti e nascondetele lontano l’una dall’altra: chiese, monasteri, biblioteche. Spargiamo il seme della tradizione catara e gnostica nel mondo, cosicché in futuro la si possa recuperare un pezzo per volta, in modo da ricostruire la verità di cui ciascuno di essi costituisce un frammento».

    Marius annuì.

    Dopo aver reso incandescente il marchio nel braciere, Pierre-Roger ne impresse il sigillo sul coperchio del forziere degli Assassini. Il legno sfrigolò e quando il comandante sollevò il ferro comparve una sigla identica a una delle più famose della cristianità, eccetto che per una piccola, fondamentale differenza: una lettera invertita.

    immagine

    «Da oggi le nostre strade si dividono», disse Pierre-Roger, dopo aver impresso il sigillo. «Con la caduta di questa rocca, i Catari poco a poco scompariranno ufficialmente. Ma voi ne porterete in salvo la scintilla. Quando il tempo sarà giunto, ritorneremo. Con un nuovo ordine sacro, una fratellanza».

    3

    Aleppo, ospedale di Al-Quds di Medici Senza Frontiere, fine aprile, oggi

    Il bambino varcò la soglia del pronto soccorso malfermo sulle gambe, con indosso solo pantaloncini e una misera canottiera lacera.

    Dimostrava circa cinque anni e non c’era nessuno ad accompagnarlo, nemmeno un fratellino maggiore. Negli occhi lucidi e febbricitanti vibrava una richiesta di aiuto che le sue labbra non riuscivano ad articolare. Nonostante fosse coperto di polvere, si vedeva una grossa macchia scura che occupava per metà il collo magro e sporco e un’altra simile, sotto l’ascella destra.

    Era notte inoltrata.

    Le poche persone in attesa, per la maggior parte genitori con bambini in braccio, lo osservarono per alcuni secondi senza riuscire a muoversi. Un’infermiera che stava portando dei bendaggi verso uno degli ambulatori lo notò a sua volta e fece per precipitarsi ad aiutarlo, ma una voce alle sue spalle la bloccò prima che potesse raggiungerlo.

    «Iman, fermati!».

    La giovane si voltò e incrociò lo sguardo del pediatra dell’ospedale, uscito dalla sua stanza per una boccata d’aria. Quasi completamente calvo, il volto rotondo incorniciato da una barba scura ben curata, l’uomo aveva un’espressione tesa e preoccupata.

    «Non avvicinarti».

    «Ma, dottore…».

    Il medico infilò dei guanti di lattice e afferrò un lenzuolo di carta monouso, quindi si diresse a passi spediti verso il piccolo. Al vedere la rassicurante figura in camice verde avvicinarglisi, il bambino lasciò finalmente che le sue deboli gambe cedessero.

    Conosceva quell’uomo.

    Altre volte la mamma l’aveva portato all’ospedale di Al-Quds dove il dottor Zafrani si era preso cura di lui. Ma la mamma era rimasta schiacciata sotto le pietre di un muro pochi minuti prima. Lui l’aveva chiamata una, due, tre, dieci volte, ma non si era mossa. Lei lo stava portando proprio lì, all’ospedale, quando una bomba aveva colpito il palazzo accanto al quale stavano passando.

    Allora lui all’ospedale ci era arrivato da solo. Più per chiedere aiuto per sua madre che per se stesso.

    Il pediatra avvolse il corpicino di Orman – sapeva che così si chiamava il piccolo – nel lenzuolo di carta, facendo attenzione a non toccare quelle macchie nere e purulente che ormai da qualche settimana lui e i suoi colleghi trovavano su alcuni pazienti. E che, purtroppo, preannunciavano la fine imminente di chi se le ritrovava sul collo, sotto le ascelle o nella zona inguinale.

    «Un altro?», domandò esterrefatta l’infermiera.

    «Sì, Iman. Chiama subito il dottor Mansour, ci penso io a metterlo su una barella».

    I due si separarono e si allontanarono in direzioni opposte.

    L’infermiera attraversò di corsa le sale di degenza e, superato un corridoio che collegava due edifici adiacenti, infilò la scala che conduceva al seminterrato, dove il biologo e batteriologo francese di origini siriane Musaddiq Mansour aveva allestito già da un paio di mesi un laboratorio. Mentre i razzi fischiavano sulla sua testa e le bombe scoppiavano intorno, infatti, Mansour combatteva contro gli effetti scatenati dall’uso di armi chimiche e batteriologiche e contro la forma moderna di una malattia ormai quasi leggendaria.

    La peste.

    Da quando era giunto ad Aleppo, lo studioso aveva iniziato a trattare sempre più casi di gente affetta da una versione mutante di Yersinia Pestis, il batterio causa del contagio. Sapeva bene che la diffusione non era dovuta alla scarsa igiene che attanagliava la città, devastata da anni di guerra. Conosceva la realtà in tutta la sua allucinante crudezza, perché sapeva cose che altri ignoravano del tutto.

    Proprio in virtù di ciò che sapeva, quella contro il morbo si stava trasformando in una guerra personale. Più violenta e rabbiosa della guerra che infuriava fuori dalle mura dell’ospedale.

    «Dottor Mansour!».

    Iman lo sorprese nel momento in cui stava richiudendo alcune fiale in un contenitore stagno, una cassetta di metallo con un sistema di chiusura elettronico, che le avrebbe protette. Quando i suoi profondi occhi neri si posarono sull’infermiera, la giovane vi lesse una strana euforia.

    «Dimmi, Iman».

    «Ce n’è un altro, un bambino, il dottor Zafrani gli sta prestando le prime cure».

    L’eccitazione abbandonò il volto olivastro di Mansour rapida come il vento del deserto. Il biologo ripose la cassetta di metallo in un frigorifero e si alzò dallo sgabello sul quale aveva trascorso già molte ore, analizzando campioni su campioni di sangue. Prima di seguire Iman, afferrò una piccola boccetta di vetro. «Andiamo subito da lui».

    Zafrani, il volto terreo, accolse il collega al capezzale del piccolo Orman: le sue condizioni diventavano più critiche di minuto in minuto. «Ah, Musaddiq…», gli disse stancamente a mo’ di saluto. «Ho avviato la terapia: streptomicina, tetraciclina e cloramfenicolo, ma temo che la situazione sia già disperata».

    Il dottor Mansour esaminò rapidamente i bubboni, controllò i parametri vitali del bimbo e poi porse la boccetta di vetro al collega.

    Zafrani la osservò stringendola fra le dita. «Che cos’è?»

    «Una terapia ancora in fase sperimentale, ma mi ha dato buoni risultati in vitro. Ritarda la mutazione del super-batterio, quella che trasforma la peste bubbonica in setticemica nel giro di poche ore».

    Zafrani somministrò il medicinale a Orman, quindi rimase accanto a Mansour a fissare il piccolo che combatteva contro quel morbo feroce.

    «È riuscito a dire qualcosa? Chi lo ha portato?», domandò il biologo.

    Il pediatra sospirò, l’aria che sembrava trovare a fatica la strada per la bocca. «Nessuno, è arrivato sulle sue gambe da solo. Le uniche parole che ha detto sono state: La mamma è rimasta sotto le pietre».

    «Che vuol dire?».

    Zafrani scosse la testa. «C’è stata un’esplosione non lontano da qui, poco prima che lui arrivasse».

    «Sì, ho sentito».

    «Una bomba ha colpito un edificio. I militari e la gente del quartiere stanno ancora scavando per tirare fuori le vittime».

    Lo sguardo di Mansour tornò sul volto pallido del bambino. «E sua madre è sicuramente tra di esse».

    Zafrani annuì, diede una

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