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La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano
La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano
La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano
E-book776 pagine13 ore

La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano

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Info su questo ebook

Introduzione di Riccardo Reim

Nell’ipocrita e perbenista Inghilterra vittoriana, in cui la grassoccia regina impone alla corte lunghe passeggiate, conversazioni irreprensibili e una condotta assolutamente immacolata, un uomo affida la memoria di sé e del suo tempo a una monumentale, straripante, smisurata autobiografia (ben undici volumi, per un totale di circa 4200 pagine e oltre un milione di parole) in cui si parla pressoché esclusivamente di sesso con una sorta di maniacale devozione. L’autore stesso ne volle fare un’edizione ridotta più adatta al grande pubblico, ma non per questo meno hard. In questo sterminato “diario”, l’erotismo – considerato, ovviamente, in tutte le sue possibili variazioni – diviene un obiettivo assoluto e totalizzante: dalle fantasie carnali dell’infanzia fino a una sessualità libera da ogni sentimento e alimentata da tutte le infinite combinazioni suggerite dalla lussuria, fuori e dentro le case di piacere di ogni categoria, nelle bettole, nelle strade, in confortevoli alcove o in squallidi tuguri. Orge, voyeurismo, feticismo, omosessualità e quant’altro è ancora possibile per un’immaginazione comunque borghese, lontanissima dalle sfrenatezze criminali di un Sade. La mia vita segreta è stato (giustamente) definito «uno dei libri più strani e ossessivi che siano mai stati scritti»: l’autore (di cui sappiamo soltanto il nome fittizio, Walter) vi fa, giorno dopo giorno, meticolosamente e senza nulla tacere, il racconto di una vita dedicata quasi esclusivamente ai piaceri del sesso. Senza fasto né retorica, tutto viene detto “orizzontalmente”, fino alle esperienze più insignificanti, con sincerità totale e disarmante, ciò che ne fa un impietoso (e forse non del tutto voluto) ritratto di una nazione e di una società. My secret life ci rivela come vivesse e sentisse e pensasse, durante il periodo vittoriano, un uomo che cercava di trattare direttamente con i demoni della sessualità.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854157347
La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano
Autore

Anonimo

Soy Anónimo.

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    Anteprima del libro

    La mia vita segreta. Autobiografia erotica di un gentiluomo vittoriano - Anonimo

    Titolo originale: My secret life.

    I piaceri segreti di un gentiluomo vittoriano

    Nell’ipocrita e perbenista Inghilterra vittoriana dove la grassoccia regina «casalinga» impone alla sua corte lunghe passeggiate igieniche, conversazioni irreprensibili e una condotta assolutamente immacolata soprattutto per le persone di sesso femminile (valga da esempio lo scandaloso caso di lady Flora Hastings, messa al bando perché ritenuta «colpevolmente gravida» e invece affetta da un tumore al fegato)¹, un uomo affida la memoria di sé e del suo tempo a una monumentale, straripante, smisurata autobiografia (ben undici volumi, per un totale di circa 4200 pagine e oltre un milione di parole) in cui si parla pressoché esclusivamente di sesso con una sorta di maniacale devozione. In questo sterminato «diario» l’erotismo – considerato, ovviamente, in tutte le sue possibili variazioni – diviene un obiettivo assoluto e totalizzante: dalle fantasie carnali dell’infanzia fino a una sessualità libera da ogni sentimento e alimentata da tutte le infinite combinazioni suggerite dalla lussuria, fuori e dentro le case di piacere di ogni categoria, nelle bettole, nelle strade, in confortevoli alcove o in squallidi tuguri: orge, voyeurismo, feticismo, omosessualità e quant’altro è ancora possibile per un’immaginazione comunque borghese, lontanissima dalle sfrenatezze criminali del «Divin Marquis». Stampato a partire dal 1888 in un’edizione privata di sole venticinque copie², My secret life è stato (giustamente) definito «uno dei libri più strani e ossessivi che siano mai stati scritti»³: l’autore (di cui sappiamo soltanto il nome fittizio, Walter)vi fa, giorno dopo giorno, meticolosamente e senza nulla tacere, il racconto di una vita dedicata quasi esclusivamente ai piaceri del sesso. Senza fasto né retorica, in uno stile che si potrebbe definire catastale, tutto viene detto «orizzontalmente», fino alle esperienze più insignificanti, con totale e disarmante sincerità. Ogni minimo accadimento è narrato senza reticenze o censure di sorta, quasi per adempiere a una sorta di indecifrabile obbligo.

    Nella stringata introduzione all’inizio del primo volume l’autore tenta (ma c’è da dubitare dell’autenticità di un tentativo così maldestro) di nascondersi dietro se stesso facendo ricorso al vecchissimo espediente del manoscritto fortunosamente ritrovato, di cui lui sarebbe soltanto il «curatore» fedele: un «grosso pacco accuratamente legato e sigillato», consegnatogli da un amico in gravi condizioni di salute con la promessa di bruciare il compromettente contenuto nel caso che la malattia si rivelasse fatale… Naturalmente, il «grosso pacco» viene dimenticato per essere aperto (e avidamente letto) soltanto alcuni anni dopo con grande stupore misto ad ammirazione: così, dopo aver a lungo riflettuto ed esitato, «sentendo che sarebbe stato un vero peccato distruggere una tale storia», lo scrupoloso «curatore» non esita a ricopiare il manoscritto distruggendo l’originale; quindi, dopo aver modificato nomi, date e qualsiasi altro riferimento possa in qualche modo condurre all’identificazione del protagonista, si decide a darlo alle stampe… L’espediente suona come una specie di rituale omaggio alla più vieta tradizione dei memoirs, ed è talmente scoperto, fragile e usurato da non convincere nessuno, o meglio, di convincere anche il più ingenuo lettore dell’autenticità di quelle confessioni. Non a caso, l’autore, messosi per così dire l’anima in pace, in seguito non ne farà più uso, quasi ostentando una dimenticanza tanto rivelatrice.

    Sembra che siano occorsi sette anni per stampare l’intero memoriale, che inizia ad apparire, come si è detto, presumibilmente nel 1888: si tratta di volumetti in ottavo «su carta a mano con venature in rilievo», senza data, recanti il marchio «Amsterdam. Escluso dalla circolazione». La stampa, osserva Steven Marcus (che nel suo saggio The Other Victorians dedica a quest’opera alcune pagine notevoli), «risulta piuttosto scadente; errori di ortografia, sintassi e punteggiatura sono molto frequenti e tali da rendere quasi certi che il compositore o il tipografo fossero di lingua francese e non olandese», nonché da far pensare, anche, che i volumi venissero composti rapidamente di volta in volta a ogni consegna di materiale, senza che nessuno abbia mai riletto le bozze, né l’autore né l’editore… Perché tanta fretta, visto che si tratta di un’edizione privata di sole venticinque copie, palesemente non a scopo di lucro? Appare chiaro che «Walter», di certo non più giovane, ha una grande premura (e anche tale foga è un aspetto di quella «ossessione» di cui poco fa si parlava…) di portare l’opera a compimento, come dovesse ubbidire a qualche enigmatico, ineludibile dovere mentre il tempo incalza senza concedere dilazioni: il testo, infatti, risulta assai disorganizzato, spesso scritto in uno stile sciatto e approssimativo, pieno di ripetizioni, incongruenze, riflessioni confuse e fuori luogo… In un certo senso, perciò, My secret life, con la sua debordante, inarginabile, sregolata valanga di parole, ha – come osserva ancora giustamente Steven Marcus,

    qualcosa della qualità di un palinsesto, in particolare perché l’autore non sempre si preoccupa di indicare le sue eventuali revisioni. (…) interessandosi poco della coerenza e per niente della struttura formale. (…) My secret life è un’opera che non va considerata fondamentalmente un trionfo dell’intelletto – dell’intuito guidato da disciplina e da metodo – su una materia refrattaria e tabù; ma è ugualmente interessante, perché ci fa conoscere il funzionamento e le fissazioni di una mente posseduta per tutta la vita da un unico soggetto o passione. Inoltre ci rivela come quell’interesse abbia formato nel tempo la mente che esso possiede; come la mente posseduta tenti a sua volta di affrontare le forze che la possiedono; come viveva e sentiva e pensava, durante il periodo vittoriano, un uomo che cercava di trattare direttamente con i demoni della sessualità. E tutto ciò già è un trionfo sufficiente⁶.

    Dunque, questo prolisso (e spesso monotono) memoriale con i suoi senz’altro eccessivi undici volumi in fin dei conti costituisce davvero «un documento unico»: nel suo tono dimesso, nella sua scarna elencazione di fatti, persone e luoghi, My secret life riesce a essere come poche altre opere il sincero e (forse senza del tutto volerlo) impietoso ritratto di una nazione e di una società.

    RICCARDO REIM

    1 Istigata, sembra, dalla baronessa Lehzen, Vittoria (con un atteggiamento, a dire il vero, alquanto volgare e meschino) costrinse lady Hastings a sottoporsi a un’umiliante visita ginecologica, dopo la quale il medico, dopo un primo parere negativo, dichiarò, per compiacere la regina, «che non si poteva essere del tutto sicuri». Quando alcuni mesi dopo lady Hastings, ridotta a uno scheletro, morì, la regina mandò una carrozza al suo funerale, e ci fu chi la prese a sassate.

    2 Non dieci come alcuni affermano.

    3 Patrick J. Kearney, A History of Erotic Literature, Londra 1982.

    4 Alcuni (per primo Gaston Legman nella sua introduzione al libro per l’edizione del 1962) hanno congetturato che l’autore possa essere Henry Spencer Ashbee, bibliografo e collezionista di libri, ma l’ipotesi non ha avuto gran seguito. Recentemente è tornato sull’argomento Ian Gibson nel suo libro The Erotomanic: the Secret Life of Henry Spencer Ashbee, New York 2001.

    5 Steven Marcus, Gli altri vittoriani, Roma 1980.

    6 Vedi nota 5.

    7 Vedi nota 5.

    8 Il libro è stato pubblicato integralmente negli Stati Uniti nel 1966 (Grove Press) e nel Regno Unito soltanto nel 1995 (Arrow Books).

    Introduzione

    Nel 18… il mio più vecchio amico morì. Eravamo stati insieme a scuola e in collegio, e la nostra intimità non era mai stata interrotta. Feci l’amministratore per sua moglie e fui esecutore testamentario alla sua morte. Morì dopo una lunga malattia, durante la quale le speranze di vivere gli furono alternativamente date e tolte. Due anni prima di morire, mi dette un grosso pacco, accuratamente legato e sigillato.

    «Prendine cura, ma non l’aprire», disse, «se guarisco restituiscimelo, se muoio, non permettere a occhi mortali di vederlo all’infuori dei tuoi, e brucialo».

    La sua vedova morì un anno dopo di lui.

    Io mi ero quasi dimenticato di questo pacco, che avevo avuto per ben tre anni, quando, cercando alcuni documenti legali, me lo trovai tra le mani e lo aprii, come era mio dovere fare.

    Il suo contenuto mi sbalordì. Più leggevo, e più straordinario mi sembrava. Pensai a lungo sul significato delle sue istruzioni quando me lo consegnò, e conservai a lungo il manoscritto incerto su cosa farne.

    Alla fine venni alla conclusione, ben conoscendo la sua idiosincrasia, che il suo unico timore era che qualcuno sapesse chi era l’autore, e sentendo che sarebbe stato un peccato distruggere una simile storia, copiai il manoscritto e distrussi l’originale. Morì senza parenti. Nessuno può rintracciare l’autore, nessun nome è menzionato nel libro, sebbene essi fossero scritti liberamente nei margini del manoscritto, e io solo so a chi si riferiscono, le iniziali. Se ho fatto male a stamparlo, certo non ne ho fatto a lui, ho invece solo realizzato la sua evidente intenzione, e dato a pochi una storia segreta che ha impresso in ogni pagina il segno della verità, un contributo alla psicologia.

    Capitolo

    I

    Primissimi ricordi – Una bambinaia erotica – Dorme a letto – Il mio piccolo pene – Una governante allegra – Il cugino Fred – Pensieri sulle vergogne – Una venditrice ambulante – Figure sconce – Una bambina nuda.

    I miei primissimi ricordi di fatti sessuali si rifanno a cose che penso debbano essere accadute quando avevo tra i cinque e gli otto anni. Le narro come le ricordo, senza cercare di completare ciò che sembra probabile.

    Ella era, credo, la mia bambinaia. Ricordo che talvolta reggeva il mio piccolo arnese quando orinavo. C’era bisogno di farlo? Non lo so. Provava a spingermi indietro il prepuzio, ma quando e quanto spesso, non so. Ma ricordo chiaramente la punta uscire dal prepuzio, che sentivo dolore, che mi mettevo a urlare mentre lei mi calmava, e che questo accadde più di una volta.

    La ricordo come una donna giovane, piuttosto bassa e grassa, che toccava spesso il mio piccolo pene. Un giorno, doveva essere il tardo pomeriggio perché il sole era basso ma splendeva ancora – strano che io ricordi questo particolare così chiaramente, ma ho sempre ricordato il sole – ero stato a passeggiare con lei, mi aveva comprato dei giocattoli e li portavamo insieme. Si fermò a parlare con degli uomini, uno la prese e la baciò e io ebbi paura. Ciò avvenne vicino a un posteggio di carrozze da nolo, perché ricordo che ve n’erano alcune (allora non c’erano ancora le vetture pubbliche). Poi mi mise in mano i giocattoli che aveva ed entrò in una casa con un uomo. Che casa? Non lo so. Forse un bar, perché ce n’era uno non distante da un posteggio e da casa nostra. Uscì, e andammo a casa.

    Ricordo poi che stavo in casa in una stanza coperta di tappeti insieme a lei – so che non poteva essere la nursey – seduto sul pavimento con i miei giocattoli.

    Giocò con me e con i giocattoli e ci divertimmo a rotolarci uno sull’altro sul pavimento. Ricordo di aver fatto così con altre persone e che mia madre e mio padre qualche volta giocavano con me in quella stanza.

    Mi baciò, tirò fuori la mia piccola appendice, ci giocherellò, mi prese una mano e se la mise sotto le vesti. Era ispido lì, vi strofinò sopra con violenza la mia manina, poi mi toccò e mi fece di nuovo male.

    Ricordo che vidi la punta rossa apparire quando mi spinse indietro il prepuzio, che scoppiai a piangere e che poi mi chetò.

    Ricordo ancora che stava sdraiata sulla schiena, che io le stavo a cavalcioni sopra, che mi sollevava su e giù mentre la cavalcavo; non era la prima volta. Caddi bocconi su di lei, mi sollevò su e giù, mi strinse finché non scoppiai a piangere. Ruzzolai giù, e cadendo ruppi con un piede o con una mano un tamburo con il quale aveva giocato fino allora, al che scoppiai a piangere.

    Mentre sedevo sul pavimento accanto a lei, piangendo, ricordo le sue gambe nude e una delle sue mani che si agitava violentemente sotto la gonna, e che avevo una vaga sensazione che fosse malata. Mi sentivo intimidito. In un momento tutto si calmò la sua mano si fermò. Stava ancora stesa sulla schiena, e io le scorsi le cosce, poi volgendosi mi trasse a sé, mi baciò, e mi calmò. Mentre si voltava le vidi una natica, mi chinai e vi appoggiai il viso, piangendo per il tamburo rotto che gli ultimi raggi di sole facevano luccicare. Ricordo che a tratti aveva piovuto.

    Credo di averle visto il sesso mentre stavo seduto accanto alle sue cosce nude, guardandola e piangendo per il tamburo e certamente si stava masturbando quando vedevo che muoveva la mano; eppure non ho il più pallido ricordo della sua vulva e non ricordo più di quanto ho detto. Sono sicuro di averle visto spesso le cosce nude, ma per il resto non posso essere sicuro. La cosa più strana è che mentre sono riuscito a ricordare presto e in modo più o meno chiaro cose fatte con il sesso che accaddero due o tre anni dopo e anche di più e quello che dissi, udii, feci, quasi di seguito, questo mio primo ricordo degli organi sessuali mi sfuggì dalla memoria per venti anni consecutivi.

    Poi mi ricordo, parlando con il marito di una mia cugina degli incidenti dell’infanzia, questi mi raccontò un fatto che gli era capitato da bambino e improvvisamente, quasi con la stessa rapidità con cui una lanterna magica proietta un’immagine su un muro, mi tornò in mente questa esperienza.

    Da allora ci ho ripensato un centinaio di volte, ma non riesco a ricordare nulla più di quanto ho detto. Mia madre aveva dato dei consigli a mia cugina sulle bambinaie: non bisognava fidarsi di loro.

    «Quando Walter era piccolo, ella aveva licenziato una sporca creatura che aveva scoperto mentre faceva cose abominevoli con uno dei suoi figli». Quali fossero queste cose mia madre non lo rivelò mai.

    Detestava gli argomenti indelicati, di qualsiasi genere, e di solito tagliava corto a ogni allusione dicendo: «Parliamo d’altro, questo non è un argomento adatto alla conversazione».

    Mia cugina lo riferì a suo marito e quando ci trovammo insieme egli me ne parlò; in seguito tutte le circostanze mi tornarono in mente, proprio come le ho raccontate qui.

    Come il lettore vedrà, non potevo scoprire il prepuzio completamente senza soffrire, fino all’età di sedici anni, se non dentro una vagina.

    Credo che la mia bambinaia ritenesse ciò strano, e tentava di rimediare a questo difetto del mio fisico facendomi male.

    Mia madre, per i suoi sentimenti estremamente delicati, si astenne sempre dal conoscere troppo il mondo, e questa è la ragione per cui credette implicitamente nelle mie virtù, fino a quando ebbi ventidue anni e cominciai a mantenere, o quasi, una prostituta francese.

    Immagino che devo aver dormito con questa bambinaia; certamente dormii con delle donne in una stanza chiamata la stanza cinese a causa del colore dei parati.

    Ricordo in quella stanza una donna a letto con me, come pare che mi svegliai una mattina con una sensazione di caldo e di soffocamento, mentre la mia testa poggiava su della carne: quella carne mi avvolgeva tutto, bocca e naso erano circondati da peli, o meglio, come da un cespuglio di peli che emanava un odore particolarmente caldo.

    Ricordo anche un paio di mani che improvvisamente mi strinsero e mi tirarono sul cuscino, poi la luce del giorno. Ma non ricordo che sia stata pronunciata neanche una parola.

    Non potei dimenticare questo fatto per molto tempo e lo raccontai a mio cugino Fred, prima che lo facesse mio padre. Diceva che era la governante. Penso di essere scivolato nel sonno fino a posarle la testa sul ventre e sul sesso.

    Anni dopo, sentendo l’odore della vulva di un’altra donna sulle dita, ricordai improvvisamente l’odore che avevo avuto sotto il naso a letto e in un attimo ebbi la certezza di averlo sentito già altre volte; mi ricordai anche dove, ma niente altro.

    All’incirca due o tre anni dopo si tenne una festa da ballo a casa nostra. Molti parenti passarono la notte da noi, la casa era piena, c’era un gran trambusto, e cambiamento di letti; la governante andò a dormire nella stanza di una cameriera e così via. Anche alcune cugine si fermarono da noi; entrando all’improvviso nel salone, sentii mia madre che diceva a mia zia: «Walter dopo tutto è un bambino e si tratta di una notte sola». «Ssst ssst», dissero appena mi videro e poi mia madre mi mandò fuori della stanza, e mi chiedevo perché stessero parlando di me, ero incuriosito e contrariato per essere stato cacciato.

    Allora ero abituato a dormire in una stanza dove c’era anche un altro letto, o in una stanza comunicante con un’altra ma non ricordo quale.

    Ero abituato a chiamare chiunque si trovasse lì quando ero a letto, e siccome ero pauroso la porta era tenuta sempre aperta per me.

    Nessun uomo poteva dormire lì, perché i domestici dormivano a piano terra: avevo visto là i loro letti. La notte di cui parlo il mio letto era stato spostato e portato nella stanza cinese, e una delle donne che aveva aiutato a spostarlo, si sedette sul vaso e orinò: ne udii il rumore e, per quanto mi sforzi di ricordare, quella fu la prima volta che lo udii; ricordo inoltre con chiarezza che vidi una donna infilarsi le calze, e che le toccai le gambe proprio sopra al ginocchio. Ero inginocchiato per terra, avevo una trombetta, ed ella me la strappò di mano subito dopo, perché facevo rumore.

    Ricordo bene il ballo: ballai con una signora alta e mia madre, contrariamente alle sue abitudini, come mi sembra, mi mise ella stessa a letto prima che il ballo finisse; ero molto contrariato e avevo una gran voglia di piangere perché venivo mandato a letto così presto.

    Mia madre accostò le tende ben bene tutt’attorno a un piccolo letto a baldacchino e mi disse che dovevo starmene a letto tranquillo e che non dovevo alzarmi finché non sarebbe venuta lei a prendermi la mattina; non dovevo scendere giù dal letto perché altrimenti avrei disturbato il signor *… e la signora *… che dormivano nel letto grande; se lo avessi fatto, li avrei certamente fatti arrabbiare.

    Sono quasi sicuro che fece il nome di una signora e di suo marito che si fermavano per quella notte da noi, ma non posso esserne del tutto certo. In quel tempo un uomo m’impauriva molto più di una donna e suppongo che mia madre lo sapesse; suppongo, perché comunque, quando ero molto piccolo, m’addormentavo lo stesso, immediatamente, non appena messo a letto, e di solito non mi svegliavo fino al mattino seguente. Certamente quella sera m’addormentai profondamente: forse mi avevano dato un po’ di vino, chi lo sa.

    Improvvisamente percepii della luce e sentii una voce che diceva: «Dorme profondamente, non far rumore». Sembrava la voce di mia madre.

    Mi tirai su ad ascoltare; la situazione era strana, la stanza strana, mi eccitai, mi misi in ginocchio, non so se istintivamente o per cautela, o come; forse per cautela perché avevo paura di far arrabbiare mia madre e il signore; forse fu per istinto sessuale che mi rendeva curioso, sebbene non lo ritengo probabile. Non ho infatti la più pallida idea del motivo che mi spinse, ma mi misi a sedere per ascoltare.

    Le due donne stavano parlando, ridevano sommessamente e si muovevano per la stanza; udii uno scroscio nel vaso da notte, poi più nulla, poi di nuovo uno scroscio. Quanto tempo rimasi in ascolto non saprei dirlo, mi sarò assopito e svegliato di nuovo; so che vidi delle luci che venivano spostate, poi mi avvicinai carponi, con la coscienza di fare una cosa cattiva, e scansai un poco le tende là dove si sovrapponevano ai piedi del letto. Ricordo che erano state fissate molto bene e che non riuscii facilmente ad aprirci una fessura per sbirciare.

    C’era una ragazza, o una donna giovane, con la schiena rivolta a me, che si spazzolava i capelli; un’altra le stava accanto in piedi, prese una camicia da notte dalla sedia, la scosse e se l’infilò dalla testa dopo essersi tolta la camiciola. Mentre lo faceva le vidi del nero in fondo al ventre e mi tornò la paura di fare qualcosa di male, e di essere punito se fossi stato scoperto a guardare, così mi sdraiai di nuovo sul letto, turbato, immagino che m’addormentai immediatamente.

    Poi sentii uno strascinio di piedi e di nuovo, come un rumore di pipì; la luce fu spenta, io mi sentivo agitato, sentii che le donne si baciavano, e una disse: «Zitta, non vorrai mica svegliare quel marmocchio». Poi l’altra disse: «Ascolta», e di nuovo udii baci e respiro affannato come di uno che piange; pensai che qualcuno doveva stare male, mi allarmai e poi mi addormentai.

    Non so chi fossero quelle donne, forse erano mie cugine o signorine venute per la festa.

    Quella fu la prima volta, ricordo, che vidi i peli di una vulva, sebbene dovessi averli visti anche prima, perché talvolta ricordo una donna nuda in piedi (molto probabilmente una governante); non ricordo però di aver notato del nero tra le sue cosce, né vi ripensai dopo.

    La mattina mia madre venne e mi condusse nella sua stanza, dove mi vestì; uscendo dalla stanza disse alle donne che stavano a letto che non dovevano affrettarsi, perché era venuta solo a prendere Walter.

    Ma tutto questo mi tornò vivamente in mente quando, pochi anni dopo, cominciai a parlare di donne con mio cugino e ci raccontammo reciprocamente tutto quello che avevamo visto e udito su di loro.

    Non andai a scuola finché non ebbi circa dodici anni: avevamo in casa un’istitutrice che insegnava a me e agli altri ragazzini; mio padre stava quasi sempre in casa. Io ero accuratamente tenuto lontano dai palafrenieri e dagli altri uomini della servitù. Mi ricordo che una volta entrai nel recinto della scuderia, vidi uno stallone montare una cavalla, e il suo fallo sparire dentro ciò che mi sembrava il suo didietro, e che mio padre apparve gridando: «Che ci fa qui il ragazzino?» e che fui spinto fuori.

    La cosa seguente che ricordo chiaramente fu un mio cugino ospite da noi. Uscimmo a passeggiare, e quando orinammo contro un recinto ricordo che mi disse: «Mostrami il tuo pene, Walter, e io ti farò vedere il mio». Ci fermammo a esaminarci i falli a vicenda, e per la prima volta mi resi conto di non poter spingere all’indietro facilmente il prepuzio come gli altri ragazzini. Spinsi il suo indietro e avanti. Lui mi fece male, mi derise e si beffò di me, poi venne un altro bambino e, credo, un altro ancora; mettemmo a confronto le nostre piccole appendici, e il mio era il solo che non riusciva a scoprirsi, mi canzonarono, scoppiai a piangere e mi vergognai a mostrare di nuovo il sesso; ciò nonostante mi detti da fare alacremente per cercare di spingere il prepuzio indietro, desistendo sempre perché avevo paura del dolore: ero infatti molto sensibile.

    Poi mio cugino mi rivelò che le bambine non avevano il pene, ma solo un buco col quale orinavano. Ne parlavamo sempre, ma non ricordo la parola «fica», né collegai idee impudiche a questo buco che le bambine usavano per orinare, o al fatto che i loro falli erano piatti, un’espressione udita nello stesso periodo. Mi rimase chiaro che sia il mio pene che il buco delle bambine servivano ambedue a orinare, niente altro; non posso con certezza indicare che età avevo allora.

    In seguito mi recai spesso a casa di quel mio zio: mio cugino Fred allora andava a scuola; parlammo ancora un sacco dei falli delle bambine e cominciai a interessarmene parecchio.

    Mi disse che non ne aveva mai visto uno, ma sapeva che avevano due buchi: uno per fare la pipì e un altro per defecare.

    «Si siedono per orinare», mi disse, «non la fanno contro un muro come noi», ma questo doveva già saperlo; quest’argomento mi incuriosiva molto.

    Un giorno una sua sorella uscì dalla stanza dove ci trovavamo: «Va a orinare», mi disse. Sgattaiolammo nella stanza da letto di una di loro e con serietà guardammo nel vaso.

    Non so se ci aspettavamo di scoprire qualcosa di diverso da quello che c’era nel vaso di camera nostra. Ci chiedevamo come faceva a uscire l’orina, se si bagnavano le gambe e se il buco era vicino a quello del sedere oppure, dove; un giorno Fred e io orinammo uno sul fallo dell’altro e ci parve un divertimento meraviglioso. Ricordo che divenni poi curioso di sapere come la facevano le bambine, e vedergliela fare divenne un piacere che ho conservato per tutta la vita.

    Origliavo alle porte della camera da letto, se riuscivo ad avvicinarmi inosservato, dopo che mia madre o mia sorella, la governante o una cameriera vi erano entrate, con la speranza di udire lo scroscio e spesso ci riuscii.

    Per quanto mi ricordo tutto ciò non era accompagnato da alcun desiderio o idea sessuale; non avevo erezioni, e sono sicuro che allora non sapevo che una donna ha un’apertura chiamata vagina che serve per fare l’amore. Non mi pare proprio di aver avuto tali idee; la mia era semplice curiosità di conoscere qualcosa su quelle che io istintivamente sapevo essere fatte in modo diverso. Mi chiedevo che tipo di apertura potesse essere. Era larga? Era rotonda? Perché si accucciavano invece di stare ritte come gli uomini? La mia curiosità divenne intensa.

    Dopo quanto tempo mi capitò l’avventura seguente non potrei dirlo, ma certo nel frattempo il mio pene era cresciuto.

    Un giorno c’era della gente salotto; non so dove si trovassero mia madre e mio padre; non erano in quella stanza, molto probabilmente erano usciti. C’erano uno o due miei cugini, alcuni bambini tra cui mia sorella maggiore e un fratello, la nostra governante e sue sorella che si tratteneva da noi e dormiva nella stessa stanza insieme a lei. Ricordo che andarono tutte e due a dormire nella camera accanto a quella mia. Era sera, ci avevano dato vino dolce, focaccia, uva passa sotto spirito ed eravamo seduti tutti in circolo sul pavimento per fare un gioco. Giocammo a solleticarci a vicenda sul pavimento. Io soffrivo molto il solletico e mi venivano le convulsioni. Ci divertimmo molto, facendo un gran baccano; mi fece il solletico la governante e io lo feci a lei. Mentre venivo portato a letto, o piuttosto mentre ci andavo, perché allora ero in grado di farlo da solo mi disse: «Verrò a farti il solletico».

    A quell’epoca, una cameriera, o mia madre, o la governante, mi portavano via le lampade e chiudevano la porta quando ero già a letto: avevo infatti ancora paura di mettermi a letto al buio, e chiamavo ad alta voce: «Mamma, sto andando a letto!». Mi portavano via allora la lampada, sperando di farmi superare questo timore, e spesso mi rimproveravano e mi facevano spogliare tutto solo per farmelo passare.

    Credo che gli altri bambini fossero stati già messi a letto. I più piccoli stavano nella stanza vicino a quella di mia madre. La stanza dei ragazzi era pure di sopra. La mia era, come ho detto, vicina a quella della governante. Quando fui a letto chiamai perché qualcuno portasse via la lampada, e vennero la governante e sua sorella. La prima cominciò a farmi il solletico e lo stesso fece anche sua sorella; risi, gridai e provai a fare il solletico a loro. Una chiuse la porta e tornò di nuovo a farmelo.

    Scalciando mi tolsi tutti i vestiti e rimasi quasi nudo, le supplicai di fermarsi, sentivo le loro mani sulla pelle nuda, e sono proprio sicuro che una mi toccò il pene più di una volta, sebbene ammetto che possa averlo fatto per caso. Alla fine, contorcendomi, caddi dal letto: la camicia da notte mi era salita alle ascelle e andai a finire sul pavimento col sederino nudo, mentre quelle continuavano a farmi il solletico e ridevano delle mie grida e dei miei contorcimenti.

    Poi, il cielo solo sa cosa mi spinse, forse quello che avevo sentito dire sull’orifizio che serviva alle donne per orinare, oppure la curiosità, o l’istinto, non so, ma afferrai la gamba della governante mentre cercava di tirarmi su per mettermi a letto di nuovo dicendo: «Basta così, piccolino mio, ora va a letto e lasciami portare via la lampada».

    Io non volevo, e mentre la sorella l’aiutava a sollevarmi, infilai le mani sotto le vesti della governante; sentii i peli del pube, e tra le cosce un caldo umido.

    Mi lasciò cadere sul pavimento e si scansò da me con un salto. Dovevo essere rimasto aggrappato a lei con le mani sotto le vesti e una tra le cosce, perché ella mandò uno strillo: «Ah!».

    Poi una pioggia di schiaffi sulla testa: «Brutto bambino… Cattivo!… Maleducato!…», e a ogni parola, giù uno schiaffo, «questa a sua madre gliela dico proprio. Va’ a letto immediatamente!».

    Andai a letto senza dire una parola. Spense la luce e se ne andò con sua sorella, lasciandomi terribilmente spaventato. Sapevo appena che avevo fatto male, eppure avevo la vaga sensazione che se la toccavo ancora tra le cosce mi sarei preso un castigo.

    Il punto morbido e peloso che avevo toccato con la mano mi impressionò e meravigliò, mi convinsi che il pene non c’era, e provai un certo piacere per quello che avevo fatto.

    Poi sentii attraverso il muro che parlavano e ridevano a voce alta. Stanno parlando di me; oh! Se lo dicono a mamma oh!… Ma perché l’ho fatto?

    Tremando di paura saltai giù dal letto, aprii la porta e mi avvicinai alla loro; era socchiusa e mi misi in ascolto: «Proprio in mezzo alle cosce me lo sono sentito!… Deve averla toccata, ah… avresti mai creduto che quella piccola bestia avrebbe fatto una cosa simile?».

    Tutte e due scoppiarono a ridere di cuore.

    «Hai visto il suo cosetto?», disse una, «chiudi la porta, non è chiusa»; tornai senza fiato in camera mia, e stando a letto le sentii attraverso il muro scoppiare a ridere di nuovo.

    Fu questa, la prima volta che passai un’intera notte insonne. La paura che riferissero di me e la paura per quello che avevo fatto, mi tenevano sveglio.

    Per un pezzo sentii le due donne parlare. Insieme alla paura m’era rimasto lo stupore per i peli e per quel senso di morbido e umido che avevo provato per un istante su una parte della mano. Sapevo che avevo toccato la parte nascosta di una femmina, e questo è tutto quello che pensai, non ricordo sensazioni libidinose, ma solo una strana sorta di piacere. Deve essere stato da allora che la mia curiosità sulle forme femminili si andò rafforzando, ma non aveva niente di sensuale. Mi piaceva molto dare baci, lo notò mia madre: quando una cugina o una qualsiasi donna mi baciava io l’abbracciavo e continuavo a baciarla.

    Le mie zie ridevano, ma mia madre mi riprendeva e diceva che era maleducazione.

    Ero solito dire alle cameriere: «Baciami».

    Un giorno sentii il mio padrino che diceva: «Walter sa riconoscere una bambina carina da una brutta, non è vero?».

    La mattina seguente avevo paura d’incontrare la governante; l’osservai, e vidi che rideva con sua sorella, osservai mia madre per alcuni giorni e alla fine dissi alla governante che mi aveva punito per qualcosa: «Non dirlo a mamma».

    «Non ho niente da dirle e non capisco cosa vuoi dire».

    Cominciai a spiegarle cosa avevo in mente.

    «Ma che va dicendo questo ragazzino? Stai sognando…, ti ha messo in testa queste cose qualche stupido bambino; tuo padre te le darà, se parli così».

    «Come, tu sei venuta e m’hai fatto il solletico», dissi.

    «T’ho solleticato un po’ quando ho spento la luce», rispose, «sta’ buono».

    Rimasi di stucco, e suppongo che la faccenda mi fosse uscita di mente per un certo periodo, ma in seguito ne parlai a mio cugino Fred. Penso che dovevo proprio essermela sognata, e cominciai a chiedermi se tutto questo era accaduto veramente; non ci ho pensato mai troppo, finché non ho ricominciato a ricordare la mia infanzia per scriverla.

    Dovevo avere dodici anni quando andai da uno zio nel Surrey, e divenni amico intimo di mio cugino Fred, un vero demonio fin dalla nascita, di cui racconterò molto di più: prima di allora lo avevo visto solo a intervalli.

    Ci avevano dato il permesso, mi sembra che prima non lo avessimo, di uscire da soli. Parlavamo di cose oscene, fanciullescamente.

    «Ma che dici!», mi disse, «il buco delle femmine non si chiama pipino, si chiama fica e ci si fa l’amore», e mi raccontò così tutto quello che sapeva. Da allora una nuova serie di idee mi venne in mente.

    Avevo un’idea vaga, sebbene non ne fossi proprio convinto, che un pene e una vagina non fossero fatti solo per mingere. Fred mi trattava come uno scemo su questi argomenti, e mi chiamava sempre «somaro». Ho un ricordo veramente penoso del mio senso di inferiorità verso di lui in queste cose e del mio continuo supplicare perché me le insegnasse. «In questo modo fanno i bambini», disse Fred. «Vieni, chiediamo alla vecchia bambinaia da dove vengono i bambini, e vedrai che ci risponderà da una pianta di cavolo, ma è tutta una bugia».

    Ci andammo, e glielo chiedemmo come per caso. Ci rispose: «Dal cavolo» e si mise a ridere.

    La bambinaia che stava a casa mia mi dette la stessa risposta, quando più tardi glielo chiesi a proposito dell’ultimo figlio di mia madre.

    «Sono bugiarde», Fred mi fece notare, «in realtà escono dalle loro vagine, e nascono dopo che esse hanno fatto l’amore con gli uomini».

    Desideravamo tutti e due vedere le donne orinare, sebbene penso che dovevamo averle già viste abbastanza spesso. Camminando un giorno vicino al mercato, proprio nei dintorni, e guardando verso un vicolo laterale, scorgemmo una venditrice ambulante accoccolata per terra che orinava. Ci fermammo per guardarla da vicino: era una donna di mezza età, con le sottane corte e le gambe grosse; l’orina scorreva in un rigagnolo abbondante; noi rimanemmo là, sogghignando.

    «Andatevene! Andatevene!… Che ridete, piccoli sciocchi, maledetti!», urlò la donna. «Andatevene o vi tiro un sasso» e continuò a orinare. Facemmo qualche passo all’indietro, continuando a guardarla di fronte.

    Fred si chinò e abbassò la testa: «La vedo uscire!», disse con aria beffarda. Era insolente fin dall’infanzia, sfrontato al massimo, e in quanto a oscenità, aveva l’impudenza del demonio.

    Il rigagnolo cessò, la donna si alzò imprecando, prese una grossa pietra e ce la tirò.

    «Lo racconterò», gridava, «vi conosco, aspettate che vi riveda un’altra volta!».

    Aveva un grosso cesto di recipienti d’argilla da vendere, che aveva poggiato per terra all’angolo della strada principale; aveva solo voltato l’angolo per andare a orinare.

    Scappammo via, e quando fummo abbastanza lontani, ci voltammo a farle versacci: «Te l’ho vista!», urlò Fred, e quella tirò un’altra pietra. Fred ne raccolse una lui, la tirò e colpì il cesto facendo un gran fracasso; la donna si mise a inseguirci, e noi scappammo verso casa attraverso i campi. Non riuscì a raggiungerci.

    Fu una giornata ricca d’avvenimenti per noi. Mi ricordo che ero pieno d’invidia per Fred che le aveva visto la vulva. Ora che lo scrivo, e rivedo quasi esattamente come s’era accovacciata, e come le pendevano le vesti sono sicuro che non poteva avergliela vista: faceva solo lo spaccone quando affermava il contrario, ma siccome noi stavamo sempre a parlare di vagine, e il desiderio di vederne una era grande, io, allora, vi credetti.

    Poi un compagno di Fred ci fece vedere una figura oscena, a colori; mi meravigliai che la vagina fosse una specie di lunga fenditura. Mi ero fatto l’idea che fosse rotonda, come il buco dell’ano.

    Fred disse al suo amico che ero un somaro, ma io non riuscii a levarmi dalla testa l’idea che la vulva non è rotonda finché non feci l’amore con la mia prima donna.

    Eravamo tutti ansiosi di vedere la figura e ce la giocammo a testa o croce, ma né io né Fred la prendemmo, andò a qualche altro ragazzino.

    Poco dopo Fred venne a stare da noi; i nostri discorsi vertevano sempre sul sesso delle donne e la nostra curiosità si acuiva.

    Avevo una sorellina, di circa nove mesi che era tenuta nella nursery, e Fred mi incitò a guardarle il sesso se ci fossi riuscito. Quando le due bambinaie scendevano a mangiare con la servitù, a turno, io stavo spesso nella nursery, e mi trovavo lì, un giorno dopo il consiglio di Fred, quando la bambinaia più anziana mi disse: «Resta qui, Walter, per un paio di minuti, mentre io scendo. Mary (l’altra bambinaia) salirà subito; non fare rumore». La mia sorellina stava a letto, addormentata. «Sì, aspetterò». La bambinaia se ne andò, lasciando la porta aperta, e io, veloce come un lampo, tirai su le vesti della bambina, vidi la sua piccola fenditura e delicatamente vi poggiai sopra il dito; stava sdraiata sulla schiena molto comodamente. Le spostati una gambetta da una parte per vedere meglio, ma si svegliò cominciando a piangere; sentii dei passi ed ebbi appena il tempo di tirarle giù le vesti quando entrò la bambinaia.

    Ero riuscito a dare solo un’occhiata alla parte esterna della sua piccola cosuccia, perché non ero rimasto neanche un minuto del tutto solo con la bambina e avevo avuto paura di essere sorpreso per tutto il tempo che la guardavo.

    Dovevo avere una faccia strana, perché la bambinaia mi chiese: «Che c’è, cosa hai fatto alla bambina?»

    «Niente».

    «Sì, stai diventando rosso; avanti… dimmelo».

    «Niente… non ho fatto niente».

    «Hai svegliato tua sorella».

    «No, non è vero».

    La ragazza mi prese e mi scosse un po’.

    «Lo dirò a tua madre se non me lo dici; allora: che le hai fatto?»

    «Niente, non ho fatto niente… guardavo fuori della finestra quando s’è messa a piangere».

    «Stai dicendo una bugia, lo vedo» disse la bambinaia; me ne andai, con tutta la mia sfacciataggine.

    Lo raccontai a Fred e ci provò anche lui, ma non ricordo se ci riuscì.

    Alcune sue sorelle erano più grandi di lui, e quando mi trovai in visita da sua madre (mia zia), il che accadeva durante le vacanze, ci mettemmo ad architettare insieme alcuni modi per vedere il loro sesso.

    La vista del sesso della bambina, come glielo descrissi, lo convinse che la figura era giusta e che la vulva era una lunga spaccatura e non un buco rotondo. Ciò fece sorgere dubbi su come i maschi vi infilassero il loro organo e ci fissammo in qualche modo sul problema della rotondità del buco, litigando.

    Pressappoco in quel periodo mi deve essere accaduto di leggere qualcosa scritto con il gesso su un muro, mentre passeggiavo con mio padre.

    Gli chiesi cosa significasse e lui mi rispose che non lo sapeva, che solo la gente volgare e la canaglia scriveva sui muri, e che non valeva la pena di notare certe cose.

    M’ero reso conto di aver fatto qualcosa di male, ma non sapevo esattamente cosa.

    Quando uscii da solo – avevo ottenuto allora il permesso di farlo, anche se solo per brevi distanze – copiai la scritta per riferirla a Fred. Era un’espressione turpe e oscena, ma l’unica cosa che capimmo fu la parola «fica».

    Proprio allora, mentre eravamo con altri ragazzini, vedemmo due cani accoppiarsi. Non ricordo di avere visto altri cani farlo prima. Facemmo circolo tutt’intorno gridando di eccitamento quando s’attaccarono per il didietro, poi un ragazzino disse che così facevano anche gli uomini e le donne, io chiesi se s’attaccavano così e un ragazzo mi rispose di sì, altri lo smentirono e per tutto il resto della giornata alcuni di noi rimasero a discutere; l’impressione che mi rimase fu di grande disgusto, ma contemporaneamente mi confermò l’idea che gli uomini infilavano il pene nella vagina, cosa sulla quale a quel tempo mi pare che avessi forti dubbi.

    Dopo questo periodo ricordo gli avvenimenti più chiaramente, e posso riferire non solo quello che accadde, ma ancor meglio quello che dissi, udii, e pensai.

    Capitolo

    II

    Il mio padrino – Ad Hampton-Court – Il deretano di mia zia – Bagni pubblici – I sessi delle mie cugine – Scherzi nei campi – Difficoltà familiari – Divertimenti scolastici – Un parente che si masturba – Romanzo e sentimento.

    Il mio padrino (di cui ereditati in seguito il patrimonio) mi era molto affezionato e all’incirca verso quest’epoca soleva ripetermi sempre: «Quando vai a scuola non fare gli scherzi che fanno gli altri ragazzi, sennò morirai in un manicomio; centinaia di ragazzi finiscono lì». E mi raccontava con fare misterioso storie orribili. Sentivo che vi era un significato nascosto, ma non riuscendo affatto a capirlo, glielo chiedevo, e allora mi rispondeva che l’avrei saputo abbastanza presto, ma che dovevo stare attento alle sue parole. Me lo ripeteva così spesso che mi venne la fissazione che, se avessi fatto qualcosa – e non sapevo cosa – chissà cosa mi sarebbe accaduto, e ne ero angosciato.

    Intendeva prevenirmi contro la masturbazione e sono certo che ebbe buon effetto su di me in vari modi per il futuro.

    Un giorno, parlando con Fred, mi ricordai ciò che avevo fatto alla governante. Avevo tenuto il segreto fino ad allora per paura. «Che balla!», esclamò. «No, l’ho fatto davvero».

    «Macché, sei un bugiardo; lo chiederò alla signorina Granger». Era la stessa governante che stava ancora da noi. Le sue parole mi fecero venire un terrore folle, e il solo ricordarlo mi è ancora penoso.

    «Non farlo, ti prego Fred», supplicai, «oh, se papà lo venisse a sapere!».

    Continuò a dire che glielo avrebbe chiesto, e io ero allora troppo giovane per capire quanto fosse improbabile una cosa del genere.

    «Se glielo chiedi, io dico a papà di quello che abbiamo fatto alla venditrice ambulante». Se ne infischiò. «Vero che è tutta una bugia la storia che le hai toccato la vagina?». Spaventato, risposi di sì.

    «Lo sapevo». Mi tenne in un stato di terrore per alcuni giorni, finché non raccontati una bugia per liberarmene.

    Evidentemente sono sempre stato riservato sulle faccende amorose, anche allora tranne con Fred (come si vedrà) e tale sono rimasto per tutta la vita.

    Raramente mi sono vantato o ho raccontato a qualcuno le mie azioni; forse questa piccola vicenda con la governante mi servì di lezione, e consolidò questa tendenza che avevo fin dall’infanzia. Ho sempre tenuto per me quello che ho fatto con l’altro sesso.

    Con frequenza, ora ci guardavamo i rispettivi sessi, e Fred mi canzonava perché avevo il prepuzio chiuso, e decisi perciò di non farlo vedere a nessun altro ragazzo e sebbene non mi attenessi scrupolosamente a questa decisione, ne rimasi profondamente mortificato.

    Mi guardavo il pene con un senso di vergogna, e spingevo il prepuzio avanti e indietro quanto più potevo per scoprirlo, e se gli altri ragazzi me lo permettevano, facevo lo stesso con il loro senza permettere però che lo facessero a me.

    S’avvicinava il tempo in cui avrei imparato molto di più.

    Un mio zio che viveva a Londra, prese un giorno una casa per l’estate vicino al Palazzo di Hampton-Court, e io e Fred andammo a stare con lui. C’erano varie figlie e figli molto piccoli. In quel tempo la gente arrivava da Londra per vedere il Palazzo e i dintorni con carrozzoni, carrette e ogni tipo di mezzi di trasporto (la ferrovia non c’era); in massima parte era gente della piccola borghesia, e appena arrivati si fermavano a fare merenda o a pranzare, nelle taverne: quindi, sazi e allegri, si riversavano nei parchi e nei giardini.

    Anche adesso è così, ma allora era diverso: ci andava poca gente, c’erano meno guardiani nel parco per sorvegliare, e meno di quella che si chiama «delicatezza» tra i visitatori di quella classe.

    Andavamo ogni giorno con la famiglia nei campi, e ci stavamo quasi tutto il giorno, se non andavamo sulle rive del fiume. Un giorno Fred mi fece l’occhiolino dicendo: «Lasciamo andare Bob, e vedrai che scherzo!». Bob era un nostro cuginetto, che di solito ci veniva affidato. Ce lo perdemmo di proposito.

    «Se riesci a scansare i giardinieri, sali lentamente laggiù e distenditi sulla pancia senza far rumore; sicuramente verranno delle ragazze a orinare; io ne ho viste alcune, prima che tu venissi a stare con noi».

    Così facemmo, aprendoci il cammino tra i cespugli e i sempreverdi, finché un giardiniere che ci aveva visti, gridò:

    «Ehi, voi laggiù! Tornate indietro, se vi trovo a camminate fuori dai sentieri, vi butto fuori!».

    Ci prese una fifa del diavolo; Fred se la svignò da una parte, io a dall’altra, ma fu solo per quel giorno. Fred m’eccitava moltissimo coi «buchi delle femmine», come li chiamava lui, perciò non perdevamo mai l’occasione di tentare di vederli, anche se di solito non ci riuscivamo.

    Solamente una, due o tre volte, vedemmo una donna accovacciarsi in terra, ma nient’altro, finché non arrivarono la madre di Fred e la mia.

    La madre di Fred, la mia, le ragazze, Fred e io un pomeriggio andammo nei giardini del parco. Faceva molto caldo e camminavamo sui sentieri che erano in ombra, uno dei quali portava al posto dove le donne s’appartavano per orinare. Mia zia disse: «Ragazzi, perché non ve ne andate a giocare, a voi il sole non dà fastidio». Così ce ne andammo, ma quando stavamo per lasciare il sentiero ci voltammo e vedemmo che le donne erano tornate indietro. Fred disse: «Sono sicuro che vanno a orinare, ecco perché vogliono liberarsi di noi».

    Eludemmo i giardinieri, passammo attraverso i cespugli, avanzando sulle ginocchia, e alla fine sul ventre, fino a una collinetta, dietro la quale c’era uno spiazzo dove si ammassavano le foglie morte e la spazzatura.

    Arrivati lì, scansando le foglie, vedemmo il grosso sedere di una donna, mezza in piedi e mezza accovacciata, un rivo di orina che le scorreva davanti, e un grande squarcio peloso sotto l’ano; solo per un secondo però, perché aveva finito proprio quando noi eravamo riusciti a darle un’occhiata; si riassestò le vesti, lasciando le pieghe tra le gambe, e si voltò un pochino. Ci accorgemmo che era la madre di Fred, mia zia. Se ne andò.

    «Grossa, eh? Resta fermo, ne verranno altre», disse Fred.

    Vennero in due o tre. Una disse: «Sta’ attenta se viene qualcuno». Si abbassò e orinò; noi potemmo vederle solo parte delle gambe e l’orina che le schizzava davanti, ma non la vulva.

    Poi venne la seconda, che si voltò col deretano dalla nostra parte, ma sedette così in basso che non riuscimmo a vederle neppure il fondo delle natiche.

    Fred pensò che era un peccato che non fosse rimasta quasi in piedi come sua madre.

    Tornammo altre volte nello stesso luogo, ma non ricordo di aver visto altro che gambe.

    Ciononostante queste viste ci piacevano immensamente e discutevamo a lungo sulla vagina di sua madre, sui peli, e sul fatto che sembrava uno squarcio, ma io credevo che ci doveva essere un errore, perché non era conforme all’idea che me ne ero fatto.

    Fred subito dopo venne da noi in città. Ci era stato proibito di uscire insieme senza permesso, ma lo facemmo lo stesso, e incontrammo un ragazzo più grande di noi che stava andando ai bagni pubblici.

    «Venite a vedere come fanno il bagno», ci disse.

    Mio padre s’era rifiutato di condurmi ai bagni pubblici, ma Fred e io non ce ne curammo, e pagati sei soldi a testa entrammo con il nostro amico; non facemmo il bagno ma ci divertimmo a osservare gli altri e a guardare i loro membri.

    Nessuno a quei tempi, per quanto mi ricordi, portava le mutande; camminavamo per il bagno, di solito nascondendoci con le mani il sesso. Mi sbalordì la grandezza di alcuni, e la nera peluria che li circondava; mi stupii anche nel vederne uno o due, con il glande rosso completamente scoperto, così diverso dal mio.

    Su tutto questo discutemmo moltissimo in seguito, e fu per me la scoperta della costituzione e delle forme dell’uomo.

    Fred mi disse che nei campi aveva spesso visto gli uomini con i membri scoperti, e a quei tempi, vivendo in campagna come faceva lui, penso che fosse realmente possibile, ma non ricordo di aver visto prima di allora il sesso di un adulto, o un uomo nudo.

    Nell’estate dello stesso anno andai a trascorrere alcuni giorni anche a casa di mia zia, la madre di Fred, a H…dfs…

    Dormivamo nella stessa stanza e talvolta ci alzavamo all’alba per andare a pescare. Una mattina, Fred, che aveva lasciato una cosa in camera delle sorelle, andò a prenderla, nonostante ci fosse stato vietato l’ingresso nelle camere da letto delle ragazze.

    La stanza in questione era di fronte alla nostra. Non era completamente vestito, e ritornò dopo un secondo sogghignando:

    «Oh, Walter, vieni, ma fa piano… Lucy e Mary sono completamente nude, gli si vede tutto! Quella di Lucy ha un po’ di peli neri».

    Ero vestito solo a metà, eccitatissimo all’idea di vedere le nudità delle cugine. Ci togliemmo le pantofole e ci infilammo dentro, attraverso la porta mezza aperta, avanzammo carponi; il perché, non l’ho ancora capito fino a oggi. Scivolammo così fino ai piedi del letto, poi ci alzammo un po’ e guardammo al di sopra della sponda. Lucy che aveva quindici anni, stava stesa su un fianco, nuda dalle ginocchia alla vita. Le lenzuola, che suppongo avesse scalciato via per il caldo, erano in parte ammucchiate tra i suoi piedi e in parte per terra; vedemmo la sua fessura, fino al punto in cui spariva tra le cosce. Tutto quello che ricordo, è che aveva una lieve peluria scura.

    Mary Ann, di appena un anno più piccola, era distesa accanto a lei sulla schiena, nuda fino all’ombelico, dove s’era arrotolata la camicia da notte; aveva appena un accenno di peli, ma si scorgeva una linea vermiglia lungo tutta la sua fenditura.

    In alto, dove cominciava la vagina aveva un clitoride fortemente sviluppato e molto sporgente; era molto carina e possedeva lunghi capelli castani.

    Mentre stavamo a guardare sollevò una gamba in maniera agitata, e noi ci chinammo, pensando che si stesse per svegliare; quando guardammo di nuovo, le sue membra erano ancora più aperte e le vedemmo la fessura nel punto in cui si stringeva nel solco delle natiche.

    Per paura di essere presi, uscimmo subito lasciando la porta socchiusa, e tornammo in camera nostra così felici che ci mettemmo a ballare scambiandoci le impressioni sulle due vulve, alle quali dopo tutto non avevamo dato che una parziale, rapidissima occhiata.

    Lucy era una ragazzina molto scialba, e così fu anche da donna. Aveva, per quanto mi ricordi, una faccia molto rosea e gonfia (faceva così caldo) mentre stava sdraiata; e fu a lei che mia madre consigliò poi di non lasciare il bambino solo con la bambinaia.

    Mary Ann era deliziosa. In seguito, guardandola o parlandole, mi veniva di pensare: «Tu non hai la più pallida idea che t’ho visto il sesso».

    Fu sfortunata: si sposò con un ufficiale di cavalleria, andò in India con lui, fu lasciata inevitabilmente sola in un posto da suo marito, che era stato mandato in campagna per un anno intero, e, non potendo sopportare di rimanere a digiuno di sesso, fu sorpresa a letto con un tamburino, un ragazzetto.

    Si separò, tornò in Inghilterra, e bevve fino a quando non ne morì.

    Per quel che ricordo, era una giovane donna sensuale, e mi fu detto in seguito che ebbe moltissimi uomini; ma questo era un punto dolente per la famiglia, e tutto quello che la riguardava fu accuratamente tenuto nascosto.

    Anni dopo vidi un figlio di Lucy farsi una cameriera in una residenza estiva; stavano tutti e due in piedi, appoggiati a un grosso tavolo; io stavo sul letto. Ciò accadde molti anni prima che io facessi l’amore con una governante, stesa sullo stesso tavolo in quella stessa casa, come dirò tra poco.

    Fred e io discutevamo spesso sull’aspetto del sesso di sua madre e delle sue sorelle, come se appartenessero a persone estranee. Ci aveva sbalordito il rosso che avevamo visto nella fessura di Mary Ann.

    Non mi sembra che avessi allora una nozione chiara del sesso di una ragazza; avevamo già visto altre fessure, ma avevamo ancora, e l’avemmo per molto tempo, l’idea che il buco fosse rotondo e vicino al punto dov’è il clitoride, non sapendo però neanche lontanamente cosa fosse il clitoride, nonostante leggessimo avidamente un libro di Aristotele che avevamo trovato. L’occhiata alle due vulve non era stata che fugacissima, e la nostra eccitazione ne confuse il ricordo.

    Fred e io architettammo un piano per vedere il sesso di un’altra ragazzina; non ricordo di chi, forse un’altra sorella di Fred o una nostra comune cugina, ma non credo. A ogni modo stava a casa di mia zia, e siccome era più bassa di Fred e di me, penso che avesse undici o dodici anni.

    Anni dopo facemmo la stessa cosa con una cugina (che non era sua sorella), come dirò.

    Era il tempo della falciatura, e stavamo giocando in modo violento con la ragazza a seppellirci a vicenda nella paglia, a tirarci fuori e così via.

    Fui seppellito nella paglia e trascinato fuori per le gambe da Fred e anche da lei.

    Poi fu il turno di Fred, e dopo seppellimmo la ragazza, quindi mentre la tirava fuori, Fred le sollevò le sottane. Io stavo sdraiato dalla parte della sua testa, che era coperta di paglia. Fred guardò, mi fece l’occhiolino e annuì.

    Toccò di nuovo a me a essere seppellito, poi di nuovo a lei, e tirandola fuori dalla paglia la presi per le gambe e le vidi le cosce; le spinsi in su le ginocchia e intravidi la fenditura senza peli.

    Mia zia e gli altri stavano nello stesso campo, ma non avevano idea del gioco che stavamo facendo, e la stessa ragazzina che giocava con noi, non immaginava lontanamente che le stessimo guardando il sesso; infatti non era che un’occhiata di sfuggita.

    Non so che effetto mi facessero queste occhiate, ma non mi sembra che svegliassero il mio desiderio sessuale, né ricordo che il mio pene o quello di Fred irrigidissero.

    Credo che dopo tutto, un po’ perché giocavamo e un po’ perché studiavamo, il tempo che dedicavamo a pensare alle femmine non fosse eccessivo, e che la curiosità era il solo motivo che ci spingeva a fare quello che facevamo.

    Ricordo chiaramente che allora parlavamo del coito, e che ci chiedevamo se fosse vero o se si trattasse di una bugia.

    Ripetevamo quello che avevamo sentito o letto, ma ancora mi sembrava improbabile che un pene entrasse in una vagina e che il risultato fosse un bambino.

    Poi mi prese un interesse sfrenato per le donne; presi una mezza cotta per una signora che doveva avere circa quarant’anni e una strana aria triste. Cominciai a seguire le cameriere, sperando di veder loro le gambe o vederle orinare, o per qualche altro scopo indefinito; ricordo solo molto bene che badavo soltanto a loro.

    Mio padre in seguito ebbe dei momenti difficili (lo so ora) e ci trasferimmo in una casa più piccola; la governante se ne andò, mi mandarono in un’altra scuola e un mio fratello e una mia sorella morirono.

    Mio padre andò all’estero per sorvegliare delle piantagioni, e dopo un anno di assenza tornò, ma morì lasciando mia madre in condizioni misere rispetto al passato; ma di questo parlerò più ampiamente nel momento adatto.

    Credo, ma non ne sono certo, che andassi già a scuola da un certo tempo, comunque non molto, quando accadde quello che sto per raccontare: se è così, devo aver visto dei ragazzi masturbarsi, ma per quanto riesca a ordinare gli avvenimenti nella mia mente secondo una sequenza temporale, la prima volta che vidi un ragazzo farlo dovette essere in camera mia, a casa.

    Dovevo avere circa tredici anni quando un nostro lontano parente arrivò dalla campagna per stare da noi, fino a quando fu mandato in una grande scuola. Era figlio di un pastore, aveva forse quindici o sedici anni ed era fortemente butterato dal vaiolo.

    Non l’avevo mai visto prima e mi prese una forte antipatia per lui; la famiglia era povera e si pensava di farne un prelato. Io ero molto seccato che dovesse dormire con me, ma nella nostra casa piccola non c’era altro posto per lui.

    Non ricordo quante notti dormì nel mio letto, ma penso poche.

    Una notte, a letto, mi toccò il membro. Al principio lo respinsi, poi toccai il suo, e ricordo che le nostre mani s’incrociavano e che le nostre cosce si toccavano.

    Una mattina mi svegliai sentendo che mi premeva la pancia contro le natiche, e che provava a spingervi dentro il pene. Lo scansai, spingendolo via con le mani; dopo un po’ me lo ritrovai tra le cosce, che si muoveva freneticamente avanti e indietro, mentre la sua mano, passatami sopra i fianchi, cercava di prendermi il pene. Mi voltai e lo guardai in faccia; mi chiese di voltarmi di nuovo e allora gli risposi che dopo l’avrei fatto io a lui, ma non facemmo altro.

    M’è rimasta una spiacevole sensazione di quando dormivo con lui, ma come ho detto, mi era antipatico.

    La sera dopo, mentre si spogliava, mi mostrò il suo membro irrigidito, e sedette nudo su una poltrona. Era un aggeggio eccessivamente lungo e sottile; mi parlò della masturbazione, e disse che lo avrebbe fatto a me se l’avessi masturbato.

    Cominciò a muoversi la mano velocemente su e giù sul pene che diventava sempre più rigido, stese con un colpo una gamba poi l’altra, chiuse gli occhi e assunse una espressione così strana che pensai gli stessero per venire le convulsioni; poi gli sprizzarono fuori piccoli grumi pastosi, mentre sbuffava come fa certa gente quando dorme, e cadde all’indietro sulla poltrona con gli occhi chiusi; vidi poi qualcosa calargli giù, sempre più sottile, sulle nocche delle dita.

    Stranamente lo guardavo affascinato, lui e la macchia sul tappeto, ma mi venne la mezza idea che fosse malato; mi spiegò che era un piacere immenso, e fu molto eloquente in proposito.

    Adesso, come allora, quella scena mi parve disgustosa e spiacevole, eppure avevo lasciato che mi prendesse il pene e che me lo fregasse, senza però avere sensazioni piacevoli.

    Mi disse: «La pelle non si toglie, che buffo pisello».

    Questo mi seccò, e non volli che lo facesse più, così ci mettemmo a parlare finché la candela si consumò tutta, calpestò lo sperma sul tappeto dicendo che così i servi avrebbero pensato che avevamo sputato, e andammo a letto.

    In seguito si masturbò davanti a me molte altre volte, e quando me lo chiedeva glielo facevo io; mi divertiva e contemporaneamente mi disgustava.

    Un giorno, mentre lo stavo sfregando, mi disse che era bellissimo fare lo stesso movimento dentro l’apertura del sedere, e che lui assieme al fratello lo facevano a turno riportandone una stupenda sensazione. Mi chiese se glielo avrei fatto fare, ma io nella mia innocenza risposi che era impossibile e che pensavo stesse mentendo. Poco tempo dopo ci lasciò e andò in collegio. Lo vidi ancora una o due volte alcuni anni dopo, poi annegò quand’era ancora molto giovane.

    Ne parlai con mio cugino Fred quando lo vidi; Fred nella masturbazione ci credette, ma a proposito del sedere pensò che fosse una balla, proprio come me.

    Questa fu la prima volta che ebbi modo di vedere uno che si masturbava e di conseguenza la fuoruscita del seme maschile; all’improvviso mi si aprirono gli occhi.

    Ora andavo a una scuola privata, ma ero ugualmente timido e riservato e ascoltavo avidamente ogni discorso osceno, anche se non ci credevo molto.

    Feci parte di un gruppo di ragazzi con i miei stessi gusti. Un giorno alcuni di essi mi costrinsero a entrare dentro un gabinetto, e lì, mio malgrado, mi tirarono fuori il pene, mi buttarono a terra, mi tennero fermo e ognuno ci sputò sopra: questa fu la mia iniziazione alla loro società. Facevano ciò che chiamavano il «gioco del pene»: tutti quelli ammessi al gioco erano autorizzati a toccare il sesso degli altri. Li toccai tutti, ma

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