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Storia di Lucio Wu napolitano
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E-book365 pagine5 ore

Storia di Lucio Wu napolitano

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Info su questo ebook

Laura è una studentessa dell’Università Orientale di Napoli, al primo anno di corso di Lingua cinese. Viene dalla Romagna e ha la passione delle arti marziali; da poco giunta nella grande città del Sud si sente un po’ spaesata, ma un gruppo di colleghi (che diventeranno poi suoi amici) l’aiuterà a ritrovarsi, o forse a perdersi? Laura ha scoperto infatti, nel frattempo, l’antica storia di un giovane cinese, che come la sua è sospesa tra Oriente e Occidente, libertà e dottrina.

Non aveva visto male, erano due bambini cinesi, di nove o dieci anni. Il più vicino ai piedi della Madonna, ritratto di profilo, indossava un tipico copricapo cinese a pagoda di colore rosso, da cui spuntavano corti capelli neri e lisci, e una tunica blu, che sembrava troppo grande per lui, con risvolti di raso giallo. Le sue mani erano esili e affusolate, incrociate sul petto; aveva un naso piccolo e regolare, come l’unico orecchio che la prospettiva permetteva di osservare. Il taglio a mandorla dell’occhio ritratto svelava inequivocabilmente la sua origine, le labbra rosa e carnose di bimbo sorridevano serene: più che della Madonna sembrava in adorazione dei suoi piedi. Dietro di lui, in penombra, l’altro fanciullo, di cui si scorgevano il collo e parte del volto, sembrava eseguito con un tratto più frettoloso e meno particolareggiato: casacca e berretto blu, frangetta alla francescana, naso più lungo del suo amico e gli stessi, inconfondibili occhi a mandorla.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2022
ISBN9788833469737
Storia di Lucio Wu napolitano

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    Anteprima del libro

    Storia di Lucio Wu napolitano - Rita Quinzio

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    Realizzato con il patrocinio gratuito della Fondazione Internazionale Padre Matteo Ricci, Macerata.

    Storia di Lucio Wu napolitano

    di Giovanni Porzio e Rita Quinzio

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 978-88-3346-973-7

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2022©

    Narrativa – Maree

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Storia di Lucio Wu napolitano

    Giovanni Porzio e Rita Quinzio

    AliRibelli

    Indice

    Nota dell'Editore

    Prologo

    Capitolo 一 yī

    Capitolo 二 èr

    Capitolo 三 sān

    Capitolo 四 sì

    Capitolo 五 wŭ

    Capitolo 六 liù

    Capitolo 七 qī

    Capitolo 八 bā

    Capitolo 九 jiǔ

    Capitolo 十 shí

    Capitolo 十一 shí yī

    Capitolo 十二 shí èr

    Capitolo 十三 shí sān

    Capitolo 十四 Shí sì

    Capitolo 十五 Shí wǔ

    Capitolo 最后的 Zuìhòu de

    Nota dell’Editore

    Quando Gianni e Rita hanno proposto in redazione il testo che avete tra le mani, non conoscevo la storia di Lucio Wu né del Collegio dei Cinesi. Sapevo, certo, dell’esistenza a Napoli del prestigioso Istituto Orientale ma le sue origini mi erano ignote. Il primo ringraziamento lo devo quindi agli autori per avermi fatto scoprire uno spaccato di storia straordinario.

    Un altro ringraziamento lo devo al Prof. Michele Fatica per i suoi suggerimenti, a don Savio Yan per la consulenza linguistica e alla Fondazione Internazionale Padre Matteo Ricci di Macerata per averci gentilmente onorato del loro patrocinio.

    Ai lettori rivolgo un caloroso buon viaggio nel mondo straordinario di Lucio Wu, alla scoperta di un tempo in cui si costruirono ponti che ancora oggi abbiamo la fortuna di attraversare.

    Jason R. Forbus

    Prologo

    A Napoli non piove mai. Dicono. È la città del sole. Ma la finestra riflette il volto quasi liquido di una giovane donna, tra rivoli copiosi. L’acqua non sfugge alla gravità, si appoggia sul vetro in grosse gocce rotonde, poi si allunga e forma un ordito di mille fili che fluidi riflettono la luce e scorre ipnotica. Piove come Dio comanda. Il cielo plumbeo rinnega, almeno oggi, il detto popolare, verso di una famosa canzone, "Chist’ è ’o paese d′o sole". A novembre piove anche a Napoli. Non c’è dubbio. Laura a malapena si riconosce in quello specchio acquoso, annoda i lunghi capelli corvini in una sottospecie di chignon sulla nuca e lo ferma infilandoci con perizia una matita. Si allontana dalla finestra della sua stanza, finalmente il bagno è libero. Deve sbrigarsi, la lezione di cinese inizia alle nove e Palazzo Giusso non è proprio dietro l’angolo. Una doccia veloce per lavare via la notte, infila i jeans a fatica: il cotone ruvido non scivola sulla pelle bagnata perché per la fretta non si è asciugata ma a malapena sgocciolata. Un braccio e poi l’altro nella felpa nera col cappuccio, che penzolava sulla maniglia della porta dalla sera precedente. Infila le Puma senza slacciarle, afferra lo zaino al volo e si scapicolla sulle scale ancora puntellate del vecchio palazzo di via Nilo, dove divide un ampio e malmesso appartamento con altre tre studentesse.

    Sul finire degli anni Ottanta Napoli portava ancora evidenti ferite del terremoto che il 23 novembre del 1980 aveva devastato l’Irpinia. Molti palazzi del centro storico avevano subito lesioni ed erano stati messi in momentanea sicurezza con ponteggi, in attesa di lavori che ne garantissero la stabilità e l’abitabilità: momentaneo però a Napoli non è un aggettivo qualificativo, quanto piuttosto relativo. Così generazioni di studenti fuori sede e fuori corso si ritrovarono affittuari di posti letto in case fatiscenti, per quanto e nonostante tutto affascinanti, nel più grande centro storico abitato d’Europa. Laura era uno di essi.

    Di ombrello neanche a parlarne, li dimenticava ovunque, così aveva rinunciato a ripararsi sotto la cupola impermeabile di quegli strumenti infernali che non riusciva mai ad aprire senza pizzicarsi le dita, che puntualmente le s’incastravano nel meccanismo. Il k-way l’avrebbe sufficientemente protetta. Via Nilo a quell’ora, trasformata quasi nel fiume di cui portava il nome, brulicava di studenti che percorrevano con ampie falcate la strada lastricata di basalto, che in pendenza sbucava su Spaccanapoli, così che poche decine di metri più avanti ci si trovava nella zona universitaria di via Mezzocannone. Questa era da percorrere per una buona parte e, prima che s’immettesse su Corso Umberto I (il Rettifilo, come lo chiamano a Napoli), girando a destra per via De Marinis, ci si trovava all’improvviso in Largo Giovanni Maggiore Pignatelli: dove maestosa si erge la sede storica dell’Istituto Universitario Orientale.

    Laura ignorava ancora la storia del palazzo dove avrebbe trascorso buona parte delle sue mattinate, per anni a venire. Nel 1935, per intermediazione del senatore Alberto Geremicca, il Regio Istituto Orientale acquistò l’intero edificio dal banchiere Luigi Giusso, a cui era stato ceduto nel 1828 e che, dopo imponenti lavori di restauro, ne aveva fatto sede della sua banca. Ma l’edificio vantava ben più nobili origini: era stato un casamento nobiliare, comprensivo di agrumeto con vista sul mare, abitazione di Gonzalo Fernandes de Cordoba, viceré di Napoli. La costruzione del palazzo era iniziata nel 1549 e terminò solo alcuni decenni dopo. Sul finire della prima metà del XVII secolo, il palazzo passò alla famiglia del cardinale Filomarino, il quale completò definitivamente la proprietà, appartenuta poi a questa nobile famiglia fino al 1820. Il saccheggio dei Lazzari nel 1799 distrusse pitture, mobilio e una grande biblioteca. Nel corso della controrivoluzione borbonica, il palazzo fu invaso e dato alle fiamme, dopo che i fratelli Filomarino, grandi intellettuali illuministi legati alla Rivoluzione Napoletana, vi furono trucidati. Ma il seme illuminista era ormai piantato, proprio come il cedro del Libano al centro della piazzetta antistante l’edificio: se ne sarebbero custoditi i germogli per le generazioni di studenti e studentesse che ne avrebbero varcato l’ampio portone. Laura attraversò il tipico cortile a cielo aperto dei palazzi nobiliari napoletani, con gli archi retti da pilastri rivestiti di piperno scolpito a modanature. Intorno al pozzo centrale di una certa imponenza, a cui si poteva accedere da scalini di notevole fattura, crocchi di ragazzi e ragazze discutevano animatamente, si confrontavano, scambiavano appunti e prendevano accordi per presenziare a turno alle lezioni, che troppo spesso avevano orari coincidenti. La ragazza imboccò le scale sulla sinistra: il Dipartimento di Studi Asiatici era al secondo piano e vi si accedeva da una rampa di una decina di scale secondarie; mancava solo una manciata di minuti all’inizio della lezione. Una grande porta vetrata incorniciata da un telaio di mogano immetteva al secondo piano, che si sviluppava per tutto il perimetro del palazzo; sui muri laterali alla porta, bacheche di legno protette da vetrine facevano bella mostra degli orari delle lezioni, avvisi ed elenchi di studenti con gli esiti degli esami scritti, sostenuti nella sessione estiva. Appena varcata la porta un uomo, la cui altezza era facilmente intuibile dalla lunghezza dei suoi arti, tanto che svettava da seduto dietro una scrivania, fermò Laura:

    «Signurì, dove dovete andare?»

    «Aula 1C.»

    «Ah! Add’ o cinese!»

    «Veramente sarebbe il professor Zhang 张 Yuàn bó 苑博.»

    «Sì sì vabbuò, da chella parte, ’ncopp’ a porta ce sta scritto» la liquidò l’uomo, continuando a bofonchiare tra sé. La porta dell’aula era aperta, una quindicina di studenti avevano già preso posto sulle scomode poltroncine di plastica grigia con i tavolini ribaltabili e sbilenchi.

    Laura scelse una di quelle rimaste vuote, come al solito nella prima e seconda fila, ma poco male: se il professore avesse scritto sulla lavagna, lei avrebbe visto meglio, pensò inforcando gli occhiali. Ebbe il tempo di aprire lo zaino e tirare fuori un quaderno e la penna che il professor Zhang fece il suo ingresso.

    Capitolo 一 yī

    Perché ho scelto di studiare cinese? Lo sta chiedendo proprio a me? Ma se si è a mala pena presentato! Si fanno così le domande, a bruciapelo? Ecco il motivo per cui nessuno vuole sedere in prima fila! Si è il bersaglio, fin troppo facile, delle domande dei professori! Possibile sia io l’unica interlocutrice? Questi erano i pensieri di Laura, seduta nell’unica fila rimasta deserta, durante la sua prima lezione di Lingua Cinese Mandarino 1, in un’aula al secondo piano di Palazzo Giusso, durante una piovosa giornata di novembre. Si era inutilmente voltata a destra, a sinistra e indietro nella vana speranza di un intervento salvatore di qualche collega di corso, ansioso di condividere con il professore le ragioni della propria scelta; contemporaneamente cercava di formulare una risposta credibile, coerente e intelligente negli interminabili secondi tra la formulazione della domanda che le aveva rivolto il docente e l’emissione di qualche parola sensata. Le si aggrovigliarono in mente tutte le risposte e le giustificazioni date a parenti (genitori compresi), amici, ex compagni di liceo e conoscenti, quando le avevano rivolto immancabilmente le stesse domande: «Davvero? ti sei iscritta a lingue all’Orientale di Napoli? che lingue hai scelto? Cinese? ma veramente? e perché?»

    Laura dava risposte sempre diverse, quella più credibile e accettata di buon grado preparata ad hoc per i suoi ex compagni di scuola era: «Ma li leggete i giornali? A scuola non avete imparato niente? non sapete che la relazione tra Cina e Italia ha radici nella storia? ancora prima che l’Italia fosse una nazione è stata un ponte tra Oriente e Occidente, dall’epoca di Marco Polo e ancora prima. La Cina aveva in passato avuto contatti con l’Impero Romano o meglio con i mercanti dall’epoca di Marco Aurelio, poi ci sono stati i Gesuiti. E poi le relazioni tra i due paesi s’intensificheranno nei prossimi decenni. Si parla di una rinnovata via della seta, principalmente via mare, che offrirà innumerevoli sbocchi lavorativi».

    Per questa risposta, che in fin dei conti era una manovra diversiva per spostare l’attenzione su altro, Laura riceveva regolarmente segni di approvazione, pacche di sostegno sulle spalle e qualche occhiata d’invidia per il coraggio di una scelta non comune.

    La risposta riservata a sua madre, che illuminava il viso della donna a dir poco orientofila, era: «Mamma, ci pensi? riuscirò a leggere il Dào dé jing 道德经 e l’Yì jīng 易经 in lingua originale! così magari scopriremo insieme sfumature sfuggite alle traduzioni».

    Iria, la madre, era una romagnola doc: nata e cresciuta a Santarcangelo di Romagna, con una naturale inclinazione per la piadina con squacquerone e rucola e la ribellione verso tutto ciò che era codificato, normato, medioborghese e avesse il profumo d’incenso e dei fiori recisi delle chiese. Aveva seguito in gioventù, e continuava a farlo da adulta, tutte le – logie e terapie che aveva a portata di bicicletta: astrologia, egittologia esoterica, cosmologia maya, cristalloterapia, cromoterapia, profumoterapia; insomma tutte quelle – a voler dir bene – scienze alternative preparatorie all’avvento dell’Era dell’Acquario. La sua vera passione, divenuta quasi un’ossessione, era la consultazione del Dào dé jing di Lao Tzu e dell’Yì jīng o Libro dei Mutamenti, di cui deteneva svariate copie, alcune delle quali introvabili e in lingua originale. Su quei libri Laura bambina aveva visto, per la prima volta, gli ideogrammi e ne era rimasta incantata. Se per Iria il libro di Lao Tzu era fonte di meditazioni notturne che l’accompagnavano tra le braccia di Morfeo, la consultazione più volte al giorno dell’Yì jīng era imprescindibile: copie del libro erano in tutti gli ambienti della casa, persino sotto il gazebo nel giardino. Iria si riteneva una achilleomante, ovvero una praticante dell’achilleomanzia dal momento che utilizzava gli steli di achillea millefoglie per interpellare il suo libro, ritenuto popolarmente un vero e proprio oracolo, a cui rivolgere domande sul futuro prossimo venturo e considerato dallo stesso Confucio libro di saggezza.

    Molte volte Laura aveva sorpreso la madre in cucina, da sola o con le amiche, mentre con il libro tra le mani decifrava le linee yīn 阴 e yáng 阳 che componevano gli esagrammi appena disposti sul tavolo. Iria non si accontentava di consultare l’Yì jīng con il lancio delle monetine, semplificazione dell’antica pratica e corredo di qualcuna delle numerose edizioni che aveva. Bastava tenere tra le mani le monete per il tempo occorrente a interrogare l’oracolo, quindi lanciarle sul tavolo per sei volte consecutive: se avessero mostrato il recto, si sarebbe dovuto segnare un trattino chiuso, linea forte o yáng; se fossero atterrate mostrando il verso, allora si tracciava una linea aperta (debole) yīn, così i sei tratti segnati uno sopra l’altro avrebbero formato l’esagramma da interpretare. Per Iria questa era un’eccessiva semplificazione e non rispecchiava l’antica tradizione. La donna andava a raccogliere l’Achillea, una pianta selvatica molto comune perfino in Italia, sulle sponde del fiume Marecchia. Ogni anno, da quando aveva deciso d’intraprendere la carriera di achilleomante, vi si recava e nel mese di maggio, durante le passeggiate con le sue amiche, con la famiglia o da sola ne raccoglieva almeno una fascina e poi, una volta a casa, lasciava essiccare gli steli della pianta per ricavarne mazzetti da cinquanta bastoncini; da ognuno dei quali puntualmente, all’inizio della sua interpretazione, ne estraeva uno, così con i restanti quarantanove poteva iniziare il suo vaticinio. Laura era incantata dai movimenti agili delle dita delle mani di sua madre, la quale con aria solenne e meditabonda, dopo aver chiesto di formulare la domanda silenziosa all’oracolo a chi era intenzionato a ricevere il responso o dopo averlo interrogato lei stessa, prendeva il mucchietto di steli con entrambe le mani e lo divideva in due parti, tenendone uno nella mano destra e uno nella mano sinistra. Iria, con maestria da prestigiatrice, prendeva un bastoncino dal gruppo di destra e lo teneva tra il mignolo e l’anulare della mano sinistra; poi continuava a turno prima col mucchio di destra e poi con quello di sinistra, accantonando quattro bastoncini per volta, fino a quando non ne restavano uno, due, tre o quattro. A quel punto metteva i restanti tra l’anulare e il medio e poi tra il medio e l’indice di nuovo della mano sinistra, fino a ottenere un gruppo di cinque o quattro bastoncini, numero considerato un’unità associata al numero tre (yáng maschile, linea chiusa nell’esagramma) e un gruppo di nove o otto bastoncini considerato una doppia unità e associata al numero due (yīng femminile, linea aperta nell’esagramma). Un’abilità magistrale bella a vedersi, ma di complessa esecuzione. Iria era così! Le piacevano le sfide e meno riusciva in qualcosa più s’incaponiva fino al raggiungimento del suo obiettivo. Laura aveva ereditato dalla madre quest’attitudine. L’achilleomante appena terminato di sistemare sul tavolo i bastoncini, passava a considerare il valore di ciascun esagramma, per il quale vi era nel libro una spiegazione indicata come guà cí 卦辞, accompagnata da un testo ermetico che avrebbe dovuto condurre alla decifrazione delle singole linee costituenti il trigramma e che Iria interpretava fantasiosamente, ma con solennità.

    C’era poi la risposta che aveva convinto suo padre, quella che giocava una parte rilevante nella scelta di Laura: studiare la lingua per andare a specializzarsi nel Wŭ shù (武术) tradizionale in Cina, considerando i risultati eccellenti che la ragazza continuava a ottenere nelle competizioni sportive. Roberto Ricciardulli era commissario della Polizia di Stato di stanza a Rimini e aveva trasmesso alla figlia la passione per il Wŭ shù – le arti marziali cinesi – con la segreta, ma intuibile speranza che avrebbe seguito le sue orme e per darle l’opportunità di riuscire a difendersi in qualsiasi circostanza, in un mondo che sembrava complicarsi e farsi ogni giorno sempre più pericoloso e pericolante. Appassionato cinefilo non aveva perso neanche uno dei film degli anni Settanta che avevano come protagonista l’attore cinoamericano Bruce Lee e non appena ne aveva avuto l’occasione, superato il concorso per entrare nella Polizia di Stato e dopo la laurea in Giurisprudenza a Napoli, sua città natale, aveva seguito tutti i corsi interni tenuti da istruttori specializzati. Tuttavia, perfezionista fino al midollo e non soddisfatto dall’istruttore italiano che non approfondiva l’impianto culturale a cui facevano capo le arti marziali, si era iscritto in una palestra collocata nei sotterranei dell’ex Ospedale dei Poveri, nei pressi dell’Orto Botanico, che ospitava un maestro cinese e l’aveva frequentata fino al trasferimento alla questura di Rimini. Prima degli anni Ottanta le autorità cinesi, constatato l’interesse che il Wŭ shù suscitava in tutto il mondo, organizzavano già corsi speciali per stranieri e davano l’opportunità ad atleti e maestri cinesi di recarsi all’estero per insegnare.

    Laura aveva dieci anni la prima volta che si era infilata un Cheurng Jow Saam: pantaloni fin troppo larghi di tela, usati come uniforme per la pratica del 功夫 (Gōng fū noto in Occidente come Kung fu). Erano solo tre le bambine a frequentare un corso di quindici aspiranti cinture gialle, in una palestra nei pressi della questura di Rimini. Così Laura era cresciuta a cappelletti, passatelli in brodo, Tāolù e Sàn shǒu¹ ovvero i due rami in cui può essere suddiviso il Wŭ shù moderno. Nel 1982 il Sǎndǎ divenne ufficialmente la disciplina da combattimento del Wŭ shù standard nazionale, regolata da precise norme sportive; ma per progredire in quelle arti l’ideale sarebbe stato affidarsi a un maestro cinese, nel luogo dove le stesse erano nate e continuavano a essere patrimonio ed eredità della cultura e della tradizione di quel popolo. Molte delle scuole esistenti potevano rintracciare la loro origine tra la fine della dinastia Ming e l’inizio della Qing. La prima menzione del termine Wŭ shù risalirebbe alla dinastia Liang (502-557) e alla fine dell’Ottocento, con l’introduzione delle armi da fuoco e il rinnovamento dell’esercito cinese, il Wŭ shù perse valore in ambito marziale per acquisirne in ambito ginnico e come tecnica di autodifesa. Alcuni illustri maestri, prima guardie del corpo e poi istruttori dell’esercito, trovarono impiego come insegnanti e il Maestro Féng 冯, che viveva in Italia da circa un decennio e seguiva Laura da quando era una neofita, ne aveva già contattati un paio. Questi ben volentieri avrebbero ammesso la ragazza nella loro scuola, ma lei avrebbe dovuto dimostrare di possedere una conoscenza della lingua cinese almeno elementare.

    Laura dunque aveva scelto di studiare la lingua, la cultura e la civiltà cinese perché ne era affascinata, le piaceva la cucina cinese anche se era consapevole che nei ristoranti di moda in Italia si preparavano e servivano pasti non propriamente tradizionali, per assecondare il palato dei clienti italiani; le piaceva usare le bacchette, sgranocchiare le inconsistenti patatine di granchio intinte nella salsa di soia, mangiare il gelato fritto infilzato come un lollypop, bere il tè cinese, scartare e spezzare biscottini della fortuna. Aveva scelto l’Istituto Universitario Orientale di Napoli perché vantava una secolare tradizione nell’insegnamento del cinese mandarino, dalla fine del 1724, ed era considerato dall’800 il più antico centro di sinologia ed orientalistica del continente europeo; ma anche perché incalzata dal padre nato, cresciuto e laureatosi nella «città più bella del mondo», come lui amava ripetere a chiunque e dove ancora viveva una sua vecchia zia, unica parente ancora in vita, che avrebbe potuto essere un appoggio, un riferimento per la sua unica figliola. A Napoli c’era poi il suo antico Maestro Zhào 赵, un po’ in là con gli anni ma ancora attivo, il quale avrebbe continuato a seguire Laura nelle arti a cui Féng l’aveva iniziata. Laura però si era rifiutata di andare a vivere con zia Renata: non avrebbe trascorso gli anni universitari badata a vista dalla zia paterna; ma aveva dovuto accettare il compromesso di andare a pranzo da lei almeno due domeniche al mese, considerando poi che un fine settimana, con la stessa cadenza mensile ed esami permettendo, sarebbe tornata a Santarcangelo.

    Laura sognava di visitare la Cina, anzi di andarci a vivere per qualche tempo, forse per tutta la vita. S’incantava ad ascoltare Féng quando narrava, in un italiano impeccabile, le leggende e i racconti popolari sulle gesta dei maestri e la creazione degli stili Wŭ shù. Soprattutto le piaceva la leggenda di Zhāng sānfēng 张三丰 creatore del Tai ji quan e immortale maestro del Tao 道, del quale si narra che vivesse eremita sul monte Wǔdāng shān 武当山, dove una notte gli apparve in sogno l’imperatore Oscuro e Marziale – dio del monte Wǔdāng – che gli insegnò il quán 拳 (pugilato), usando il quale nei giorni seguenti riuscì a uccidere da solo più di cento banditi e che per la creazione delle forme si diceva si fosse ispirato al combattimento tra una gru e un serpente. Laura era affascinata anche dalla leggendaria figura del monaco Damo, di origini indiane e conosciuto con il nome di Bodhidharma, che ottenne l’illuminazione dopo nove anni di meditazione in una grotta presso il monastero di Shaolin. Dopo anni dalla sua morte, alcuni monaci rinvennero casualmente in una parete della grotta uno scrigno con un suo manoscritto, nel quale li istruiva in alcuni esercizi ginnici adatti a rinforzare i loro corpi. I monaci ne ricevettero grande beneficio e svilupparono in seguito un’arte marziale grazie alla quale poterono difendersi dai briganti e dalle belve feroci. I monaci guerrieri di Shaolin e la loro abilità nell’arte marziale, in particolare nel maneggio del bastone, erano menzionati nelle cronache sulla repressione della pirateria nella regione del Zhejiang ad opera delle truppe Ming, ma quanta storia fosse rintracciabile in queste leggende era impossibile sapere: la narrazione storica, seppure in parte documentata, era avvolta infatti nelle spire dei racconti popolari, ricchi di fascino e magia.

    Laura avrebbe voluto diventare Maestra proprio come Féng e padroneggiare gli otto metodi bā fǎ 八法 – braccia shǒu 手, occhi yǎn 眼, tecnica del corpo shen fa, passi e posizioni bu, concentrazione jīngshén 精神 , energia/respiro 气, forza 力, abilità/allenamento gōng 功 –: i primi quattro metodi per l’uso del corpo (braccia, gambe, tronco, sguardo); gli altri per lo sviluppo delle abilità psicofisiche necessarie a rendere la tecnica efficace. L’allieva doveva perfezionare il combattimento a mani nude raggruppato nelle quattro tecniche offensive sìjī 伺机 : calciare ti, colpire con la mano o il braccio 打, proiettare shuāi 摔, eseguire una chiave articolare na e anche tutte le altre che ne derivavano, come colpire con la testa tóu jī 头击 , con le ginocchia xī gài 膝盖, con spalle, anche, petto o schiena kào fǎ 靠法, con la punta delle dita trafiggendo zhǐ jiān 指尖 o graffiando come un artiglio zhuā fǎ 抓法. E comunque a Laura non bastava: aveva un bisogno spasmodico di andare in profondità in tutte le cose, non si accontentava dell’aspetto superficiale; se leggeva un libro, allora doveva conoscere per filo e per segno la biografia dell’autore, tutta la sua bibliografia, provare a interpretare le motivazioni profonde che avevano indotto quella scrittura, cercare di comprendere la scelta delle parole che più la colpivano, analizzarne lo stile, scoprire a chi e perché era dedicato, perciò non leggeva libri ma li studiava. Non lo avrebbe mai ammesso nemmeno con sé stessa, ma dal padre aveva ereditato la marcata attitudine al perfezionismo, all’investigazione, curiosa com’era, e al bisogno di controllo. Laura avrebbe voluto approfondire la sua conoscenza, per il momento solo teorica, delle scuole interne (nèi jiā 内家) e scuole esterne (wài jiā 外家). Il Maestro Féng le aveva spiegato la differenza sostanziale tra la tecnica di Shaolin o scuola esterna e quella del maestro Wang Zhengnan (1616-1669) o scuola interna: affidarsi nell’una all’attacco impetuoso e travolgente, laddove l’altra privilegiava la difesa, le proiezioni e i colpi ai punti vitali; ma i confini tra le due scuole erano molto relativi, tanto da essere integrati in maniera indissolubile. La pratica di entrambe le scuole mirava ad accrescere la forza, la velocità, l’agilità, la flessibilità e la resistenza, stimolare lo sviluppo fisico e addestrare nella tecnica di difesa e di attacco. La sua allieva aveva più volte mostrato doti acrobatiche non comuni e presto sarebbe stata iniziata anche all’uso delle armi: dao la sciabola, gun il bastone, jian la spada, qiang la lancia.

    Laura si compiacque nel riconoscere di sapere già alcune parole, numeri compresi, della lingua che si accingeva a studiare, sebbene non sapesse né leggerle né scriverle. Le balenò nella mente un’altra possibile risposta da fornire al professore, che attendeva un responso da lei, ignaro di tutto quello che accadeva dentro la testa della studentessa: dichiarare di voler imparare il cinese per leggere in lingua originale la Trilogia dei re del famoso scrittore contemporaneo Acheng, composta da Il re degli scacchi, Il re dei bambini e Il re degli alberi. Si trattava di una serie di opere ambientate negli anni della Rivoluzione culturale, ricevute in dono da sua madre qualche mese prima di decidere a quale Università e Facoltà iscriversi, che Laura si accingeva a leggere per la terza volta. Tre opere scritte con uno stile terso e di classica semplicità, nelle quali l’autore passava in rassegna i valori della cultura tradizionale nella vicenda del campione di scacchi, filosofo e amante del cibo, Wang Yisheng: l’importanza dell’educazione e l’innocente sete di sapere dei bambini ai tempi dell’indottrinamento e dell’attacco contro i maestri e la difesa dell’ambiente nel nome di una perduta armonia con la natura, valore che resta ultima speranza di civiltà. Alla ragazza era rimasto impresso nella mente un passo dell’ultimo libro che componeva la trilogia: «Tagliate – disse il segretario – dopo tutto l’albero va tagliato, gli studenti hanno ragione, se non si distrugge non si edifica. Tagliate». Il grande albero, nel libro, era il simbolo stesso delle radici culturali della Cina. Quando il Partito volle abbatterlo, anche il boscaiolo fortissimo, detto il Grumo, che aveva strenuamente e invano difeso la foresta, muore e viene sepolto nel cuore della montagna, dove la morte, come sempre accade nel ciclo della natura, sembra nonostante tutto esser fonte di nuova vita: «Guardando nella fossa ci accorgemmo che ne spuntava fuori un groviglio di corti rami. Pensammo che probabilmente le enormi radici dell’albero abbattuto, non avendo più dove mandare la loro linfa, avevano messo nuovi germogli dopo essere state irrigate dalla pioggia». Laura aveva creduto che, sebbene l’analisi di Acheng si concentrasse sui danni causati dalla repressione politica sugli aspetti culturali e tradizionali che impregnavano la storia di un popolo, nulla era perduto: tra le ceneri ancora verdeggiavano le radici profonde della tradizione e lei era determinata a scavare fine a ritrovare nuovi antichi germogli. E finalmente rispose alla domanda che le aveva posto il professore: «Ho deciso di studiare cinese perché mi piace!»

    ¹ Con Tāolù si indicano delle sequenze di movimenti codificate e concatenate nelle cosiddette forme, mentre con il termine Sǎndǎ o Sàn shǒu si indica il combattimento. I due termini possono essere considerati sinonimi e intercambiabili nella percezione cinese. Sàn shǒu è tuttavia usato anche per indicare il combattimento libero in ogni sua forma, mentre Sǎndǎ è impiegato prevalentemente in ambito sportivo.

    Capitolo 二 èr

    Laura scendeva lentamente i gradoni in basalto dell’antico edificio, scavalcando colleghi di facoltà che vi bivaccavano sbocconcellando pizzette o cornetti crema e amarena, la cui fragranza aveva invaso il vano scale fino al secondo piano, tra blocchi di appunti e pile scomposte di libri ai loro piedi. I ragazzi parlottavano complici mentre si scambiavano appunti e consigli su come affrontare l’esame di S.V.O.P., almeno così lei credeva di aver sentito, o l’esame scritto di Arabo 3. Erano gli studenti del Dipartimento del Vicino Oriente, sembravano molto in confidenza, scherzavano su qualche professore e ridevano. L’aveva colpita un ragazzo in particolare, alto, magro e dinoccolato, dai capelli biondo cenere lunghi quasi fino alle spalle, che non poteva passare inosservato; parlava con un accento che le sembrò veneto, portava calzoni corti indossati con un paio di calzettoni tirolesi e scarponi da montagna, gesticolava con ampi movimenti rivolto a un compagno apparentemente più anziano di lui, dall’aspetto mediorientale. Continuando a scendere si compiacque di questa gioventù che popolava la Facoltà, così originale, non avvezza come le sembrò a mode momentanee. Nell’androne si fermò a controllare il calendario degli altri corsi che aveva nel piano di studio, ma per quella mattina le due ore di lezione le erano bastate. Nello scorrere le materie d’esame scoprì di aver sentito bene qualche minuto prima sulle scale: l’esame di S.V.O.P. esisteva davvero, si trattava di Storia del Vicino Oriente Preislamico del padre Luigi Cagni, emerito professore. Le sembrò strano che ci fosse un prelato tra i docenti e ancora di più la incuriosì la materia del suo insegnamento, così rifletté se sostenerlo o meno come esame facoltativo. Si rispose che non sarebbe stato coerente con gli esami che aveva scelto e risolse di andar a seguire qualche lezione da uditrice, così ne controllò il calendario. Ma se ne dissuase, almeno per il momento: non ce la poteva fare, le otto del mattino sconfiggevano la sua curiosità. Laura, in piedi davanti alla bacheca che prendeva quasi tutta la parete a destra dell’androne, si segnò sull’agenda l’orario degli insegnamenti che aveva in precedenza deciso di seguire; poi si accorse che alcune date coincidevano e pensò di aver bisogno urgente di qualche collega con il suo medesimo piano di studi, per assistere a turno alle lezioni e poi condividere appunti e informazioni utili a sostenere gli esami. Ci avrebbe pensato l’indomani con un appello a tutti gli studenti presenti, prima dell’inizio

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