Disotto
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Fantascienza - romanzo breve (71 pagine) - Sotto la città c’è tutto un mondo con regole sue. Ma predoni senza scrupoli ora ne minacciano l’esistenza
La crisi economica ha distrutto l’Europa e l’Italia sta pagando un prezzo più alto del dovuto. Torino è stata teatro di un esperimento che ha avuto conseguenze catastrofiche sulla popolazione. Mentre la città in superficie tenta di riprendersi, il mondo Disotto, che si snoda tra le fogne e antiche gallerie, deve difendersi dall’invasione di predoni senza scrupoli.
Quelli che un tempo erano reietti, costretti a fuggire dalla superficie, hanno fondato una colonia sotterranea eterogenea e libera dall’ingiustizia governativa. Fabio, che ha perso tutto durante l’esperimento, si troverà costretto a imparare le regole di Disotto per sopravvivere.
Roberto Risso (1978) torinese, laureato e addottorato in letteratura italiana, ha pubblicato numerosi saggi accademici e un racconto su “Granta Italia” nel 2012. Fra il 2006 e il 2013 è stato due volte finalista al Premio Italo Calvino con una raccolta di racconti e un romanzo. Dall’inizio del 2010 vive e lavora negli Stati Uniti dove è docente universitario. Si occupa prevalentemente di prosa narrativa italiana dal Cinquecento al Duemila. Appassionato di letteratura del disastro, ha ideato il progetto Universo Torino 2050, un luogo virtuale di storie e immagini ambientate nella Torino e nel mondo del futuro prossimo e remoto.
Dal 2015 risiede a Clemson, nella Carolina del Sud (USA) e sta scrivendo romanzi e racconti autoconclusivi e indipendenti, ambientati nel futuro (e nel passato…) della sua città e dell’ Italia.
Un modo efficace per colmare le distanze.
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Anteprima del libro
Disotto - Roberto Risso
A mia moglie.
And as the wind died away I was plunged into the
ghoul-pooled darkness of the Earth bowels.
H.P. Lovercraft, The Nameless City (1921)
Prologo in due tempi
Primo tempo
Questa puzza maledetta non se ne va.
Ma non dicevano che dopo un po’ uno la puzza non la sente anche se c’è?
Certo, non è il peggiore dei miei problemi, ma non aiuta. Sto qui, sdraiato su un lettino da campo chissà dove a respirare puzza di fogna. So di essere sotto terra, aspetto che dei pazzi, ne ho visto solo uno e mi è bastato, mi dicano di che morte dovrò morire.
Non capita spesso, ma questo è uno dei momenti in cui rimpiango la mia vita precedente.
Eccome se la rimpiango…
Avevo un lavoro di merda alla Regione e non mi pagavano da due mesi.
E va bene.
Ammazzo due strozzini per trovare qualcosa da mangiare per la mia famiglia.
E va bene.
Mia moglie e mio figlio si trasformano in mostri e si uccidono a morsi come bestie.
E non va bene. Per niente, ma è successo per colpa loro, hanno messo in giro la polvere nutriente, si è scatenato l’inferno.
Arrivano i militari a far piazza pulita. E va bene.
Mi portano all’ospedale, e va bene, divento una cavia, di nuovo, e va bene. Cazzo, va tutto bene, tutto, anche la fuga.
Scappo, piciu che sono, per poco non mi rompo la schiena come un sacco di merda nella tromba di un ascensore e finisco nel regno dei morti viventi, no… quali morti viventi, quelle erano le vittime della polvere, zombi veri e propri, no, peggio, mi ritrovo ossa rotte e trauma cranico, in mano agli abitanti delle fogne.
E va bene.
No, non va bene.
Proprio no.
C’è da uscire di testa, rimpiangere di non aver fatto la fine di quelli con la bava alla bocca e gli occhi rossi che si scagliavano contro tutto e tutti dopo aver provato quella porcheria.
Almeno se l’avessi presa non sarei qui.
Sarei lassù, con loro. Con Maria e Marco, in Paradiso.
Fabio schiaccia il viso contro il sacco che fa da cuscino, le lacrime gli rigano le guance.
Secondo tempo
– Ferma la macchina subito dopo il ponte.
– Sì, Generale. – L’appuntato accostò dopo pochi metri. – Eccoci. La rotonda fra il ponte Regina Margherita e l’imbocco di corso Dante.
– Resta qui, non so quanto ci vorrà – il Generale indossò gli occhiali da sole, guardò gli alberi, le foglie accartocciate sui rami – magari mettiti lì sotto, all’ombra, non voglio che diventi un forno. – Indicò un grosso platano. Accanto all’albero c’erano i resti di due Volvo senza ruote e di una terza auto di cui restavano solo le lamiere mangiate dalla ruggine.
Un tempo da queste parti ci portavano i bambini a giocare. Il Generale De Marco aprì la portiera, l’ondata rovente del sole di mezzogiorno lo investì. Si avviò verso l’argine del fiume, sotto il ponte, dove un tempo c’era una pista ciclabile. Scese la scalinata, le scarpe scricchiolavano sulla plastica annerita, dagli angoli dei gradini aloni scuri esalavano odore di ammoniaca. Che schifo. Ma come fanno a vivere qui sotto? C’è da prendersi una malattia solo a respirarla, quest’aria.
Sotto la volta del ponte si stendeva la baraccopoli, un ammasso di tendoni, lamiere, compensato tenuti assieme da cordami.
De Marco superò una costruzione vicina al muro del ponte con un oblò imbullonato al centro della lamiera. Dietro l’oblò un viso scarnito fece capolino, lo sguardo perso nel vuoto. Il Generale lo ignorò e proseguì fra le baracche. Svoltò a destra, accanto a un tendone rosso. Si fermò davanti a una baracca rivestita di plastica, un tubo da caldaia sporgeva sul lato destro del tetto di amianto.
Hanno fatto cose che un padre di famiglia non può concepire. Figuriamoci tollerare. Corte marziale, altro che baracche. Fosse per me questi tossici li metterei tutti al muro.
Un uomo uscì da un buco rettangolare tra le lastre di plastica.
– Generale! Viene in visita? – Barcollò proteso in avanti, i piedi nudi sullo strato d’immondizia, pantaloni stracciati. Aveva le costole a vista e la pelle coperta di bubboni violacei, dalle croste intorno agli occhi colava un liquido giallognolo che gli rigava le guance.
Madonna com’è conciato. Sergio è l’ombra dell’uomo che era, sembra uno spaventapasseri che puzza di cancrena.
Il Generale si guardò attorno. Da dietro i ripari di fortuna poteva sentire su di sé gli sguardi avidi, disperati e famelici dei rifugiati.
– Sergio. Ciao, come stai?
L’uomo sorrise, scoprì una chiostra di denti scuri divorati dalla carie.
– Sa com’è, capo, qui le regole d’ingaggio sono… diverse. – Rise, De Marco distolse lo sguardo. Si frugò nelle tasche, tirò fuori una banconota da cinquantamila lire e gliela porse. L’altro allungò una mano, la prese, la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni con un gesto rapido.
– C’è anche il resto della squadra? – Il Generale si guardò attorno.
– Sì capo, tutti. De Conti, Alfano, Giorgi. Manca solo il pischello, come si chiamava, Mariolino Di… qualcosa… – Sergio si grattò la fronte.
– Di Nino. – La voce di De Marco si abbassò. – Che gli è capitato?
– Overdose. – L’uomo scrollò le spalle.
Il Generale sospirò. – Il fatto è questo, ci serve il vostro aiuto, come ai vecchi tempi. – Sorrise. – Un tipo è scappato dalle Molinette e si è rifugiato nei sotterranei dell’ospedale, gli hanno messo una taglia sulla testa. Se ci aiutate a prenderlo non ve ne pentirete, la banconota che ti ho dato non è che un anticipo.
– Ho sentito dei casini che ci sono stati con la polvere nutriente. – Sergio guardò De Marco di traverso. – Le cose sono collegate?
De Marco alzò le spalle, sbuffò.
Il relitto umano che aveva di fronte si grattò la guancia sinistra con le unghie nere, uno spruzzo di siero gli colò dalla ferita. – Se volete entrare nei sotterranei delle Molinette o del CTO dovete mettervi d’accordo con quelli degli Orti Comunali, noi non ci mettiamo piede da quelle parti. La zona è loro.
De Marco si tolse gli occhiali da sole. – C’è una bella ricompensa se lo trovate, vivo o no.
Sergio scosse il capo. – No Generale, mi sono spiegato male. Non è la nostra zona, se volete passare da quelle parti dovete chiedere il permesso a quelli degli Orti.
– Va bene, grazie lo stesso. Abbi cura di te. – De Marco si girò e si allontanò.
– Come no, e anche lei, Generale, si riguardi.
Un coro di risate proruppe dalle baracche più vicine.
Poveri bastardi, siete già morti e ridete.
Uno
La porta si spalancò con un cigolio. Un uomo grande e grosso si fece avanti e la puzza crebbe d’intensità. Indossava solo dei pantaloni da pescatore, che gli coprivano parte dell’enorme busto peloso e