Il ritorno del mostro di Modena: La prima indagine del commissario Torrisi
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Il ritorno del mostro di Modena - Luigi Guicciardi
LLuigi Guicciardi
IL RITORNO DEL MOSTRO DI MODENA
La prima indagine del commissario Torrisi
Prima Edizione Ebook 2022 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104924
Immagine di copertina di:
Luca Tonini
img1.png luca_t982/
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
catalogo su
www.librisumisura.com
img2.pngLuigi Guicciardi
IL RITORNO DEL MOSTRO DI MODENA
La prima indagine del commissario Torrisi
Romanzo
img3.pngINDICE
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Postfazione
L’AUTORE
CATALOGO
1
Dieci febbraio, mercoledì. Già in questo mese l’intensità della luce comincia a cambiare. Dura di più, ma soprattutto è più calda. Un quasi impercettibile calore.
Torrisi riprende a lavorare stamattina. Dopo il ricovero all’ospedale, a Modena, l’intubazione per il Covid, la grande paura. E la convalescenza, lunga, a casa: con tante ore lì a pensare. Alla sua vita, a Debora, al tempo che sono stati insieme E al loro triste anniversario. Perché sono due mesi esatti, oggi, da quando lei l’ha lasciato. Per trasferirsi negli States, da biologa.
Così, se n’è andata. Peccato. Non può più farci niente. La prossima volta cercherà di amare meglio di così. Fa una smorfia. Perché lui non ama con facilità. Di tutte le donne che ha avuto, in passato, quante ne ha amate veramente? Due, due e mezza. No, non è portato. O forse è perché non prende più l’iniziativa. Tenta di amare moderatamente, senza esagerare, di rifuggire gli amori intensi. È uno di quegli uomini che possono struggersi per due anni dietro a un amore fallito, e che si bloccano nei rimpianti prima di decidersi a passare ad altro. A lunghi periodi di solitudine.
Sorride appena. Con la destra si fruga in tasca per le sigarette, poi rammenta d’avere smesso, finalmente, un anno fa. Deve cercare qualcun altro, da amare. Cercare qualcuno, sempre la stessa storia... Be’, va così, il mondo.
Siede su una panchina, chiude gli occhi. Due minuti di riposo. Comunque sia, è riconoscente alle donne che sono passate nella sua vita, amate o meno, per essere passate. Alla fine, prova per loro una gratitudine indistinta per quella loro capacità di amare gli uomini, una cosa che gli è sempre sembrata molto difficile, soprattutto quando uno è brutto come lui. Con i suoi lineamenti duri e poco affascinanti, sui cui la mattina indugia il meno possibile, avrebbe dovuto rimanere solo tutta la vita. E invece no. Perché solo le donne possono riuscire a trovare bello uno brutto. Onestamente, sì, prova della gratitudine.
Sospira, si alza. I mali del corpo sono guariti, adesso. Il dolore dei ricordi, quello no.
Si ferma a riprender fiato, davanti alla questura. Normalmente quel posto non lo vedeva neanche più, come non si accorgeva di respirare. Ci era andato tutti i giorni, ci aveva lavorato, parlato, dato ordini, bevuto caffè. Ma ora, avvicinandosi, si rende conto che l’edificio è più vecchio, il cemento macchiato e crepato.
Sta uscendo il PM, uno nuovo, un tipo piccolo e magro. Indossa una camicia bianca con un farfallino rosso e una giacca sportiva blu.
— Dottor Giorgini...
— Ah, commissario Torrisi... buongiorno. Di nuovo tra noi?
— Ho bisogno di lavorare. — Si stringono la mano. — È solo che... è un po’ come rimontare in sella dopo una caduta da cavallo.
L’altro fa una smorfia. — Per mia fortuna i cavalli li ho visti solo al cinema. È molto più sicuro.
Colpiscono i suoi occhiali enormi, quasi più grandi della sua faccia. E anche gli occhi, incavati e acquosi dietro le lenti spesse.
— Spero solo che sia una mattina tranquilla — aggiunge Torrisi. — Di routine, voglio dire. Lei mi capisce...
È piovuto, ma adesso c’è il sole e le pietre bagnate del selciato brillano e mandano vapore. Le panchine del piazzale sono fradice, così restano in piedi un po’ imbarazzati, come persone che si sono appena conosciute a un party. Finché si salutano, augurandosi una buona giornata e di rivedersi per lavoro il più tardi possibile.
Da solo, nel suo ufficio, si guarda allo specchio. Alto, un po’ troppo magro, volto pallido e scavato, capelli ancora scuri ma che cominciano a diventare grigi, un’ombra di barba che per poco ha pensato di farsi crescere, ma che ha già deciso che taglierà. E la testa piegata in modo caratteristico, lo sa: come se stesse dedicando attenzione a ogni interlocutore, con quell’aria assorta, quell’espressione pensosa che spesso ispira fiducia. Anche quando cammina - sa bene anche questo - lo fa leggermene curvo verso destra, quasi fosse atteggiato ad ascoltare le parole di qualcuno, ma con un modo di muoversi a indicare una tensione allo scatto, all’azione.
Si guarda intorno. Compirà trentadue anni in estate. Quanti, di questi, li ha trascorsi lì dentro? Gli hanno dato una nuova poltroncina, un irritante aggeggio girevole che ha resistito a tutti i suoi tentativi di appoggiarsi all’indietro. C’era, pensa, qualcosa di stupidamente piacevole nel vedere quanto indietro su due gambe si sarebbe inclinata la sedia di prima, prima che scoppiasse il botto. E fissa sulla parete la vernice con la sua rete di crepe e macchie scolorite, lasciate da un vecchio nastro adesivo diventato all’improvviso assorbente.
Si mette a sedere. E pensa.
A Debora, ancora. Una storia con lei non poteva durare. Vivevano in mondi troppo diversi. Lui col suo lavoro, appunto: che provocava in lei scontento e amarezza.
Forse è stata colpa sua. Del suo egoismo, della sua insensibilità. Della sua indisponibilità a una vera tenerezza. Com’è stato con altre donne, del resto. Tanto tempo prima.
Ha augurato al PM di rivedersi per lavoro il più tardi possibile, ma la speranza è delusa dopo poche ore. Perché arriva una segnalazione: è stato rinvenuto un cadavere alla periferia industriale di Baggiovara, in località ex Fornace Vandelli lungo la via Giardini, all’altezza dello stradello Montecuccoli. Si tratta di una donna, senza borsetta o documenti: una prostituta, probabilmente; forse anche una tossica, data la zona. Uccisa a coltellate, sembra, ma molti giorni fa. L’ha trovata un pensionato, che portava a spasso il cane. Torrisi sospira, poi fa un cenno a Luca Leonardi, l’ispettore. È pronto.
Sul posto, il primo che nota è la persona col cane, ferma in disparte. Un omone dalla testa quadrata e dalle mani tozze, con le vene in rilievo, che ancora tremano un po’. È cereo in faccia, e anche il labbro inferiore pare malfermo. Torrisi resta a fissarlo, aggrottando la fronte. Quelli che sembrano più coriacei, pensa, prendono sempre le batoste peggiori.
— Ehi, Torrisi... Sei tornato?
È un medico legale sulla cinquantina, Corbelli, che collabora ogni tanto e ha fatto anche studi di entomologia. È piuttosto simpatico, ma quando gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata tutti i suoi amici sono spariti. Ora è completamente guarito, anche se, come molte persone che sono state a un passo dalla morte, affiora a volte in lui una nota fragile e titubante.
— Come vedi. Dov’è il corpo?
È stato trovato in un prato, dietro il ceppo di un albero morto, dove crescono erbacce e ortiche. Si nota ancora, dai gambi spezzati o piegati, il punto in cui il corpo è rotolato a faccia in giù. Sopra i cespugli ci sono brandelli di plastica e, nella fanghiglia del sentiero, cicche di sigaretta.
— È lì... Dev’esserci rimasto per tanti giorni. Abbandonato.
— Quanto tempo?
— Per terra ci sono delle crisalidi vuote — borbotta il medico. S’è tolto cappuccio e berretto, e dimostra più anni di quelli che ha. A invecchiarlo sono le guance cascanti, i capelli che stanno ingrigendo, ma soprattutto le rughe profonde intorno alla bocca.
— E dunque...?
— Dunque, quando comincia la decomposizione, i ditteri arrivano, si mettono a mangiare, poi depongono le uova. Se ne sono prodotte almeno cinque o sei generazioni, direi... Come minimo ci vogliono tre settimane perché succeda.
— Tre settimane, eh? Grazie.
Torrisi prende un paio di guanti dalla tasca del soprabito, ci soffia dentro per distendere la gomma e se li infila. Poi si avvicina al cadavere e si mette in ginocchio. Distingue la gonna molto corta di stoffa rossa, tirata sopra il bacino, e le mutande, che non le sono state tolte. Ha una camicia di cotone color porpora e non porta il reggiseno. Le coltellate le sono state inferte attraverso la camicia. Dietro di sé, sente la voce del fotografo, rivolta a Leonardi:
— O sorridi, o ti sposti. Ma è meglio se ti sposti... Grazie.
— Quando vuoi — dice Corbelli, — vieni con me. A vedere una cosa.
— Dove?
— Là.
Hanno isolato con il nastro quattro alberi che circondano un piccolo spiazzo, a circa venti metri da dove è stato rinvenuto il corpo. Un cane poliziotto ha trovato il punto.
— Eh, sì. Qui c’è del sangue secco. — Leonardi indica alcune foglie. — L’assassino non avrebbe dovuto essere coperto di sangue?
— Non necessariamente — risponde il medico. — Se viene recisa un’arteria o una vena del collo o ci si ferisce in testa, ci sono parecchi schizzi, ma quando si tratta del cuore, per quanto possa sembrare strano, i bordi della ferita si richiudono, il sanguinamento è perlopiù interno e il sangue non zampilla. C’è parecchio gocciolamento, certo... — addita il margine dello spiazzo. — Se guardate là, però, potete vedere un altro mucchietto di foglie. Ci sono tracce di sangue anche su quelle — annuisce. — Suppongo che abbia tentato di pulirsi le mani così. Con le foglie.
— Molti giorni fa, però. Troppi.
Il fotografo fa quel che deve fare e gli specialisti continuano a perlustrare la zona, quindi imbustano alcune cose per poi analizzarle in laboratorio. Vengono rinvenute delle orme parziali, ma non c’è garanzia che una di quelle appartenga all’assassino. Ad ogni modo ne fanno dei calchi con il gesso.
— Possiamo andare, no? — Torrisi si avvia. — Direi che è tutto.
Ora le nubi si sono diradate e il sole è un globo dorato in una chiazza di cielo limpido. In basso, nella conca cespugliosa che si estende verso la strada, una nebbiolina si alza dai campi zuppi d’acqua.
Venerdì mattina, in questura, si fa il punto della situazione. Torrisi lascia la parola a un tecnico della Scientifica, che espone una sintesi per lui, il PM, Leonardi e un altro agente.
— Come sapete già, la zona in cui è stato ritrovato il corpo è stata perlustrata anche con un cane poliziotto. Ed è stata rinvenuta una piccola quantità di sangue sulla scena, un po’ per terra e un po’ su alcune foglie lì vicino. Il sangue appartiene al gruppo sanguigno della vittima e noi crediamo che l’assassino abbia usato le foglie per toglierselo dalle mani e forse anche dall’arma del delitto, una lama sottile a un solo taglio, come quelle che si trovano spesso nei coltelli a serramanico. Poi, abbiamo dei capelli che non sono stati ancora identificati, ritrovati sul tronco di un albero a pochi metri dal cadavere. Ma come sapete, la comparazione dei capelli non sempre è determinante, e spesso non regge in un’aula di tribunale...
— In quel posto lì — chiede il poliziotto, — non s’è trovato per caso un altro cadavere? Parlo di molti anni fa...
— Mi sembra di sì — risponde il PM, — ma non sono sicuro. Una prostituta, forse... Come pensa di procedere, commissario?
— Per il momento — dice Torrisi, — la cosa migliore è quella di controllare tutte le denunce relative a persone scomparse, in cerca di una descrizione che combaci con la vittima. E se non avremo fortuna, per rispetto nei confronti di lei e anche per motivi pratici, faremo un identikit il più preciso possibile e lo diffonderemo tramite i giornali e la televisione. Non importa come, ma dobbiamo scoprire chi era quella donna al più presto. Solo allora potremo cercare di capire chi l’ha uccisa e perché.
— Il movente, dice? Se lei era una drogata o una prostituta... — interviene ancora l’agente, — o tutt’e due le cose, e il suo assassino un drogato anche lui o uno psicopatico... be’, con un cervello del cazzo come hanno quelli lì, non serve un movente...
Escono dopo un po’, restano soltanto Torrisi e l’ispettore.
— Suppongo — comincia quest’ultimo, — sia solo questione di tempo scoprire chi fosse e da dove venisse.
— Che cosa te lo fa pensare?
— Tutti sono in qualche elenco, qualche computer, qualche registro, no?
— Sai quante ragazze scappano di casa?
— Tante, lo so.
— Centinaia — dice Torrisi.
— Lo so.
— E sono solo quelle di cui veniamo informati, e che non riusciamo a trovare. Quelle che qualcuno, da qualche parte, vuole che troviamo. E tutte le altre, di cui non frega niente a nessuno, che semplicemente scompaiono un giorno e non fanno più ritorno? Come facciamo a trovarle se nessuno denuncia la loro scomparsa? È come un ufficio bagagli smarriti di un aeroporto. Te lo immagini? — Leonardi tace. — Un enorme magazzino pieno di valigie, tutte coperte di polvere e mangiate dai topi. È difficile trovare la tua quando ha il cartellino con l’indirizzo, figuriamoci se non ce l’ha!
— Lei non è una valigia.
— Non ho detto che sia una valigia. Ho detto che è come una valigia.
Passa tutto il weekend e si arriva a metà della settimana. Leonardi entra in ufficio, serio in volto.
— Niente arrosto, commissario. Non c’è nessuna novità.
— Silenzio?
— Sì.
— In qualche modo è stata silenziosa anche la sua vita. Non attirava l’attenzione, nessuno sa niente di lei, nessun rumore intorno. Viveva e basta. Ed è morta allo stesso modo.
A tutto sabato, l’identità della vittima non s’è ancora stabilita. I giornali locali riportano l’identikit del volto di lei, con una descrizione sommaria. Aveva con tutta probabilità intorno ai venticinque anni, capelli ondulati castano scuro, occhi castani, altezza circa un metro e sessanta. L’anulare della mano sinistra sembrava recare un segno circolare, nella prima falange, il che faceva supporre che fino a poco prima della morte portasse un anello di fidanzamento o quello nuziale.
Torrisi sospira, scende a prendersi un caffè al bar sotto la questura. Per un attimo si avvicina al banco degli hamburger, soppesando i vantaggi dei menu a colori al disopra della cassa. Ma non ha molta fame, allora si siede, aspetta il caffè.
La barista è una nuova, giovane, con gli occhi chiari e i capelli biondo scuro raccolti in una grossa treccia che le ricade sulla schiena. Dopo qualche minuto arriva al suo tavolo con vassoio, piattino e tazzina, così può osservarla da vicino. È carina, ma sembra timida e con poco fascino. Un po’ troppo magra, anche. E il labbro superiore pare tenuto su da un tendine troppo corto e scopre due incisivi irregolari. Però ha dalla sua la giovinezza.
— Grazie.
Lo sguardo di lei incontra il suo. Poi lei sorride. E Torrisi si accorge di sorridere a sua volta, senza sapere chi dei due abbia cominciato.
— Come si chiama, signorina?
— Io? Lucia.
— È qui da poco, vero? Io lavoro a due passi — accenna alla questura, fuori dai vetri, — ma non l’ho mai vista.
— Due settimane, sì.
— Buon lavoro, allora.
La guarda ancora, mentre sorseggia il caffè. Lo attira il modo in cui se ne resta silenziosa e come appartata, dietro il bancone, davanti a tutti i clienti. Come assorta in un pensiero fisso.
Nell’uscire, le dà un’ultima occhiata. Ma anche un ragazzo la sta guardando. Ha due baffetti biondi dello stesso colore delle sopracciglia e una cicatrice su una guancia. Non deve avere più di venticinque anni.
Nessun risultato, neanche la settimana dopo. Una complicazione in più, pensa Torrisi, è anche il fatto che la vittima, almeno esteriormente, era un tipo piuttosto comune. Capelli castani, media statura... Troppe donne che rispondono a una descrizione così scompaiono ogni anno in Italia.
Forse il nome di lei rimarrà un mistero in più, insieme ai tanti della vita, in apparenza insolubili. Come il nome del suo assassino. Le persone sono un enigma imprevedibile, la natura umana un rompicapo perenne. Bisogna accettarlo.
Finché si arriva al 28, l’ultimo del mese. Verso le dieci una signora si presenta in questura e dice che pensa di conoscere la