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Eden
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E-book338 pagine4 ore

Eden

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Info su questo ebook

Silvia è morta. A Giulia, sua sorella, come ricordo è rimasta soltanto una lunga lettera spiegazzata, che le viene recapitata poco dopo il funerale. Una lettera che la costringe a tornare a un passato doloroso di cui aveva cercato di cancellare la memoria. E che le fa dubitare che Silvia si sia suicidata, come sostiene la polizia. Per questo decide di trasferirsi e accettare un lavoro a Bologna, la città in cui la sorella viveva, con l’obiettivo di scoprire cosa le sia accaduto davvero.

Poco tempo prima di morire Silvia aveva iniziato dei lavori di restauro presso l’Eden, la meravigliosa villa di Gabriele Giordani, professore di Estetica all’università, e Andrea Lorenzi, pittore e mercante d’arte. Giulia sa chi sono: li ha visti al funerale, due uomini bellissimi, dall’aspetto impeccabile. Ma non sa altro. Non sa che con loro Silvia stava lavorando in gran segreto su due tele forse realizzate da Caravaggio e detenute illegalmente tra le mura dell’Eden. Come non sa che Silvia si era innamorata perdutamente di Gabriele.

Per ricostruire quello che è successo Giulia è costretta a presentarsi alle soglie di quella villa dalle meravigliose e alte mura bianche, un luogo che sembra non appartenere al mondo reale. Superato il cancello, però, scoprirà che quello non è certo il paradiso terrestre, anzi. E l’uomo luciferino e affascinante che lo possiede, Gabriele, è un angelo o un diavolo?

Maestra del thriller psicologico italiano, Sara Bilotti torna con un romanzo travolgente, che trascina il lettore nel gorgo dell’ossessione e della passione, erotica e artistica. Lo sguardo del lettore si trasforma in quello di Giulia, nei suoi occhi che scrutano la bellezza e il dolore, cercando di andare a fondo nel mistero per trovare la verità.

SARA BILOTTI è nata a Napoli il 14 novembre 1971. Ha pubblicato la raccolta di racconti Nella carne (Termidoro Edizioni), la trilogia L’oltraggio, La colpa, Il perdono (Einaudi) e il thriller I giorni dell’ombra (Mondadori).

LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2022
ISBN9788830538894
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    Anteprima del libro

    Eden - Sara Bilotti

    Copertina: Sara Bilotti - Eden - HarperCollins

    SARA

    BILOTTI

    EDEN

    Frontespizio: Sara Bilotti - Eden - HarperCollins

    © 2022 Sara Bilotti

    Pubblicato in accordo con

    United Stories Agency - Roma

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti

    o persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN: 978-88-3053-889-4

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere

    copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso

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    alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni

    incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    A Gianpaolo Zarini, che amava Eden

    più di qualsiasi cosa io abbia mai scritto

    PRIMA PARTE

    «Perché la morte non è la fine di tutto.»

    Il prete parlava da quasi mezz’ora. Giulia però non lo stava ascoltando: osservava la macchia di sangue sul polsino della sua camicia bianca. Sembrava una minuscola rosa che fioriva.

    «La morte è l’inizio di qualcosa che alla nostra mente non è dato neanche immaginare.»

    Premette il pollice sul polso, sperando di fermare il sangue. Davide non doveva accorgersene, l’avrebbe rimproverata per la sua sbadataggine. Si faceva male di continuo. Le sue ferite avevano uno strano modo di rendere evidente il dolore: a piccole dosi, e quasi sempre a scoppio ritardato. Giulia non lo avvertiva mai nell’istante esatto in cui si feriva. Si era procurata quel taglio qualche ora prima, nel bagno di un autogrill, mentre Davide l’aspettava in macchina. Erano diretti a Bologna, dove si sarebbe tenuto il funerale a cui ora stavano assistendo, il funerale di sua sorella Silvia. Quando aveva urtato lo spigolo del lavabo si era subito immaginata i tendini recisi, ma sulla pelle sottile del polso erano comparse appena tre gocce. E ora, solo ora, quel bruciore. Il cotone ruvido della camicia doveva aver irritato le escoriazioni.

    Davide le prese la mano con un movimento brusco e gliela strinse. Giulia fu costretta ad alzare gli occhi per cercare una distrazione. Il contatto improvviso, forzato, le risultava ripugnante, ma non poteva mostrarsi infastidita. Davide era un uomo paziente, ma chiunque ha un limite oltre il quale neanche l’amore basta più.

    Chi erano tutte quelle persone? Colleghi dell’università, probabilmente. Quasi tutti anziani, tranne i due uomini che occupavano la prima panca, dove avrebbe dovuto sedere lei se all’ultimo non avesse deciso di restare in fondo alla navata. Non voleva che la polizia sapesse che non le era uscita neanche una lacrima.

    I due usurpatori non dovevano avere più di trentacinque anni. Aveva intravisto il tipo più alto prima dell’arrivo del feretro, e la sua bellezza l’aveva turbata. Non c’entrava solo l’aspetto: quell’uomo camminava come se ogni cosa intorno gli appartenesse. In quella chiesa, sembrava lui Dio. Cosa aveva in comune con Silvia? L’altro, forse più giovane, biondo e magro, di cui non riusciva a scorgere il volto, che ruolo aveva avuto nella vita di sua sorella?

    Alle loro spalle sedeva il rettore dell’università, che per tutto il tempo aveva continuato a sbirciare il cellulare. Prima dell’inizio della funzione le aveva chiesto se fosse disponibile a tenere un seminario nella sua facoltà. In memoria di Silvia aveva detto. Quell’invito l’aveva irritata. Come gli era venuto in mente di farle una proposta di lavoro in un momento del genere? Aveva cercato di non lasciar trasparire il disagio, ma non era riuscita a dargli una risposta definitiva. Non sapeva neanche in che rapporti fosse con sua sorella.

    Niente, non so niente, si ripeteva nella testa, le parole come biglie che urtavano tra loro. Di Silvia non so niente.

    «Non abbiamo ragione di seguire altre piste, a parte quella del suicidio» rispose l’ispettore alle domande pressanti di Davide.

    Giulia taceva.

    «La sua amica Karima.» Indicò una ragazza araba che piangeva in disparte, la faccia rivolta contro un albero del giardino all’esterno della chiesa. «Ci ha detto che Silvia soffriva di una forte depressione ed era in cura da uno psichiatra. Notizia confermata da un’altra amica.» Sbirciò sul taccuino che un’agente gli aveva passato, una donna molto bella, con la pelle scura e gli occhi verdi.

    «Grazie, Rebecca. Ecco. Elisa Fabbri.»

    «È qui anche lei?» chiese Giulia, facendo un certo sforzo. Perfino respirare le risultava complicato.

    «No, non è venuta. Se volete seguirmi al commissariato, vi consegnerò gli effetti personali e il dossier. Dentro troverete i contatti delle persone più vicine a Silvia. Nell’ultimo periodo Silvia lavorava al restauro di alcuni affreschi nella villa di un professore universitario, Gabriele Giordani. Era seduto in prima fila, in chiesa, il più alto.»

    «E l’altro, quello accanto a lui, chi è?»

    «Andrea Lorenzi. Vive con Giordani nella villa di cui le parlavo.»

    Giulia si chiuse di nuovo nel silenzio. Non avrebbe potuto chiedere altro senza rendere palese il fatto che non fosse a conoscenza dei dettagli sulla malattia di Silvia. Sua sorella soffriva da tempo di una depressione profonda e lei non lo aveva mai saputo.

    Seguì l’ispettore al commissariato, mentre Davide le reggeva il gomito come se avesse voluto prenderla in braccio, sollevarla da quel fiume di dolore nel quale, in realtà, non si era ancora immersa. Sarebbe stata questione di tempo, come per la ferita al polso.

    1

    Il rumore della chiave nella serratura la confortò. Le cose hanno voci, e alcune restano identiche per una vita intera. A casa sua, Giulia faceva in modo che nessuna cambiasse mai. Tre passi sul parquet, poi il tappeto che attutiva il peso del corpo. Lì, sul pelo bianco, si allargò un’aggressiva goccia di sangue, che Giulia non poté notare perché la luce era ancora spenta.

    Entrò in bagno, pigiò l’interruttore e a quel punto fu impossibile non vedere le tre righe rosse che partivano dal ginocchio e scivolavano fino alla caviglia: righe larghe, dense, che si assottigliavano nella discesa fino a condensarsi in gocce pesanti, che si sarebbero rotte sul pavimento di gres. Amava quel pavimento. Le mattonelle enormi, beige, sempre lucide. L’unico difetto era l’eccessiva porosità: doveva eliminare subito le macchie, altrimenti gli aloni sarebbero rimasti per sempre.

    Giulia sospirò, nervosa, irritata dal fatto che in pochi giorni si fosse fatta male due volte. Poi si pulì la gamba e lasciò ricadere il sipario della gonna.

    Dall’altra parte dell’universo, il suo cellulare strillava nella borsa. Accese tutte le luci e notò il tappeto violato dal rosso. Prima di rispondere, si schiarì la voce.

    «Che c’è?»

    «Sei tornata?»

    Era Michelle, la sua amica francese. Le piaceva avere amici stranieri. Più le persone erano diverse da lei, più l’attraevano.

    «Giulia?»

    «Sì, sì. Sono a casa.»

    «Com’è andata? Hai preso le sue cose?»

    «Sì.» Si strofinò gli occhi stanchi, poi guardò il tavolo, il pacco enorme e minaccioso che lo occupava quasi per intero. «Non solo i quadri.»

    «Dammi un’oretta, vengo lì.»

    «No, vediamoci domattina.»

    «Non approvo.»

    «Sto bene, Michelle. Non ti sembra?»

    «Mi sembri un robot. Non che sia una novità.»

    «Grazie tante.»

    «Ma nessuno lo è. Neanche il più infame degli uomini è una macchina.»

    «Dici?» Giulia si grattò il mento, e si sorprese di trovarlo bagnato. Non ricordava di aver bevuto. Si nettò le labbra, disgustata. «La polizia mi spedirà altra roba» mormorò, cercando i Kleenex nei cassetti della cucina. «Che dovrei farci, poi, vallo a sapere.»

    «Tesoro…»

    «Già.»

    «Ce la fai a occupartene?»

    «Non lo so.»

    «Cosa credi le sia successo, Giulia?»

    «Non lo so.»

    «Dimmi cosa pensi. Non lo fai quasi mai. Non voglio una cronaca, voglio un’opinione.»

    Giulia si sedette su una delle sedie di legno della cucina, avvertendo una stanchezza inusuale. Non era lucida come al solito, ultimamente. Faceva guai. Questa cosa la irritava, pure Michelle la irritava, tutto il mondo la irritava.

    «Silvia non si è ammazzata, ecco quello che penso» disse infine. «Ora devo andare.»

    Il disastro della notte precedente era stato causato da una piccola caduta in strada. I tagli erano poco profondi, ma si sa come fa il sangue: è rabbioso, reagisce all’offesa in modo sproporzionato.

    Dovette comunque indossare un paio di pantaloni per andare in classe. I ragazzi hanno occhi inquieti, che si posano ovunque, soprattutto sui particolari che i professori tentano di celare.

    Non insegnava più alle superiori, per fortuna, ma quel giorno era stata mandata in un liceo dall’università per l’orientamento nelle quinte. Era la docente più giovane dell’ateneo, e le toccavano mansioni come quella. Sempre meglio che pulire la scrivania ai vecchi, comunque.

    Fece il suo dovere, ignorando le occhiate fameliche, le frecciatine delle insegnanti, la viscida, eccessiva cordialità del preside. Era abituata alla fame. La bellezza di un certo tipo non sfiorisce, anzi si amplifica nella maturità. Gli uomini vogliono divorare e non badano alle carni tenere, alle ossa fragili. Ti spezzano. Finché non crei il cerchio. Dentro al cerchio non entra nessuno. È largo cinque passi. Non molto. Quanto basta per sopravvivere.

    L’incontro si concluse verso l’ora di pranzo. Comprò un tramezzino e si sedette su una panchina nel parco di fronte alla scuola. Prese dalla borsa la collana di Silvia, col pendente a forma di ala, che la sera prima aveva lanciato sul divano, irritata, e chiamò Davide stringendosela al petto.

    Rispose al secondo squillo. Da sei anni Davide era una certezza incrollabile. Sempre vigile, come se vivesse in bilico sui bisogni di lei, pronto a scattare. Doveva essere amore, il suo. O qualcosa di molto simile. Giulia non lo sapeva.

    «Ehi, amore.»

    «Tutto okay?»

    «Sì, tranne un paio di rotture di scatole. Non sopporto più di dover andare in giro per scrivere articoli. Non sono un ragazzino. Voglio una scrivania. Tu? I demoni adolescenti?»

    «Tutto bene. Mangio qualcosa. Ci vediamo stasera?»

    «Sì, torno per cena, il treno arriva alle sette. Ma stai bene?»

    «Certo. A stasera.»

    Chiuse senza salutarlo, poi se ne pentì. C’era tutta una serie di cose che si era imposta di fare, da quando Davide era entrato nella sua vita, sorprendentemente per restarci. Salutare al telefono. Non mostrare irritazione per un contatto fisico improvviso. Cucinare almeno due volte alla settimana. Abbracciare nel letto. Spegnere la luce.

    Gli mandò un messaggio. Un cuore rosso. Per il momento, bastava per soddisfare il suo senso del dovere, e poi era ora di tornare a casa.

    Appena la vide si immobilizzò nell’atrio del palazzo, come fosse stata colta da un presagio. Era una busta grossa, bianca, stropicciata, che il postino aveva infilato a forza nella cassetta. Vi si avvicinò con cautela, le sembrava di poter perdere l’equilibrio da un momento all’altro. Allungò il braccio e la tirò fuori dalla bocca rettangolare.

    Era destinata a lei, naturalmente. La rigirò tra le mani.

    Mittente: Silvia Meyer.

    Giulia deglutì. Come per il sangue al polso in chiesa, le lacrime si gonfiarono negli occhi, in ritardo. Il cuore sembrò riempirsi di un liquido vischioso. Tornò a battere qualche secondo dopo, più veloce del solito, e le annebbiò la vista.

    Una lettera di Silvia.

    Ficcò la busta in borsa e prese l’ascensore. Primo, secondo, terzo piano. Puntava gli occhi nei suoi, riflessi dallo specchio sporco di impronte e grasso. Le pupille erano spilli e tutto, attorno, pareva rimpicciolirsi.

    Aprì la porta e si lasciò cadere sul divano, la borsa ancora a tracolla e la spugna nel petto che diventava piano piano meno ingombrante. Quando fu sicura di poter respirare senza affanno, tirò fuori la busta e la aprì.

    C’erano molti fogli all’interno, riempiti dalla calligrafia fitta e minuta di Silvia. Un’accozzaglia di inchiostri: rosso, blu, nero, e di maiuscole e minuscole, sui bordi farfalle disegnate a china.

    La prima pagina era quasi completamente vuota, tranne che per alcune righe in basso:

    Non lo so perché ti scrivo, Giulia, io odio scrivere, forse lo faccio perché ci hanno ammazzate e voglio che qualcosa di noi abbia vita eterna. L’unico pregio della parola scritta è che può essere inequivocabile; non come i quadri, in cui ognuno vede quello che vuole vedere.

    Ricordi quando sono venuta da te a Napoli, e abbiamo guardato insieme le foto conservate nella scatola di latta? Sono orribili, suppongo che tu lo sappia. Soprattutto quelle in cui Roberto era appena nato, in cui mamma ha quell’aspetto radioso e l’aria di una ragazzina in gita scolastica. Ma noi sappiamo che era tutta una recita. Sembra che qualcuno abbia appiccicato sulla sua faccia gli occhi di una donna felice.

    Sono convinta che la malattia di mamma non sia stata causata dalla morte di papà. Mamma ha cominciato ad accartocciarsi su se stessa quando ha visto per la prima volta il viso di Roberto plasmarsi, fino a diventare identico a quello di papà. Non poteva sopportare di vedere la faccia del suo uomo su quel corpo di bambino, e allo stesso tempo non riusciva a impedirsi di fissarlo, di soffocarlo con attenzioni morbose. Non lo lasciava solo un momento.

    Comunque, anche noi due in quelle foto sembriamo felici. Ma certo, come può essere altrimenti? Avevamo sei e nove anni.

    La tua casa è molto bella, da copertina di Vogue. Ultratecnologica. Però ci sono poche pareti, poche mura. Cosa assorbirà le tue urla? Sei capace ancora di urlare?

    Non so se quando ti arrabbi gridi contro Davide come facevi con me, però ricordo che a Calau nessuno ci sentiva litigare, grazie a quelle pareti solide e spesse. Mi ricordo anche che, dopo esserci trasferite in Italia, restavamo a bocca aperta quando i vicini venivano a bussare alla porta, impauriti dalle grida. Smettevamo immediatamente di litigare, sconvolte da un’atroce consapevolezza: il nostro spazio vitale non aveva più mura di cinta, i confini tra noi e il mondo erano sfumati.

    Tu li ricordi con piacere i primi anni in Italia? Io non saprei.

    Devo dirti una cosa. Per liberarmi di un peso. Perché quando ti nascondo qualcosa, una qualsiasi, quella sedimenta dentro di me e marcisce. Ciò non vuol dire che ti abbia sempre raccontato tutto, ci sono cose che non ti ho mai detto, che mi porto dentro da quando eravamo bambine. Vuol dire solo che devo tentare di parlartene, perché devi sapere che quando ti marcisce una cosa dentro non te ne puoi liberare, e dal marcio non nasce nessuna cazzo di pianta profumata, come invece vogliono farci credere. Tutta quella roba putrefatta rimane lì, uguale a se stessa, in eterno, come un monito. Devo provare a raccontarti tutto, altrimenti dentro di me non ci sarà più posto per nulla, oltre a quello schifo.

    2

    Preparò hamburger e insalata. Sembrava un giorno come gli altri, e invece era già cambiato tutto.

    Glielo devo, si diceva, togliendo gli hamburger dalla griglia. Avrei dovuto fare qualcosa per lei, girando l’insalata.

    Davide non parve entusiasta della cena, ma si sforzò di non darlo a vedere. Mangiò come al solito, curvo sul piatto, coi riccioli scuri che gli celavano la fronte. Giulia li fissava immobile mentre si allungavano verso le posate: i pochi capelli bianchi spiccavano nel nero e lo facevano sembrare più vecchio. Spostò gli occhi più giù. C’era qualcosa di tenero nelle sue spalle curve, nella timidezza che segnava ogni suo gesto, piegandolo come un punto interrogativo. Davide era troppo incerto per il mestiere che faceva. Troppo buono per essere un giornalista d’assalto. Giulia pensava che nella vita, non solo nel lavoro, fosse necessaria una certa dose di odio. L’odio aiutava il tempo a scorrere, ne scandiva i minuti, li faceva passare più velocemente.

    «Sei stanco?» gli chiese, solo per indurlo ad alzare la testa, cosa che Davide fece con solerte obbedienza.

    «Parecchio. È molto buono.»

    Doveva sempre aggiungere una parola gentile, qualcosa che la gratificasse. Era stata quella la prima cosa di lui che l’aveva colpita. Un tempo, gli uomini potevano farle quello che volevano. Era sempre lì in attesa di una punizione, come una bambina incline alle marachelle. Davide però non la puniva mai. C’erano delle volte in cui le sarebbe piaciuto dirgli una frase orribile, qualcosa come: Guarda che le gambe te le apro anche se non mi porti una scatola di cioccolatini. Ma lui avrebbe fatto quella faccia delusa, e no, Giulia non poteva permettersi di deludere nessuno.

    «Il ritratto di nonna Magda» disse di punto in bianco. «Non so dove metterlo.»

    Davide fece un sorriso largo, di quelli di cui si serviva per ingentilire qualcosa di poco piacevole. «Non è molto bello. Cioè, a me non piace, è cupo. E poi stona con l’arredamento moderno.»

    Si aspettava quel commento, ma sentirlo la intristì. Sua nonna l’aveva amata senza riserve. Cristina, sua madre, trascorreva le giornate dormendo, o cercando di distinguere il sonno dalla veglia, il sogno dalla realtà. Viveva nel limbo delle pillole rosa, azzurre, verdi, che lei e Silvia si divertivano a volte a mettere in fila come tanti soldatini colorati sul bordo della vasca da bagno, incorrendo nelle ire di nonna Magda, che era incapace di trovare un nascondiglio efficace per quell’esercito dei sogni.

    Ma Davide aveva ragione: nella loro casa non c’era posto per la sua seconda mamma, come nel presente non c’era posto per il passato.

    «Quello dell’angelo però è bello» aggiunse subito dopo, la voce come una carezza. Si riferiva al quadro dipinto da Silvia. Raffigurava un angelo che indicava un punto esterno alla tela, come a suggerire di guardare altrove. Era identico all’uomo che Giulia aveva visto in chiesa, seduto sulla panca più vicina all’altare.

    Non parlarono finché non fu il momento di andare a letto. Davide era stato fuori per cinque giorni, dunque avrebbero fatto sesso. Giulia si allungò sulle coperte, senza spogliarsi, le braccia distese lungo i fianchi, i palmi rivolti al soffitto. Davide spense la luce e si sdraiò su di lei, cominciando a baciarla. Ogni suo sospiro era un’attesa. Attendeva una reazione che non arrivava mai. Giulia era un nulla malleabile in cui Davide affondava subito: si immergeva in quel mare calmo e denso, ma perdeva immediatamente ogni destrezza, diventava un nuotatore lento. Eppure, non desisteva. Giulia non riusciva a capire come il suo compagno potesse consegnarsi ogni volta a quella massa informe, capitolare di fronte alle acque gelide senza mai un moto di rabbia, un grido di rancore, o anche solo un brivido. E allora rinunciava a pensare, chiudeva gli occhi e restava lì immobile, stupida.

    Quando passò da Michelle, la trovò che stava chiudendo la valigia. L’amica era talmente entusiasta che Giulia decise di fingere di sapere dove stesse andando. Chissà quando le aveva raccontato di quel viaggio, ignorando che la sua migliore amica non stava ascoltando neanche una parola.

    «Cavolo, è già tutto pronto!» disse Giulia con la sua allenata allegria, sedendosi sul letto.

    Michelle annuì, tirò su la valigia e l’appoggiò al muro, soddisfatta.

    «Sono riuscita a far entrare tutto in una sola valigia. Sto sognando. Va be’ che starò via solo per il weekend…»

    Forse era vero quello che le diceva sempre Silvia. Forse Giulia era posseduta da una crudele indifferenza, incapace di empatia e interesse verso qualsiasi essere umano. Forse non aveva un’anima, o non l’aveva più, e i legami che aveva conservato nel corso degli anni non erano altro che il frutto di una decisione arbitraria. I sentimenti altrui, specie quelli dolorosi, sembravano essersi trasformati in pietre: le apparivano come oggetti da studiare, catalogare, eventualmente comprendere, come fosse uno scienziato di fronte a una materia oscura.

    «Mi dispiace» disse.

    «Di cosa?»

    «Non sono una grande amica.»

    Michelle scoppiò a ridere. «Guarda che non abbiamo ancora aperto neanche una birra. Di solito il gioco della verità comincia dopo un paio di Tennent’s. Che ti prende?»

    «Niente, negli ultimi tempi sono più confusa del solito. Silvia mi ha spedito una lettera, prima di ammazzarsi.»

    Michelle ammutolì. Su quel muro di silenzio che era diventata la sua faccia, i tratti si indurirono, diventarono inequivocabilmente maschili.

    «L’hai letta?»

    «Sì. Due volte. Erano anni che non pensavo al passato, alla mia infanzia in Germania.»

    Michelle lottò contro la tenerezza e optò per una più salvifica brutalità. «E faresti bene a continuare così. Bisogna chiudere le cose brutte del passato in un cassetto, altrimenti continuano a ronzarti in testa e ti fanno fare un sacco di stronzate.»

    Giulia la fissò senza espressione. «Non sei un granché come psicologa.»

    «Infatti non sono una psicologa. ’Fanculo gli psicologi. Il mio ultimo strizzacervelli sosteneva che gli uomini che vogliono essere donne hanno avuto una madre invadente. Non gliel’ho detto che mia madre è fuggita a Cannes con il suo amante quando avevo due anni: poverino, lo avrei messo in imbarazzo.»

    Michelle scomparve in cucina e tornò con un paio di birre gelate.

    «Al funerale, il rettore dell’università di Bologna mi ha chiesto di tenere un seminario» disse Giulia, non appena la birra le gelò lo stomaco. «Suppongo in memoria di mia sorella. Ho deciso di andare e mi sono rivolta a quello che era il referente di Silvia, il professor Di Matteo, per l’iter della richiesta. È stato molto gentile.»

    «Davvero?»

    «La lettera non c’entra, prima che ti lanci in un’altra diagnosi. Avrei accettato comunque.»

    «Oh, sì che c’entra. E c’entra Silvia in un modo che posso ben immaginare.»

    «Michelle, per favore, ne abbiamo già parlato.»

    «Eri una bambina. Come potevi proteggerla? Poi si diventa adulti e certe cose si calcificano. Non è colpa tua se si è ammazzata, e non è necessario che tu vada a Bologna. Ne uscirai distrutta.»

    «Non ci vado perché mi sento in colpa, ci vado perché è un modo per salutarla. Non ho fatto in tempo.»

    Ma non era vero, e Michelle lo sapeva. Sospirò, prefissandosi di riparlarne. «Davide come l’ha presa?»

    «Non lo sa. Ma cederà, come da copione.»

    «Che noia. Mai un litigio come si deve, voi due. Come può essere soddisfacente il sesso senza rabbia?»

    L’accenno al sesso la fece irrigidire. Michelle se ne accorse, e decise di tornare all’argomento precedente.

    «Dimmi la verità: cosa speri di trovare?»

    Non c’erano risposte giuste per quella domanda, eppure Giulia si sforzò di pensarci su. A volte era come se un burattinaio prendesse all’improvviso il comando della sua vita decidendo per lei. Un super io alieno, del cui giudizio aveva dimenticato la motivazione, sempre che l’avesse mai saputa. Non poteva restare nascosto per sempre, però: prima o poi avrebbe capito

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