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La Rose de la Mariée
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E-book226 pagine3 ore

La Rose de la Mariée

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Info su questo ebook

Gabriella è una donna che ha vissuto molte vite e affrontato molte prove, tutte superate grazie ad un unico principio: la vita è sempre bella e va vissuta intensamente. La Rose de la Mariée è la sua storia, la storia dei suoi amori, dei suoi viaggi, dei suoi successi, delle sue sconfitte, dalla nascita fino ai giorni nostri.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2022
ISBN9791221410778
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    Anteprima del libro

    La Rose de la Mariée - Gabriella Di XX Miglia

    PARTE PRIMA

    Dalle bambole all’America

    Rose

    Facile che io fossi una rosa nella mia vita precedente. A partire dal luogo dove sono nata, Il Villino delle Rose a Nervi, proseguendo con le tappe più o meno importanti della mia vita, le rose appaiono come una profumata persecuzione che scandisce il mio tempo. Le rose e l’amore.

    Dovevo essere una neonata davvero notevole se mio padre, in attesa del figlio maschio dopo la nascita sette anni prima di mia sorella Marinella (chiamata anche Marina), mi ha perdonata immediatamente appena ha posato i suoi occhi su di me: quattro chili biondi e rosei di una bimbetta che sgranava occhi delle dimensioni di bocce da biliardo di un blu intenso, questo a dispetto di tutte le convinzioni dell’ostetrica sul mio essere podalica.

    Bastian contrario fin dalla nascita ma con quel certo non-so-che che faceva sì che ogni maschio nel raggio delle mie azioni alla fine cedesse al mio fascino, quindi, mio padre, fu il primo a non resistermi.

    Coppia innamorata i miei genitori, sono riusciti a contornarmi di un’infanzia felice e ricca di valori. Lui, mio padre Walter, chirurgo proveniente da una famiglia di medici da parte materna da generazioni, e mia madre Maria Giovanna, chiamata sempre e solo Magy, delicata ma determinata figliola di una coppia davvero inusuale. I miei nonni materni infatti, Linda e Piero, al contrario dei paterni Augusto e Talea (nonostante fossero conti) di cui parlerò in seguito, erano la quintessenza di arte, cultura e signorilità nel modo più corretto del termine. Peraltro la vena artistica della famiglia sboccia in molti discendenti, in alcuni in maniera ridondante, in altri più velata, come se un’impronta invisibile avesse segnato con una stellina la fronte di questo ramo, la pittura o la musica ricorrono, quasi quanto le rose.

    Mio nonno Piero, dicevo, era ai tempi in cui vide per la prima volta mia nonna Linda, un giovane ufficiale di una famiglia signorile di Torino. La vide spuntare tra i fiori nel giardino della villa di campagna del padre, a Perticara, nei pressi di Terni, quasi riesco ad immaginare il suo ammirato e immobile stupore e il seguente lavorio della sua mente per escogitare una scusa plausibile per poterla conoscere e, soprattutto, frequentare. Fervido di fantasia, altra qualità che non è mai mancata nella nostra famiglia, andò a chiedere al mio bisnonno Giovanni di poter avere l’onore di occuparsi di due gradini degli scalini esterni che erano rotti, di conseguenza insidiosi. Lo fece millantando la bravura dei suoi due attendenti nei lavori di muratura e dichiarandosi pronto ad effettuare la direzione di detti lavori. Come rifiutare? Va da sé che la frequentazione portò all’innamoramento dei due piccioni - che tali rimasero tutta la vita -, quindi alla rottura del fidanzamento tra Linda con l’allora fidanzato e, coronamento logico a quel punto, al matrimonio.

    Linda era una fanciulla molto bella, diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia, una giovane piena di promesse e di talento. Basti dire che suonò perfino con il grande Arturo Toscanini. Manca nei miei ricordi l’averla sentita almeno una volta suonare poiché, a dispetto del dono di cui la vita l’aveva fornita, ripose il violino nella custodia subito dopo il matrimonio per dedicare il suo tempo solo all’amato marito e, a dirla tutta, alle formalità. Sì, perché i miei nonni abitavano negli appartamenti del Palazzo Reale a Torino, dato che mio bisnonno Augusto era il segretario del duca di Genova. Linda si riuscì ad adattare così bene alla vita di corte da riuscire senza alcuna fatica a seguire l’etichetta, cosa che invece a mia madre prima, e a me poi, risultava tediosa e incomprensibile!

    Mia madre mi raccontò che quando lei aveva più o meno l’età di tredici anni, suo padre, il nonno Piero, decise di acquistare un villino e di lasciare l’appartamento a Palazzo Reale, probabilmente perché anche a lui andava un po’ stretta l’etichetta a cui dovevano sottostare, o forse solo perché c’era una grande disparità: loro sempre in perfetto ordine a guardare stormi di principini in mutande che correvano schiamazzando per le stanze del Palazzo! Inutile dire che io, sentendo questi racconti, avevo la mente in cielo. I miei occhi coloravano queste storie dei toni pastello che adoravo, dentro i quali mi perdevo. Ad esempio, non sarebbe accaduto anche a voi di fantasticare con la mente, sentendo narrare di una governante inamidata che prelevava vostra madre durante interminabili pranzi e cene, per condurla un paio di ore nella sala giochi a trascorrere il tempo restante fino al dessert, momento in cui l’avrebbe ricondotta ai suoi genitori? Peraltro, la governante in questione, di nome Caterina, aveva prestato servizio ai miei bisnonni prima e ai miei nonni poi, fino ad ottenere una medaglia di riconoscimento per i 50 anni di fedeltà dal Re per aver allevato tre generazioni della nostra famiglia.

    Alla luce di ciò, tornando a Linda, non crediate che se ne stesse con le mani in mano, anzi. Ricordo con infinito piacere i momenti in cui potevo passare del tempo con i nonni, i miei genitori mi portavano nel loro grande appartamento in centro a Torino e mia nonna infatti era sempre in fermento, così come l’aria attorno a lei: organizzava concerti in salotto, dipingeva, scriveva poesie e profili su grandi artisti (tra cui un profilo su Leonardo da Vinci), intratteneva gruppi culturali, ricamava, tesseva tappeti e si intendeva di antiquariato e architettura. Non c’era volta che non la trovassi a capofitto in un progetto.

    Quando io compii i miei 18 anni, nonna Linda mi regalò il suo violino. Si tratta di uno strumento splendido, firmato e datato. È ancora qui vicino a me, riposto nella sua vecchia custodia di velluto rosso, con sopra da lei ricamate le sue iniziali e delle note musicali. A parte qualche dignitoso lavoro di tarme sulla seta, il violino è praticamente intatto. Un vero peccato che io non abbia voluto studiare musica, almeno fino ad adesso.

    Lasciando per un attimo Linda e Piero e tornando a Gabriella appena apparsa al mondo mostrando i piedi, devo dire che fin da subito ho dato dimostrazione di una certa ribellione alle convenzioni.

    Una mattina mi apparse improvvisamente una macchia di caffelatte su una guancia, una voglia che preoccupò alquanto papà e mamma. Mi fecero visitare da esperti dermatologi ma c’era poco da fare se non rassegnarsi. Poi, un giorno, la macchia sparì così com’era venuta!

    Dopo quell’episodio iniziai a sentirmi perennemente osservata, quindi, probabilmente, pensai «perché iniziare a parlare come tutti i bimbi che si rispettino dopo il primo anno di età? Aspetterò i quattro, sono così belli!»

    Così, la mia ostinazione a quel pacioso mutismo stava allarmando tutto il parentado. Risalgono a quel periodo, infatti, i miei primi ricordi: ad esempio avverto la sensazione del dolce rollio delle passeggiate in carrozzella, sul lungomare, guidata da mia madre, abbronzatissima. Mi sembra di percepire ancora il calore del sole in riva al mare. Ma se di queste camminate ne ho solo una sensazione, è invece netta l’immagine delle espressioni assolutamente ridicole che i miei genitori, ormai allo stremo, facevano davanti a me, per farmi proferire i dittonghi più semplici. Ripensandoci dovevo essere proprio una mente perfida perché me la ridevo sotto i baffi e me la prendevo comoda. All’età appunto di quattro anni ho deciso di dire finalmente la mia e me ne sono uscita con un bel «Pappy!» seguito da un ‘Papy’ che avrebbe voluto dire Gaby, che ero io, stupendo tutti e facendo tirare un sospiro di sollievo e di orgoglio a mamma e papà. Fu un momento così importante che venni chiamata Papy fino ai miei vent’anni, anzi, qualcuno mi chiama ancora così, soprattutto Marinella e il mio primo marito Fredy, da non confondere con Fredi....capirete in seguito.

    Sempre a quattro anni, età molto prolifica per le mie scoperte, mi sono buttata (letteralmente) nel nuoto: l’acqua e il mare sono diventate le mia passione e perfino il bagnino del luogo, Pendola, un muscoloso guardiano salvavita di Nervi, non resisteva al mio fascino, o meglio, compiva solo il suo dovere, povero, perché spesso in giornate di bandiera rossa si trovava a dover correre a ripescarmi, ma era bello pensare che lo facesse per tenermi tra le braccia. E il gettarmi in acqua con il mare mosso non era l’unico degli svariati modi da me escogitati per togliermi la vita. Celebre il mio tentativo di soffocamento tramite non un pezzo, bensì un puzzle intero che mi ero infilata in bocca all’età di due anni, solo per evitare di venire scoperta da mia madre a toccare quell’oggetto vietato. (Vietatemi qualcosa e state certi che per me sarà come ordinarmi di farlo!)

    Dopo essere riuscita non so come a mettere in bocca una decina di pezzettini di plastica, e di conseguenza anche in gola, devo il mio essere ancora qui a scrivere solo alla prontezza di riflessi di mia madre, alla quale avrei dovuto, per comprensione, pagare il parrucchiere a vita, poiché credo di aver contribuito non poco a farle diventare i capelli bianchi. Presa per i piedi e tirata su come un capretto, ho restituito al pavimento il puzzle scomposto ma integro, in compenso i miei polmoni si sono visti restituire l’ossigeno.

    Sempre mia madre è la fautrice del secondo salvataggio. Immaginate la scena: è estate, sono oramai una ragazzina, con la mia esuberanza entro in cucina dove la domestica stava smacchiando dei vestiti, afferro al volo la prima bottiglia che trovo e me la scolo come un marinaio all’arrivo all’osteria del porto. Peccato fosse benzina. La domestica si mette ad urlare come un’isterica e mia madre arriva effettuando senza perdere tempo una bella lavanda gastrica casalinga a base di latte. La domestica (non avrei voluto essere nei suoi panni) si prese una bella ramanzina per aver lasciato a mia portata la bottiglia, tra l’altro senza etichetta, in compenso a me è toccato a pieno merito il titolo di ‘Papy la peste’. Non è stato il mio periodo migliore ma confido che la benzina mi abbia smacchiato l’anima, anche se non ce n’era affatto bisogno. Se fossi stata un gatto, mio animale preferito, avrei già sprecato tre delle sette vite concessemi, le prime due quando ero piccola e la terza…arriverà, ed è stata anche la più sofferta e difficile, ma fa parte di un’altra storia.

    Ed eccomi quindi che a quattro anni cado vittima della mia passione per il nuoto. I miei genitori a quel punto decidono di trasferirci dall’abitazione in affitto, che si trovava comunque vicino al mare, ad un appartamento tutto nostro proprio davanti all’ingresso dei Parchi di Nervi. Era ed è ancora oggi un condominio bianco con un muro esterno digradante ricoperto di buganvillea. L’ingresso ampio di marmo bianco con la scalinata, la portineria al centro e i due corridoi ai lati che andavano agli ascensori delle due ali del palazzo. Allora a me sembrava tutto enorme, ma è una sensazione tipica dei bambini, poi rivediamo le stesse cose da adulti e le proporzioni sono tutte diverse. La cosa bella era che si poteva andare al mare tutto l’anno e per farlo bastava attraversare il parco, il meraviglioso mare ligure si stendeva davanti ai nostri occhi. All’epoca la mia famiglia era composta da cinque persone: mio padre e mia madre, Marinella (chiamata anche Marina), io e la donna di servizio fissa. Pur essendo l’abitazione davvero deliziosa, la mamma, con lo spirito estetico che le era abituale, aveva trasformato il muro che divideva l’ingresso con le camere sulla destra, in pareti di vetro, così da creare luce e profondità tali da rendere l’effetto di un salone a quelle stanze di per sé piccoline. In questo modo noi bambine avevamo il nostro rito serale, si chiudevano le porte a vetri e si aprivano gli armadi che contenevano i nostri letti a scomparsa e il salone come per incanto diventava la nostra camera da letto. Oltre a questo salone vi erano una cameretta piccola, la camera dei miei genitori, il bagno e la cucina. La cosa più eccitante era il balcone perché si vedeva il parco ed il luccichio turchino del mare che sbucava alternativamente dalle fronde degli alberi quando oscillavano al vento. Anche una casa piccola insegna cose utili! Forse anche a causa dello spazio limitato, mia madre era ordinatissima e di conseguenza lo siamo diventate anche io e Marinella. Mio padre lavorava molto ed ogni tanto, solo poche volte purtroppo, mi portava con sé in ospedale. Per me era un’avventura trascorrere la notte a dormire lì nelle sere in cui era di guardia (le mie compagne di scuola pensavano che fosse un guardiano notturno). Le suore che lo circondavano di stima e venerazione mi si accalcavano attorno e io sentivo di essere al centro dell’attenzione generale. Mi coccolavano e vezzeggiavano muovendosi come in una danza, con le loro lunghe vesti e i cappelloni bianchi. Al mio risveglio sapevo bene che mi aspettava una colazione a base di spumoni rossi d’uovo montati con lo zucchero.

    Una sola volta, da bambina, non capii cosa mi stava accadendo. Fu quando operarono Marina e me di tonsille. Dato che io ero la più piccola ed agitata, pensarono di operarmi per prima. Mio padre, sentendomi strillare, sparì e non lo vidi più. Un gruppo di medici in camicioni bianchi mi circondò, mi fecero un’iniezione nel braccio, facendomi agitare ulteriormente. Così mi ribellai e loro dovettero legarmi ad una sedia e togliermi le tonsille senza anestesia, che incubo! Sbattendo i piedi centrai in pieno la faccia del medico con una pantofola! Papà in seguito mi disse che avrei dovuto essere riconoscente a quel dottore (morì pochi anni dopo, spero non per le mie maledizioni!) perché mi sono ripresa molto velocemente e le tonsille non mi sono più ricresciute. In effetti, il giorno dopo saltellavo già per i corridoi dell’ospedale indossando una tutina, pantaloncini bianchi tipo pinocchietto bordati di rosso, con bretelle, un vero burattino vivente. Invece Marina, che era stata operata con anestesia e aveva subito un intervento più complesso, non riusciva a farsi capire, si esprimeva con strani gesti e scriveva su un libretto d’appunti che le avevano piazzato sul comodino. La sua convalescenza fu molto più lunga della mia.

    Tornando a mio padre, una delle cose che preferivo era quando lui era in casa con mamma e tutti i loro amici. La casa si riempiva del loro vociare con cui si faceva gran festa, mamma suonava il banjo e cantava canzoncine del New Orleans. Si ballava, si improvvisavano una girandola di giochi, insomma il divertimento era assicurato. Come spesso accade ai figli di genitori giovani e festaioli che hanno tanti amici e si divertono con poco, ad un certo punto della sera, io e Marinella andavamo in trasferta dalla signora che viveva sul nostro stesso pianerottolo, una vedova che abitava con la sua governante. A me sembrava vecchia, ma probabilmente non lo era. Era una donna assolutamente adorabile, felice di averci con lei e, per questo, ci viziava con dei deliziosi biscotti al cioccolato di cui ho ancora il sapore nella memoria.

    Quelle porte a vetri che creavano la nostra cameretta da letto sono state anche un buon esercizio per la mia fantasia: nelle serate normali, dopo cena, quando venivano chiuse e io e Marinella saremmo dovute sprofondare tra le braccia di Morfeo, a me piaceva invece giocare con le ombre che le figure dei ‘grandi’ disegnavano attraverso il vetro opaco, sul pavimento e sulle pareti della stanza. Creavo personaggi, battaglie o feste immaginarie e le scenette che raccontavo a Marina ci facevano scoppiare in risate che tentavamo di soffocare nei cuscini. Ma nulla sfuggiva a mia madre che entrava in camera e diceva «basta! Si dorme!» e in effetti era sufficiente per rimetterci tranquille e addormentarci serene.

    La sera in cui le porte a vetri sono rimaste aperte e ho potuto finalmente partecipare con i grandi, mi sono resa conto che la mia infanzia stava scivolandomi tra le dita come sabbia. Mi sono appoggiata alla ringhiera del balcone a guardare la splendida notte estiva stellata; com’è facile sentirsi piccoli quando si ha un pezzo così vasto del firmamento sopra di noi. A quel punto, l’idea che io non fossi più così piccola per i miei genitori e che mi fosse quindi permesso ciò che la mia giovane età fino ad allora non aveva contemplato, mi creava uno strano senso di disagio. Stavo crescendo e avevo di fronte a me l’infinito, l’ignoto, come se quelle porte a vetri avessero segnato una tappa io vi ero appena passata attraverso e sapevo che stava finendo un capitolo importante della mia vita. E lì, davanti al luccichio della luna nel mare che si intravedeva tra le fronde degli alberi, sono scoppiata a piangere.

    Crescendo mi sono allungata e si sono anche un po’ scuriti i riccioli biondo grano con gran disappunto di mia madre che escogitò bagni di camomilla in cui m’immerse regolarmente controllando accuratamente l’evoluzione della schiarita. Un’altra sua attenzione era quella di assicurarsi che io non prendessi freddo, dato che avevo avuto le febbri reumatiche e la polmonite. Il suo sistema per prevenire ogni mio raffreddore era farmi indossare il foulard nei giorni di vento. Se per caso mi beccava senza, me lo annodava nervosamente lei stessa al collo, con la botta finale da ‘strozzamento’. Quanto odiavo i foulard!

    Delle mie compagne di scuola elementare ricordo poco. Ne rimane una foto in cui siamo tutte sedute ai banchi, io in ultima fila perché ero tra le più alte. Indossavo un grembiule bianco con un gran colletto un po’ storto perché non era incorporato al grembiule, quindi girava per i fatti propri. Tra le compagne di classe ce n’era una pallida, bionda, con la crocchia, le calze lunghe e bianche; sembrava più una nonna che una bambina, immagino che a ottant’anni sarà tale e quale ad allora. Le altre sono rimaste cristallizzate nel ricordo di allora e per me saranno solo e sempre bambine.

    Abitavo molto vicino alla scuola, stessa strada, Via Capolungo, qualche curva dopo i parchi,

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