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Inquisizione: Cronache dal delirio sanitario
Inquisizione: Cronache dal delirio sanitario
Inquisizione: Cronache dal delirio sanitario
E-book453 pagine6 ore

Inquisizione: Cronache dal delirio sanitario

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Info su questo ebook

Dopo anni di pandemia, l’ossessione sanitaria non è scomparsa, anzi continua ad agire più pressante che mai. Semplicemente, però, è diventata normale. Francesco Borgonovo – vicedirettore de “La Verità” – dopo mesi di battaglie in tv e sui giornali, firma un libro proprio sull'ossessione sanitaria e sulla religione della scienza. Una lunga inchiesta giornalistica, impreziosita dalle interviste ad alcuni dei protagonisti della cultura italiana, che ripercorre passo dopo passo l’ascesa della Cattedrale Sanitaria, cercando di raccontare in che modo abbia preso il potere e in che maniera lo abbia gestito. La storia e la cronaca di un vero e proprio delirio.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2022
ISBN9791280132123
Inquisizione: Cronache dal delirio sanitario

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    Anteprima del libro

    Inquisizione - Francesco Borgonovo

    copertinaGiorni di guerraSigns Publishing

    © 2022 Signs Publishing Srl

    Titolo: Inquisizione

    Autore: Francesco Borgonovo

    Progetto grafico: Federico Goglio

    Grafica di copertina: Daniele Kirchmayer

    Illustrazioni: 123RF

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume potrà essere pubblicata, riprodotta, archiviata su supporto elettronico, né trasmessa con alcuna forma o alcun mezzo meccanico o elettronico, né fotocopiata o registrata, o in altro modo divulgata, senza il permesso scritto della casa editrice.

    ISBN: 9791280132123

    Nota introduttiva

    dell’autore

    Sorprende, ogni volta, la facilità con cui a tutto ci si abitua. La leggerezza con cui il popolo italiano si è adattato al regime sanitario, rendendosi disponibile a cambiare lo stile di vita, i comportamenti, persino il modo di pensare. La semplicità con cui tutti noi abbiamo accettato discriminazioni terribili e divisioni sanguinose. Mentre mettevo insieme i capitoli di questo libro, il pubblico televisivo era in gran parte concentrato sull’ascolto dei brani di Sanremo. Che nel 2022, dopo due anni di pandemia, ci fosse voglia di evadere, lo considero perfettamente normale e pure sano. Trovo un po’ meno normale il fatto che l’evasione non abbia portato a un rifiuto delle norme liberticide, bensì a un adattamento sostanzialmente silenzioso.

    Mentre questo libro va in stampa, l’ossessione sanitaria non è scomparsa, anzi continua ad agire più pressante che mai. Semplicemente, però, è diventata normale. Si agisce come se non ci fossero restrizioni e segregazioni. E sarebbe pure una piacevole finzione, se non fosse che mimare la libertà significa comportarsi come se una parte della popolazione non ci fosse: dopo averla espulsa dalla società, la eliminiamo anche dai pensieri.

    Negli ultimi due anni, l’Italia è stata percorsa da «tensioni civili» (così le ha definite qualcuno) dilanianti, da scariche elettriche di malessere e disagio. Ci sono migliaia e migliaia di persone che di fatto non hanno potuto lavorare perché prive di green pass. Non hanno potuto salire sul bus, entrare al bar, prendere un caffè, comprarsi un paio di mutande o ritirare la pensione senza prima esibire la carta verde di cui non erano in possesso. Questa fetta di realtà - fatta di uomini, donne e bambini - è diventata invisibile. E c’è stato, addirittura, qualcuno pronto a sostenere che fosse giusto così, che il «corpo estraneo» meritasse di essere inciso e rimosso come un tumore.

    Piccolo esempio. Michele Serra, in una delle sue Amache, ha sostenuto che «il vero succo dello spirito no vax» sia la cocciuta opposizione al legittimo potere dello Stato. Egli ritiene che questo succo sia individualistico, egoistico e dunque «di destra» (egli vi si oppone rivendicando il suo essere «di sinistra» e quindi «statalista»). Serra ha una parte di ragione quando spiega che quella compiuta dallo Stato è «la sola mediazione accettabile tra volontà differenti, etiche differenti», ma dimentica un paio di dettagli. Il primo è che una buona parte dei no vax (quella sotto i 50 anni) non ha violato alcuna legge sottraendosi alla puntura. Il secondo è che oggi non viviamo in uno Stato organico o in uno Stato etico, e non siamo usi a espellere le minoranze che non si adeguano. Al contrario, queste minoranze ottengono visibilità e peso crescenti.

    E allora come mai la minoranza non vaccinata è stata così osteggiata, attaccata e vessata? Come mai nessuno le ha dato voce? Forse perché tutti sono stati «fedeli alla linea» e hanno agito per il bene dello Stato? Macché: si è infierito sui no vax per via di un antico vizio italico chiamato conformismo. Un tratto caratteriale che, scriveva Gillo Dorfles, è «di per sé pernicioso, perché significa non avere un proprio giudizio e divenire succubi dell’opinione pubblica» e «costituisce quasi sempre la morte della propria identità cogitativa».

    Ormai da troppo tempo è il conformismo a guidarci. Di fronte alla discriminazione, i più tacciono per disinteresse, e paura, non per altro. I media sia adeguano per convenienza, non per fedeltà alle istituzioni. La segregazione nasce dall’egoismo, che è l’esatto contrario del legame comunitario di cui lo Stato dovrebbe farsi garante.

    Questo legame comunitario, dalla fine del 2019 in poi, abbiamo deciso di lasciarlo morire. Siamo rimasti indifferenti, disinteressati. Ci siamo fatti imprigionare dalla paura. Disorientati, i più hanno deciso di votarsi a un nuovo culto, una forma di «religione della Scienza» che di scientifico non ha nulla, simile ad alcune delle più deleterie derivazioni dello gnosticismo. Tale culto è stato amministrato da quella che io chiamo, citando Nick Land, Cattedrale Sanitaria. Un’istituzione in servizio permanente di cui tanti santoni e predicatori si sono messi al servizio. Una Grande Sorella che ha perseguitato gli eretici senza requie, e che ancora continua a spargere odio e bugie.

    Le pagine che seguono ripercorrono passo dopo passo l’ascesa della Cattedrale Sanitaria, cercando di raccontare in che modo abbia preso il potere e in che maniera lo abbia gestito. Sono la cronaca di un delirio che forse non è destinato a finire.

    Inizio

    Il siero più venerato del Natale

    (29 dicembre 2020)

    Il primo marzo del 1937, Dino Buzzati aveva già scritto tutto. Quel giorno uscì su la Lettura uno dei suoi racconti più belli, Sette piani. Significativa coincidenza: il protagonista è un avvocato di nome Giuseppe Corte. Benché egli abbia «soltanto una leggerissima forma incipiente» di un morbo non specificato, gli viene consigliato di recarsi in una nota casa di cura che garantisce «un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti». Lì i pazienti sono divisi su sette piani: all’ultimo i meno gravi, al primo i moribondi. Corte viene ricoverato al settimo. Ma ecco che, prima con una scusa poi con l’altra, medici e infermieri lo trasferiscono sempre più in basso. Corte viene tenuto all’oscuro delle sue reali condizioni di salute. Gli ripetono che non ha niente, che è prossimo a essere dimesso. «Resista ancora un poco, altri 15 giorni...». Corte protesta, s’arrabbia, ma poi si rassegna: prende le sue cose e cambia stanza. Intanto il tempo trascorre, e lui scende sempre più in basso, dal settimo al primo piano. Le dimissioni – che fin dal primo giorno parevano dietro l’angolo – si rivelano un miraggio dai contorni sfocati, che infine svanisce del tutto. Certo, il Giuseppe di Buzzati è una vittima, mentre il Giuseppi che conosciamo ricopre ben altro ruolo. Per il resto, la nostra realtà non si discosta molto dalla finzione. È come se fossimo sottoposti a una stravagante forma di autoritarismo a puntate. Ci fanno balenare davanti agli occhi la luce, ma poi ci ripetono: «Un po’ di pazienza, ancora 15 giorni...». E intanto ci spostano in un’altra camera.

    In queste ore ci fanno ammirare da lontano i contorni della terra promessa. Ecco, è arrivato il vaccino, il portentoso medicamento che ci condurrà là dove scorrono latte e miele! Le celebrazioni per la taumaturgica pozione hanno oscurato perfino il Natale: il Messia della Scienza è giunto nel fatidico «V Day». Si è fatto largo scortato dall’esercito tra le grida di giubilo di politici e commentatori. La salvezza in fiala, per voi e per tutti.

    La morte è stata vinta, dunque? L’attesa è finita? Manco per sogno. In realtà, si trattava di una messa in scena, perché le dosi promesse ieri non sono arrivate. E non è nemmeno l’aspetto più grottesco della faccenda.

    Ancora prima che il vaccino varcasse i nostri confini, infatti, Roberto Speranza aveva già svelato il trucco: possiamo scordarci di tirare un sospiro di sollievo. «La battaglia è lunga, dobbiamo resistere», ha detto il ministro della Salute. E ancora: «Per altri mesi serviranno misure non farmacologiche». Tradotto: mettiamoci il cuore in pace, il semaforo dovremo tenercelo ancora a lungo.

    La giornata dell’immunizzazione è stata uno spettacolo da telepredicatori americani. Qualche dose distribuita qui e là ad alcuni volonterosi adepti del culto sanitario, qualche furbastro di potere come Vincenzo De Luca pronto ad approfittarne con la scusa di diffondere il verbo. Poi un ampio corredo di interviste ai primi fortunati toccati dalla grazia: «Mi sono commosso», dice uno. «La scienza e la medicina sono le uniche cose, insieme con il senso civico, per uscire da questa pandemia», proclama l’altra. Gli editorialisti si genuflettono davanti al «vero primato della scienza». Immancabile, come ovvio, l’allarme per «i no vax», che si annidano ovunque, pronti a rovinare anche i giorni della festa.

    Solo che – dietro la fiera mediatica, i sorrisi smaglianti e e alte lodi alla nuova Dea Madre con quattro siringhe al posto delle braccia – resta la realtà quotidiana, il qui e ora. Se va bene (e le premesse non fanno ben sperare), raggiungeremo l’80% di copertura vaccinale in autunno, cioè fra circa nove mesi. E nell’attesa del ritorno all’Eden, la vita è grama. Da più parti ci viene ribadito che le percentuali dei contagi sono ancora troppo alte, e l’odore della nuova stretta si fa più intenso. Il 7 gennaio dovrebbero riaprire le scuole, ma mancano ancora strategie chiare sulla gestione dei trasporti, e non sono pochi a sostenere che si dovrà slittare il ritorno in classe. Incertezza totale anche sulla ripartenza dello sci, con i gestori delle piste che da giorni aspettano parole definitive dopo che il Cts ha bocciato le linee guida proposte dalle Regioni. Buio pure sulla ripresa delle attività sportive e sulla riapertura di palestre, piscine, cinema e teatri. Per farla breve: il paradiso può attendere, qui siamo ancora in pieno purgatorio (per non dire di peggio).

    Come se non bastasse, c’è la beffa internazionale. Domenica si è celebrata – per volontà delle Nazioni Unite – la surreale Giornata mondiale di preparazione alle epidemie. Sembra una presa in giro, visto che all’epidemia di Covid siamo arrivati senza uno straccio di piano pandemico. A completare il quadretto grottesco è arrivato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Oms, a dichiarare che «quella del Covid non sarà l’ultima pandemia». Pensate che bello: vaccino o meno, presto o tardi la giostra ricomincerà daccapo.

    Il circo immunitario di queste ore, dunque, svolge la funzione di zuccherino. L’attesa messianica dei prodigi de «La Scienza» serve a farci star buoni ancora per un po’, ad addolcirci il palato per nascondere l’amarezza che impasta la lingua. È la strategia antica del bastone e della carota, ma in una versione nuova: il bastone sulla schiena e la carota là dove fa più male.

    Lezione dei Magi agli scienziati senz’anima

    (6 gennaio 2021)

    «Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». Il Vangelo di Matteo è l’unico a parlare dei Magi venuti da Oriente. Li cita abbastanza brevemente, senza specificare quanti siano né come si chiamino. Sono venuti da lontano, seguendo una stella. Si sono rivolti a Erode, convinti che sappia dove si trova il re appena nato, e che si appresti ad adorarlo. Ma Erode ha altre mire: invia i Magi a Betlemme, e ordina che tornino a riferirgli dove si trova il bambino. Che cosa abbia in mente lo sappiamo: vuole ucciderlo, e quando i Magi – avvertiti da un sogno – decidono di non riferirgli niente, egli s’infuria e comincia a sterminare tutti gli infanti innocenti nel territorio di Betlemme.

    Il ruolo dei Magi nel Vangelo è tutto qui. Giungono da Oriente, trovano il Bambino grazie alla stella, e quando finalmente ne vedono la luce dentro la «casa» di Betlemme, si prostrano per sottomettersi alla sua potenza. Poi gli porgono i doni: oro, incenso e mirra, a significare la regalità del neonato.

    Eppure le poche righe di Matteo hanno alimentato una quantità straordinaria di testi e una riflessione teologica che, dai padri della Chiesa, arriva fino ai giorni nostri. Il mistero dei Magi è estremamente difficile da svelare. Chi erano? Sovrani d’Oriente? Astrologi e filosofi? Esperti di arti magiche? Sacerdoti pagani? Zoroastriani? La loro presenza, in ogni caso, è decisamente legata ai segni che arrivano dal cielo. Secondo la tradizione siriaca essi erano 12, come le costellazioni che coronano il Cristo Sole. A fissarne in tre il numero fu probabilmente Origene, e col passare del tempo vari commentatori ne definirono i nomi e i caratteri. Per lo più, oggi nel presepe posizioniamo Gasparre, Melchiorre e Baldassarre, arrivati alla presenza della Sacra Famiglia il 6 gennaio, 13 giorni dopo la nascita di Gesù.

    Ma non ci interessa, qui, addentrarci nell’evoluzione storica dei Magi. Per questo rimandiamo a un bellissimo libro di Franco Cardini uscito nel 2019 (I Re Magi, Marsilio). Quel che ci importa è capire che cosa possano dirci, oggi, tali figure. E per questo conviene far riferimento a Benedetto XVI, che dei Magi scrisse più volte e in tempi diversi, arrivando a proporli come patroni d’Europa.

    Ne L’infanzia di Gesù, Ratzinger spiega che «gli uomini di cui parla Matteo non erano soltanto astronomi. Erano sapienti; rappresentavano la dinamica dell’andare al di là di sé, intrinseca alle religioni – una dinamica che è ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche filosofia nel senso originario della parola. Così la sapienza risana anche il messaggio della scienza: la razionalità di questo messaggio non si fermava al solo sapere, ma cercava la comprensione del tutto, portando così la ragione alle sue possibilità più elevate».

    Ecco, questo è il punto. I Magi erano sapienti, studiosi. Ma non si sono fermati ai libri, non si sono fatti bloccare dalla rigidità delle loro teorie o dei loro esami degli astri. Di fronte a un Bambino dentro una grotta si sono inchinati, senza restare prigionieri delle loro certezze. Nel testo evangelico viene marcata una profonda differenza tra questi sapienti orientali e la casta intellettuale del regno di Erode. In Matteo, i «capi dei sacerdoti e gli scribi» si riuniscono, considerano le affermazioni dei Magi ma poi restano fermi. Non si avviano verso il Bambino: la loro sapienza resta sulla carta, non porta a un risultato concreto.

    La storia dei sapienti orientali, dunque, oggi ci parla del rapporto fra la fede e la scienza ma anche, più in generale, di quello tra la scienza e lo spirito: la Scienza (con la maiuscola) e la profondità della vita.

    In questi mesi di emergenza sanitari siamo stati abituati alla contrapposizione tra la parola «scientifica» e tutte le altre esigenze umane. Abbiamo avuto l’ennesima prova del fatto che la nostra saggezza è limitata alla conoscenza dei testi, alla freddezza del numero. Gli antichi avevano una concezione completamente diversa della sapienza, come ha dimostrato il filosofo Pierre Hadot. Parlando dei filosofi greci (che si interessavano a tutti gli aspetti della natura, e pure alla medicina), il discorso filosofico era un modo di vivere.

    «La scelta di vita del filosofo ne determina il discorso», scrive Hadot. Le concezioni del mondo dei vari sapienti non erano costruzioni «sistematiche e astratte». Esse prevedevano una «conversione di tutto l’essere; insomma un certo desiderio di essere e di vivere in un certo modo». La sapienza era un’opzione esistenziale e, in qualche maniera, un «esercizio spirituale».

    Oggi, invece, la scienza è del tutto separata dallo spirito. È specialistica, troppo spesso chiusa nel suo recinto. Dall’alto del suo trono guarda tutti con sufficienza.

    Il grande genetista Giuseppe Sermonti spiegava che la modernità ha prodotto una «scienza senz’anima», che per rendersi veramente utile dovrebbe imparare a occuparsi «di un discorso in cui collocare le sue conoscenze, in altre parole del loro significato».

    Questa è la lezione dei Magi per il nostro tempo. Essi non sono «competenti» o «esperti», ma uomini di cultura che ricercano la sapienza vera e non si fermano all’accumulo di dati. Cercano la risposta alle domande essenziali, e non trascurano lo spirito. Anzi, arrivano al punto di mettere al servizio dello spirito le loro elevate conoscenze allo scopo di trovare un significato, un senso.

    Oggi, invece, avviene il contrario. «La Scienza» cancella lo spirito, e assume essa stessa l’atteggiamento di una nuova religione. La completezza della vita passa così in secondo piano: l’uomo non è più l’unione di corpo e spirito, ma solo un corpo che, come una macchina, deve funzionare o essere rottamato. Lo scienziato, il presunto sapiente, detta legge. Non si sognerebbe mai di inchinarsi di fronte a un bambino in una grotta. I Magi insegnano però che il lume della ragione non può offuscare una luce più grande e potente. E la convinzioni che possa riuscirvi non è «scienza», ma solo una nuova forma di superstizione.

    Chiusure a casaccio. E il virus se ne frega

    (12 gennaio 2021)

    Prima o poi bisognerà scrivere un saggio di scienza politica dedicato al governo giallorosso e alle sue mirabili innovazioni. Pur inabili a tutto, gli attuali detentori del potere sono riusciti a inventare una nuova e inedita forma di oppressione: l’autoritarismo a puntate. Proibiscono, censurano e segregano, ma un poco alla volta. Come un carnefice che, invece di martoriarti con cento frustate in un giorno ti sfinisca con una staffilata al dì per cento giorni di fila. Piccolo esercizio di memoria. In estate, Giuseppe Conte ripeteva che l’Italia non avrebbe chiuso mai più. E infatti, nel giro di poche settimane, ha richiuso di nuovo benché appena più blandamente. «Colpa degli infami che sono andati in discoteca!», gridavano politici e giornalisti in coro. Discoteche e vacanze non c’entravano nulla, ma non contava: l’importante era scaricare la croce sulle spalle dei negazionisti veri e soprattutto presunti e dei famigerati «irresponsabili».

    In ottobre, assieme alla serrata, ecco la nuova promessa: «Se riusciremo a tenere sotto controllo la curva epidemiologica», disse Conte, «dopo novembre le restrizioni potrebbero essere allentate. A dicembre potremmo tornare a respirare». E aggiunse: meglio limitare le libertà subito per poi godersi in pace il Natale. Giunto novembre, però, di riaperture nemmeno l’ombra. Vennero introdotte le zone colorate, con la promessa che – grazie al nuovo metodo scientifico – non ci sarebbe stata discrezionalità: avrebbero chiuso solo le regioni in chiara violazione dei parametri cristallini. Per l’ennesima volta gli italiani hanno tirato il freno e ingoiato il rospo, sono tornati a sedersi in salotto attendendo di poter uscire un po’ per le feste.

    Come è andata a finire? Ovvio: di apertura per le feste manco a parlarne. Giusto qualche giorno prima di Natale si è potuto godere di un pizzico di libertà di movimento in più, onde svuotarsi il portafogli con lo shopping. Una boccata d’aria costata cara, perché non appena i cittadini hanno messo piede fuori di casa son partite le rampogne: «La gente esce, che schifo! Imbecilli, vogliono fare come con le discoteche in estate!». Esatto: Conte ha invitato gli italiani a fare spese, e non appena questi hanno obbedito, sono stati trattati da untori. Risultato: Natale barricato, Capodanno fantozzianamente anticipato, coprifuoco e zone rosse a tappeto. E qui viene davvero il bello. Perché dopo tutto questo, tornano a dirci che la situazione non è migliorata. Affermano che bisogna richiudere e occorre preparasi a settimane di sacrifici. Peggio: poiché il quadro è drammatico, il governo ha deciso di modificare il meccanismo dei colori. Se non fosse atroce, ci sarebbe da ridere. Prima hanno imposto il semaforo sostenendo che avrebbe posto fine a ogni polemica, basando ogni restrizione sui numeri e non sulle valutazioni politiche: regole trasparenti, insomma. Poi ci hanno assicurato che questo sistema funzionava perfettamente e stava portando risultati, dunque andava mantenuto. Ma oggi, guarda un po’, ci spiegano che bisogna cambiare le regole. Come fanno i bambini capricciosi: non riesco a vincere giocando con gli amici? Allora modifico il regolamento. Il punto è che le allucinanti restrizioni imposte finora non hanno prodotto alcun effetto positivo. I contagi restano, i morti pure (con qualche variazione) e non c’è rosso o arancione che tenga: il semaforo è un fallimento. Anche perché ogni volta che il quadro pare migliorare i parametri vengono modificati e si torna punto e a capo: il supplizio di Tantalo in versione sanitaria.

    Gli unici risultati che le zone producono sono negativi: ammazzano l’economia, distruggono il morale della popolazione, rovinano la vita a milioni di persone, colpiscono i ragazzi che non riescono a tornare a scuola. Creano il caos e gettano tutti nella confusione più totale. Ci si sveglia la mattina e prima di capire in che diamine di colore ci si trovi e che cavolo si possa o non si possa fare bisogna consultare gli oracoli. A tutto ciò si aggiunge l’odiosa sensazione di essere presi per i fondelli. Persino Agostino Miozzo, capo del Cts, dice che non resta che rassegnarsi a convivere con il virus. Eppure il governo insiste a imporre chiusure inutili e arbitrarie. Su quali studi si basano? Su quali modelli e quali piani testati a livello internazionale? Nessuno sa dirlo. In compenso, Giuseppe e soci sono bravissimi a trovare colpevoli. È facile: nel mirino ci sono sempre gli italiani irresponsabili e riottosi. Ieri il Corriere della Sera dedicava il titolone di prima pagina alla «movida». A quanto pare serve una «linea dura» contro i criminali che si ostinano a far bisboccia in giro. Basta qualche foto scattata a Lucca e mezzo video registrato a Catania per far ripartire la caccia alle streghe. Davvero questi pensano che siamo tutti scemi. Abbiamo vissuto il Natale e il Capodanno blindati; non ci si può manco sedere al bar per un caffè; nel tardo pomeriggio cala la mannaia e ci vengono a parlare di movida? Dopo tutte le castronerie che hanno collezionato vengono a dirci che il problema sono i ristoratori che tentano di sopravvivere facendo asporto dopo le 18? Qui viene il sospetto che l’unica movida la facciano a Roma, esagerando con il gin prima delle conferenze stampa. Se il premier e i suoi bevessero, per lo meno avrebbero una scusa. Il guaio è che purtroppo l’alcol non c’entra. L’unico motivo per cui ci impediscono di tornare alla vita è che, se smettessero di tenerci prigionieri, i giallorossi non potrebbero più restare al loro posto. Se l’Italia è in emergenza non si può certo tornare a votare. Se la colpa di tutto è degli italiani che folleggiano, di sicuro non si può cambiare il timoniere.Ecco la realtà: si manda a processo Salvini per aver tenuto qualche centinaio di persone ferme su una nave vicino alla costa e il governo sequestra una nazione pur di salvarsi le chiappe. Non siamo noi a dover stare reclusi: sono loro che vanno internati.

    Combattono le fake news più del virus

    (13 gennaio 2021)

    Tutti i documenti che si occupano di contrasto alle pandemie prodotti negli ultimi anni dalle istituzioni internazionali (Oms e Ue) dedicano grande spazio all’informazione. Spiegano, ad esempio, che i governi, in caso di emergenza, devono garantire massima trasparenza, parlare con le «comunità locali», spiegare per filo e per segno tutte le misure che vengono prese, senza calarle dall’alto come invece è stato fatto in Italia in questi mesi. Si deve, insomma, preparare un piano di comunicazione, individuare dei portavoce con responsabilità precise e rendere conto alla popolazione di come si agisce.

    Dalle nostre parti, evidentemente, nulla di tutto questo è stato fatto finora. Adesso, però, il ministero della Salute ha finalmente approntato una nuova bozza di piano pandemico che recepisce vari documenti internazionali, alcuni dei quali trattano anche il tema dell’informazione. Verrebbe da pensare che, nel nuovo documento, sia stato tenuto adeguatamente conto della questione comunicativa. Solo che, scorrendo il testo, ci si accorge che le indicazioni dell’Oms sono state recepite in un modo un po’ particolare.

    A pagina 81, per esempio, si esamina il comportamento da tenere nella «fase di allerta» della pandemia e si spiega che bisogna «costruire un rapporto di fiducia attraverso interventi comunicativi trasparenti e tempestivi, espliciti rispetto a quanto è noto e quanto incerto, e di facile comprensibilità per tutta la popolazione». Basta leggere queste righe per rendersi conto che, se regole simili fossero state applicate all’inizio dell’emergenza Covid, forse gli italiani non sarebbero stati abbandonati al caos. Ma il punto nodale è che queste belle parole sulla trasparenza non solo sono state disattese da febbraio 2020 a oggi, ma vengono disattese anche all’interno del nuovo piano. A pagina 80 del documento, infatti, troviamo una indicazione inquietante riguardo la «comunicazione del rischio». C’è scritto, infatti, che bisogna «monitorare e contenere la divulgazione di disinformazione, fake news, e fughe di notizie che possono portare alla diffusione di comportamenti scorretti, nonché all’emergenza di atteggiamenti e comportamenti discriminatori e di stigma sociale». Ah, le onnipresenti fake news, che bello ritrovarle. Solo una domanda: chi decide che cosa siano la disinformazione e le fake news?

    L’attuale maggioranza di governo ha trattato come pericolosi negazionisti tutti coloro che, nei mesi passati, hanno osato avanzare critiche (anche molto sensate) o chiedere lumi su scelte apparentemente assurde. Dev’essere gente così a stabilire che cosa si può dire e che cosa no durante un’epidemia? Esempio concreto. Mettiamo che uno, lo scorso marzo, avesse detto: «Le mascherine servono a tutti, non solo ai medici, ma il governo dice il contrario solo perché le mascherine non le ha e non sa dove trovarle». Un’affermazione del genere, benché polemica, sarebbe stata vera. Però la versione ufficiale dell’esecutivo era diversa. Bene, in un caso simile, come avrebbe agito un comitato anti fake news? Avrebbe censurato chi diceva il vero? Il dubbio rimane.

    L’incertezza aumenta a dismisura se ci si concentra sul passaggio del nuovo piano in cui si dice che bisogna combattere «l’emergenza di atteggiamenti e comportamenti discriminatori e di stigma sociale». Quali sono questi comportamenti discriminatori e come li si osteggia? La risposta la troviamo a pagina 82 del testo, dove si legge che, in caso di pandemia, bisogna «attivare un monitorare (sic) dei casi di divulgazione di notizie false, confondenti, non verificate e fake news e garantire immediata risposta per prevenire la creazione di stereotipi sulle persone malate, i loro familiari, o su razze e gruppi sociali particolari che possono portare ad adottare comportamenti discriminatori e di stigma sociale».

    Chiaro? Bisogna impedire la discriminazione di «razze e gruppi sociali». Tradotto, vuol dire che se un giornalista scrive che i migranti nei centri di accoglienza prendono il virus, bisogna zittirlo, perché – anche se afferma il vero – sta creando uno «stigma sociale». Pensate che stiamo esagerando? Vi basti sapere che lo stesso concetto è stato ribadito di recente dall’associazione Carta di Roma, nelle dichiarazioni dell’Unar (l’ente anti razzismo della presidenza del Consiglio) e in vari altri documenti.

    Ci dicevano che «il vero virus era il razzismo», ora ci consegnano un piano che si preoccupa di non «discriminare» le minoranze. A quanto pare, pensano che le malattie si curino con la censura.

    Bugie ammesse, discriminazioni no

    (24 gennaio 2021)

    Da un paio di settimane, il ministero della Salute ha preso a diffondere le bozze di un documento intitolato Piano strategico–operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) 2021–2023. L’operazione è ben oltre i limiti del ridicolo: trattasi, infatti, del famigerato piano pandemico che l’Italia avrebbe dovuto aggiornare (al più tardi) nel 2013. Che al ministero si siano messi a lavorarci ora, quando ormai il disastro ci ha investiti in piano, è semplicemente offensivo. In ogni caso, le bozze del nuovo piano hanno da subito suscitato perplessità. In particolare il paragrafo in cui si prospettava una sorta di eutanasia ai danni dei pazienti più fragili in caso di «scarsità di risorse». Dopo le polemiche sul tema, il ministero è corso ai ripari: ha corretto il tiro, ha elaborato una ulteriore bozza di piano, e l’ha inviata per approvazione alla conferenza Stato–Regioni. Il nuovo testo è privo dei passaggi sulla selezione dei malati, però contiene altri paragrafi che lasciano basiti. Ci riferiamo alla parte del piano relativa alla gestione della comunicazione istituzionale in caso di epidemia. Intendiamoci: tutti i modelli di piani pandemici prevedono sezioni dedicate all’informazione. È ovvio, del resto, che in caso di emergenza sia fondamentale una adeguata gestione delle comunicazioni. Le linee guida dell’Oms, ad esempio, insistono sul fatto che i governi dovrebbero relazionarsi ai cittadini con la massima trasparenza. E infatti nella nuova bozza uscita dal ministero si parla di «coinvolgimento delle comunità nei casi di allerta e minacce per la salute pubblica».

    Purtroppo, però, il piano ministeriale contiene anche un altro capitoletto, nel quale si spiega che in caso di emergenza si deve «attivare un monitoraggio dei casi di divulgazione di notizie false, confondenti, non verificate e fake news e garantire immediata risposta per prevenire la creazione di stereotipi sulle persone malate, i loro familiari, o su razze e gruppi sociali particolari che possono portare ad adottare comportamenti discriminatori e di stigma sociale».

    Leggendo queste frasi viene da rabbrividire. Finora, chiunque abbia osato avanzare critiche o porre domande sgradite è stato trattato dal governo, dalla maggioranza e dai media compiacenti come un pericoloso sovversivo, un negazionista. Se ci fosse una struttura governativa con il compito di fare la guerra alle fake news, come pensate che agirebbe? Con tutta probabilità si trasformerebbe in una specie di Ministero della Verità con la censura come primo obiettivo.

    La parte sulla «prevenzione» della «creazione di stereotipi» riguardanti «razze e gruppi sociali particolari» è ancora più sconvolgente. Sapete che cosa vuol dire in concreto? Che se qualcuno dovesse, ad esempio, scrivere che i centri di accoglienza per migranti possono trasformarsi in focolai, potrebbe essere censurato, con la scusa di evitare discriminazioni e «stereotipi».

    Il bello (si fa per dire) è che a parlare di fake news è un ministero che, finora, ci ha mentito su tutto. Roberto Speranza e i suoi collaboratori hanno detto bugie sul piano pandemico non aggiornato. Hanno rifiutato (di nuovo mentendo) di fornire i verbali degli incontri della mitica task force ministeriale. Hanno spacciato menzogne – come sostiene il Tar del Lazio – riguardo al «piano segreto» utilizzato nei primi giorni di epidemia. Hanno confuso le acque relativamente al report sull’Italia censurato dall’Oms. Ci hanno rifilato falsità pure sulle mascherine, sui vaccini e sulle siringhe con cui somministrarli. E dovrebbe essere gente del genere a giudicare quali siano le «fake news» da eliminare? Per carità.

    Abbiamo un ministro che continua a mentire su tutti gli aspetti più scottanti della gestione di questa emergenza. E quando non mente, si nasconde dietro il silenzio. In compenso, il suo ministero si preoccupa di «prevenire» le «discriminazioni» ai danni delle minoranze. Ecco come funziona: sui migranti è vietato persino dire la verità (qualora sia politicamente scorretta). Ai cittadini italiani, invece, si possono rifilare fregnacce a non finire.

    Non solo non ci proteggono come dovrebbero: ci pigliano pure per i fondelli.

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    La peste a Londra del 1664, incisione, XIX° secolo

    Siamo a Kafka: vietato ciò che è permesso

    (2 febbraio 2021)

    Non è più una distopia sanitaria, ma qualcosa di molto peggio: un insieme di distopie che si sovrappongono e si fondono, rafforzandosi l’un l’altra. C’è un po’ di George Orwell, un pizzico di Philip K. Dick, una manciata di Aldous Huxley, e un tocco di Franz Kafka che non guasta mai. Il sistema delle zone colorate sembra ideato da quest’ultimo. È un incubo burocratico che si presenta ammantato di inflessibilità, ma si rivela poi estremamente duttile nell’applicazione, nel senso che il perimetro dei divieti muta costantemente. Il governo inizia dicendo che il semaforo sarà categorico, pura scienza: il destino delle regioni dipenderà dai numeri. Solo che

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