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La peste di Firenze
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E-book690 pagine9 ore

La peste di Firenze

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Info su questo ebook

Come la città sopravvisse alla terribile epidemia del 1630-1631

La peste è da sempre il paradigma con cui vengono messe a confronto le risposte alle epidemie. In questo affascinante saggio, John Henderson esamina come una grande città fu capace di combattere, reagire e infine sopravvivere all’impatto di una delle peggiori pestilenze di sempre, quella della peste bubbonica del 1630. Oltre a ricostruire il differente impatto sui ricchi e sui poveri, questo libro fornisce un resoconto delle politiche attuate dal governo cittadino, raccontando anche le contromisure adottate dai singoli e dalle famiglie, le condizioni di sovraffollamento degli ospedali e le imponenti processioni religiose. Henderson analizza la reazione di Firenze all’interno del più ampio contesto europeo, per mostrare l’effetto delle decisioni politiche sulla città, sulle sue strade e sui suoi abitanti. Con uno stile vivido e accessibile, questo libro porta alla luce le storie dimenticate di medici e amministratori che lottarono per far fronte ai malati e ai moribondi, e di coloro che sono stati gettati nel lutto e nella confusione dall’improvvisa perdita dei parenti.

L’appassionante resoconto di uno dei più difficili periodi della storia fiorentina

«Henderson raggiunge nuove e importanti conclusioni sull’efficacia e l’impatto delle misure di salute pubblica nella Firenze del Seicento.»

«In questo vivido resoconto, Henderson rievoca le tremende esperienze dei fiorentini che affrontarono una delle prime crisi sanitarie moderne.»

«Appoggiandosi a una straordinaria quantità di fonti, Henderson mostra come i cittadini, desiderosi di salvare le loro anime tanto quanto le loro vite, lottarono per sopravvivere, ognuno a modo suo.»
È professore di storia del Rinascimento italiano all’università di Birkbeck, a Londra, nonché borsista emerito del Wolfson College di Cambridge.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2021
ISBN9788822757975
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    Anteprima del libro

    La peste di Firenze - John Henderson

    ABBREVIAZIONI, VALUTE, PESI E UNITÀ DI MISURA

    Abbreviazioni

    AAF

    Archivio Arcivescovile di Firenze

    ASFI

    Archivio di Stato di Firenze

    AVamfi Archivio della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze

    BMLF

    Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze

    BNCF

    Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

    DP

    Decreti e Partiti

    Sanità Ufficiali di Sanità

    Valute in circolazione a Firenze

    1 scudo d’oro = 1 fiorino = 7 lire

    1 lira = 20 soldi

    1 soldo = 12 denari

    1 crazia = 1 soldo e 8 denari

    Peso

    1 libbra = circa 1/3 di chilogrammo

    1 oncia = circa 1/12 di libbra

    Capacità

    1 staio di grano = 18-20 chilogrammi

    1 sacco = 3 staia

    1 moggio = 24 staia oppure 585 litri

    1 barile = 20 fiaschi (per olio o vino)

    Lunghezza

    1 canna = 2,92 metri

    1 braccio = 0,583 metri

    Fonte: F. Diaz, Il Granducato di Toscana. I Medici, Torino 1987, p.

    IX

    .

    Salari nel 1630-31

    Bracciante non qualificato: 25 soldi al giorno

    Bracciante qualificato (capomastro): 40 soldi al giorno

    Si veda : celle L354, K354, ultima consultazione 30 agosto 2018.

    CAPITOLO 1

    LA PESTE E LA SANITÀ PUBBLICA IN ITALIA E IN EUROPA

    Giudicando che se le fortezze sono fabricate, per guardare, e da nimici assicurare gli stati, non fosse disdicevole di servirsene contro la maggior nimico, che abbia il genere umano, e quivi quasi in forte prigione racchiuderlo, per affrancar la città dal crudele scempio di morte. ¹

    Spesso cronisti e storici sono ricorsi all’analogia tra peste e guerra, nel loro dibattito sulla lotta all’epidemia, come in questo passaggio del Panegirico scritto da Mario Guiducci per il giovane granduca di Toscana, Ferdinando

    II

    . Guiducci lo elogia per il ruolo centrale svolto nella battaglia contro la peste a Firenze, nel 1630-31, e in particolare per aver designato la fortezza di San Miniato come ospedale di isolamento, o lazzaretto. Più in generale, nel suo discorso sulle cause dell’epidemia, il cancelliere di sanità fiorentino Fulvio Giubetti affermava che si trattava di un «flagello o guerra d’Iddio», a riflettere la lunga tradizione che identificava le pestilenze come un castigo divino per i peccati dell’umanità ².

    Spesso si evidenziava anche un legame concreto tra conflitti e pestilenze, poiché gli eserciti, attraversando nazioni e continenti, portavano con sé malattie endemiche ed epidemiche. È quanto accadde nel caso dell’epidemia al centro di questo volume, che afflisse tutta l’Europa, da nord a sud, tra il 1613 e il 1666. Il diffondersi della malattia era stato agevolato dallo spostamento delle truppe durante la guerra dei trent’anni; la peste raggiunse il Nord dell’Italia nel 1629, portata dagli eserciti invasori tedeschi e francesi, durante la lotta per la successione al Ducato di Mantova e Monferrato ³. Il dottor Alessandro Tadino, medico milanese e membro del Magistrato di Sanità di Milano, attribuì l’intera responsabilità del diffondersi dell’epidemia ai mercenari tedeschi, che erano giunti in circa 25.000 e, secondo Tadino, mostravano ben poco rispetto per le norme igieniche, dal momento che si spostavano senza alcun lasciapassare sanitario ⁴.

    La peste e la reputazione dell’Italia in Europa

    Le pestilenze, e più in generale le campagne organizzate dai governi per affrontare le emergenze provocate dal diffondersi di un’epidemia, rimangono un’importante area di ricerca storica, ancora attuale. Poiché ogni epoca si trova a dover affrontare le difficoltà di una nuova epidemia, dalla febbre gialla al colera alla tubercolosi, dall’

    AIDS

    alla

    SARS

    , dall’influenza aviaria all’Ebola e al Covid, la peste si conferma un paradigma in base al quale giudicare le risposte a tutte le altre. Viene spesso considerata al pari di un modello per la sanità pubblica, e alcune delle principali strategie elaborate nel Rinascimento e all’inizio dell’età moderna vengono presentate come un esempio da seguire in tempi più recenti. Un ruolo centrale, in questo processo, è stato riconosciuto all’Italia, che ha sviluppato le prime misure efficaci contro la malattia: come al Rinascimento veniva attribuito il merito di aver gradualmente civilizzato i paesi a nord delle Alpi, altrettanto esemplare veniva considerata la risposta amministrativa italiana all’epidemia ⁵.

    Questo volume riesaminerà questi resoconti ottimistici, e in alcuni casi positivistici, con l’obiettivo di determinare l’effetto di queste strategie sanitarie pubbliche sulla vita degli abitanti del luogo. Nel frattempo si cercherà di adottare un approccio più sfumato all’esperienza dell’epidemia, anziché limitarsi a contrapporre ricchi e poveri. Verranno analizzati da un lato motivazioni e atteggiamenti di coloro che erano al governo; dall’altro, le diversificate reazioni e attività dei ceti sociali più bassi, a sottolineare come questi ultimi furono tutt’altro che attori passivi, rassegnati ad accettare leggi e decreti imposti dall’alto.

    Questo libro verte principalmente sulla peste a Firenze, un argomento reso famoso dalla dettagliata descrizione che Giovanni Boccaccio, nella sua introduzione al Decameron, fornì dell’impatto della peste nera trecentesca sulla città:

    Ed in quella [pestilenza] non valendo alcun senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la cittá da uficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della sanitá […] quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in miracolosa maniera, a dimostrare.

    Questo resoconto è entrato a far parte della memoria collettiva della pestilenza tardomedievale e, nonostante la natura letteraria, riflette alcune delle misure sia pratiche sia spirituali adottate a Firenze, evolutesi nel corso dei trecento anni che seguirono nelle politiche di sanità pubblica poi implementate nella città toscana. L’introduzione al Decameron ha acquisito uno status iconico paragonabile a quello dei più tardi e più lunghi resoconti delle successive epidemie di peste che colpirono Milano (1630) e Londra (1665), scritti rispettivamente da Alessandro Manzoni nel 1827 e da Daniel Defoe nel 1722 ⁷. Il presente studio si concentrerà sull’Italia del

    XVII

    secolo, colpita da due importanti pestilenze (1629-33 e 1656-57) che vengono descritte come le più gravi dall’epoca successiva alla peste nera ⁸.

    Come le opere di Manzoni e Defoe, anche questo volume esaminerà nel dettaglio l’impatto della peste su una singola città in un determinato anno, in questo caso Firenze nel 1630-31, con un breve accenno al suo ritorno nel 1632-33. Pur senza aggiungere le infiorettature romanzesche di Defoe e Manzoni, i dettagli forniti dai racconti dell’epoca, ad esempio dai cronisti, dalla corrispondenza quotidiana degli ufficiali e dai registri di corte, consentono di redigere un esame e un’analisi vividi e, di tanto in tanto, strazianti di quella che doveva essere la vita nel bel mezzo di una grande epidemia. L’obiettivo, pertanto, è di offrire un resoconto realmente interdisciplinare dell’impatto che quella epidemia produsse e delle reazioni che essa suscitò a livello demografico, medico, sociale, religioso e artistico. Ciò consentirà di combinare diversi approcci, capacità di norma riservata alle raccolte di saggi di diversi autori, in modo tale da offrire una descrizione a tutto tondo ⁹.

    La reputazione delle misure di sanità pubblica adottate in Italia nel

    XVI

    e

    XVII

    secolo si riflette nei commenti degli inglesi dell’epoca. I membri del Privy Council (Consiglio) di sua maestà spesso guardavano all’Italia come fonte d’ispirazione, quando si venivano a trovare sotto la minaccia o coinvolti in un’epidemia, e le loro parole offrono un’utile introduzione alle principali strategie sviluppate dalle magistrature sanitarie italiane intorno alla metà del

    XVI

    secolo. Nel 1563 William Cecil, Lord Burleigh, consultò Cesare Adelmare, medico di origine italiana della regina, autore di un rapporto intitolato Come si crede che la Città di Londra potria provedere alla peste e a molte sorte di calamità, che affligono la sua povertà ¹⁰. Nel documento, Adelmare evidenziava anche i punti deboli del sistema sanitario londinese, che vennero ripetuti nell’Advice inviato dal Royal College of Physicians di Londra al Privy Council all’inizio del 1630, in cui si raccomandava di agire «secondo gli usi italiani», a suggerire che, nel frattempo, ben poco era cambiato ¹¹.

    I provvedimenti di cui Adelmare e, successivamente, il collegio sottolineavano l’utilità erano i pilastri delle strategie adottate in seguito dagli Stati italiani nella seconda metà del

    XV

    secolo. Adelmare iniziava consigliando di creare una magistratura suprema con l’obiettivo «si opponessi co’ ogni diligentia a progressi della peste». In Italia, queste magistrature sanitarie coordinavano il controllo generale delle misure contro la peste entro i confini cittadini e nazionali, assicurandosi che il complesso sistema di identificazione delle vittime, la loro messa in quarantena o sepoltura e l’isolamento di coloro che erano entrati in contatto con i malati venissero fatti rispettare ¹². Il Collegio dei Medici di Londra sottolineò inoltre, nel 1631, l’importanza di imporre un’autorizzazione sanitaria per le merci in arrivo dai luoghi colpiti dal contagio. In Italia, come anche in altre aree dell’Europa, erano stati istituiti dei cordoni sanitari; erano state chiuse le frontiere al confine con gli Stati colpiti dalla peste, ed erano stati interrotti gli scambi commerciali con il resto della penisola. Adelmare raccomandava poi la costruzione di un lazzaretto in quanto, per usare le sue parole, «e perché buoni ordini ne vi potranno mai essere messi senza havere luogo dove mandare gli infetti». L’idea venne ripresa nel 1631, quando il medico del re, Theodore de Mayerne, suggerì di allestire un ampio lazzaretto battezzato Charles Godhouse ¹³. Infine, si sarebbero dovuti creare speciali cimiteri per gli appestati, fuori dalle mura cittadine.

    Si trattava di un sistema integrato e sofisticato, fondato sulla solidità delle città-stato italiane, da sempre tra le più grandi e influenti potenze dell’Europa rinascimentale. Tuttavia, nonostante l’ammirazione degli inglesi nei confronti del sistema italiano, né lazzaretti di grandi dimensioni né uffici di magistratura sanitaria vennero mai implementati in Inghilterra nell’ambito delle strategie metropolitane o urbane messe in campo contro la peste ¹⁴.

    Strutture amministrative e sanitarie simili non rimasero però una prerogativa esclusivamente italiana: in seguito comparvero anche in alcuni Paesi nordeuropei. Le misure di isolamento e quarantena entrarono a far parte della gamma di provvedimenti sanitari applicati nel

    XVII

    e

    XVIII

    secolo. Nel 1631, ad esempio, il parlamento di Parigi ordinò che ogni località entro i confini nazionali istituisse una magistratura sanitaria ¹⁵, mentre, com’è noto, Enrico

    VI

    fondò il proprio lazzaretto, l’Hôpital Saint Louis. Questa struttura venne costruita nel 1607, finanziata con i fondi reali, e occupava una superficie di quasi undici ettari fuori dalle mura della città. Il suo esempio potrebbe aver ispirato Theodore de Mayerne a suggerire al Privy Council di sua maestà di erigere il Charles Godhouse ¹⁶. Inoltre, l’uso e l’abuso della quarantena divenne un elemento significativo delle strategie di governo nell’Europa della prima età moderna, alimentando accuse secondo cui tale provvedimento veniva utilizzato come uno strumento per bloccare gli scambi commerciali con le nazioni rivali ¹⁷.

    Anche se la peste non tornò più a flagellare né la penisola italiana né l’Inghilterra dopo la metà del

    XVII

    secolo, la sua ricomparsa a Marsiglia nel 1721 e a Messina nel 1743 mantenne vivo l’interesse della popolazione e del governo per l’argomento, specialmente quando si richiedeva l’adozione di misure di quarantena. Autorevole, a riguardo, è il Diario dell’anno della peste di Defoe. La sua pubblicazione nel 1721 riflette la paura che l’epidemia di peste scoppiata a Marsiglia potesse diffondersi in Inghilterra, spingendo il governo britannico a prendere decisioni tutt’altro che popolari, come bloccare gli scambi commerciali con Paesi potenzialmente infetti e sottoporre a quarantena forzata le navi in arrivo dalla Francia meridionale.

    La peste continuò a incombere sinistramente ancora più a lungo sull’Italia, come dimostra il focolaio a Messina, non derivato però da quello di Marsiglia ¹⁸. Forse ancor più efficace nel presentare all’opinione pubblica quella potenziale minaccia fu la straordinaria rievocazione della grave epidemia che si abbatté su Milano nel 1630 che Manzoni propone nei Promessi sposi. Descritto come il primo romanzo storico in lingua italiana, il suo successo è servito a mantenere il ricordo della peste vivo nell’immaginario collettivo, anche quando questa venne superata da colera e malaria nella classifica europea delle minacce alla sanità pubblica.

    Gli storici e la peste

    La peste continuò a rappresentare un argomento di conversazione nel

    XIX

    secolo, non solo in ambito medico ma, più in generale, nei nuovi congressi internazionali sulla salute pubblica. Il morbo entrò poi a far parte di più ampi dibattiti sulla natura delle malattie epidemiche, sul modo in cui esse si diffondono e, di conseguenza, sulle misure più appropriate da adottare per contrastarne la mortalità. Il legame che unisce il concetto di malattia e quello relativo alle misure di sanità pubblica contribuisce a spiegare il costante interesse per le caratteristiche della peste.

    Fu proprio questo interesse a infiammare, nel

    XIX

    secolo, l’acceso dibattito sul ruolo di contagi e miasmi nell’originare la malattia. Da questo contesto nacquero i primi studi sulle epidemie, sia in Italia sia in Inghilterra, quale ad esempio la serie di volumi redatti da Alfonso Corradi, Annali delle epidemie in Italia (1865-95), e l’opera di Charles Creighton, A History of Epidemics in Britain (1891) ¹⁹. L’effettiva contagiosità della peste era stata al centro del dibattito al Congresso degli scienziati che si tenne a Milano, nel 1844 ²⁰. Date queste premesse, non è un caso che una delle maggiori preoccupazioni di Alfonso Corradi (1833-92), tra i più importanti medici e storici della medicina dell’epoca, fosse sottolineare l’importanza del ruolo del contagio nello studio delle epidemie del passato ²¹. Fu precisamente durante il trentennio in cui vennero pubblicati gli Annali, la sua celebre raccolta di fonti, che fiorirono i dibattiti più accesi, in relazione alla natura e alle cause della pestilenza, tra i sostenitori della teoria del contagio e i seguaci della dottrina miasmatica ²². Dato il numero di passaggi contenenti la parola contagio negli scritti di Corradi, sarebbe lecito dedurre che i suoi Annali siano nati con l’intento di sostenere la teoria del contagio, secondo la quale le malattie venivano trasmesse da un individuo all’altro e non semplicemente dall’atmosfera ²³. Nella sua analisi delle misure antipeste nella prima età moderna, Corradi scrive che:

    Cotesta istituzione [la quarantena] è testimonio del credito in cui era salita la dottrina de’ contagi: infelice ne fu la prova non per erroneità del principio da cui essa partiva, bensì per le difficoltà gravissime di metterla in atto, per l’ignoranza delle varie condizioni che concorrono alla moltiplicazione del contagio, de’ modi co’ quali esso s’avventa, delle cose alle quali s’applica. ²⁴

    L’ultimo volume degli Annali di Corradi fu pubblicato postumo nel 1894. Un fatto che può apparire ironico se si pensa che, a partire da quell’anno e per altri due dopo la sua morte, gli studi sulla peste sarebbero stati scossi da una profonda rivoluzione, destinata a modificare radicalmente la comune concezione della peste bubbonica e la comprensione dei modi in cui essa veniva trasmessa. Fu proprio nel 1894, infatti, che il batteriologo francese Alexandre Yersin identificò a Hong Kong il batterio Yersinia Pestis ²⁵. Altrettanto ironico fu il destino dell’autore del primo studio approfondito sull’epidemia in Gran Bretagna. Anche Charles Creighton era un medico, descritto sul frontespizio del suo libro come ex Demonstrator of Anatomy presso l’Università di Cambridge ²⁶. Esiste in realtà una connessione geografica e cronologica tra questi due studiosi: Corradi aveva ricevuto un dottorato onorario da Cambridge nel 1891, lo stesso anno in cui rappresentò l’Italia al Congresso internazionale d’igiene a Londra ²⁷. Lo studio in due volumi di Creighton riguardava il periodo compreso tra il 664 d.C. e «l’estinzione della peste» ²⁸. La sua dettagliata analisi delle cause di quelle che egli chiamava pesti bubboniche, rimane tutt’oggi una fonte preziosa, sebbene la sua comprensione della natura e identità di quelle patologie fosse pesantemente influenzata dal pensiero a lui contemporaneo. A differenza di Corradi, Creighton era un convinto oppositore della teoria del contagio in qualsiasi contesto, che si trattasse di febbre gialla, morbillo o peste, e per tutta la vita rifiutò il concetto di batteriologia. Il linguaggio che utilizza nel suo volume è estremamente polemico: egli rigettava l’ipotesi che esistesse una singola causa a monte della peste, definendola come una «pura teoria accademica, priva di realismo o concretezza» ²⁹. Creighton suggeriva invece che la peste potesse consistere in un «avvelenamento del terreno», con una «particolare affinità ai prodotti della decomposizione dei cadaveri». Questo spiegherebbe, secondo l’autore britannico, perché la mortalità risultasse particolarmente elevata tra i membri del clero: costoro, infatti, vivevano nelle immediate vicinanze dei cimiteri, che egli presentava come i luoghi in cui più si concentrava la «decomposizione dei cadaveri» ³⁰.

    Sebbene la teoria di Creighton sia ormai stata screditata, Alfonso Corradi ha continuato a influire in maniera significativa sullo studio della peste in Italia. I suoi Annali rimangono tuttora una raccolta fondamentale di fonti riguardanti le epidemie italiane. Le note a piè di pagina di tutti gli storici che si sono occupati di questo argomento sono costellate di riferimenti a quell’imponente opera in otto volumi (ripubblicata nel 1974). Tuttavia, storici della medicina più recenti, quali ad esempio Mirko Grmek e Vivian Nutton, studiosi dell’Europa medievale e rinascimentale, tendono a tralasciare la contrapposizione tra i concetti di miasma e contagio e a evidenziare, invece, lo stretto legame tra le nozioni di contagio e infezione, o aria infetta ³¹.

    Lo scoppio della terza pandemia di peste nell’Estremo Oriente risvegliò significativamente l’interesse nei confronti della pestilenza. Partita dalla provincia cinese dello Yunnan nel 1890, quattro anni dopo la malattia aveva raggiunto la colonia britannica di Hong Kong, e nel 1896 la peste si era ormai diffusa a Mumbai, per poi espandersi verso il Medio Oriente e l’Europa ³². L’ultimo decennio dell’Ottocento si rivelò particolarmente cruciale, grazie all’identificazione, da parte di Yersin, del bacillo responsabile della peste bubbonica; lo scienziato la considerava fondamentalmente una patologia tipica dei ratti e di altri roditori, e persino del bufalo indiano. Le sue idee, tuttavia, non vennero accettate immediatamente: negli ultimi anni del secolo l’Impero angloindiano osteggiava ancora quel concetto, e preferiva le tradizionali teorie che riconducevano l’origine della malattia all’aria malsana e al terreno infetto. Lo stesso accadde in Europa. La Decima conferenza sanitaria internazionale, svoltasi a Venezia nel 1897, non vide particolari opposizioni alle pratiche sanitarie tradizionali, che si basavano sulla convinzione che la peste venisse trasmessa attraverso il contatto interpersonale e con gli oggetti appartenenti a persone infette ³³.

    Molte delle misure adottate dalle autorità britanniche sarebbero parse tutt’altro che estranee agli ufficiali sanitari italiani del

    XVI

    -

    XVII

    secolo: cordoni sanitari, quarantena, disinfezione e pulizia di abitazioni e proprietà, il trasferimento dei contagiati in ospedali di isolamento, e la sepoltura dei morti in apposite fosse fuori città ³⁴.

    Si dovette attendere la seconda metà del

    XX

    secolo per vedere davvero rinascere tra gli storici dell’Europa preindustriale l’interesse per la peste ³⁵. Uno degli autori più influenti, in questo ambito, fu il compianto Carlo Cipolla, la cui serie di brevi studi, i più noti dei quali si intitolano Cristofano e la peste e Public Health and the Medical Profession in the Renaissance, servì a sdoganare l’argomento in Italia e nel mondo anglofono ³⁶. Cipolla, uno dei principali storici economici della sua generazione, fece valere la propria ampiezza di vedute, intrecciando storia sociale, economica, demografica e medica. Ciononostante, il suo lavoro è stato di recente oggetto di polemiche, che si ricollegano ancora una volta al più ampio dibattito sull’identificazione della malattia nel passato storico. Carlo Cipolla, insieme ad altri colleghi dell’epoca, come Jean-Noel Biraben ³⁷, è stato criticato per aver adottato un approccio progressista nello studiare la peste, e per aver giudicato le reazioni suscitate dall’epidemia durante la prima età moderna attraverso la lente del batteriologo moderno ³⁸.

    La questione della diagnosi, o per meglio dire della diagnosi retrospettiva, rappresenta ancora oggi un tema predominante in questo ambito, e ha dato il via a un acceso dibattito, in particolare in relazione alla peste nera, iniziato con il libro dello zoologo Graham Twigg, The Black Death: A Biological Reappraisal (1984), in cui si attribuiva l’origine della peste nera all’antrace, e proseguito con lo studio svolto nel 2001 da Scott e Duncan, Biology of Plagues: Evidence from Historical Populations, che additava la peste bubbonica come la principale causa dell’elevata mortalità durante le pestilenze in Inghilterra agli albori dell’era moderna ³⁹. Un ruolo centrale in questo dibattito è stato svolto dagli innovativi studi di Samuel Cohn, a partire dal volume sulla peste nera, pubblicato nel 2002, in cui l’autore sostiene che i «sintomi e accidenti» dell’epidemia non coincidono con il modello classico della peste bubbonica, un argomento che Cohn ha continuato a esplorare in una serie di pubblicazioni successive ⁴⁰.

    Il dibattito in letteratura sull’identità della peste di epoca preindustriale rimane tutt’oggi acceso quanto lo era nel

    XIX

    secolo, nel quadro della terza pandemia. Numerosi esperti, come Ole Benedictow, non hanno modificato le proprie idee riguardo al ruolo svolto dalla peste bubbonica, e di fatto, negli ultimi tempi, si sta tornando al punto di partenza ⁴¹. Scienziati, antropologi e archeologi hanno analizzato gli scheletri sepolti nei cimiteri riservati alle vittime della peste nera in tutta Europa, da Bergen, in Norvegia, al Sud della Francia, fino a Hereford e East Smithfield a Londra, e hanno pubblicato gli esiti delle loro ricerche in una serie di articoli; uno dei più noti è comparso su «Nature» nell’ottobre del 2011, sebbene le indagini in questo campo siano proseguite a pieno regime anche in seguito. Gli studiosi hanno concluso, sulla base dell’analisi della polpa dentale, che gli scheletri morirono sicuramente di peste bubbonica. Quindi, hanno sequenziato il genoma e identificato il

    DNA

    e le firme proteiche dello Yersinia Pestis, e hanno scoperto l’esistenza di due ceppi ⁴². In tempi più recenti, il dibattito è stato ulteriormente approfondito da diversi storici medievali, tra cui spiccano Ann G. Carmichael, Monica Green e Lester K. Little, e l’argomento continua tuttora a generare confronti stimolanti ⁴³.

    A prescindere dal fronte con cui si decide di schierarsi, la maggior parte degli storici tende ormai a evitare di screditare la comprensione della peste (o di qualunque altra malattia del passato) da parte degli esperti dell’epoca, quando si tratta di spiegare le azioni e le reazioni rispetto alle epidemie mortali del passato. In Italia, l’evoluzione delle misure antipeste appare piuttosto chiara, a grandi linee, grazie al lavoro svolto da storici provenienti da varie località della penisola: Venezia, Milano, Genova, Firenze e altre città toscane, fino ad arrivare a Roma e Napoli ⁴⁴. Alessandro Pastore ha presentato una serie di preziosi studi comparativi che hanno inserito le risposte italiane alla peste in un più ampio contesto europeo, mentre Grazia Benvenuto ha redatto la prima panoramica generale della peste nell’Italia della prima era moderna ⁴⁵. Un punto di vista ancora più ampio, dal punto di vista sia geografico sia cronologico, è offerto dall’inestimabile raccolta di fonti originali sulla pestilenza stilata da Costanza e Marco Geddes da Filicaia ⁴⁶.

    Tali studi, che hanno tracciato la graduale evoluzione delle principali misure di contrasto alla peste delineate da Cesare Adelmare, hanno rilevato uno sviluppo tutt’altro che simultaneo a livello nazionale. Il primo lazzaretto individuato risale agli anni Settanta del Trecento e si trova a Dubrovnik, che in tempi non molto lontani faceva ancora parte dei possedimenti veneti sulla costa della Dalmazia ⁴⁷, mentre la stessa Repubblica di Venezia costruì il primo lazzaretto italiano nel 1423. Milano, sotto il governo dei Visconti e degli Sforza, creò un lazzaretto e una magistratura sanitaria in tempi successivi, nel

    XV

    secolo, esempio che la Firenze repubblicana seguì soltanto all’inizio del

    XVI

    secolo ⁴⁸. Al volgere del

    XVII

    secolo, tutte le caratteristiche principali del sistema erano ormai ben consolidate in molte delle più importanti città italiane, dalle regioni settentrionali a quelle centrali, fino a Napoli nel Meridione ⁴⁹. Questo modello venne adottato anche nei piccoli centri urbani di provincia, come dimostra Carlo Cipolla analizzando la situazione toscana nella sua serie di brevi ma coinvolgenti libri pubblicati tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta ⁵⁰. Questo volume è concepito come complementare al lavoro dello stesso Cipolla, poiché punta a esaminare la peste nella capitale del Granducato di Toscana, anziché nei piccoli centri urbani, in modo da descrivere l’applicazione delle misure sanitarie pubbliche su una scala più ampia, per una popolazione di gran lunga più numerosa ⁵¹.

    La storia dell’evoluzione delle misure antipeste solleva svariate domande. Innanzitutto, fino a che punto il quadro emerso da questi studi sull’Europa occidentale coincide o si distanzia da quello che caratterizzava altre aree nel medesimo periodo? In tempi recenti, gli studi sulle pestilenze medievali e della prima età moderna hanno cessato di concentrarsi sull’Europa dell’Ovest per estendersi alla Russia e al Mediterraneo orientale, ad esempio, fino a Dubrovnik, all’Impero bizantino, al Medio Oriente e all’Impero ottomano ⁵². In secondo luogo, sono pochi gli storici che si sono chiesti fino a che punto città italiane e nordeuropee, che seguirono tipologie di isolamento e misure di quarantena differenti, soffrirono in maniera diversa. Ad esempio, fu più efficace trasportare grandi gruppi di malati in ospedali di isolamento o lasciare che si rinchiudessero in casa propria?

    Ciò solleva anche la più ampia questione relativa all’evoluzione dei cordoni sanitari e al loro ruolo nell’impedire la diffusione della peste al di là dei confini nazionali. Si è spesso ipotizzato che siano stati efficaci, come nel caso dell’Italia seicentesca, in cui l’epidemia del 1629-33 fu perlopiù limitata al Nord e al Centro della penisola, mentre la pestilenza del 1656-57 risultò più o meno concentrata al Sud ⁵³. Di fatto, l’intera questione dei vantaggi e degli svantaggi della quarantena, a prescindere dal fatto che venisse imposta a interi Stati, città o singoli individui, fu vivacemente dibattuta, all’epoca: un dibattito che, come già detto, perdurò per tutto il

    XIX

    e per la prima parte del

    XX

    secolo. Il tema della quarantena spinge inoltre a chiedersi in che modo diverse società abbiano inteso il termine efficacia non solo in termini demografici, ma anche in relazione all’impatto sugli scambi commerciali, al vantaggio per il bene comune, e all’impatto sull’individuo ⁵⁴.

    Sono argomenti che, nel corso degli anni, sono stati sollevati da un’ampia varietà di storici sociali e demografici, i quali hanno pubblicato studi sull’impatto prodotto dalla peste in tutta Europa. Basti pensare al pionieristico studio svolto da Jean-Noël Biraben, Les hommes et la peste, del 1975, o all’analisi classica dell’Inghilterra della prima età moderna presentata da Paul Slack, che rimane tuttora un modello sulla base del quale esaminare gli effetti e le reazioni alla pestilenza nella società preindustriale; gli articoli di Roger Schofield, inoltre, rappresentano ancora oggi delle vere e proprie pietre miliari nell’ambito dello studio demografico della peste. In tempi più recenti, il campo di ricerca si è ulteriormente ampliato, giungendo a esaminare la topografia della pestilenza nella Londra della prima età moderna e, in particolare, la stretta connessione tra mortalità, povertà ed elevata densità abitativa ⁵⁵.

    Altrettanto ricco è il bagaglio di studi demografici italiani legati alla peste nella penisola; più recentemente è inoltre emerso un rinnovato interesse per le connessioni tra storia demografica e sanità pubblica. Guido Alfani ha iniziato ad analizzare le testimonianze italiane entro un più ampio contesto europeo, sottolineando ad esempio la mortalità superiore riscontrata a causa della peste in Italia nel

    XVII

    secolo rispetto ai Paesi a nord delle Alpi ⁵⁶. Per quanto riguarda Firenze, il volume online Florence Ducal Capital, 1530-1630 (2008) di Burr Litchfield offre una descrizione dettagliata della topografia sociale e occupazionale dell’intera città, con un’analisi dell’impatto della pestilenza sull’intera area urbana, e rappresenta il punto di partenza del mio studio sulla peste nei singoli quartieri, in particolare nella parrocchia di San Lorenzo ⁵⁷. In tempi più recenti, il progetto

    DECIMA

    , coordinato da Nicholas Terpstra, ha sviluppato ulteriormente l’argomento, esplorando metodologie e approcci innovativi che consentono non solo di analizzare le caratteristiche socioeconomiche della città, ma anche di fornire una nuova comprensione percettiva e dinamica del popolo fiorentino della prima era moderna ⁵⁸.

    Un ulteriore tratto distintivo identificato dagli storici dell’Europa della prima età moderna nell’evoluzione delle misure antipeste consiste nella sempre più frequente associazione tra malattia e povertà, come sottolinea chiaramente Brian Pullan nel suo celebre articolo pubblicato nel 1992 sull’Italia della prima età moderna ⁵⁹. Proprio su questo argomento verte l’importante testo pubblicato da Ann Carmichael, Plague and the Poor in Renaissance Florence (1986), in cui l’autrice illustra la crescente intolleranza nei confronti dei poveri e la connessione sempre più forte tra i tassi di mortalità elevati e le aree più povere della città, un argomento ripreso di recente da Samuel Cohn in relazione alle successive epidemie del

    XVI

    secolo ⁶⁰.

    La maggior parte degli storici concorda nel riscontrare una crescente ostilità nei confronti dei membri più poveri della società, in quanto sempre più spesso associati alla malattia. In Italia, tale fenomeno è stato spesso attribuito all’incremento demografico verificatosi nel Centro e nel Nord della penisola, in combinazione con periodi di carestia, ad esempio, negli anni Novanta del Quattrocento e negli anni Venti del secolo successivo. Il trend venne esacerbato dalla comparsa del morbo gallico, o lue, destinato a influenzare profondamente la percezione che la gente dell’epoca aveva del legame tra povertà e malattia ⁶¹. La differenza più evidente tra gli effetti della peste e della sifilide consisteva nel fatto che, mentre gli appestati morivano in breve tempo, i malati di sifilide soccombevano molto più lentamente. Questa morte dilatata impattava fortemente sulla percezione ufficiale dei poveri, che erano inevitabilmente portati dalla malattia a perdere la fonte di reddito, venendo ridotti a mendicanti destinati ad affollare le strade e a intimorire i cittadini con i loro tratti e le membra deturpati e il loro alito maleodorante, il quale veniva considerato causa di contagio e diffusione della malattia ⁶².

    Se queste idee sembrano riallacciarsi alle politiche di controllo sociale, recentemente ha iniziato a prendere piede un’analisi più sfumata delle reazioni suscitate dalla peste, la quale tende ad attenuare queste contrapposizioni. Questo nuovo approccio deriva almeno in parte dall’influenza esercitata da storici sociali e culturali che, nel corso degli ultimi due decenni, hanno iniziato a prendere in considerazione non solo i provvedimenti adottati dai governi, ma anche a ricostruire l’impatto delle epidemie sulla vita delle persone appartenenti al ceto più basso della scala sociale. Anziché individuare nei poveri la causa della peste o semplici vittime del sistema, si sta cominciando a vederli come attori con un ruolo più attivo. Sono state inoltre esaminate anche fonti di altro tipo, che consentono di superare l’analisi esclusiva dei registri lasciati dall’élite letterata delle classi dirigenti, dai medici e dalla Chiesa. Tra queste fonti figura il diario del conciatore Miquel Parets, pubblicato da James Amerlang e redatto durante la peste di Barcellona del 1651. Il diario è una fonte insolita, dal momento che si discosta dall’acriticità standard dei tanti resoconti ufficiali sulla peste provenienti dall’Europa della prima età moderna. Amerlang sottolinea come la prevalenza dell’interesse privato sul bene pubblico non si limitasse tendenzialmente alle classi più povere, ma caratterizzasse anche il comportamento dell’élite ⁶³.

    I resoconti sulla peste tendono, per loro natura, a essere socialmente selettivi, ma una documentazione più nutrita, in grado di fare luce sulle reazioni di un ambiente sociale più ampio, sono i registri giudiziari. Un attento esame dei fascicoli processuali italiani risalenti alle epidemie del

    XVII

    secolo, svolto da Giulia Calvi su Firenze e da Alessandro Pastore su Bologna, ha permesso di comprendere meglio come il morbo percepisse il morbo ⁶⁴. Pastore ha approfondito l’argomento adottando un approccio più europeo, confrontando i centri urbani di Italia, Inghilterra e Svizzera, e ha introdotto nuovi punti di riferimento analizzando, ad esempio, il rapporto tra peste e stregoneria e la sua associazione con l’eresia, un aspetto particolarmente evidente nella società post-Riforma, esplorato anche da William Naphy riguardo a Ginevra ⁶⁵. Da questi studi emerge un quadro affascinante di come gli individui appartenenti ai ceti più bassi della società reagirono alle misure imposte per limitare i loro spostamenti, e di come riuscirono a sopravvivere, grazie a una commistione di mezzi legali e illegali, ad esempio rubare e vendere gli abiti di coloro che erano morti di peste.

    L’opera di Giulia Calvi, meritatamente celebre, si avvicina maggiormente, dal punto di vista geografico, allo studio presentato in questo volume. Il suo approccio parte dagli interventi storici presentati dalla famosa rivista italiana «Quaderni storici», tra i cui collaboratori figura Carlo Ginzburg, uno dei principali protagonisti di quella scuola della microstoria dimostratasi tanto influente e popolare. Calvi riprende l’approccio interdisciplinare di questo filone e, più in generale, quello degli antropologi storici e degli storici socioculturali, i quali, negli ultimi anni, hanno unito le forze con gli storicisti degli studi letterari. Inoltre, l’autrice esamina in modo sensibile e dettagliato tali fonti, principalmente attraverso l’analisi delle strutture e dei codici simbolici dei procedimenti penali avviati dalla Magistratura dell’Ufficiale di Sanità. Dieci anni dopo, Esther Diana è tornata ad attingere a quel tipo di fonti per il suo studio sulla Sanità nel quotidiano, un resoconto degli eventi quotidiani associati a salute e malattia nella vita e nelle pratiche di medici, cerusici e pazienti, che colloca i documenti relativi alla peste del 1630-31 in un contesto cronologico più ampio ⁶⁶.

    I processi a coloro che avevano violato il regolamento antipeste vengono analizzati anche in questo volume, sebbene l’approccio e la metodologia da me adottati siano differenti e complementari rispetto a quegli studi. Partendo dal lavoro di Calvi, ho inoltre analizzato un ampio numero di procedimenti giudiziari, adottando un approccio analitico e statistico che collega i reati al sistema di sanzioni esistente, il tutto collocato nel più ampio contesto della campagna fiorentina di contrasto alla peste in evoluzione e del suo impatto a livello demografico e socioeconomico.

    Questi più recenti studi sulla peste nell’Italia della prima età moderna offrono una visione maggiormente sfaccettata dei ceti sociali più bassi. I poveri non vengono più visti semplicemente come le ghiandole della società, nel gergo dei medici dell’epoca, né come i vagabondi o i farabutti menzionati dalla legislazione. Non sono poveri senza radici, ma persone con una casa. Vengono presentati come individui che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza per affrontare l’epidemia, non solo intenti a garantire il proprio sostentamento in un periodo di crisi economica, ma soggetti a sentimenti assolutamente umani quali noia e solitudine durante la quarantena forzata nelle loro abitazioni. Un altro possibile approccio degno di approfondimento nello studio della peste in Italia durante la prima età moderna è quello che propone un confronto diretto tra dati demografici e fiscali, come hanno fatto ad esempio Paul Slack e Justin Champion per l’Inghilterra dell’epoca e, in tempi più recenti, Guido Alfani e Samuel Cohn per l’Italia settentrionale ⁶⁷.

    Questi lavori segnano uno scartamento netto degli studi storici rispetto all’approccio dall’alto verso il basso, concentrandosi sulla realtà della vita quotidiana durante la crisi e avvicinandosi maggiormente agli interessi e alle metodologie di storici specializzati in altri ambiti. Particolarmente significativi si sono dimostrati studi microstorici quali, ad esempio, quello contenuto nell’opera di Keith Wrightson sulla peste a Newcastle, Ralph Tailor’s Summer, un’affascinante e stratificata analisi dal basso dell’epidemia del 1636. Il volume di Lloyd e Dorothy Moote del 2004 sulla grande peste di Londra adotta una metodologia simile, ricostruendo a tinte vivaci la vita durante l’epidemia vista attraverso gli occhi di una serie di personaggi dell’epoca ⁶⁸.

    Un’analisi e ricostruzione dettagliata della storia dal basso contraddistingue anche la branca della storia sociale della medicina, tra i più originali esponenti italiani della quale figura Gianna Pomata, il cui libro La promessa di guarigione: malati e curatori in antico regime: Bologna XVI-XVIII secolo presenta la medicina e la terapia dal punto di vista del paziente, anziché dalla tradizionale prospettiva del dottore ⁶⁹. Approcci più recenti nella storia della medicina hanno offerto nuovi strumenti nell’analisi di uno dei principali elementi di studio del settore, i trattati sulla peste. Partendo ancora una volta dalle pubblicazioni di storici precedenti, il lavoro di studiosi come Jon Arrizabalaga, Samuel Cohn e Colin Jones tende a sottolineare la varietà e le differenze tra quei trattati e le loro evoluzioni, invece di evidenziarne le similitudini nel lungo periodo ⁷⁰.

    L’analisi che Jones fa dei trattati redatti da medici, membri del clero e magistrati nella Francia della prima età moderna mette in evidenza come, al di là dei linguaggi diversi utilizzati, legati alla professione svolta, costoro condividessero preoccupazioni simili, le quali si riflettevano in una comune visione distopica che esulava dalle normali esperienze di un mondo plasmato dalla pestilenza ⁷¹. Samuel Cohn esamina nei minimi dettagli gli scritti sulla peste nella sua opera del 2010 Cultures of Plague. Il suo studio ad ampio raggio si basa su una varietà di materiale stampato (un totale di 609 pubblicazioni registrate nel censimento nazionale delle edizioni italiane del

    XVI

    secolo Edit 16) in cui i trattati sulla peste, pur rappresentando la porzione più significativa, sono affiancati da discussioni su scritti non medici, quali opere poetiche e narrative sulla pestilenza nate dalle esperienze vissute dagli autori.

    Accanto a questo nuovo intervento non specialistico in materia, Cohn individua anche un crescente riconoscimento, da parte dei medici, delle cause sociali della peste, che sfocia nell’Italia tardocinquecentesca, soprattutto dopo la pestilenza del 1575-78, in una maggiore e inedita consapevolezza del legame tra malattia e ambiente fisico. È anche il periodo di maggiore impatto della Controriforma sulla società e, di conseguenza, sulle pratiche del clero durante la peste. Curiosamente, il ruolo della religione rappresenta un aspetto da sempre sottostimato, sebbene in tempi più recenti sia stata avanzata l’ipotesi che la religione stessa costituisse una potente forma di medicina spirituale ⁷². Questo argomento sta iniziando a essere trattato in maniera più approfondita, specialmente nei volumi degli storici dell’arte dedicati ai santi che si riteneva potessero proteggere dalla peste, in particolar modo san Sebastiano e san Rocco, e alla funzione svolta dalle pratiche di espiazione ⁷³. Tuttavia, a parte lo studio di Giulia Calvi sul ruolo fondamentale svolto dalle procedure di canonizzazione della madre superiora domenicana Domenica da Paradiso nella lotta alla peste nel 1630-31, è solo in tempi molto recenti che si è iniziato ad analizzare il ruolo della religione durante la peste nella Firenze dell’inizio dell’età moderna ⁷⁴.

    Questo libro si propone di combinare questi approcci, quantitativi e qualitativi, al fine di creare un resoconto a tutto tondo dell’impatto e dell’esperienza della peste a Firenze, intrecciando i temi medici, religiosi e amministrativi nel contesto dei fattori socioeconomici legati all’impatto della mortalità causata dall’epidemia. Questo volume si inserisce inoltre nel clima di rinnovato interesse per gli studi sulla peste menzionato in precedenza, cessando di concentrarsi esclusivamente su una narrativa improntata alla contrapposizione tra ricchi e poveri, tra governanti e governati, per orientarsi su un quadro più sfaccettato del funzionamento della società dell’epoca, analizzandone i rapporti sia orizzontali sia verticali.

    Lo studio pubblicato nel 2013 da Kristy Wilson Bowers sulla Siviglia della prima età moderna, ad esempio, ha descritto la risposta alla pestilenza come più umana di quella ipotizzata dagli storici, caratterizzata da una maggiore collaborazione tra autorità cittadine e popolazione ⁷⁴. Questo rappresenta anche uno dei temi principali della monografia a largo raggio redatta da Samuel Cohn nel 2018, Epidemics: Hate and Compassion from the Plague of Athens to

    AIDS

    , che dedica un consistente capitolo a un’analisi dettagliata della peste a Milano nel 1629-30 e, in particolare, dei processi agli untori, resi celebri dalle parole di Manzoni nei Promessi sposi ⁷⁵.

    Questo libro si propone anche di offrire una visione più bilanciata delle politiche dell’epoca e delle reazioni alla peste. Si spiegherà come, dietro alla retorica delle dichiarazioni ufficiali e mediche, si nasconda infatti una maggiore compassione per i membri poveri della società, che emerge negli atteggiamenti tanto dei membri di confraternite e ordini religiosi quanto delle autorità giudiziarie. Queste ultime mostrano un approccio sorprendentemente umano nei confronti di coloro che violano i regolamenti antipeste: un considerevole numero di persone veniva semplicemente arrestato e rilasciato senza ammenda.

    La peste a Firenze: temi e fonti

    La peste di Firenze è una ricostruzione a tinte vivaci dell’esperienza legata alla peste vissuta dalla città toscana nell’Italia del

    XVII

    secolo, vista attraverso gli occhi sia dei governanti sia dei governati, durante un’epidemia che provocò la morte del dodici per cento circa della popolazione cittadina, originariamente composta da 75.000 persone. Questo libro offre un quadro ricco di dettagli nato dalla documentazione straordinariamente varia e accurata giunta fino a noi, caratteristica dell’Italia di quel periodo. Ai resoconti ufficiali, come la storia dell’epidemia scritta dal bibliotecario granducale Francesco Rondinelli, e alle raccolte di editti, si affiancano racconti in prima persona, come il Quaderno di Giovanni Baldinucci, che fornisce una visione delle misure adottate dal governo diversa, sebbene meno critica, rispetto a quella di Miquel Parets a Barcellona. Da altre fasce letterate della società provengono prospettive ancora differenti, dai consulenti medici al collegio dei medici, dai capi della Chiesa ai frati cappuccini che si occupavano degli appestati.

    L’archivio del comitato sanitario offre il filone più ricco di testimonianze sul modo in cui venivano sperimentati effettivamente i problemi causati dalla peste a coloro che si trovarono a vivere durante l’epidemia. Come ha dimostrato Cipolla per quanto concerne i piccoli centri urbani toscani, la corrispondenza quotidiana del Magistrato di Sanità consente di oltrepassare la facciata patinata offerta dalle fonti storiche ufficiali ed esaminare le condizioni terrificanti e gli aneddoti spesso commoventi che caratterizzavano i lazzaretti. I resoconti straordinariamente dettagliati dei procedimenti giudiziari avviati dal Magistrato di Sanità contengono descrizioni affascinanti rispetto ai motivi per cui le norme e i regolamenti imposti durante l’epidemia venivano infranti, solitamente da chi apparteneva agli strati più bassi della società. I casi presentati raccontano la disperazione vissuta dagli individui quando la morte o l’isolamento forzato laceravano le loro famiglie, e la difficoltà di mantenere una fonte di sostentamento quando spesso i contatti interpersonali erano proibiti e interi settori dell’economia venivano bloccati. I resoconti sia del Magistrato di Sanità sia della Confraternita della Misericordia, che si occupava di organizzare il trasporto dei malati e la sepoltura dei morti, forniscono un quadro dettagliato degli schemi di infezione e delle inumazioni poco sotto il livello della strada, che consente di esaminare a fondo la connessione tra povertà, ambiente e morbo.

    Il libro si divide in due sezioni principali. Questo capitolo offre una discussione storica e storiografica più ampia della peste e degli studi in materia. La Parte

    I

    analizza l’evoluzione delle politiche sanitarie pubbliche, con particolare enfasi per l’ambiente, la medicina e la quarantena. La Parte

    II

    , invece, presenta un approccio tematico e prende in esame la religione, gli ospedali di isolamento e le strategie di sopravvivenza adottate dai fiorentini per affrontare la malattia, la morte e la massiccia regolamentazione. Il breve Epilogo, infine, si domanda se e quali nuove politiche siano state adottate durante la temporanea ma spaventosa recrudescenza della pestilenza nel 1632-33.

    Un più ampio contesto per l’epidemia fiorentina del 1630-33 viene fornito nel Capitolo 2, che esamina le origini e la diffusione della pestilenza nell’Italia settentrionale, oltre a tenere traccia delle misure preventive adottate dal Magistrato di Sanità con l’avvicinarsi del morbo alla Toscana: tra i provvedimenti figurano i cordoni sanitari lungo le frontiere e la loro implementazione, nell’agosto del 1630, a Trespiano, un piccolo villaggio situato a poco meno di dieci chilometri da Firenze in direzione nord, lungo la via per Bologna. Questo e altri capitoli seguono le orme di Cipolla e Alfani quando si tratta di analizzare l’impatto della peste sulla città in rapporto alle campagne circostanti, anziché considerare le epidemie urbane isolandole da un contesto più ampio ⁷⁷. Un altro tema fondamentale che viene affrontato in questo volume riguarda i problemi legati al calcolo delle vittime durante l’epidemia, attraverso l’analisi approfondita di una vasta selezione di registri demografici, dall’amministrazione centrale alla parrocchia. Questa rappresenta la prima rivalutazione completa della mortalità, dovuta alla peste o ad altre cause, nella Firenze di quell’anno.

    La sanità pubblica rimane l’argomento centrale anche nei tre capitoli successivi, che si concentrano sulle numerose sfide affrontate dalle autorità e sulle soluzioni da esse adottate. Il Capitolo 3, La medicina, l’ambiente e i poveri, sottolinea l’importanza di prendere sul serio la teoria medica del

    XVII

    secolo e la sua comprensione dei fattori ambientali associati alla pestilenza. La crescente convinzione dell’esistenza di un legame tra ambiente e morbo, alimentata da una rinascita delle idee neoippocratiche, spinse il governo e il personale medico a prestare maggiore attenzione alle condizioni di vita dei poveri ⁷⁸. A Firenze, come anche in alcune altre città italiane dell’epoca, le autorità di sanità pubblica organizzarono un’indagine dettagliata porta a porta sulle condizioni di vita dei meno abbienti. Questo capitolo fornisce un’analisi minuziosa di quell’indagine e, in tal modo, rivela le condizioni di affollamento tutt’altro che igieniche in cui vivevano i membri più poveri della società. Sulla scia delle ultime tendenze in fatto di storia ambientale tardomedievale, si mostrerà come le misure adottate per affrontare la situazione non solo testimoniassero la presenza di condizioni antigieniche, ma si inserissero in una lunga tradizione di norme sanitarie proattive, volte a ripulire abitazioni e strade dalla sporcizia responsabile della pestilenza ⁷⁹. Più in generale, questo capitolo cercherà di analizzare quelle misure in relazione agli atteggiamenti nei confronti degli strati sociali inferiori della società mostrati dalla retorica medica e di governo, che arrivava persino a incolpare i poveri di aggravare l’epidemia attraverso una dieta, uno stile di vita e un comportamento inadeguati.

    Fu la combinazione di competenze amministrative e mediche a far emergere le caratteristiche principali della politica di governo italiana, per la quale l’Italia veniva ammirata in tutta l’Europa della prima età moderna. Proprio questi sono i due temi centrali del Capitolo 4, Curare il corpo della città e il corpo dei poveri, che analizza i modi in cui questi due approcci plasmarono le strategie di governo attuate durante le prime fasi dell’epidemia. Pur conformandosi alle più generali politiche di sanità pubblica implementate dai diversi Stati della Penisola, questo capitolo esaminerà anche fino a che punto l’esperienza fiorentina della peste sia stata mediata dalle strutture locali esistenti e dallo status quo politico. Appare evidente l’influenza esercitata dal granduca Ferdinando, che cercò di intervenire e condizionare le politiche elaborate dagli Ufficiali di Sanità, costituito dai nobili appartenenti alla sua corte.

    Le istituzioni locali svolsero un ruolo centrale nella campagna di contrasto alla peste, e una parte cruciale nel trasporto e nella sepoltura di infetti e morti spettò al gruppo di volontari laici dell’Arciconfraternita della Misericordia. Sebbene i loro becchini venissero pagati, i membri della confraternita, dal canto loro, eseguivano i loro compiti per senso di carità cristiana verso i membri più poveri della società, una motivazione che li poneva all’estremo opposto rispetto ai decreti emanati dal governo contro i gruppi emarginati, quali prostitute ed ebrei. Una miscela di motivazioni diverse animava anche le strategie del personale medico impiegato dal Magistrato di Sanità, e questo capitolo esaminerà proprio il suo ruolo, che veniva svolto talvolta in maniera distante, talvolta con spirito d’iniziativa, talvolta con compassione, quando si trattava di visitare gli infetti e raccomandare una vasta gamma di terapie tanto ai più influenti quanto ai più umili.

    Il Capitolo 5, L’impatto della peste e della quarantena, esamina maggiormente nel dettaglio l’impatto prodotto sulla popolazione dalle politiche descritte, innanzitutto attraverso un’analisi dei fattori responsabili del diffondersi della pestilenza, sia a Firenze sia, più specificamente, nella maggiore parrocchia della città, San Lorenzo. Partendo dai registri cittadini e parrocchiali, è stato possibile analizzare il numero di persone contagiate e sepolte in rapporto ai profili topografici e sociali delle singole vie. Se da un lato ciò consente di prendere in considerazione alcuni fattori ambientali che hanno determinato l’infezione, in questo modo diventa anche possibile valutare l’impatto che ebbe sulla mortalità la scelta di trasferire i malati dalle loro case ai lazzaretti, confrontando il numero di cadaveri sepolti nelle fosse al di fuori della città con quelli inumati presso gli ospedali di isolamento. All’epoca la strategia venne ritenuta vincente, dal momento che il maggior numero di vittime morì nei lazzaretti, deducendone da ciò che si era riusciti a identificare e trasferire gli infetti prima che peggiorassero. La medesima politica rimase in vigore anche l’anno successivo, quando venne introdotta

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