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La passione secondo Totonno
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E-book278 pagine3 ore

La passione secondo Totonno

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Info su questo ebook

Giovedì santo di fine anni 80: Peppe De Cesare, psichiatra amico dell’autore, vive e lavora a Sant’Angelo dei Lombardi, paese ancora traumatizzato dopo il terremoto dell’Irpinia. Viene coinvolto dal clero locale in una perizia richiesta dal Sant’Uffizio su Totonno, lo stigmatizzato dell’Incoronata, noto perché nella settimana santa soffre anche lui una passione, e una morte apparente il venerdì.
Mentre si reca sul posto, viene intimidito da due malavitosi, con ambigue minacce.
Si ritrova tra mistici e santoni, religiosi fondamentalisti, fedeli devoti e così via, aiutato dai suoi colleghi della perizia, un frate psicologo e una ragazza avvocato canonista, sostenuti e incoraggiati dal bonario Vescovo del posto.
Ma la devozione complica le cose, in una girandola  di eventi che finiscono per coinvolgere anche la polizia.
Gli inquirenti, un commissario che somiglia a Hitchcock ma è pugliese, un poliziotto ai servizi sedentari per malattia, un giovane giudice del posto e un medico legale tornato in paese per Pasqua, insieme coi periti canonici, conducono l’inchiesta in maniera ora formale, ora farsesca. La storia si dipana durante gli eventi della Pasqua, tra processioni, pranzi, tradizioni, ristoranti e gite fuori porta; si orienta tra depistaggi e sincerità, difficoltà e distrazioni; si aggira tra fanatici fondamentalisti, cattolici conciliari, mangiapreti, camorristi, politici, amici e parenti dell’Autore, per terminare, inaspettata, dopo una caccia al tesoro fuori porta, la sera della Pasquetta.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2022
ISBN9788897911999
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    Anteprima del libro

    La passione secondo Totonno - Gerardo Iuliano

    Copyright

    Copyright © 2022 Librinmente

    Design copertina © 2022 Librinmente

    Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo

    della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono

    essere inviate a:

    Librinmente

    Viale Giacomo Matteotti, 19

    00053 Civitavecchia (Roma)

    Telefono 0766.23598

    Telefax 0766.23598

    ISBN-13: 978 - 88 – 97911 – 99 - 9

    Stampato in Italia - Prima edizione

    http://www.prospettivaeditrice.it

    Dedica

    A mia madre, santangiolese di nascita

    A mia moglie, santangiolese di adozione

    e a tutti i santangiolesi, a qualsiasi titolo

    A medici e infermieri,

    in particolare, ma non solo,

    quelli del mio reparto,

    perché si ricordino

    che i dosaggi

    vanno riportati

    anche in cartella

    Epigrafi

    C'est pas seulement à Paris

    Que le crime fleurit,

    Nous au village aussi l'on a

    De beaux assassinats.

    (G. Brassens)

    Non tutti nella capitale

    sbocciano i fiori del male

    qualche assassinio senza pretese

    l'abbiamo anche noi qui in paese.

    (F. De Andrè)

    Dentro ogni psichiatra ci sta un cantante rock

    (A. D'Errico)

    ... Scherza coi fanti, e lascia stare i santi...

    (G. Giacosa, L. Illica; proverbio popolare)

    1. Giovedì Santo

    La Taverna

    Una volta, prima di autostrade, tangenziali e strade a scorrimento veloce, per arrivare a Sant’Angelo dei Lombardi si passava per la Taverna.

    Il paese era in alto, erto sui due colli del castello e della cattedrale, separati dal fosso di piazza Polmonite, che una volta era la sua porta di ingresso.

    Davanti alla Taverna c’era il famoso Quadrivio, snodo importante delle strade rotabili, che, con Tribunale, Liceo Classico, Ospedale, e Ufficio delle Imposte, faceva di Sant’Angelo il Capoluogo del Circondario, e dei santangiolesi gli orgogliosi abitanti di una Capitale, quella che il grande Francesco De Sanctis aveva definito la mia città, come li sentivi ripetere almeno due volte al giorno.

    Gli altri paesi, Nusco, Torella, Lioni, avevano un semplice bivio, dove stazionavano prima le vetture a cavalli, poi i postali a motore, e dove cocchieri e poi autisti di piazza aspettavano gli arrivi.

    A Sant’Angelo, invece, c’era il Quadrivio: la strada, la mitica via Appia, veniva da Avellino via Torella, passando per le le curve di Merlecchia, tutte a seni e golfi a seconda dello sporgere e del rientrare di quelle.

    Una volta, alla Taverna, andando dritto salivi a Sant’Angelo, per la mulattiera di Santa Maria. A sinistra, la strada, passando per la chiesetta dell’Assunta, portava verso Rocca San Felice, e ancora verso Frigento, Ariano e la Puglia. Verso destra, a ovest, si passava per la chiesetta dell’Incoronata, poi di fianco alla vecchia Abbazia del Goleto, per arrivare a Lioni, e poi ancora una biforcazione, verso la valle del Sele e il salernitano, oppure, per Calitri e la valle dell’Ofanto, verso la Basilicata, Melfi e il Vulture dei briganti, e poi Candela, e di nuovo la Puglia piana.

    Una volta, alla Taverna c’era la Taverna, lunga e bassa costruzione di pietra, con una serie di porte ad arco, che comprendevano la Taverna, e anche alcune botteghe, come quella di Marietta, amica e fornitrice di mia nonna, dove trovavi una serie di figlie e sorelle, tutte uguali a Marietta, compresa quella disabile sulla carrozzina.

    Una volta.

    Dopo il terremoto del 1980, che aveva spazzato via il bel profilo di Sant’Angelo sui colli, e anche tutto il resto, alla Taverna c’era la Taverna ricostruita, molto più grande, due piani, e una serie di saracinesche con negozi, ma senza più Taverna, e poi c’erano i prefabbricati dell’ospedale nuovo, ancora in costruzione poco più in alto.

    Da uno di questi prefabbricati, quello della psichiatria, nelle prime ore di una strepitosa mattinata primaverile del giovedì santo di un anno di fine millennio (millenovecentottanta o novanta e dispari, più di tanto non mi interessa), usciva bel bello il dottor Peppino De Cesare, psichiatra del servizio territoriale di fresco insediatosi nella USL 2 (Unità Sanitaria Locale, per chi non si ricorda più) di Sant’Angelo dei Lombardi, allora autonoma e florida.

    Si avviava per la stradina sassosa, in mezzo al prato, verso il parcheggio ancora non asfaltato. Usciva per una visita sul territorio, non contemplata dal turno di servizio ma che lo riempiva di felicità, per la novità della cosa e per la bellezza della mattinata.

    Non che fosse un romantico, ma nemmeno potete immaginare com’è bella la primavera dalle parti nostre, nell’alta Irpinia, e in particolare nelle nostre vallate, circondate da catene non interrotte di monti: dalla piana di Volturara con la gobba del monte Tuoro, e il Terminio, al varco di Acerno, al Raiamagra con la piana di Laceno, fino all’altopiano di Sant’Angelo e Guardia del Lombardi.

    Gli altri paesi erano tutto intorno, da Montemarano a Cassano, Montella, Bagnoli, e poi dall’altro lato Torella, Rocca San Felice, e, in alto e in mezzo, Nusco come una corona, a dividere la vallata del Calore da quella dell’Ofanto.

    Peppe De Cesare è amico mio, queste cose me le ha raccontate lui, e mi ha raccontato di come la sua felicità si fosse smorzata all’improvviso nel trovare, vicino alla stradina all’imbocco del parcheggio, due forestieri, dal tipico aspetto di napoletani, e dall’aria poco rassicurante (lombrosiana, mi aveva detto, per la precisione), che sembravano non aspettare altri che lui.

    Peppino è un’ottima persona e uno psichiatra molto preparato, è stato in seminario da ragazzo, ha fatto il militare a Cuneo; è un uomo religioso, ma non è un cuor di leone e in quel momento ebbe solo la tentazione, non il coraggio, di tornare indietro. Malgrado tutto proseguì, perplesso.

    Mi scusi, voi siete dottore psicologo?

    Peppino esitava, intimidito, e appena si capì che il suo era un accennato Sì..., quelli continuarono: Dottore, una preghiera riservata… siete voi che stammattina dovete visitare a Totonno?

    Peppino non sapeva cosa rispondere, ancora non aveva capito; capì subito dopo: Totonno il napoletano, quello con le stimmate sulle mani?

    Appena si comprese che il suo era un altro Sì..., il figuro che sembrava il capo, insistette: Volevamo solo avvertirvi: per noi, Totonno è santo, e questo è tutto…. E l’altro, il figurino più piccolo, facendogli eco: Santo subito!....

    Peppino non capiva che cosa volevano; la frase a quell’epoca non era ancora diventata uno slogan, perché il Papa polacco, poi diventato santo subito, non solo non era ammalato, ma veniva chiamato papa sciatore e mostrato in giacca a vento bianca sulle piste del Terminillo.

    Non ebbe però il tempo di articolare verbo per chiedere spiegazioni, perché il figuro, dando una gomitata al compagno, continuò con aria falsamente servile: Scusate, dottore, ma la dovevamo avvisare, per la vostra sicurezza, così voi vi potete regolare… La ringrazio.

    I due poi si girarono, e se ne andarono verso la macchina, una Fiat Uno bianca.

    A Peppe tremavano le gambe; non avrebbe immaginato di essere minacciato per una visita, meno che mai proprio per quella visita lì.

    Santo subito...

    Non riusciva ad aprire lo sportello della macchina.

    Appena ce la fece, si sedette e respirò profondamente; era così confuso che, se tutto questo gli ricordava qualcosa, lui nemmeno ci fece caso.

    Peppino De Cesare, psichiatra

    Ancora non vi ho detto niente di Peppe De Cesare: è santangiolese, un po’ più grande di me, sarà del ‘51 o del ‘52. Il suo viso lo ricordo tra quelli dei ragazzini del paese, quando mio zio Enzo, il più piccolo dei fratelli di mia mamma, mi portava con lui, e poi si metteva a giocare a calciobalilla nel soccorpo della Cattedrale o coi carroccioli e le biglie in mezzo ai fossi.

    Di famiglia umile, ma non proprio disagiata: il padre bottegaio, gran lavoratore, attentissimo alla cassa; la mamma, di origine nuscana, da sempre, bisognosa di cure per l’esaurimento.

    Peppe ha sempre faticato per andare avanti, ma alla fine si è sempre fatto onore. Il suo carattere, pacioso e riservato, gli viene dalla famiglia, ma anche dagli anni passati a studiare da prete, e dai traumi subiti, di cui non è il caso di parlare ora.

    Non si è mai sposato, da quando un grande amore gli ha preso la vita, ma non glie l’ha ancora data (la sua vita in cambio, intendo), rimanendo per sempre segreto, come può essere segreto qualcosa in questo paese.

    Frequenta la chiesa di San Rocco a Lioni, l’Abbazia del Goleto a Sant’Angelo, scrive sul bollettino del santuario di San Gerardo a Materdomini, ed è ovviamente in ottimi rapporti con il clero locale, che poi è anche il motivo dell’apprensione in cui lo abbiamo lasciato.

    Ci siamo rivisti all’Università, scoprendo che era stato pure compagno di studi di mio cugino prete, a Potenza.

    Era gentilissimo, mi invitava sempre a casa sua, che era vicina a quella dei nonni, ma per un motivo o per l’altro non sono mai riuscito a fargli visita.

    Abbiamo ripreso i contatti da quando mia moglie andò a lavorare all’Ospedale di Sant’Angelo, e lui mi inviò da leggere un suo lavoretto, una storia della psichiatria locale: Un secolo di psicopatologia a Sant’Angelo dei Lombardi: background storico, antropologico e sociale sulla evoluzione dell’idea di malattia mentale, osservata nel territorio.

    Un lavoro piuttosto esile, non dissimile da tutte le pubblicazioni che corrono nei nostri paesi, ma che si faceva notare per l’argomento scientifico, poco battuto nella storiografia locale, e anche per le rivisitazioni psicopatologiche di alcuni antenati locali, il che potrebbe non avergli conciliato le simpatie di tutti.

    Perdonatemi le chiacchiere, ma così abbiamo almeno fatto riprendere fiato al povero Peppino che tutto contento quella mattina, aveva pensato di farsi a piedi il paio di chilometri fino all’Incoronata, ma dopo il brutto incontro, decise di andare in macchina.

    Premessa

    Non mi riferisco alla premessa del racconto, ma a quella della perizia che gli era stata affidata, e a cui si riferivano i due presunti malviventi; una perizia richiestagli direttamente dal Vescovo, per conto della Congregazione per la Dottrina della Fede, meglio nota come Sant’Uffizio.

    Peppino De Cesare, pignolo nel mestiere, se l’era già scritta tre giorni prima, anche se in quel momento invano cercava di riandarvi con la memoria.

    In data XXX sono stato contattato telefonicamente dal Rev. Mons. Pasquale Ripandelli, vicario episcopale della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi, il quale mi informava di avere avuto incarico dal nostro Arcivescovo S.E. Mons. Nicola Strizzi, su richiesta della Congregazione per la Dottrina della Fede, di accertare alcuni fatti ai limiti dell’ordinario avvenuti in località Incoronata, frazione di Sant’Angelo, e concernenti il sig. Antonio Palma, da Giugliano (NA), ivi abitante; l’incarico dell’Arcivescovo concerneva anche me, Padre Maurizio Testa o.f.m.Conv., psicologo, e l’Avvocato Beniamina Menna, canonista, ed era stato esteso al dermatologo dottor Albino Biondi.

    Don Pasquale mi riferiva di essere stato informato, dall’interessato stesso e dal suo padre spirituale, di eventi ricorrenti da alcuni anni: il sig. Palma accuserebbe fenomeni come disturbi dello stato di coscienza, con visioni, trasudazione di sangue dall’epidermide, piaghe alle mani e ai piedi, formazione di figure non casuali e con significato religioso a partire dalle macchie di sangue trasudate (cuori, croci etc); il suo corpo emanerebbe un odore particolarmente profumato, e verrebbe inoltre riferita anche trasudazione di sangue ed olio da alcune suppellettili religiose presenti nella sua abitazione, all’Incoronata.

    Durante la settimana santa gli eventi si fanno marcatamente più evidenti, fino a culminare, tra la sera del giovedì santo e la mattinata del venerdì, in uno stato di sofferenza acuta in sintonia con quella della passione, con sanguinamento profuso delle piaghe, dolore intenso e alterazioni della coscienza sempre più frequenti, che negli ultimi anni, il venerdì santo, erano culminate con stati di ‘morte apparente’.

    Mi chiedeva, di conseguenza, di recarmi insieme a lui presso l’abitazione del Palma, vicina alla chiesetta di Maria SS.ma Incoronata, il giovedì Santo, e il venerdì successivo.

    Ora capisco perché Peppe era così contento: non era la primavera, era Mina, il suo grande amore segreto.

    Mina, ovvero l’avvocato Beniamina Menna, è salernitana; il suo è un cognome conosciuto, anche se la sua parentela con un famoso vecchio sindaco di Salerno è lontana.

    Si erano incontrati per la prima volta quando Peppe lavorava a Vallo della Lucania, per un processo nel quale erano stati coinvolti gli psichiatri, una cosa molto triste, ma da cui ce la fecero a uscire dopo qualche anno.

    Mina era la più brava assistente dello studio Riga, probabilmente il migliore di Salerno; il suo capo era un geniale penalista, che lei ammirava e che lui spediva a Vallo ogni volta che c’erano udienze, per la gioia di Peppe, il cui panico per il processo veniva sovrastato dal piacere della sua compagnia, e dalla gelosia della compagnia degli altri.

    Perché Mina, nonostante qualche tratto anorettico e compulsivo che Peppe intravedeva, e che attribuiva all’ambiente professionale, era indiscutibilmente una grande femmina, i cui attributi migliori erano scritti a chiare lettere nel suo cognome. Anche lei molto religiosa, frequentava comunione e liberazione con un fidanzato troppo più grande di lei.

    Peppe le aveva prescritto il suo primo Prozac, dopo di che Mina si era liberata di comunione, fidanzato, e poi anche del capo, mettendo studio in proprio, facendosi coinvolgere sempre più, da Peppe, e dai giudici, che subito ne apprezzavano le doti professionali, nelle cause al Tribunale di Sant’Angelo, e continuando a viaggiare quattro anni tra Salerno, Sant’Angelo, e Roma, dove stava prendendo una licenza in diritto canonico all’Angelicum.

    Continuava anche a studiare, la ragazza.

    Così aveva conosciuto pure il clero santangiolese, entrando nella stima di Don Nicola Strizzi, l’Arcivescovo, e si trovava coinvolta in quella vicenda.

    Insomma, aveva un curriculum eccezionale e tutti i requisiti intellettuali e fisici per essere cooptata nel casting di questo famoso romanzo, che potrebbe anche rivelarsi corale e pieno di caratteristi, ma che per essere appetibile necessita, come mi suggerisce mio figlio grande, di un personaggio essenziale: la prima donna.

    All’Incoronata

    Sembra un degradare verso la pianura, invece è tutto un susseguirsi di anfratti: forse per questo il territorio, lì vicino, veniva chiamato goleto.

    La strada è tutta curve, ti trovi una deviazione a destra che, una volta, quando all’Incoronata ci si andava a piedi per la festa, e io ci andavo a cavalluccio di mio nonno e di mio zio, era segnalata da un’edicola.

    Adesso, invece, da quando il Comune di Sant’Angelo aveva deliberato di iniziare la sperimentazione della raccolta differenziata, era coperta da una fila di bidoni per la spazzatura, ognuno con un colore e un cartello; davanti stazionava il camioncino della raccolta.

    Una piccola salita, ed eccoci sullo spiazzo del casale con la chiesetta dell’Incoronata.

    Nei giorni di festa i pellegrini, prima di entrare, usavano fare tre giri a piedi intorno alla chiesa, pregando. Peppino ci girò attorno in macchina, tre e anche quattro volte, imprecando, prima di fermarsi col motore acceso, scoraggiato perché non trovava posto: una marea di automobili e un pullman, erano già arrivate quella mattina nella masseria.

    Un gruppo di persone, per lo più donne, stazionava nello spiazzo; alcuni erano in fila davanti all’unica casa già ristrutturata.

    Don Pasquale lo aspettava davanti alla chiesetta, da poco rimessa a nuovo, contornata da una serie di abitazioni per lo più in rovina, e da alcuni prefabbricati. Stava insieme a un giovanotto barbuto che ricordava Che Guevara: sciarpa palestinese al collo, jeans e sandali, e che si presentò come Padre Maurizio, del convento di San Francesco a Folloni, a Montella.

    C’era pure Biondi, il collega dermatologo, faccia larga, stempiato, senza baffi ma con una barba a collana, espressione da medico caratteropatico alla Carlo Verdone.

    Peppe sapeva che era affiliato all’Opus Dei, e questo da solo sarebbe bastato a renderglielo antipatico, se i suoi sentimenti non fossero stati ulteriormente esacerbati dal fatto che in quel momento chiacchierava fittamente con Mina, che gli fece appena un cenno.

    Peppe avrebbe voluto raccontare a Don Pasquale l’incontro di poco prima, ma non riuscì nemmeno a cominciare.

    Dottore! Come mai da queste parti?

    Peppe trasalì sentendosi battere la mano sulla spalla, ma stavolta non erano camorristi, era solo Tonino Iuliano che lo salutava.

    Toni’ ciao, e che fai qua?

    Mia suocera, dottore... è devota, voleva venire a vedere la Passione di Antonio. L’ho accompagnata prima di salire al commissariato.

    È vero che in paese ci si conosce tutti, e che gira gira ti trovi sempre la parentela, ma questa è una cosa diversa: il sovrintendente Tonino Iuliano, da Nusco, è proprio mio zio paterno, l’ultimo fratello di papà.

    Fa, o meglio faceva, il poliziotto motociclista nella stradale a Cesena, poi a Bari e a Sessa Aurunca. Una decina di anni prima era praticamente morto: aveva avuto un’emorragia cerebrale, era stato una settimana in coma al Cardarelli, e in riabilitazione per due mesi, ed era rimasto emiplegico.

    Aveva ripreso a camminare, e anche a guidare la macchina, tuttavia la causa di servizio, che allora andava forte qualsiasi malattia uno avesse, non l’aveva ottenuta; la baby pensione, che avrebbe potuto avere solo dopo qualche anno, e anche la pensione di invalidità, erano troppo basse. E lui aveva la moglie casalinga, e due figli piccoli.

    Così era stato prima messo in ufficio, ai servizi sedentari; e successivamente trasferito al commissariato di Sant’Angelo, poco lontano da casa.

    Per lui, chiassoso, allegro, sfottitore, abituato alla strada, senza la moto il lavoro non fu più la stessa cosa, anche se continuava a rendersi utile non solo alla polizia, ma anche alla famiglia, alla parrocchia di Sant’Amato a Nusco, e ai comitati delle feste, oltre che, per fortuna, a fare macchiette.

    Tonino si offrì di lasciare il suo posto a Peppe.

    "Dotto’ mitti la machina a lu postu miu ca i’ mo’ mi ni vacu ‘ngoppa a l’ufficio".

    Peppino approfittò subito, prima ancora che per parcheggiare, per raccontargli quello che gli era successo: Tonino, scusa un attimo, ti posso parlare?.

    Totonno il napoletano

    Tonino, che conosceva l’ambiente, e aveva anche capito con buona approssimazione chi erano le persone che Peppe aveva incontrato, tendeva a minimizzare: questi devono

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