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E-book275 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Esiste un punto in cui si incontrano ragione e delirio? Dove porta il percorso steso tra la nobiltà d’animo e la poesia da un lato e la brutale ferocia degli istinti dall’altro? Ecco due uomini così diversi, così distanti l’uno dall’altro e che finiranno per scoprirsi drammaticamente simili, entrambi prede e predatori, entrambi carnefici e vittime.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2015
ISBN9788893214384
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    Anteprima del libro

    Parallele - Nero Clain

    Trasformazioni

    MARTA

    Non erano passate da molto le 18.00 e Marta, appena uscita dall’ufficio, poteva guardare il cielo estivo e ancora chiaro. Adesso poteva sentire tutti quei suoni di vita che i doppi vetri della stanza dove lavorava tutti i pomeriggi bloccavano a poco più di un metro da lei: blandamente attutito sentiva il traffico, poco lontano, sulla strada principale che collegava la sua piccola città a quelle successive, in un gigantesco rosario che conduceva al Padre Nostro del Capoluogo; vicine, poche auto lente nella via secondaria in cui stava camminando a piedi; il ronzio di una bicicletta lasciata scorrere senza pedalare; il dialetto di due uomini fermi all’ingresso del Greco, bar delle sue colazioni e pretesto dei suoi dolci strappi alla dieta; le foglie delle betulle ad esile ed intermittente sentinella della via, mosse dal vento e dagli uccelli che si facevano squisitamente sentire. Il suo stesso passo, rumore così naturale, non più ovattato adesso dalla moquette dell’ufficio, che, appena uscita dal lavoro per un attimo non le sembrava nemmeno appartenesse ai suoi piedi.

    Il silenzio dei suoi pensieri. Frenetici, che correvano dalla gioia ansiosa per il matrimonio fissato due settimane più avanti al preoccupato non sapere cosa avesse la mamma, ricoverata il giorno prima, febbricitante, al domandarsi cosa avrebbe mangiato quella sera.

    Vedrà come la proteggeranno dal freddo di questo inverno, Marta, aveva detto soddisfatto il suo capo, quando, qualche mese prima, le aveva spiegato che sarebbero stati cambiati i vecchi serramenti dell’ufficio.

    Ma guardar fuori dalla finestra diverrà come vedere un film muto aveva pensato lei. Ha ragione aveva commentato.

    Senza immaginare che la cosa più brutta sarebbe stata la tremenda nitidezza che i suoni e i rumori del dentro l’ufficio acquisivano non più sovrapposti a quelli di fuori. Le parole dei colleghi, il veloce e misurato tamburellare di così tante dita sulle tastiere dei computer: grottesca caricatura di un duetto voce e pianoforte. Così suonava il telefono ogni volta: come la sveglia che, sola, ti reclama nel silenzio casalingo del mattino presto; e così era suonato il telefono del suo ufficio solo ieri: Attenda in linea, mentre la costringevano a sentire la Cavalcata delle Valchirie. Dopo poco (quel tanto che le era bastato per farsi una decina di idee su chi potesse mai essere) qualcuno all’altro capo del telefono si era presentato come il Dottor Benzi, del vicino ospedale, reparto di Medicina, e aveva chiesto di parlare con ...la signorina Rivelli Marta. Si era presentata ed il Dottore le aveva spiegato del ricovero della mamma, avvenuto pochi minuti prima, non sembra nulla di grave, non si preoccupi. Comunque al telefono non posso dirle un gran che: solo che è arrivata con una febbre che stiamo cercando di abbassare; se può venire al più presto.... Anche subito aveva risposto. Ed aveva fatto.

    Per telefono non le avevano detto che sua madre delirava, che nemmeno l’avrebbe riconosciuta, che era pallida come non mai e che si agitava in continuazione. Non le avevano detto che l’avrebbe vista con un ago che le si tuffava nel collo perché non avevano trovato una vena nelle braccia (ora tanto scure e blu sui polsi e agli incavi dei gomiti).

    Pietrificata per un intero minuto, quasi in terribile adorazione di una divinità incomprensibile, si era spaventata, ed anche ora, mentre, camminando per tornare dal lavoro a casa e di lì recarsi in ospedale a trovare la mamma, faceva attenzione ai suoni che non potevano entrare in ufficio, le tornava alla mente quell’unico giro fatto dalla lancetta dei secondi e che l’aveva circondata di vera paura.

    Il pensiero che di lì a poco sarebbe diventata moglie dell’uomo che amava non era una semplice ancora che la salvava dallo spavento, né l’isola paradisiaca dopo il naufragio dell’infantile certezza nell’immortalità materna, ma un intero nuovo continente, l’altra parte del suo mondo, imprevista meta dei suoi giovani anni. Del resto le informazioni dei medici, del Dottor Benzi con la voce triste e gli occhi stanchi ma tanto comprensivi, erano rassicuranti e già quella sera stessa c’erano buone probabilità che sua madre sarebbe molto migliorata.

    A questo pensava Marta, un passo dopo l’altro, facendo attenzione a tutto quello che attorno le succedeva. Gli anziani al Greco le erano oramai alle spalle: li aveva sentiti parlare, uno seduto a fianco all’ingresso, sotto un vecchio listino di gelati con i prezzi corretti e ricorretti, l’altro in piedi vicino al primo, con un piede sul gradino d’entrata e una sigaretta tra le dita, tutti e due con i lunghi bicchieri pieni per metà di un liquido rossastro. Quello in piedi sembrava parlare delle notizie del mondo lette sul giornale, mentre l’altro ascoltava e dava ragione annuendo con il capo.

    Passando davanti a loro sorrideva Marta.

    Un bimbo in bicicletta, due, tre, un quarto ed un quinto; il terzo guidava con una mano sola al manubrio, mentre sotto l’altro braccio teneva un pallone bianco segnato dai tanti colpi ricevuti e dalla terra e dall’erba sulle quali era a lungo rotolato e rimbalzato. Avevano girato nella via di Marta da destra, all’incrocio che stava solo cinquanta metri avanti a lei. Soddisfatti della giornata di gioco, commentavano il loro pomeriggio, incuranti del resto del mondo.

    Marta sorrideva mentre veniva passata dal piccolo e contrario torrente di bambini.

    Poi svoltò a sinistra e attraversò un tratto in lieve salita, mentre sentiva il respiro farsi di poco più veloce ed affannato. Quasi a casa, le rimaneva il piacevole tratto che aveva battezzato strada bianca, perché anni prima, quando ancora lei non si era trasferita in quel piccolo paese, i proprietari delle costruzioni (quasi tutte villette) che davano sui due lati della via si erano accordati per dipingere di bianco le ringhiere e i cancelli e di bianco intonacare i muri di cinta: e quel bianco luminoso la rendeva tanto tranquilla e sembrava così fresco di contro al caldo dell’estate.

    Unica nota stonata, una casa desolata, accerchiata dalle sterpaglie.

    Si sentì spingere forte da dietro. Si tenne in piedi fermandosi e portando avanti le braccia (i capelli, lunghi, finirono quasi tutti davanti alle spalle). Fece per girarsi (chi era?). Fu spinta una seconda volta. Restò ancora in equilibrio (la borsetta le scivolò dal braccio, i capelli sul viso). Spinta subito una terza volta. Con violenza. Sentì cedere un tacco e posarsi male il piede a terra. Sentì cedere la caviglia e piegarsi il piede verso l’interno. Cadde. In avanti. Sentì la paura, mentre il cuore batteva forte e veloce rimbombando nelle orecchie; il respiro affannoso le occupava tutto il torace. Nello stomaco e sulla pelle come tanti piccoli aghi a pungerla insieme.

    Poi una tremenda pressione al centro della schiena. Sensazione di caldo tra le gambe. Poi la pressione sulla caviglie e qualcuno che la trascinava indietro. Provò a tenersi con le dita delle mani ad una fessura nel marciapiede. Scivolava. Si tenne con le unghie. Le vide rompersi e staccarsi senza dolore. Continuò a premere le dita a terra; continuò ad essere trascinata. Il respiro era un veloce rantolo, il battito del cuore la assordava, riusciva solo a vedere un poco del grigio marciapiede sotto di lei. Ora era ferma, non veniva più trascinata indietro. Sentì una mano prenderle i capelli, saldamente, subito dietro la nuca; sentì un’altra, decisa, pressione sul braccio sinistro. Venne alzata. Di fronte a sé solo il bianco di un muro. E vide il bianco del muro avvicinarsi rapido ed inatteso ai suoi occhi e sentì sbattere la fronte con forza contro il cemento. Poi la sua testa cominciò a muoversi avanti e indietro, pressata sull’intonaco bianco, e lei cominciò a perdere i sensi, quasi quel disumano muoversi del suo capo fosse una cullante ninna nanna.

    E per Marta non ci fu più bianco, non ci fu più nessun colore. Nessun matrimonio. Nessuna madre da andare a trovare in ospedale. Nessun ufficio. Nessun rumore e nessun silenzio.

    Marta morì.

    LA SIGNORINA

    Francamente, non si poteva certo dire che la conoscesse. Non ne conosceva il nome, non sapeva quale suono avesse la sua voce; per lui era solo una figura che con granitica costanza passava ogni giorno sotto la sua finestra tra le 18.05 e le 18.15. Minuto più minuto meno.

    Quando se ne era accorto la prima volta? Sei mesi prima, lo ricordava bene: a cavallo tra il vecchio e l’anno nuovo, quando a seguito di un banale incidente ciclistico che gli era costato un gesso di quaranta giorni lungo quanto il suo braccio sinistro, aveva preso l’abitudine di restare in casa e perso quella di uscire.

    Semplice e veloce: svoltava un angolo ed entrava in un senso unico (nella direzione giusta, lui, nella direzione giusta) pedalando, pensando. Di fronte si era trovato chi non doveva per niente esserci: una persona a piedi (contromano, lei, contromano). Il manubrio ancora inclinato per la curva non conclusa, aveva frenato di colpo, aveva dovuto frenare di colpo. Ed era caduto. Sul momento (lo spavento, si sa) non sembrava nulla di grave ed era arrivato fino a casa solo, rifiutando le proposte di aiuto dell’incauto (idiota) pedone. Ma poi il braccio doleva, non lo si poteva appoggiare alle coperte, e quella notte non voleva proprio saperne di lasciarlo dormire. Tutt’altro. La visita inevitabile al Pronto Soccorso non aveva lasciato dubbi circa la frattura, il gesso, i quaranta giorni.

    Così, visto che faceva freddo, visto che aveva nevicato e lui non aveva alcuna intenzione di rischiare (anche solo camminando in strada) un nuovo e chissà quanto doloroso scivolone, restava in casa, passando il tempo tra lettura, musica, televisione. E la finestra che dava sulla via sottostante.

    Dal suo secondo piano, dove arrivavano solo i più spettinati e casuali rametti di due o tre tra le betulle più alte piantate sul sottostante marciapiede, stava interi quarti d’ora a guardare la strada animarsi e addormentarsi ad intervalli che si rivelavano così facilmente prevedibili: il silenzio della notte, nel quale le rade macchine che passavano sembravano incostanti respiri di un moribondo, poi, con il mattino presto, un traffico più continuo di motori e di voci, che rallentava a metà mattinata, quando la via diveniva proprietà di anziani e donne di mezza età fuori casa per la spesa. Nuovi movimenti a mezzodì, e quindi la siesta del primo pomeriggio. Tutto poi, in genere, restava tranquillo fin verso le 17.30, quando iniziava il rientro dal lavoro. Beninteso: non che ci fosse mai un vero e proprio gran traffico. La strada era pur sempre una via interna di un paesotto di provincia, eppure ritmi e variazioni di movimenti e di vita a lui parevano decisamente evidenti.

    Ogni giorno lavorativo, poco dopo le 18.00 vedeva passare una figura, una signorina. No, francamente non poteva dire di conoscerla, anche se qualcosa le dava una certa e blanda aria di familiarità. Sull’onda di questa sensazione aveva preso ad osservarla. La prima volta che aveva notato la signorina e che aveva al contempo avuto l’idea di averla in qualche modo già conosciuta, il suo braccio sinistro era a metà della sua prigionia di gesso. Nei successivi dieci giorni gli era capitato forse tre o quattro volte di rivederla dalla finestra, costantemente accompagnata dalla sua aria di famiglia. Il decimo giorno (il trentesimo dall’ingessatura) la sognò.

    Era come nella realtà delle 18.00: lui guardava dai vetri chiusi contro il freddo, sulla strada. Lei compariva improvvisa dallo stipite sinistro della finestra, come da dietro le quinte di un teatro. Ma, cosa che alle 18.00 non faceva mai, si fermava, stava un attimo immobile, si poteva vedere il suo capo andare ripetutamente prima a destra e poi a sinistra, in un cenno di dissenso, mentre le mani si posavano sui fianchi lasciando le braccia leggermente piegate con i gomiti verso l’esterno. Poi la signorina girava tutto il corpo in direzione della finestra, alzava il viso (un viso perfettamente anonimo, almeno nel sogno) e, aprendo le braccia come si usa in chiesa durante il Padre Nostro, lo guardava alzando un po’ le sopracciglia, quasi a chiedergli spazientita se, infine, la avesse o meno riconosciuta.

    Si era svegliato di colpo, incomprensibilmente spaventato, gli occhi sgranati e il corpo immobile. Sul davanti dei boxer sentiva caldo, umido, appiccicoso.

    La tormentosa sensazione di conoscere e di non riconoscere si era fatta domanda stabile nella sua mente. Gli ultimi dieci giorni trascorsi in compagnia del gesso lo videro spettatore fisso al passaggio fugace della signorina delle 18.00. Ma né lei alzò mai lo sguardo, né lui ebbe intuizioni più chiare. Tantomeno osava aprire i vetri e chiamare a gran voce...chi?

    Il giorno che tolse il gesso sperimentò una nuova ansia. Terribile perché all’apparenza stupida ed ingiustificata. Quel giorno non fu a casa per le 18.00: il medico, tolto il gesso, si era dilungato sul fatto che gli sarebbero state utili alcune sedute riabilitative di fisioterapia che l’ospedale poteva offrirgli.

    Certo, sì rispondeva lui, mentre i suoi occhi fissavano l’enorme orologio nella stanza del dottore (le 17.50) e la mente si figurava la finestra che stava per essere attraversata dalla signorina.

    Va bene, prenderò senz’altro accordi per gli appuntamenti con il fisioterapista... sì, sì... buongiorno e se ne era uscito trafelato dallo studiolo, dal reparto, dall’ospedale, per correre a casa, consapevole di essere in ritardo all’appuntamento, ma magicamente pensando che forse, quella sera, anche lei sarebbe stata in ritardo. Aveva aperto la porta della propria abitazione solo alle 18.50, con il cuore che sembrava volergli aprire il torace. Si era messo subito alla finestra. Non aveva mangiato, limitandosi a bere un succo di frutta mentre guardava il panorama della via. Ma la signorina non passava: era ovvio fosse già passata, ma forse...

    Stette ad osservare muto fino alle 23.00, quando ormai la strada era da un pezzo diventata quell’essere moribondo dal respiro rado che sarebbe resuscitato solo l’indomani mattina presto.

    I giorni seguenti scattò delle fotografie al passaggio della signorina e ne tenne a fianco della finestra, per poterle osservare a suo piacimento.

    Quando ebbe tra le mani le foto per la prima volta si rese conto di quanto insolita fosse per lui tutta quella situazione, sia per l’ostinazione (l’ossessione) con cui portava avanti e affinava le sue osservazioni, sia per l’ansia che immancabilmente accompagnava l’arrivo delle 18.00 ed il passaggio della signorina.

    A volte, chiuso nel bagno, solo, subito dopo averla vista si masturbava.

    Quello del dubbio e delle considerazioni sulla stranezza di quanto andava facendo fu un rapido momento: l’aria di familiarità che percepiva doveva pure avere spiegazione, e lui avrebbe fatto di tutto per trovarla. Poi, ne era certo, ogni cosa sarebbe automaticamente tornata alla normalità.

    Spese il mese successivo ad osservare l’abbigliamento della signorina, ancora invernale, le sue scarpe.

    Oramai conosceva il suo passo in ogni minimo movimento, sapeva quanto oscillavano i suoi fianchi ogni volta che portava un piede avanti all’altro, l’onda che attraversava i lunghi capelli scuri tutte le volte che la scarpa toccava terra. La mano destra era sempre sulla borsetta (sempre la stessa, così piccola da sembrare un inutile giocattolo) portata sulla spalla; la sinistra si muoveva elegante e ritmica avanti e indietro, ed era per lui il pendolo che segnava i pochi secondi di quell’attesa apparizione.

    Comprò un binocolo: lei aveva lunghe unghie, quasi sempre dipinte di un rosso acceso. Alle dita, meravigliosamente affusolate, non aveva anelli. Un braccialetto incoronava il polso destro, ed era un cerchio sottile d’argento, molto semplice. Al sinistro lui vedeva un cinturino d’orologio di cui il quadrante gli era però sempre nascosto perché dava sull’altro lato della strada. Un cinturino di pelle marrone.

    Prese a staccare il telefono dalle 17.45 alle 18.15 dopo che una sera la sua osservazione fu interrotta da una chiamata stupida che, imprevista, lo fece trasalire.

    Arrivava la primavera e furono per lui nuovi gli abiti che la signorina mostrava. Il soprabito invernale lungo aveva lasciato spazio ad un giubbetto meno pesante, che arrivava in vita; le gonne più leggere danzavano eleganti e sensuali attorno alle gambe snelle; le scarpe erano più agili e quasi sempre con un alto tacco. Anche la borsetta era cambiata, sostituita da una nuova, altrettanto piccola ma, secondo lui, più elegante.

    Quando la signorina tagliò i capelli mostrando un caschetto, lui ebbe un fugace attimo di smarrimento: gli parve sul momento strano associare gli abiti che ormai conosceva, la piccola borsa, quel passo noto, la solita sensazione di familiarità ad una nuova acconciatura.

    Iniziò a comprarle dei regali, pensando che un giorno o l’altro, quando avesse capito chi era, avrebbe potuto donarglieli: una borsetta più capiente ed un portafoglio, un paio di graziosi guanti, un cappellino.

    Poi comprò una gonna ed una maglietta.

    Poi della biancheria intima femminile.

    I capelli della signorina erano ormai cresciuti di nuovo, e le arrivavano agili e lisci oltre le spalle: ora aveva ripreso a trasmettersi quell’onda veloce e decisa che passava dalle loro radici alle loro punte per ogni passo mosso sulla strada.

    Già da qualche settimana lui poteva tenere i vetri aperti, poiché il tempo si era davvero fatto più clemente, così che poteva sentire il ritmico rumore dei tacchi della signorina. Imparò presto a riconoscere quella sigla che preannunciava l’atteso ingresso nella finestra e ne prolungava l’uscita.

    Si rese conto che la signorina non parlava mai; nessuno la fermava per strada; se anche aveva un cellulare, nessuno la chiamava, e lei non chiamava nessuno. Non si era mai voltata a guardare verso la sua finestra.

    Una mattina, lui prese ad imitare la camminata della signorina.

    Con l’arrivo dell’estate scomparve il giubbino primaverile, concedendo la vista sulle magliette e le camiciole, sempre discrete e poco vistose. Lui si aiutò col binocolo per osservarle il collo, bianco e sottile. Solo due catenine, entrambe d’oro, entrambe lunghe. Si tuffavano nelle scollature e nascondevano i loro ciondoli in un petto piacevolmente tondo. Alcune volte riusciva persino ad intravedere l’orlo del reggiseno.

    Mentre ne imitava l’andatura, incominciò ad indossare i vestiti che aveva acquistato per lei.

    Ormai la finestra era praticamente incorniciata dalle numerose fotografie che nelle settimane trascorse lui aveva realizzato. Dopo i primi scatti aveva deciso di acquistare una macchina fotografica migliore, con obiettivi intercambiabili, in modo da poter catturare i dettagli che di volta in volta avessero attratto la sua attenzione. E così disponeva di foto dei capelli, del profilo del viso, del collo e delle spalle e del petto, delle braccia, dei polsi, delle mani, dei fianchi, delle gambe, dei piedi della signorina. Foto che ritraevano le diverse frazioni del breve tempo che lei impiegava ad attraversare la finestra, che descrivevano i suoi abiti, che testimoniavano l’improvviso taglio dei capelli e la loro graduale ricrescita. E dietro ad ogni fotografia vi era la data del giorno in cui era stata staccata.

    A volte cercava di accostare in ordine le giuste inquadrature per ricreare un piatto e distorto manichino della signorina; altre volte teneva con sé due pose delle mani e con esse si accarezzava il viso, chiudendo gli occhi ed immaginando come sarebbe stata

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