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Io continuo in te
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E-book400 pagine6 ore

Io continuo in te

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Info su questo ebook

Il racconto di una storia vera, di una trasformazione di un amore da terreno a etereo. Sonia, compagna di vita di Maurizio, dopo undici anni d'intensa e talvolta sofferta malattia, abbandona la vita terrena e, seppure lui, scettico di natura, non ricerchi ulteriori contatti a livello incorporeo, il fato li unisce nuovamente attraverso precise indicazioni che l'uomo riceve da una sensitiva, che lo portano ad arrendersi all'evidenza: Sonia, nonostante in una diversa dimensione, è rimasta con lui, proprio come aveva promesso. Forte delle nuove certezze acquisite, la vita prosegue serenamente per Maurizio che, così come indicato da Sonia “casualmente” ritrova l'amore nella persona di Antonella, che sposa e onorando le promesse fatte crea un'Associazione che si occupa di bambini in difficoltà. Così una storia nata in Friuli Venezia Giulia si trasforma in un legame universale indissolubile, non intaccabile nemmeno dal tempo. L'amore quello vero sa superare ogni ostacolo, anche quelli che possono sembrare insormontabili e il tempo non ha la capacità di interrompere nulla: la linea che unisce due persone non si spezza mai.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2017
ISBN9788827227732
Io continuo in te
Autore

Maurizio Miglia

È nato nel 1967 a Gorizia, città dove vive. Diplomato in ragioneria ha conseguito la laurea in Economia bancaria e assicurativa presso l'Università degli Studi di Macerata. E' agente generale in Gorizia di una primaria Compagnia di Assicurazione. Nel 2012 ha fondato l'Associazione di Promozione Sociale “Il Sogno di Sonia” per supportare le difficoltà economiche e sociali dei bambini disagiati.

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    Anteprima del libro

    Io continuo in te - Maurizio Miglia

    1. All’improvviso, la vita

    L’albergo era molto affollato: gente distinta, uomini d’affari accompagnati da donne elegantissime in un ambiente di classe superiore. Non sapevo come avrei fatto a riconoscere il broker, seppure lui avesse più volte tentato telefonicamente di spiegarmelo. Fu lui a trovare noi, venendoci incontro con passo deciso mentre stavamo attendendo il turno per registrarci all’albergo, credo perché eravamo l’unica coppia con abbigliamento da turisti: jeans e camicia fuori dai pantaloni io, pantaloni in lino nero e canottiera gialla Sonia. Non poteva essere che lui, un signore di mezza età dai capelli brizzolati, occhiali, statura media; portava indumenti sportivi ma di classe e stretta in mano un’agenda di colore marrone dalla quale emergeva il tappo di una penna.

    Quando fu all’incirca a un paio di metri da noi, sfoderò un sorriso, stese la mano e mi salutò chiamandomi per nome. Era lui, era già arrivato. Si presentò immediatamente anche a Sonia, sempre in lingua italiana: Piacere, Roger. Sonia gli sorrise, gli strinse la mano e dopo il check-in in albergo ci sedemmo su un divanetto posto a qualche metro dalla reception. Roger con un solo sguardo richiamò un giovanissimo cameriere che prontamente si avvicinò. Ordinammo tutti e tre qualcosa di analcolico; lui era cordiale, e già da subito si poteva capire che fosse un uomo sereno, una bella persona: riuscì a conquistare Sonia con un complimento sincero, lo intuii facilmente da come lei gli rispose Grazie, veramente gentile, voce e sguardo appagati. Passò poi velocemente e con eleganza a parlare di affari, mimando la volontà di andare assieme to the bank. Anche Sonia mi sussurrò di andare, prima iniziavo e prima avrei finito; mi avrebbe atteso in albergo, non dovevo avere nessuna preoccupazione per lei.

    La salutammo e salii a bordo della sua Audi per raggiungere l’Istituto. L’edificio era di vecchio stampo e mi ricordava le banche dell’ex Jugoslavia: un salone immenso con moltissimi spazi vuoti, pareti dipinte di azzurro e i mobili in plasticato color mattone. Roger era a suo agio in quell’ambiente, lo si capiva da come si muoveva, sicuro e con destrezza, mentre i numerosi dipendenti della filiale lo salutavano calorosamente. Lui contraccambiava con sorrisi e strette di mano, qualche sguardo compiacente alle signorine più carine. Era un bell’uomo e si capiva attirasse l’attenzione, soprattutto delle impiegate dell’agenzia. Chiese a una signorina di potere parlare con il direttore, un uomo di età avanzata dai simpatici baffi lunghi e bianchi che, seduto dietro a una scrivania in una stanza a vetri ricavata nel fondo del salone, non appena lo vide si alzò sorridente per accoglierci e invitarci a seguirlo nel suo ufficio.

    Dopo i convenevoli Roger e il direttore iniziarono a parlare tra di loro e senza neppure il bisogno che io dicessi una parola, il direttore mi porse una busta contenente due assegni circolari, pari all’ammontare del saldo del conto corrente che era stato precedentemente estinto. Io consegnai gli originali di tutta la documentazione che avevo già inviato in precedenza a Roger. Gli assegni circolari a estinzione dei conti erano già nelle mie mani, quindi non mi rimaneva più nulla da fare in quella banca: mi congedai con una stretta di mano, mentre Roger salutò il direttore con una strizzata d’occhio. Uscimmo e ritornammo alla macchina di Roger per dirigerci nuovamente in albergo. Mi rimanevano ancora sei giorni prima del rientro concordato e a questo punto la nostra permanenza a Cipro sarebbe stata una pura vacanza, grazie alla velocità con cui la pratica era stata evasa o alla mia eccessiva prudenza nel fissare le date di permanenza.

    Non sapevo, e non potevo immaginare, che quella sarebbe stata la prima e l’ultima vacanza serena e spensierata che avremmo fatto assieme Sonia e io; non sapevo che quei giorni cullati di tranquillità e riposo mi avrebbero di lì a poco condotto in un mondo che non conoscevo ancora, un mondo fatto di sofferenza, di paure e ansie, una nuova realtà che avrebbe rappresentato, per gli undici anni a seguire, il mio nuovo mondo.

    Ritornammo all’albergo. Roger guidava con molta padronanza la sua autovettura, una guida cauta ma sicura, che bene si abbinava al suo carattere. Mi faceva ridere perché, cercando di parlarmi in italiano, usava di continuo un’imprecazione a me nota – porco due – una delle porcherie linguistiche che sicuramente aveva appreso da Marino, carissimo amico improvvisamente deceduto, disgrazia che mi aveva condotto a Cipro con il compito preciso di svincolare i saldi attivi dei suoi conti correnti per riportarli alla madre; la impiegava talmente spesso che fui indotto a pensare che Marino lo avesse preso per i fondelli accreditando a quel termine chissà quale significato e Roger, che la lingua italiana non la conosceva, evidentemente si era fidato. Lo osservavo divertito e tra un porco due e l’altro, facemmo ritorno all’albergo. Roger era soddisfatto di come fossero andate le cose: lo si capiva da come sorrideva, era giustamente fiero di se stesso, di come a tutti gli effetti avesse compiuto un mezzo miracolo, eseguendo le disposizioni e trasmettendole alla banca con una rapidità, come avrebbe detto Marino, imbarazzante.

    Lo invitai a entrare nell’albergo per bere qualcosa, un piccolo gesto di riconoscenza da parte mia, e dopo avere parcheggiato la sua autovettura nell’area riservata agli ospiti, entrammo. Vidi subito Sonia: era seduta all’esterno, in fondo a un corridoio che dava sul mare ricavato da una serie di vetrate accostate l’una all’altra, con le gambe appoggiate alla base di un tavolo, viso bagnato di sole, aperitivo in mano. Fu stupita di vederci rientrare così velocemente tanto che guardandomi, prima ancora che io iniziassi a parlare, mi chiese: Problemi?. No, nessuno, anzi, risposi io e mostrandole la busta contenente gli assegni circolari, con aria da uomo vissuto le dissi: Affare concluso. Diedi tutto il merito a chi lo aveva, a Roger, che ancora più gongolante si sedette su una delle due poltroncine che attorniavano il tavolino. Era veramente un posto magnifico: il mare splendido, l’aria calda e secca, la piacevole compagnia di Roger, io e lei per la prima volta in vacanza assieme… il tutto formava un quadretto irripetibile, di un’armonia speciale.

    Rimanemmo a chiacchierare un po’ in italiano, un po’ in inglese e un po’ utilizzando i segni e i gesti delle mani per circa mezz’oretta, sino a che Roger se ne dovette andare per un appuntamento di lavoro. Lo salutammo con tanto di bacio e, su sua proposta, ci invitò a pranzo per il giorno seguente assieme alla moglie e alla figlia. Accettammo di buon grado: ci avrebbero deviato dai giri turistici e avremmo potuto vedere aspetti di Cipro che solo un abitante del luogo avrebbe potuto mostrarci.

    Lo salutai e ringraziai nuovamente accompagnandolo sino all’uscita dell’albergo. Ritornai dopo poco nel terrazzo, dove Sonia era seduta; mi stava sondando con lo sguardo, curiosa di come fosse andato l’incontro. S’informò di cosa contenesse quella busta che sventolavo come un trofeo e, appreso che all’interno c’erano gli assegni circolari, capì che tutti i giorni che rimanevano sino alla nostra partenza, già fissata per sei giorni dopo, erano pura vacanza e sarebbero trascorsi assieme. Un sorriso meraviglioso e infinito le illuminò il volto e ci abbracciammo con entusiasmo e gioia.

    Tutto era oltre alle nostre aspettative: il luogo, l’albergo, il mare, la velocità di quella banca, tutto superava ogni più fervida immaginazione. Ci sedemmo nuovamente, il leggero rumore delle onde che ci raggiungeva e una lieve brezza a giocare con i riccioli di Sonia, a fumare e parlare. Mi raccontò, mentre il fumo saliva lento dalla sua sigaretta, che in America un aereo era caduto su un grattacielo e c’erano stati molti feriti e morti, ma né io né lei avevamo ancora chiaro che cosa fosse accaduto; lo apprendemmo subito dopo quando, saliti nella stanza, potemmo vedere un telegiornale di una rete televisiva americana.

    In un attimo si turbò l’armonia e la felicità pacifica che si erano create: Sonia fu molto scossa da quanto era successo tanto da iniziare a piangere; voleva assolutamente ritornare a casa, voleva ripartire immediatamente. Tuttavia l’emittente sconsigliava di mettersi in viaggio e forniva consigli, perfino quello di annullare eventuali voli anche se non diretti verso gli Stati Uniti: era preferibile, a detta loro, non mettere i piedi all’interno di un aereo nei giorni successivi.

    Ciò la calmò per un attimo, ma al tempo stesso fu assalita dall’ansia del viaggio di ritorno. Aveva paura che nell’aereo ci potesse essere una bomba, che qualche pazzo si potesse fare esplodere in volo, insomma ipotizzava scenari apocalittici, tanto da fare nascere anche in me una certa ansia. Riuscii a convincerla che non sarebbe stata una buona idea quella di rientrare: a me seccava anche dovere ripagare il volo di rientro, avevo organizzato un’assenza dal lavoro di una settimana, lei non stava lavorando, perché rinunciare? Decidemmo che era meglio cercare di capire prima come fossero veramente andate le cose in America per poi decidere cosa fare. Nel frattempo avremmo goduto del tempo assieme in un luogo meraviglioso.

    Cenammo lì, nel lussuoso ristorante dell’albergo, riuscendo a dimenticare per un attimo l’America e gli attentati, e un po’ prima di mezzanotte uscimmo a fare due passi sulla spiaggia. La temperatura era ancora calda e in spiaggia non c’era nessuno, solo noi seduti sulla sabbia che guardavamo le luci lontane riflesse sul calmo mare.

    Io e Sonia ci conoscevamo da qualche anno, ma la nostra relazione era nata da pochi giorni. A quei tempi ero ossessionato dal lavoro, dal successo e dal guadagno, e lei era la moglie di un mio cliente, conosciuta durante gli incontri di lavoro con il marito.

    Lui, Renato, mi era stato presentato dal nostro commercialista; in sincerità non volevo incontrarlo giacché conoscevo la sua fama di uomo aggressivo nelle trattative, attentissimo ai dettagli. Dopo aver evitato e rinviato più e più volte l’appuntamento capitolai soltanto quando un giorno mi chiamò, precisando con arroganza che mi stava cercando solo perché il suo commercialista gli aveva parlato di me, e che se io non avevo voglia di lavorare non era un problema suo, ma avrebbe condiviso con il commercialista questa mia negligenza che, in qualche modo, offuscava anche l’immagine del nostro intermediario.

    Ricordo che rimasi interdetto nel sentire al telefono quella voce che mi vomitava addosso mille insulti, ma, tutto sommato, condividevo il suo pensiero: se non volevo trattare con lui, sarebbe stato cortese e rispettoso informarlo. Decisi così di incontrarlo il giorno seguente; lui gestiva una pasticceria in un paese a pochi chilometri da Gorizia e ultimamente aveva iniziato un’attività d’impresa edile. Avevo chiesto informazioni su chi avrei incontrato e nessuna delle persone interpellate mi parlò troppo bene di lui; ciò che emergeva era che fosse un uomo fondamentalmente onesto ma convinto che tutto ciò che esistesse al mondo potesse essere sempre oggetto di trattativa: dava quindi inizio a estenuanti negoziati anche solo per ottenere sconti risibili, anche se gli erano proposte condizioni di tutto rispetto. Finanziariamente era un uomo ricco e ben patrimonializzato: quella pasticceria funzionava molto bene, riusciva ad avere un grosso smercio dei prodotti, tutti realizzati dai suoi collaboratori sulle ricette tramandategli dal padre.

    La pasticceria era piena di gente. All’interno della stessa aveva intelligentemente ricavato un angolo bar, dove servivano caffè e vendevano brioche e krapfen di sua produzione. Nel resto del negozio, esposte con prepotenza, quantità infinite di dolci, paste e pasticcini anch’essi di sua produzione. Dietro alle vetrine quella mattina c’erano tre signorine e un uomo. Quello dev’essere lui, pensai entrando, ed era proprio come me lo avevano descritto: grasso, con la barba, faccia da schiaffi e modo di fare irriverente; fu l’unico che non contraccambiò il mio buongiorno.

    Ordinai quindi un caffè a un’odiosa e scorbutica commessa che rispondeva al nome di Sonia. Era una ragazza giovane, di trentasei o trentasette anni, minuta e dal fisico asciutto, capelli rossi tinti, ricci e lunghi come piacciono a me. Era però di un’antipatia unica. Non sorrideva mai e quando chiesi a lei del signor Renato, senza dire nulla, a gran voce lo chiamò: Renato, c’è uno che ti cerca. Io per quella donna ero uno, uno che cercava Renato: non mi aveva definito un signore, una persona, un ragazzo, un uomo, ero semplicemente uno.

    Lui ricomparve dopo pochi secondi da dietro a una porta stile saloon, si avvicinò e, scambiandomi per un rappresentante, la prima cosa che fece fu quella di precisarmi che non avrebbe comprato nulla. Gli sorrisi, e fingendo imbarazzo, gli dissi che non ero un rappresentante ma un agente di assicurazione, avevamo appuntamento. Mi guardò e senza perdersi d’animo imprecò, pensando al costo della polizza che a suo avviso ingiustamente avrebbe dovuto sostenere, e mi disse, senza un minimo di riguardo, che già gli ero antipatico, che non aveva tempo da perdere con me e che c’era ben poco da trattare se non il tasso. Avevo già incontrato gente così, sapevo che cercare di trattare con lui sarebbe stata una missione suicida, quindi optai per la strada più semplice: mi scusai davanti a tutti per il fastidio che gli stavo arrecando, poi gli sferrai un colpo frontale chiedendogli a bruciapelo: Dimmi che tasso vuoi, guardandolo dritto negli occhi e dandogli volutamente del tu. Questa tattica lo sgonfiò definitivamente e capii quanto la mia richiesta lo avesse messo in difficoltà. Mi guardò sorridendo e buttò lì una richiesta di tasso che ampiamente rientrava nell’autonomia concessami dalla Direzione: non aveva finito la frase che avevo già accettato.

    Lo guardai mentre appuntava su un foglietto i documenti di cui avevo bisogno: era adirato, si sentiva offeso e sminuito dal divieto di trattativa che in qualche modo ero riuscito a imporgli. Cercò allora di crearmi imbarazzo, facendomi capire di non credere che io avessi le capacità decisionali per garantire l’emissione del contratto a quelle condizioni, mi offrì il caffè e ci salutammo. Me ne andai dal negozio dopo pochi minuti, felice di aver lasciato alle mie spalle due soggetti veramente odiosi, lui e quella donna che in seguito appresi essere la moglie.

    Il giorno seguente mi recai nuovamente in quella pasticceria, ma notai un cambiamento. Sonia, la moglie, era antipatica come il giorno prima, lui invece era stranamente affabile. Sapevo che dovevo dubitare di quell’improvvisa gentilezza: mi avevano informato di diffidare sempre di lui, soprattutto quando arrivava a trattarti bene. Mi consegnò i documenti richiesti e mi offrì un caffè, offerta che accettai, dal momento che ero curioso di sapere cosa lo spingesse a essere garbato e cortese con me. Lo capii quando mi fece una proposta che io non potevo prendere in considerazione se non nel caso fosse diventato un cliente della Compagnia con altre coperture: mi riproposi di ripassare il giorno seguente per consegnargli i documenti necessari.

    Ci salutammo e, una volta risalito in macchina, dovetti ridiscenderne per rientrare nel negozio: avevo bisogno, infatti, di un documento d’identità della moglie, necessario per emettere il contratto del piano di risparmio che il marito mi aveva chiesto di preparare. Mi avvicinai a lei e sorridendo chiesi se mi era possibile avere una copia di un suo documento d’identità. Notai lo sguardo infastidito di quella donna, che non capiva a cosa potesse servirmi una copia di un suo documento e, dopo avermi chiesto con aria sprezzante se mi servisse altro, sparì dietro a una porta per uscirne qualche secondo dopo con la fotocopia di quanto richiestole.

    Che cosa deve farne?, mi chiese. Le risposi che il marito aveva deciso di fare un piano di risparmio per lei e che necessitavo del documento per censirla. Mi chiese quanto avesse deciso di versare ogni anno e io la invitai, scusandomi, a chiederlo a lui, evitando così un mio coinvolgimento nel rapporto chiaramente teso tra la coppia.

    Sonia mi chiese quindi se io fumassi. Avevo smesso di fumare da otto anni, e quando le risposi di no, mi chiese se potevo attendere che fumasse la sua sigaretta. Era un po’ meno irritante, quasi cortese, aveva anche sorriso quando le dissi che non fumavo da anni. Uscimmo assieme e mi tentò: Ne vuoi una?. Perché no, risposi io. Notai immediatamente che era passata dall’uso del lei al tu, e questo piccolo dettaglio mi appagò piacevolmente.

    Fumare fu la prima cosa in comune tra di noi, il primo piccolo gesto che ci avvicinò, l’inizio di qualcosa che avrebbe cambiato le nostre vite. In quel momento la donna che avevo visto solo come una scorbutica estensione del marito divenne una persona a sé stante, una compagnia gradevole e, in pochissimo tempo, la compagna alla quale avrei dedicato la mia vita.

    Quella sigaretta accettata sbadatamente, forse solo per atteggiamento, fu l’inizio della fine: mi riportò a fumare nuovamente, dalle tre sigarette al giorno alle sette, alle dieci o quindici fino a finire, in una rapidissima escalation, a un pacchetto al giorno per fare cifra tonda. Come potevo, come potevamo sapere che quel gesto avrebbe cambiato le nostre vite, che lei sarebbe diventata la mia vita tutta? Quel momento, quella sigaretta passata dalla sua mano alla mia avrebbe modificato il nostro futuro, ci saremmo follemente innamorati e avremmo vissuto attimi indimenticabili intrisi di gioia e di dolore, saremmo rimasti sempre uniti anche al cospetto di quella che allora ritenevo la più grave delle disgrazie: la morte.

    Rimanemmo assieme pochi minuti, soltanto il tempo necessario a fumare una sigaretta, a parlare del più e del meno. La osservai mentre nervosamente aspirava il fumo: era veramente una bella donna, una splendida creatura, curata, molto abbronzata. Portava orecchini e collana d’oro abbinati e indossava un paio di pantaloni aderenti con una canottiera bianca. Guardandola nacque in me la convinzione che una donna bella ed elegante come lei avesse sposato un uomo come suo marito non certo per amore, ma solo per denaro. S’intuiva che fosse una donna scontenta della sua vita: non era antipatica come sembrava, ma triste e rabbiosa, perché viveva una realtà che non accettava.

    Nemmeno il fatto che il marito avesse deciso di accantonare una somma di denaro per lei la rendeva felice, anzi mi aveva confessato che avrebbe preferito meno soldi ma più comprensione e una maggiore dolcezza nel loro rapporto. Scherzando le feci notare che era strano che una persona che lavorava in una pasticceria avesse bisogno di dolcezza! Quindi la salutai dandole appuntamento per il giorno seguente, con la promessa di offrire io la sigaretta. Mi sorrise ancora: nell’arco del breve tempo necessario a fumare una sigaretta, il sorriso le aveva illuminato il volto tre o quattro volte. Ricordo di aver pensato che era carina quando sorrideva, dimostrava di essere una persona totalmente diversa da quella donna maleducata e scorbutica che avevo immaginato fosse.

    Quella sera raccontai il tutto alla mia fidanzata, Antonella, che detestava sia Renato sia Sonia, ma acquistava spesso dalla loro pasticceria perché gli ottimi dolci di loro produzione non erano cari. Antonella era fidanzata con me da più di dieci anni, stavamo iniziando a pensare al matrimonio, ai figli, alla famiglia che volevamo creare; lei era quella giusta; anche i rapporti tra le nostre famiglie erano ottimi: capitava spesso che io dormissi da loro, il più delle volte al pomeriggio prima di ritornare al lavoro, e pranzavo in loro compagnia quasi ogni giorno mentre Antonella spesso cenava dai miei.

    Ricordo che quella sera, pur essendo in compagnia di Antonella, non riuscivo a togliermi dalla testa Sonia, diventata ora per me una persona a modo, carina e garbata, non certamente più quell’indisponente donna che avevo conosciuto qualche giorno prima. Ci saremmo visti nuovamente il giorno seguente, e ciò mi rendeva felice. Passai la serata a pensare a lei, alla sigaretta fumata assieme, alle poche parole e ai sorrisi tra di noi.

    Il giorno seguente consegnai i contratti a Renato, che sottoscrisse e pagò senza colpo ferire, e dopo aver consegnato i preventivi che mi aveva richiesto, Sonia sorridendomi disse: Beh, assicuratore, allora me la offri o no questa sigaretta?. Guardai Renato. Non era infastidito, anzi mi disse: Andate pure indicandomi la porta.

    Avevo portato io il pacchetto, attento ad acquistarlo della stessa marca che lei aveva fumato il giorno prima. Rimanemmo a chiacchierare a lungo, ben più del tempo necessario a una sigaretta, fumandone due solo per raddoppiare il tempo a nostra disposizione. Sonia era entrata nella mia vita in modo così intenso e con una rapidità tale che non potevo fare a meno di parlare di lei, nemmeno con Antonella. Quella donna con cui avevo solo scambiato due parole fumando aveva cominciato a occupare i pensieri di tutta la mia giornata.

    Antonella si rese conto che nel mio atteggiamento c’era qualcosa di strano e quando io le dissi, dopo qualche giorno, di avere bisogno di rallentare la nostra frequentazione, fu lei stessa a dirmi che ero un pazzo se pensavo che Sonia avrebbe mai lasciato il marito miliardario per me. Sapevo che probabilmente aveva ragione lei, ma c’era qualcosa che mi attraeva in quella ragazza; poco contava se fosse sposata o meno, una cosa era certa: pensavo più a lei che ad Antonella e non importava quello che avrebbe fatto con il marito. Non sapevo ancora che il nostro amore iniziato quasi per caso, per magia sarebbe diventato più grande di noi, crescendo senza che noi potessimo controllarlo: avrebbe affidato la sua vita alle mie mani, divorziato dal marito e abbandonato le sue certezze, anche le più comode. Avrebbe segnato in modo indelebile la mia vita e mi avrebbe donato in eterno la sua anima; tutto era cominciato con una sigaretta e continuato, circa venti giorni dall’inizio ufficiale della nostra relazione, con l’indimenticabile vacanza a Cipro.

    Non avevamo quindi una grossa confidenza, in quell’isola da sogno, in quell’albergo a cinque stelle. Il marito di Sonia continuava a tempestarla di telefonate e a prometterle il mondo, purché lei rivedesse la scelta di continuare a vivere con me. Lei mi sembrava smarrita e la capivo, io avevo comunque cinque anni in meno di lei, avevo un lavoro che non mi permetteva troppe distrazioni, vivevo con la nonna, insomma non ero esattamente l’emblema della solidità; non volevo però calcare la mano, era importante per me che, come primo passo, ritrovasse la sua serenità, poco contava se con me o con il marito.

    Dopo la cena le proposi di fare un bagno: non c’era nessuno, l’acqua era calda e io non avevo mai fatto un bagno a mezzanotte! Ci immergemmo indossando solo la biancheria. Quel momento con lei, sorridente, che si stagliava sull’orizzonte nero illuminato da fievoli luci s’impresse nella mia memoria con potenza e rimane in una delle più care fotografie che ho di Sonia, ritratto che guardo spesso quando sono seduto sul divano di casa.

    Il nostro primo contatto con il mare che bagna Cipro durò pochi minuti, cinque timidi minuti d’imbarazzati approcci che cercavano di rendere normale una situazione che sia per me sia per lei era completamente atipica. Toccarci e baciarci era qualcosa di nuovo, che dovevamo ancora esplorare; i nostri cuori si erano toccati a vicenda, ma sentivamo ancora un riguardo da fidanzatini che s’imbarazzano quando si toccano anche solo per distrazione. Quando uscimmo dall’acqua scura, ci sdraiammo uno sull’altra distesi su un lettino di plastica bianca e rimanemmo a lungo così in silenzio, a riconoscere le mani l’una dell’altro grazie a dolci, leggere carezze, intenti a guardare l’orizzonte evitando di incrociare i nostri sguardi, assopiti in quel tiepido e dolce silenzio. Il rumore di una festa sulla spiaggia ci riportò alla realtà e decidemmo, rotto l’incantesimo che si era magicamente creato, di rientrare in albergo.

    2. La vita va sempre ascoltata

    Il giorno seguente ci alzammo verso le nove, con un sole prepotente già alto in una mattinata calda dal cielo azzurro chiaro e privo di nuvole.

    Ci dirigemmo dopo una veloce colazione verso una delle piscine. Eravamo spensierati, felici lì sotto il sole che cominciava a farsi sempre più bollente, la nostra prima vacanza assieme in un Paese che a entrambi era piaciuto immediatamente.

    Abbracciandola notai qualcosa al seno sinistro. Forse un nervo, forse una piccola pallina, qualcosa di indecifrabile che non era presente sull’altro seno. Con l’espressione diventata subito seria e incuriosita toccai la pallina con la massima delicatezza, attento da una parte a non fare male a Sonia e dall’altra ancora imbarazzato di toccarla apertamente. Tuttavia non le dava dolore, quindi arrivammo alla conclusione che non dovesse essere nulla d’importante: in ogni caso nemmeno lei aveva notato quella protuberanza che, seppure piccola e quasi insignificante, era comunque presente sul suo seno. Decidemmo che ci avremmo pensato in seguito, eventualmente dopo essere rientrati a casa, se ce ne fosse stato il bisogno, ritornando alle risa e alla serenità in un attimo.

    La nostra vacanza trascorse tranquilla e serena, tra docce di sole, bagni in piscina e qualche giornata in compagnia di Roger, della moglie e della figlia che, assieme a lui, ci condussero a visitare la Cipro meno conosciuta dai turisti, facendoci scoprire dei luoghi veramente magnifici; così, dopo sei giorni felici, tornammo a casa. La pallina al seno non era più nei nostri pensieri, anzi, sembrava rientrata in profondità e non era più riconoscibile al tatto, e la nostra preoccupazione maggiore era quella di mantenere inalterata l’abbronzatura, da sfoggiare come un gioiello e motivo di invidia di amici e sconosciuti che ci guardavano quando, camminando abbracciati, i nostri visi lasciavano trasparire una felicità da novelli innamorati. Non potevamo immaginare a cosa stavamo andando incontro, stavamo per varcare l’ingresso di un nuovo mondo, nostro malgrado.

    A novembre di quell’anno quasi per caso, parlando una sera con Cristina, il nostro medico curante, le raccontammo di quella pallina emersa e poi improvvisamente scomparsa. Cristina ci rassicurò dicendo che certamente non era nulla ma, a scanso di equivoci, sarebbe stato a suo avviso opportuno che Sonia si sottoponesse a qualche accertamento. Uscimmo dallo studio medico con una prescrizione di una mammografia e in seguito, dopo averla eseguita, con quella di un ago aspirato, esame a noi ancora sconosciuto, fissato per il pomeriggio del giorno successivo.

    La mia incoscienza e l’inconsapevolezza di cosa dovesse accertare quell’esame facevano sì che io fossi sereno e tranquillo, mentre Sonia lo era visibilmente molto meno di me.

    Per la prima volta, proprio mentre stavamo varcando la porta d’ingresso della struttura sanitaria, mi fece una domanda mirata, espressione della preoccupazione che la stava affliggendo: E se trovano qualcosa?. La mia risposta fu immediata: Che cosa vuoi che trovino? Vedi di fare veloce che la macchina è in divieto di sosta!, cercando così di diminuire la sua ansia, scherzando. Sonia fu fatta accomodare in una stanza e ne uscì dopo poco con l’invito a tornare dopo tre giorni per il ritiro del referto. Così fu e, trascorsi tre giorni nella più totale incoscienza, ci ripresentammo allo studio medico. Sonia si rivolse a un’infermiera che, dopo numerosi tentativi di ricerca del referto, ci fece accomodare in una stanza, dicendo che il medico voleva parlare con noi.

    Entrammo mano nella mano in una stanza semivuota e ci sedemmo attendendo l’arrivo di qualcuno. Di lì a poco entrò effettivamente un medico, o comunque un uomo che vestiva un camice; una cosa era certa, era un grandissimo maleducato, tanto che non si sentì in obbligo nemmeno di salutare entrando nella stanza. Si sedette con un’espressione seccata e consegnò l’esito dell’esame a Sonia. Non ebbe né parole di conforto o parole dolci, non dimostrò un filo di compassione. Brutalmente, come se fosse la cosa più naturale al mondo, decretò la nostra entrata in un universo parallelo, emettendo un verdetto che avrebbe cambiato le nostre vite per sempre: Signora, lei ha un tumore alla mammella.

    Dovrà essere asportato, continuò con distacco. Si metta in contatto con un bravo chirurgo.

    Non avemmo neppure il tempo di capire cosa stesse succedendo che il medico si alzò e, dicendoci che aveva altri pazienti in attesa, uscì dalla stanza senza una stretta di mano, senza un buonasera, così come nulla fosse, come se quella stanza fosse vuota, come se davanti a lui non ci fossero due persone a cui aveva appena comunicato una notizia devastante. Rimanemmo da soli, seduti, completamente disorientati, confusi.

    Fu un brutto colpo anche per me; mai avrei potuto immaginare che quell’innocua pallina fosse un tumore, un mostro travestito, e che per estirparlo poi ci sarebbe stato bisogno di un intervento chirurgico. Questa era una preoccupazione che nemmeno mi aveva sfiorato; Sonia, pensandoci a posteriori, forse qualche timore l’aveva avuto, esternato con me con quel semplice e se trovano qualcosa?, incertezza che avevo deciso di scacciare immediatamente, senza nemmeno pensarci a fondo.

    Cercai invano lo sguardo di Sonia, che continuava a fissare il vuoto. Cercai di accarezzarle le mani, che nervosamente si ritraevano al mio tocco. Cercai di stringerla, cercavo di dirle: Ti sono vicino, sono qui!, senza risultato alcuno.

    Si asciugò le lacrime che nel frattempo lentamente scendevano dai suoi occhi, si soffiò il naso e nervosamente uscì dalla stanza e dallo studio medico. Io la seguivo, ingenuamente confortato dall’idea che l’operazione avrebbe risolto tutto e non ancora consapevole di cosa significasse avere un tumore, quello che oggi chiamo k mammario, o il nostro bambino, com’era solita definirlo lei.

    Durante il rientro a casa, convinto che avremmo risolto il problema e considerando la diagnosi solo come una seccatura a meno di un mese dal Natale, perché tanto è asportabile, cercai di confortare Sonia in tutti i modi, dicendole che trovando un buon chirurgo avremmo risolto il problema, ma la mia tonalità di voce, naturalmente bassa e resa ancor più fievole dalla situazione tesa, veniva sommersa dal suo pianto disperato.

    Non capivo che quella diagnosi ci aveva spinto a forza, con prepotenza indicibile, in un portone d’ingresso che ormai si era chiuso alle nostre spalle e dal quale non potevamo più uscire. La mia, la sua e la nostra vita sarebbero state rase al suolo non con un singolo, devastante colpo di cannone, bensì smontando, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, tutto ciò che affannosamente avremmo cercato di costruire.

    Forse Sonia aveva già intuito tutto. Io l’avrei capito dopo, andando a sbattere contro un muro più alto di me, più grande di noi.

    Arrivammo a casa che faceva buio. Sonia non cenò, andò direttamente a dormire, io rimasi a guardare la televisione. Non mi rendevo conto che sarebbero cambiate le nostre priorità, si sarebbero modificati i nostri valori, Sonia avrebbe iniziato a trasformarsi in una cavia… e io avrei lentamente iniziato a conoscere la paura, a disgregare tutto ciò che possedevo, ad acquisire nozioni sconosciute, a frequentare ospedali oncologici e personale medico.

    3. Sua moglie è (chirurgicamente) guarita

    Il tempo trascorreva velocemente e né io né Sonia parlavamo di questa malattia. Sembrava non fosse accaduto nulla e la nostra vita continuava a osservare i soliti ritmi: io mi alzavo ogni mattina alle sette per andare in ufficio, lei continuava a lavorare mezza giornata nella pasticceria del marito. Le nostre giornate avevano un sapore atipico, diverso, anche se loro, le nostre tappe giornaliere di vita erano, almeno superficialmente, sempre uguali, sempre amorevoli, gentili e dolci, ma molto, troppo silenziose. Parlavamo pochissimo Sonia e io, sembrava quasi che all’improvviso non avessimo più nulla da dirci; non capivo che quel silenzio era una richiesta di aiuto, che aveva solo tanta paura e cercava in me un conforto, una parola in più, mentre io assumevo atteggiamenti più ruvidi e distaccati, proprio per cercare di non dare troppo peso a quella situazione.

    Ero una persona diversa all’epoca, preso ancora moltissimo dal lavoro non capivo il motivo dei suoi lunghi silenzi, anzi li interpretavo come il risultato di forzature psicologiche del marito che durante il lavoro, e nell’arco intero della giornata, richiedeva costantemente il suo aiuto anche per le cose più futili. Come se la

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