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Lei era nessuno
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E-book332 pagine4 ore

Lei era nessuno

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Info su questo ebook

Ines è una bella donna, impiegata, vedova, con due figlie. La sua vita ruota intorno a loro, ma da vent’anni ha uno spazio che dedica solo a sé, e all’uomo che con lei divide quel tempo sospeso. Avvocato, sposato e con figli, non le ha mai promesso nulla, e lei nulla chiede: solo quell’ora o due di parole, carezze, sesso appagante. È felice, Ines, ma un giorno il suo paradiso sprofonda.
Lui manca a un incontro, non risponde al telefono, e lei non ha altri contatti. Solo ora si rende conto di non averlo mai conosciuto a fondo: addirittura il nome che le ha dato è falso così come la professione. E se fosse morto?
Se gli fosse accaduto qualcosa?
Nessuno avrebbe potuto avvisarla.
Nessuno sapeva di lei. Lei era nessuno, nella vita del suo uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788832783100
Lei era nessuno

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    Lei era nessuno - Letizia Vicidomini

    logogufo

    Dieci

    La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Aldo Putignano

    Copertina: Ugo Ciaccio

    Autori: Letizia Vicidomini

    Titolo: Lei era nessuno

    ISBN 9788832783100

    I edizione Homo Scrivens, maggio 2019

    I edizione ebook novembre 2022

    ©2019 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    pagina Facebook: Homo Scrivens

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Letizia Vicidomini

    Lei era nessuno

    logofrontespizio

    A Filomena, mia madre. Fragile e fortissima.

    PARTE I

    L’ISOLA

    1

    «Un po’ di fard me lo metto, che dici?»

    «Ma dai che sei perfetta, scema. A Giuseppe piaci pure senza trucco, tanto comunque te lo leva lui».

    Ines sorrise a Barbara riflessa nello specchio del bagno dell’ufficio, in quel suo modo breve e pudico, mentre passava il pennello sugli zigomi. A momenti sarebbe letteralmente scappata, senza se e senza ma, scavalcando problemi, imprevisti e rotture di scatole da parte dei capi, passando il badge allo scoccare dell’ultimo istante dell’orario di lavoro.

    Lo sapevano tutti che Ines non si tratteneva mai alla scrivania a meno che non fosse il suo turno di orario prolungato, cosa che le capitava in media due volte al mese. In quel caso, però, l’entrata era differita. Quindi, quello che in genere faceva dopo le diciassette lo anticipava al mattino, ed era contenta lo stesso.

    «Barbarè, tu la devi finire di sfottere. A Giuseppe può essere che piaccio lo stesso, ma io mi aggiusto perché devo piacere a me!»

    La collega rise, mentre trafficava nel borsello del trucco di Ines, aperto sul lavandino di quel buco che continuavano a chiamare bagno degli impiegati.

    «Tu sei una ragazza giovane, magari non ci pensi, ma stai a sentire una più grande: devi aver cura di te, non lasciarti andare, mai. Anche se esci solo per fare la spesa devi guardarti allo specchio e vedere una persona elegante e carina. Gli altri vedono quello che vedi tu, ma sono meno indulgenti, sappilo».

    «E magari mi metto pure le calze autoreggenti per andare da Nino il salumiere! Quello c’ha la moglie che è brutta come un debito con Equitalia, e già sbava quando vede una con la gonna un po’ più corta».

    Ines si offuscò per un momento, poi continuò a parlare in tono più leggero e divertito. Voleva molto bene a Barbara, ma era una capatosta, quindi con lei doveva essere paziente, e del resto lo faceva volentieri.

    «Non ho detto che ci si deve vestire da zoccola, per essere femminili. Basta un velo di trucco, evitare di mettere un mollettone in testa per mantenere i capelli e di infilarsi una tuta di pile quando fa freddo. Tutto qui».

    Mentre parlava aveva sapientemente ritoccato la sottile linea nera di kajal, rinforzato il mascara messo la mattina presto e stava spazzolando i capelli. Da qualche anno li portava di media lunghezza, di un bel colore castano tendente al cioccolato e tagliati in modo da accarezzarle l’ovale.

    Era una donna molto avvenente, Ines.

    Grandi e liquidi occhi scuri, un corpo morbido, in forma tonica per via del passato da ginnasta, un sorriso rassicurante e belle mani lunghe. A giorni avrebbe compiuto felicemente cinque anni più dei cinquanta ed era soddisfatta della vita, che almeno da un quarto di secolo la rendeva appagata. Con mille sacrifici, essendo rimasta vedova molto giovane, aveva cresciuto due figlie bellissime, Monica ed Erica, che le colmavano quasi tutta l’esistenza. Forse approfittavano un po’ della sua costante disponibilità, ma Ines pensava che una madre dovesse esserci sempre.

    Diciamo, quasi sempre.

    Per questo motivo, faceva in modo che non fossero toccate da ciò che riempiva il suo tempo negli spazi in cui loro non entravano. Una bolla di sospensione che la teneva sollevata da terra quel tanto che bastava ad allontanarla dal quotidiano fluire delle cose, ricaricando di energia corpo e cuore. Un microcosmo abitato da due persone sole, per un paio d’ore al giorno da vent’anni, ferie e feste comandate escluse.

    Un’isola.

    Ines e Giuseppe, soli e lontani da tutto e tutti, in quella bolla cominciavano e finivano una storia d’amore che ogni giorno era nuova e senza sorprese.

    Poi entrambi tornavano alla propria vita, e quella dell’altro quasi non la conoscevano, se non attraverso i reciproci racconti. Nessuno era ammesso nel cerchio magico di quel rapporto esclusivo, nessuno sapeva di loro.

    Barbara aveva capito da sola, qualche anno prima, che c’era una persona importante nell’esistenza della sua riservatissima collega. Da allora tentava ciclicamente, con istinto da killer, di estorcerle qualche confidenza in più sul misterioso Giuseppe, ma Ines era una roccaforte inespugnabile.

    Era già tanto che le concedesse quelle incursioni scherzose nel proprio mondo intoccato, in virtù del bene che le voleva: la cifra di salvezza della sua storia d’amore era il segreto, una specie di mantello di invisibilità.

    «E ghià, Ines» frignò Barbara «me lo fai conoscere?»

    «È troppo maturo per te, non ti conviene metterci il pensiero. Tu pensa a Luigi, che è l’amore tuo…»

    La giovane donna si illuminò al sentir parlare del compagno, come sempre.

    Gli occhi scurissimi e maliziosi si fecero brillanti, e non solo per l’accenno all’uomo con il quale condivideva un rapporto solido e lungo, ma per la sfida. Sapeva che la collega non si sarebbe sbottonata, ma era ormai diventato un braccio di ferro divertito: prima o poi una delle due avrebbe ceduto. Con la determinazione che possedeva, Barbara era certa che sarebbe stata lei a spuntarla, pure perché moriva di curiosità.

    «Ma neppure una fotografia mi fai vedere?»

    «Immagina quello che la tua fantasia ti consente, non è più bello? Ti do un dettaglio, così ti sbizzarrisci un po’: è brizzolato e veste sempre di blu».

    Barbara andò a buttarsi a peso morto sulla sedia davanti alla scrivania fingendo sconforto, mentre Ines metteva la giacca e prendeva la borsa.

    «Niente da fare, non ti fidi di me, questo è il problema. Guarda che io sono una tomba, quando si tratta delle amiche!»

    Ines la guardò seria, e mentre infilava la porta per andarsene le regalò un’ultima battuta: «Per essere una tomba ti potevi pure far fare una lapide più bella, no?»

    Mentre scendeva le scale rapida e leggera come un’adolescente, la inseguì la risata sgangherata di Barbara, che oltre agli altri aveva il grande pregio dell’ironia.

    Ines era felice di quell’amore anomalo, che difendeva a spada tratta con il massimo della riservatezza, senza consentire a nessuno di violare quel paradiso esclusivo.

    E senza pensare che pure nell’Eden, un giorno, entrò il peccato.

    2

    Eccolo… pensò Ines arrivando a piazza Bellini dopo aver percorso a passo spedito via Port’Alba, sgusciando rapida tra la gente. La solita fretta di raggiungere Giuseppe che le scoppiava in petto imprimeva al suo passo una cadenza quasi militare. Non intendeva sprecare neppure un minuto del tempo che avevano a disposizione, per cui non degnò neanche di uno sguardo le bancarelle affollate di studenti e turisti.

    Aveva occhi solo per lui, l’uomo della sua vita, e quando lo vide le brillarono felici.

    Come sempre non si abbracciarono, né si diedero un bacio, neppure fuggevole. Semplicemente si sorrisero, poi affiancati raggiunsero la caffetteria dove s’incontravano spesso, prendendo posto al tavolino più appartato che trovarono. Giuseppe le strinse una mano, sotto la tovaglietta a quadri, sempre fissandola come fosse la prima volta.

    Solo allora Ines si concesse di rilassare i muscoli del collo e della schiena, sentendo finalmente di essere dove voleva e con chi voleva.

    «Com’è andata, oggi?» chiese lui, con la consueta sollecitudine.

    «Al solito, stessi problemi ogni giorno. Non te ne voglio neppure parlare, tempo perso. Tu, invece? Qualche cliente nuovo?»

    Avvocato penalista, Giuseppe era associato con altri cinque colleghi in uno studio molto grande. La professione gli consentiva una certa elasticità nella gestione di orari e spostamenti, ragion per cui riusciva sempre a creare uno spazio da dedicare a Ines. Cascasse il mondo doveva vederla, toccare la sua pelle liscia, inspirare il profumo che esalava dolcemente da lei, dagli abiti e dall’aria stessa che attraversava.

    Non riusciva a stare senza la donna che, seduta di fronte a lui, rimaneva composta pure se la sua mano nascosta dal tavolo aveva cominciato a insinuarsi sotto la gonna e a salire verso l’interno delle cosce.

    Solo lui ne aveva colto il fremito delle labbra, il leggero rossore che si era diffuso sul collo e sulle guance, un lieve imperlarsi della fronte.

    La conosceva fin troppo profondamente, sapeva quali punti solleticare per accendere il desiderio e quali evitare con cura.

    Ines era una compagna di letto piena di passione, capace però di spegnersi in un momento per una carezza sbagliata, un gesto brusco, violento. Lui, rispettoso della sua sensibilità, aveva imparato ad amare anche queste sfaccettature del carattere, e non gli costava usare il linguaggio erotico e fisico che la compagna preferiva. Continuò a parlare, come se nulla fosse.

    «Sì, c’è una causa per violenza domestica: un uomo che per anni ha picchiato la moglie. Poi lei s’è decisa a lasciarlo portandosi via i figli, e l’ha denunciato. Noi stiamo preparando la difesa, il cliente è lui…»

    Ines sgranò gli occhi fissando Giuseppe con un’espressione sgomenta: «Ma com’è possibile che difendiate un uomo del genere?»

    «È lavoro, lo sai. Non si rifiuta un cliente ricco, pure se potenzialmente colpevole».

    «Certo che si può. Io lo farei, se potessi scegliere. In ufficio mi tocca avere a che fare con tutti quelli che vengono allo sportello, ma tu e i tuoi colleghi potreste decidere di non difendere un pezzo di merda come questo tipo. E magari andrebbe in galera, come merita».

    Lo scambio di battute aveva fatto scaldare notevolmente l’atmosfera tra i due, e non certo nel modo che Giuseppe avrebbe voluto. La carezza furtiva era stata completamente dimenticata da Ines, che ora beveva il suo caffè in un mutismo rabbioso, fissando ostinatamente la tazza, immersa nei pensieri.

    In tutti quegli anni insieme non erano mancati i momenti di contrasto, sarebbe stato impossibile non averne: non era certo una fiaba, quella che stava vivendo con dedizione assoluta e puntuale. Aveva accettato dal primo momento la realtà inattaccabile di una moglie e una figlia che Giuseppe non avrebbe mai lasciato, e ne aveva fatto un dettaglio marginale, ma la cura che riversava nel costruire il legame che li teneva uniti a doppio filo era quasi ossessiva. Per lui era ogni giorno bella, allegra, disponibile, accogliente. Con lui diventava un’altra donna, sintesi perfetta della compagna che ogni uomo desidera accanto a sé. Un’utopia, nella realtà, quando si trascorre una vita vera insieme, un progetto felicemente portato avanti da loro due. Quando qualcosa arrivava a tradimento a oscurare quel cielo perennemente terso, con il sole orientato ad arte a illuminare il loro spicchio di mondo inventato, era per poco.

    Non c’era tempo per litigare, i musi non potevano durare più di qualche minuto. Bastava a Ines tornare a guardarlo per decidere all’istante che non potevano sciupare nulla di quel dono del Signore. Neppure un attimo.

    Giuseppe le sorrise timidamente, alzandosi e passandole dietro le spalle per andare alla cassa e pagare i caffè, i loro occhi si incontrarono nel grande specchio a parete. Ines ricambiò il sorriso, poi si guardarono entrambi con desiderio mentre lui, come per caso, le appoggiava la mano sulla spalla e la faceva scivolare lasciando scendere una delle lunghe dita nella scollatura.

    Avevano poco tempo ancora, ma le figlie erano entrambe fuori casa sino a sera e potevano chiudersi in camera e fare l’amore.

    Come fosse il primo giorno, oppure l’ultimo.

    3

    Dopo una lunga giornata, fatta di impegni incastrati al millimetro – le prove di Monica a teatro, la visita medica periodica di Erica dal dentista, la spesa, l’estetista – Ines era a pezzi, ma non era ancora finita.

    «Mamma, ho deciso che mollo tutto, non ballo più…»

    La voce di sua figlia era arrivata dal buio del corridoio, mentre si accingeva a ritagliarsi un momento che ogni sera era irrinunciabile, per lei.

    Ines sospirò voltandosi a guardare Monica, in pigiama e a piedi nudi sul parquet: era un’abitudine che aveva sin da bambina, quella di stare scalza in casa. Evidentemente la giornata aveva ancora da offrirle sorprese, pensò guardando quella che una volta era la sua bambina, ora una donna con lunghi capelli scuri, gli occhi e la pelle chiara di Filippo.

    Con la prima figlia Ines aveva un rapporto più sereno, si intendevano meglio, pure se questo non significava che non avessero i loro attriti, essendo estremamente simili. Erica era forte e determinata, ma i suoi dubbi erano capaci di toglierle il sonno, sino a quando non prendeva decisioni definitive. Invece Monica era più insicura, volubile, preda di mille domande e dotata di scarsa autostima: la madre aveva sempre bisogno di accorrere con massicce dosi di conforto, così come in quel momento.

    Ines le rispose senza allarme: «Perché dovresti rinunciare alla tua passione?»

    «Perché non riuscirò mai a diventare una ballerina professionista, non ho palle abbastanza per mettermi in competizione. Sono stufa di fare a spintoni per avere un ruolo migliore, quando poi c’è la stronza di turno che arriva e si piazza perché diventa l’amante del coreografo. Basta, non fa per me».

    Era un discorso vecchio, fatto già in altre occasioni: Monica proprio non accettava l’idea che certe dinamiche sono presenti ovunque, nel mondo dello spettacolo come negli uffici di tutto l’universo.

    La differenza è unicamente nel proprio equilibrio interiore, che permette a chi sa di valere di non gettare la spugna, di insistere e insistere ancora con la certezza, o anche solo la speranza, che arrivi il proprio tempo.

    Inutile ripetere parole già consumate, Ines sapeva che c’era bisogno d’altro, in certi momenti.

    «Vieni qui, Monicuccia mia, che mamma ti abbraccia un po’. È solo questo che ti serve, ora».

    La ragazza si fece accogliere dal profumo e dalla morbidezza del corpo che l’aveva generata, e finalmente andò a rimettersi a letto, lasciando la madre a raccontare sé a sé stessa, attraverso le parole scritte.

    La luce era morbida, frammentata in fonti diverse e sparse per la stanza.

    Una lampada illuminava la piccola scrivania di legno, gettando una manciata di pulviscolo dorato sulla tastiera del PC.

    L’attenzione di Ines era concentrata sulle parole incorniciate dallo schermo. Una pagina bianca, da principio, che si andava riempiendo di pensieri, catturati al volo come farfalle colorate.

    È dura pensava una volta di più non poter condividere con nessuno quello che vivo, le ore meravigliose che danno un senso alla mia esistenza. Le carezze, i baci, le parole.

    La sua incredibile storia d’amore era un segreto inviolabile, solo suo e di Giuseppe. O quasi. Qualcosina l’aveva rivelata a Barbara, altrimenti rischiava d’impazzire; il grosso però era roba sua, chiusa nel cuore e dentro agli occhi. Il tesoro che custodiva gelosamente con testarda avarizia era Giuseppe un uomo colto, riservato, dai modi desueti del gentiluomo.

    Vent’anni prima si erano incontrati e piaciuti subito: era capitato durante una mostra fotografica, una passione comune.

    Lui l’aveva affiancata con discrezione, e si era espresso su un’immagine colta dall’artista che esponeva nelle sale antiche di un ex convento, nel cuore di Napoli. Le fotografie ritraevano suore, preti, monaci e prelati, gente di chiesa. L’obiettivo ne aveva colto dettagli in bianco e nero, dando agli scorci un sapore ultramoderno, che contrastava magnificamente con le pietre vetuste della struttura. Un mento, sopra il colletto clericale, una mano bianca che spuntava dalla manica di una tonaca, un occhio lucido, una ciocca di capelli sfuggita al velo. Tutto illuminato ad arte, con una luce dura e indagatrice, una specie di esplorazione per immagini.

    La gigantografia ad altezza d’uomo copriva un largo pezzo della parete, e fissava sulla tela due mani, una di donna e una d’uomo, unite da un rosario con grani di legno che presumibilmente stava passando dall’una all’altra.

    Un elemento di fede, che assumeva in quello scatto la forza passionale di un bacio, uno scambio di promessa, il preludio di un incontro più intimo e terreno.

    «A me sembra un atto d’amore, questo. Amore tra uomini, non tra anime. Che ne pensa, lei?»

    La domanda era caduta nel silenzio ovattato della stanza, in quel momento erano soli, arrivando secca come uno sparo.

    Ines si era girata lentamente verso lo sconosciuto, registrando per primo il profilo, asciutto e marziale. Sembrava un soldato, o forse, meglio ancora, un politico. Uomo da guerre di parole e non di sangue.

    «Perché pensa questo?» aveva risposto quasi senza rendersene conto.

    «La fede non basta da sola, e la passione trova sempre il modo di palesarsi. Quelle mani parlano tra di loro».

    «La fede è un dogma, e forse è l’unico modo per resistere al peso della vita, a volte. Il suo giudizio mi sembra un po’ superficiale…» ma non ci credeva fino in fondo neppure lei.

    Avevano sorriso entrambi, ritrovandosi a chiacchierare davanti a un caffè dopo neppure dieci minuti.

    Era cominciata così e durava da tanto, eppure dell’uomo che le teneva il cuore stretto forte in una morsa dolce, non sapeva molto. Non più di quanto lui stesso le dicesse nei loro incontri quotidiani, momento irrinunciabile di ogni giornata, che Ines raccontava a sé stessa nelle pagine di un diario elettronico.

    Un file che si andava allungando, negli anni che scorrevano lenti e velocissimi allo stesso tempo. Si erano andati sommando istanti e languori, promesse, progetti nati già morti, tanto nessuno dei due aveva desiderio di cambiare lo stato delle cose.

    Ogni tanto ci pensava, Ines, a quello che poteva essere la vita quotidiana con Giuseppe. Pranzi e cene condivise, bollette da pagare, riunioni di famiglia con figli e tutto il resto. Ci pensava come un capestro al quale erano scampati entrambi, fortunati invece a ricevere il dono dell’amore senza il terrore della sciatteria dei sentimenti, alimentato al contrario dal desiderio costante, puro e pieno, sempre.

    4

    Avrebbe dato fuori di matto, un giorno o l’altro.

    Lo pensava sempre più spesso, con la consapevolezza che non sarebbe mai accaduto, se non nei suoi dettagliatissimi sogni a occhi aperti.

    L’utenza dell’ufficio era variegata e numerosa, ma soprattutto omogenea nello stesso modus operandi: richiesta mite, a volte ruffiana, insistenza a oltranza ai rifiuti, reazione offesa con gamma di gradazioni che andava dagli improperi alle minacce di morte estese a familiari.

    Lavorare negli uffici del Comune, e soprattutto ai Servizi Sociali, era una croce non facile da portare. Davanti alla scrivania di Ines e delle colleghe passava quasi di tutto, senza soluzione di continuità, come una processione infinita di re magi del presepe con ben altri doni. Signore con zigomi gonfiati dal silicone e sopracciglia disegnate in maniera geometrica sbandieravano problemi economici e mariti inevitabilmente disoccupati. Piene di gioielli finti Pandora, strizzate nelle giacche finte Chanel, con appese al braccio borse finte Gucci, nella mano dalle unghie laccate e decorate brandivano come un’arma l’ultimo modello di iPhone.

    E c’era sempre il lavoratore ex socialmente utile che protestava perché il Governo, ma anche la Regione e il Comune, l’avevano lasciato a casa e non sapeva come mettere il piatto in tavola. In molti casi, appena qualche minuto dopo, questi figuri si vantavano di aver acquistato lo schermo al plasma per vedere meglio la partita. Perché, ovviamente, tutti abbonati a Sky, Premium e altre diavolerie che Ines non conosceva.

    Altre maschere grottesche si avvicendavano con richieste a volte assolutamente fantasiose, messe in piedi su passaparola, consigli di vicini. Certi giorni era davvero difficile non perdere la pazienza dinanzi all’orda di nuovi barbari che calava nella stanza, altri erano rischiarati invece da incontri inaspettatamente ricchi di sfumature.

    Capitava di raccogliere racconti di vita difficile ma dignitosissima, di donne nella stragrande maggioranza dei casi separate o abbandonate, che affrontavano le bufere con un sorriso e tanta filosofia.

    Altre volte invece si trovava di fronte a veri relitti alla deriva, tronchi cavi trasportati dalla corrente verso il precipizio, la cascata pronta a sbatterli giù in basso, sempre più in basso. Alcuni passavano ore infinite intorno alle fermate della metro, a piazza Dante, al Museo, a piazza Garibaldi, raccogliendo sigarette non fumate fino all’ultima boccata, chiedendo spiccioli alla gente distratta e impaurita, bevendo vino di infima qualità o birra da discount. Si presentavano smarriti, alcuni con una luce di disprezzo per il mondo negli occhi, oppure li portava lì qualcuno che li raccattava per strada.

    Era a loro che Ines guardava con tristezza, con compassione dolente. Se poteva fare qualcosa per alleggerire quel carico di vita scomoda e pesante che si portavano sulle spalle, se solo riusciva a ricevere un sorriso sdentato fugace come una lama di sole improvvisa, Ines era felice.

    Almeno un po’, prima di tornare a farsi venire l’ulcera per un mondo fatto di cafoni e presuntuosi, con o senza soldi.

    Ne parlava con le ragazze, a cena, cercando di inculcare nelle loro testoline piene solo di desideri e richieste, il suo stesso dispiacere per certe esistenze sprecate, la caparbia volontà di aiutare chi poteva essere aiutato, l’amaro in bocca di talune sconfitte. Ma doveva arrendersi spesso, di fronte a una superficialità che non si spiegava: erano figlie sue, partorite da lei, ma soprattutto cresciute da lei sola, alla morte del marito. In pratica da sempre, visto che Filippo le aveva lasciate dopo appena cinque anni di matrimonio.

    Giovane, inesperta e senza nessuno su cui contare, aveva fatto veramente i salti mortali per educare Erica e Monica nel migliore dei modi possibile. Fedele al principio che l’esempio fosse il modo più giusto per allevare i figli, aveva sempre mantenuto un contegno ineccepibile, praticando la disciplina nel lavoro e in casa, il rispetto con

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